divisione condominio: deve comportare autonomia fisica dei complessi edilizi risultanti

Una recente pronuncia  della Suprema Corte ( Cass.civ. 3 settembre 2019, n. 22041  rel. Criscuolo)  ripercorre con grande precisione i presupposti in forza dei quali può essere disposta la divisione del condominio.

Si ribadisce un consolidato orientamento, secondo il quale la divisione di un complesso immobiliare in parti autonome può avvenire solo ove gli edifici risultanti abbiano autonomia strutturale pressoché totale, e non invece ove tale autonomia risulti solo sotto il profilo amministrativo.

”  Preliminarmente deve essere disattesa la censura di parte ricorrente quanto alla mancata considerazione ai fini del riconoscimento del quorum previsto dall’art. 61 disp. att. c.c., della titolarità in capo alla A.L.G. di un appartamento ubicato nel fabbricato individuato come Condominio n. 3, e ciò in ragione del fatto che in realtà la sua proiezione verticale interesserebbe in prevalenza la parte del fabbricato denominato, sempre nell’elaborato peritale, come Condominio n. 4.

Rileva in tal senso che la doglianza investe precipuamente un accertamento in fatto operato dal giudice di merito che proprio in relazione alla necessaria indagine finalizzata a verificare l’autonomia degli edifici, presupposto necessario, come si avrà modo di esporre oltre, per addivenire all’accoglimento della domanda di scioglimento del condominio, ha riscontrato che l’unità immobiliare di cui al motivo di ricorso, sebbene avente anche accesso dalle parti comuni del fabbricato denominato Condominio n. 3, nella realtà faceva parte di un diverso edificio, destinato, secondo la prospettazione dell’ausiliario d’ufficio, a dare vita ad un diverso condominio, con la conseguenza che dal computo dei condomini dell’edificio di cui si chiede la separazione, ed in relazione al Condominio n. 3 non poteva tenersi conto del bene in esame.

La contraria deduzione di parte ricorrente evidenzia che nel novero dei beni comuni ex art. 1117 c.c., rientrano anche le scale, gli ingressi, gli androni ecc., così che il bene che ne usufruisce in concreto non può che considerarsi incluso nel condominio.

L’errore che risiede in tale prospettazione parte in primo luogo dal fatto di avere riguardo a quella che è la situazione attuale di unitarietà dell’intero condominio del palazzo A.L., con la conseguenza che ogni singola unità immobiliare ivi inclusa può vantare diritti di comunione sui beni rientranti nel novero di cui all’art. 1117 c.c., laddove posti a servizio della stessa.

Trascura però di considerare la diversa conclusione alla quale dovrebbe approdarsi all’esito dello scioglimento del condominio, in quanto, avendo i giudici di merito accertato con verifica in fatto, non suscettibile di rivisitazione in questa sede, che l’unità immobiliare de qua in realtà appartiene al corpo di fabbrica denominato come Condominio n. 4 da parte del CTU, le scale, l’androne e l’ingresso del diverso condominio n. 3 non rientrerebbero più tra i beni comuni sui quali l’appartamento in questione possa vantare diritti ex art. 1117 c.c., potendo se del caso riconoscersi un perdurante diritto alla loro fruizione sulla base di un diverso regime giuridico, quale ad esempio quello fondato sull’esistenza di un diritto di servitù, occorrendo infatti avere riguardo ai fini che interessano, unicamente alla appartenenza o meno del bene ad un determinato edificio.

Disattesa tale censura, va altresì escluso che ricorra la dedotta violazione delle norme in tema di scioglimento del condominio.

A tal fine deve farsi richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte che, già a far data da Cass. n. 1964/1963, ha affermato che a norma degli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., lo scioglimento del condominio di un edificio o di un gruppo di edifici, appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi, in tanto può dare luogo alla costituzione di condomini separati, in quanto l’immobile o gli immobili oggetto del condominio originario, possano dividersi in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, quand’anche restino in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall’art. 1117 c.c..

Il tenore della norma, riferito all’espressione “edifici autonomi” esclude di per sé che il risultato della separazione si concreti in un’autonomia meramente amministrativa, giacche, più che ad un concetto di gestione, il termine “edificio” va riferito ad una costruzione, la quale, per dare luogo alla costituzione di più condomini, dev’essere suscettibile di divisione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere amministrativo.

La sola estensione che può consentirsi a tale interpretazione è quella prevista dall’art. 62 citato, il quale fa riferimento all’art. 1117 c.c. (parti comuni dell’edificio in quanto destinate in modo permanente al servizio generale e alla conservazione dell’immobile, riguardato sia nel suo complesso unitario che nella separazione di edifici autonomi).

In questo ultimo caso, l’istituzione di nuovi condomini non è impedita dalla permanenza, in comune delle cose indicate dall’art. 1117, la cui disciplina d’uso potrà formare oggetto di particolare regolamentazione riferita alle spese e agli oneri relativi.

Al di fuori di tali interferenze di carattere amministrativo espressamente previste dalla legge, se la separazione del complesso immobiliare non può attuarsi se non mediante interferenze ben più gravi, interessanti la sfera giuridica propria di altri condomini, alla cui proprietà verrebbero ad imporsi limitazioni, servitù o altri oneri di carattere reale, è da escludere, in tale ipotesi che l’edificio scorporando possa avere una propria autonomia strutturale, pur essendo eventualmente autonoma la funzionalità di esso riferita alla sua destinazione e gestione amministrativa.

Trattasi di principi assolutamente condivisibili e che sono stati ripresi anche dalla più recente giurisprudenza che ha ribadito che (Cass. n. 27507/2011) l’autorità giudiziaria può disporre lo scioglimento di un condominio solo quando il complesso immobiliare sia suscettibile di divisione, senza che si debba attuare una diversa ristrutturazione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, mentre, laddove la divisione non sia possibile senza previa modifica dello stato delle cose mediante ristrutturazione, lo scioglimento e la costituzione di più condomini separati possono essere approvati soltanto dall’assemblea con un numero di voti che sia espressione di due terzi del valore dell’edificio e rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio.

In termini si veda anche Cass. n. 21686/2014 che ha affermato che l’espressione “edifici autonomi”, non consente di accedere all’esito interpretativo secondo cui il risultato della separazione si possa concretizzare in una autonomia meramente amministrativa, giacché, più che ad un concetto di gestione, il termine “edificio” va riferito ad una costruzione, la quale, per dare luogo alla costituzione di più condomini, deve essere suscettibile di divisione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere amministrativo.

Resta quindi preclusa la possibilità di attuare la separazione in caso di interferenze gravi, interessanti la sfera giuridica propria di altri condomini, alla cui proprietà verrebbero ad imporsi limitazioni, servitù o altri oneri di carattere reale, in quanto ciò porta ad escludere che l’edificio scorporando possa avere una propria autonomia strutturale, pur essendo eventualmente autonoma la funzionalità di esso riferita alla sua destinazione e gestione amministrativa.

Infine, tali principi hanno ricevuto ulteriore conferma da Cass. n. 16385/2018 che ha precisato come l’indagine circa la natura autonoma o meno degli edifici scorporandi dall’unitario condominio costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito.”

Appare interessante anche il rilievo relativo al collegamento di più edifici, effettuato da taluni condomini che avevano collegato le proprie unità immobiliari poste in corpi di fabbrica diversi:

“Nè appare pertinente rispetto alla vicenda in esame quanto affermato da Cass. n. 4439/1982, secondo cui, dato il valore di atto ricognitivo dello scioglimento del condominio di edificio, secondo la previsione degli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., con la costituzione di condomini separati per le parti di detto edificio che presentino i connotati di autonomi e distinti edifici, il singolo condomino, che quale proprietario di più appartamenti, ricadenti per l’avvenuto scioglimento in edifici distinti, li abbia unificati (abbattendo un muro divisorio) prima dello scioglimento stesso, possa ritenersi obbligato alla separazione degli appartamenti medesimi, ovvero autore di un’indebita imposizione di servitù, per il fatto di continuare ad utilizzare determinate cose comuni di ciascun distinto edificio per l’intera sua proprietà esclusiva, salvo che ricorra la dimostrazione dell’insussistenza della distinzione degli edifici, e la ricorrenza, in realtà, di un unico edificio, in quanto nel caso in esame non è dimostrato che la condizione di sovrapposizione delle unità immobiliari sia frutto di una condotta illegittima dei proprietari delle singole unità stesse, o se piuttosto non risalga alle originarie modalità costruttive dell’edificio, che invece denoterebbe in maniera evidente la volontà di far perdere ai vari corpi di fabbrica la connotazione dell’autonomia.
Ne discende quindi che, non potendosi discutere circa la legittimità della condizione attuale dei fabbricati (trattandosi in ogni caso di questione che esula dal novero di quelle solevate dai ricorrenti), la permanenza dello stato di fatto attuale e quindi della sovrapposizione in più condomini delle medesime unità immobiliari preclude il riconoscimento del carattere dell’autonomia degli edifici, mentre ove si opinasse per addivenire alla separazione degli appartamenti, al fine di ricondurli nelle proiezioni verticali dei vari edifici, si verrebbero in tal modo ad imporre alle proprietà individuali delle limitazioni che appaiono incompatibili con i presupposti che la legge richiede per addivenire allo scioglimento del condominio”

copyright massimo ginesi 6 settembre 2019

il credito del condominio verso il condomino è pignorabile dal creditore del condominio

sembra uno scioglilingua ed invece è quanto ha statuito la corte di legittimità (Cass.civ. sez. III 14 maggio 2019, n. 12715), a fronte del pignoramento eseguito da un creditore del condominio sulle quote dovute dai singoli condomini.

E’ tesi che, da un lato, si schiera apertamente e condivisibilmente sulla sussistenza di un patrimonio autonomo del condominio, sulla differenza ontologica fra obbligazione dei singoli nei conforti del condominio e obbligazione del condominio nei confronti di terzi   e libera definitivamente il campo dai dubbi sulla pignorabilità del conto corrente.

Dall’altro, a fronte della recente sentenza delle sezioni unite sulla identità processuale fra condominio e condomini, desta qualche brivido e qualche disorientamento sistematico  sentir dichiarare che i condomini sono terzi pignorabili rispetto al condominio.

L’importanza del tema, consiglia lettura integrale della motivazione.

“La presente controversia ha ad oggetto la contestazione del diritto di un creditore del condominio di procedere, in base ad un titolo giudiziale, ad esecuzione forzata nei confronti dello stesso condominio, mediante pignoramento dei suoi crediti verso i condomini per contributi.
Non si tratta di una controversia avente ad oggetto direttamente la riscossione dei contributi, l’erogazione delle spese di manutenzione o la gestione di una o più cose comuni, nè viene dedotta l’estinzione (successiva alla formazione del titolo) del credito fatto valere contro il condominio, ma solo una pretesa inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata, secondo le modalità concretamente adottate dal creditore, onde la proposizione dell’opposizione non può ritenersi rientrare tra le ordinarie attribuzioni dell’amministratore di cui all’art. 1130 c.c..

Di conseguenza, deve negarsi la autonoma legittimazione dell’amministratore a proporla senza autorizzazione (anche eventualmente in ratifica) dell’assemblea.
La suddetta autorizzazione non risulta prodotta. Inoltre, nell’epigrafe del ricorso non si fa alcun riferimento a tale autorizzazione, nè il documento risulta nell’indice di quelli allegati al ricorso stesso; non risulta in atti alcuna autorizzazione neanche in relazione ai gradi di merito dell’opposizione, nè l’amministratore del condominio ha in qualche modo replicato all’eccezione di insussistenza dell’autorizzazione assembleare, avanzata già nel controricorso.
Il ricorso dell’amministratore del condominio è dunque inammissibile.

L’opposizione dell’altro ricorrente P. , condomino terzo pignorato, è stata dichiarata inammissibile dai giudici di merito, per difetto di interesse ad agire. In secondo grado il P. aveva espressamente posto, tra i motivi di gravame, la questione della sua legittimazione attiva, negata dal Tribunale, ma tale motivo di gravame è stato rigettato dalla corte di appello.
Nel ricorso non vi è una specifica censura del P. in merito alla dichiarazione di inammissibilità della sua opposizione; quanto meno, la ratio decidendi alla base della relativa statuizione della corte di appello non risulta adeguatamente colta, essendosi limitati i ricorrenti a sostenere – con riguardo ai profili attinenti la soggettività e la legittimazione delle parti che non vi sarebbe alterità soggettiva tra condominio e condomini.
Anche il ricorso del P. è pertanto inammissibile.

Esso non potrebbe, in ogni caso, ritenersi fondato.
Come correttamente affermato dalla corte di appello, il terzo pignorato, nell’espropriazione di crediti, non ha infatti interesse e quindi non è legittimato a sollevare questioni che riguardano esclusivamente i rapporti tra creditore esecutante e debitore esecutato e, in particolare, il diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata nei confronti del debitore, il quale ultimo soltanto si può avvalere dell’apposito rimedio oppositivo di cui all’art. 615 c.p.c. (cfr., ex plurimis: Cass., Sez. L, Sentenza n. 6667 del 29/04/2003, Rv. 562536 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 387 del 11/01/2007, Rv. 595611; Sez. 3, Sentenza n. 4212 del 23/02/2007, Rv. 595615 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3790 del 18/02/2014, Rv. 630151 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 23631 del 28/09/2018, Rv. 650882 – 01).

Inoltre, dalla stessa esposizione del fatto contenuta nel ricorso (cfr. pag. 3, righi 9-11) emerge che la creditrice B. , nel corso della procedura esecutiva, aveva rinunciato al pignoramento del credito vantato dal condominio nei confronti del P. ; quindi in realtà quest’ultimo non poteva neanche più ritenersi rivestire in concreto la posizione di terzo pignorato e, di conseguenza, non avrebbe avuto legittimazione neanche a proporre eventuali questioni attinenti alla regolarità della procedura esecutiva nei suoi confronti, quale terzo pignorato (questioni che avrebbero comunque dovuto essere fatte valere ai sensi dell’art. 617 c.p.c. ovvero nell’ambito dell’eventuale giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo, in quanto non configurabili in termini di opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.).
L’infondatezza nel merito degli argomenti in diritto posti a base del ricorso (anche da parte del P. ) emerge d’altra parte da quanto sarà illustrato in prosieguo, ai sensi dell’art. 363 c.p.c..

Le considerazioni sin qui svolte impongono la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
La Corte ritiene peraltro di esaminare comunque il merito dello stesso, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, in considerazione della particolare importanza della questione di diritto che con esso è posta (in particolare con il primo motivo).

Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Erronea configurazione del condominio quale soggetto dotato di personalità giuridica, sia pure attenuata, ovvero di autonoma propria soggettività giuridica. Violazione e/o falsa applicazione dei principi informatori della specifica disciplina. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1117, 1118, 1119, 1123, 1130 e 1131 c.c. (ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3”.
Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione del principio di parziarietà delle obbligazioni condominiali e del principio di indisponibilità delle somme dovute per quote, quali principi informatori della specifica disciplina. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1118, 1119 e 1123 c.c. (ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.
Con il terzo motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione del regolamento delle spese di lite, di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c. Erronea implicita applicazione dell’art. 2055 c.c. (ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, c.p.c.)”.

La questione di diritto che viene posta con il ricorso (in particolare con il primo motivo) riguarda la possibilità, per il creditore del condominio che abbia conseguito un titolo esecutivo nei confronti del condominio stesso, di procedere all’espropriazione dei crediti del condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dagli stessi dovuti.
Tale questione va risolta in senso affermativo.

Secondo i principi generali (artt. 2740 e 2910 c.c.), mediante l’espropriazione forzata è possibile espropriare al debitore tutti i suoi beni, inclusi i crediti.
Affinché l’espropriazione dei crediti vantati dal condominio verso i singoli condomini per contributi sia legittima, è quindi sufficiente che sia configurabile, sul piano sostanziale, un effettivo rapporto obbligatorio tra condominio e singolo condomino avente ad oggetto il pagamento dei contributi condominiali (oltre che, ovviamente, un rapporto obbligatorio tra creditore e condominio, il che però è nella specie questione ormai risolta in sede di cognizione – avendo il creditore conseguito il titolo esecutivo direttamente nei confronti del condominio – e come tale non più oggetto di possibile discussione in sede esecutiva).

Orbene, è innegabile che sia configurabile sul piano sostanziale un rapporto obbligatorio tra condominio e singolo condomi-no, con riguardo al pagamento dei contributi condominiali: una espressa disposizione normativa, l’art. 63 disp. att. c.c. (sia nella precedente che nella attuale formulazione), prevede infatti che l’amministratore possa addirittura ottenere un decreto ingiuntivo (immediatamente esecutivo), in favore del condominio e contro il singolo condomino per il pagamento dei suddetti contributi (in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea).

Tale disposizione normativa conferma espressamente, e/o quanto meno presuppone, l’esistenza di un rapporto obbligatorio tra condominio e singoli condomini avente ad oggetto i contributi dovuti in base agli stati di ripartizione approvati dall’assemblea condominiale, consentendo al condominio, rappresentato dall’amministratore, di agire in giudizio contro il condomino per il pagamento delle quote condominiali.

Essendo configurabile sul piano sostanziale un credito del condominio (rappresentato dal suo amministratore) nei confronti dei singoli condomini, laddove esista altresì un titolo esecutivo in favore di un terzo e contro lo stesso condominio (sempre rappresentato dall’amministratore), in mancanza di una norma che lo vieti espressamente, tale credito può certamente essere espropriato dal creditore del condominio, ai sensi degli artt. 2740 e 2910 c.c., e la relativa esecuzione orzata non può che svolgersi nelle forme dell’espropriazione dei crediti presso terzi di cui agli artt. 543 c.p.c. e ss..

Nè può ritenersi che tale conclusione violi il principio di parziarietà delle obbligazioni condominiali (come sembra adombrato nel secondo e terzo motivo del ricorso).
Il suddetto principio implica che l’esecuzione contro il singolo condomino non possa avere luogo per l’intero debito del condominio, ma solo nei limiti della sua quota di partecipazione al condominio stesso.

Laddove l’esecuzione avvenga direttamente contro il condominio, e non contro il singolo condomino, non solo l’esecutato è il condominio, debitore per l’intero (onde non entra in realtà in gioco in nessun modo il principio di parziarietà), ma l’espropriazione dei beni e diritti del condominio, cioè di beni che, proprio in quanto condominiali, appartengono pro quota a tutti i condomini, finisce addirittura per attuare, in linea di principio ed in concreto, il richiamato principio di parziarietà (almeno fino a specifica prova contraria), senza affatto violarlo.
Solo a fini di completezza espositiva è, infine, opportuno far presente (con riguardo alle questioni relative alle spese processuali): a) che l’obbligazione relativa alle spese processuali liquidate in un provvedimento giudiziario non è di fonte contrattuale e quindi per essa neanche potrebbe valere l’invocato principio di parziarietà; b) che i giudici di merito, rigettate le opposizioni, hanno correttamente applicato il principio di soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c., ed ogni contestazione in proposito è inammissibile, in quanto la facoltà di disporre la compensazione delle spese in caso di soccombenza integrale, per eccezionali motivi, costituisce un potere discrezionale del giudice di merito il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità.”

© massimo ginesi 21 maggio 2019

azione possessoria: la legittimazione dell’amministratore per beni non condominiali

un condominio installa una sbarra di accesso ad un’area che utilizza come parcheggio e che appartiene ad un terzo soggetto. Il condominio confinante, che pure usava anch’esso tale area come parcheggio e transito per l’accesso al proprio fabbricato, propone azione di reintegrazione nel possesso (e in subordine di manutenzione), evocando in giudizio l’amministratore del condominio che ha installato la sbarra.

Fra le diverse eccezioni sollevate dal convenuto, vi è quella di carenza di legittimazione passiva dell’amministratore (affermando che si dovevano evocare in giudizio tutti i singoli condomini…), respinta – unitamente alle altre – dal Tribunale apuano che ha accolto la domanda in sede di reclamo (Trib. Massa  9 maggio 2019 n. 498).

Il provvedimento affronta sia il tema della legittimazione dell’amministratore per beni che, pur non di proprità del condominio, svolgano comunque funzione comune, sia l’idoneità della installazione di una sbarra a costituire spoglio.

La reintegrazione è stata ordinata mediante consegna del dispositivo di apertura della sbarra ai ricorrenti.

Le parti ricorrenti, condomini del fabbricato antistante il Condominio D., hanno dato prova, tramite le deposizioni rese dai sommari informatori escussi, di aver pacificamente utilizzato (da oltre trenta anni) l’area posta fra i due edifici per accedere alle proprie unità immobiliari e per la sosta dei propri autoveicoli.

Tale situazione di fatto costituisce, per pacifica giurisprudenza, possesso giuridicamente tutelabile, posto che  “a chi invoca la tutela è sufficiente provare una situazione di fatto, protrattasi per un periodo di tempo apprezzabile, con la conseguenza che è sufficiente un possesso qualsiasi, anche se illegittimo ed abusivo, purché abbia i caratteri esteriori di un diritto reale” (Cass. 4498/2014, resa in caso del tutto analogo; Cass. 16974/2007 Cass. 10470/1991 n. 10470).

Né può esservi dubbio che l’utilizzo dell’area come passaggio e come parcheggio costituisca esercizio di un potere di fatto corrispondente a diritto reale, posto che il transito è pacificamente riconducibile all’esercizio di servitù e che il parcheggio degli autoveicoli è stato talvolta in giurisprudenza ricondotto alla figura della servitù (Cass. 16698/2017) e in altre occasioni ad una estrinsecazione del diritto di proprietà (Cass. 23708/2014).

Sotto tale profilo, parte attrice ha adempiuto all’onere probatorio che alla stessa incombeva ex art 2697 comma I cod.civ., mentre non paiono fondate le eccezioni di rito e di merito svolte dal convenuto. 

Quanto alla legittimazione passiva dell’amministratore del Condominio D., essendo incontestato che la sbarra che impedisce l’accesso all’area sia stata posta in essere da detto condominio, è sufficiente richiamare il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (a far data da Cass. Sez.un. 18331/2010) in ordine alla sussistenza della legittimazione passiva dell’amministratore per ogni azione relativa a beni comuni che non sia volta ad accertare la titolarità o la misura dei diritti dei singoli condomini, tenuto conto che pur se l’area oggetto di sosta appartiene a terzi e non al condominio convenuto, è fuor di dubbio e contestazione che la sbarra che  impedisce l’accesso sia stato posto in essere dal Condominio D.,  al fine di escludere i terzi (compresi i ricorrenti) e tutelare l’uso che della medesima i condomini di quel fabbricato effettuano, sì che comunque tale manufatto andrebbe ascritto ai beni e servizi comuni ex art 1117 c.c. 

Tale legittimazione, pertanto, sussiste e persiste anche quando il servizio comune sia reso da un bene estraneo al condominio, così come in più occasioni riconosciuto dalla corte di legittimità: in tema di controversie condominiali, la legittimazione dell’amministratore del condominio dal lato passivo ai sensi dell’art. 1131, 2 co., cod. civ. non incontra limiti e sussiste, anche in ordine all’interposizione d’ogni mezzo di gravame che si renda eventualmente necessario, in relazione ad ogni tipo d’azione, anche reale o possessoria, promossa nei confronti del condominio da terzi o da un singolo condomino (trovando ragione nell’esigenza di facilitare l’evocazione in giudizio del condominio, quale ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini) in ordine alle parti comuni dello stabile condominiale, tali dovendo estensivamente ritenersi anche quelle esterne, purché adibite all’uso comune di tutti i condomini” (Cass. 22911/2018, Cass. 9206/2005).

Quanto alla sussistenza di condotta riconducibile allo spoglio, deve rilevarsi che l’installazione della sbarra costituisce evento che impedisce l’accesso all’area, riservandone l’utilizzo solo a coloro che sono in possesso dello strumento necessario alla sua apertura, con l’evidente intento di impedire di fatto a chiunque altro l’utilizzo effettuato sino a quel momento. 

In tal senso pacificamente si è riconosciuto in giurisprudenza la sussistenza dei requisiti dello spoglio, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo: “la violenza e la clandestinità dell’azione – che implicano l’animus spoliandi – non sono insiti in ogni fatto materiale che determini la privazione dell’altrui possesso, ma conseguono solo alla consapevolezza di contrastare e di violare la posizione soggettiva del terzo” (Cass. 24673/2013, Cass. 1454/1978 n.; Cass. 11453/2000).

In particolare, con specifico riferimento alla installazione di sbarra che impedisca l’accesso ad aree prima utilizzate da una pluralità di soggetti, costituisce orientamento consolidato di legittimità che tale condotta non legittimi tutela (anche in via possessoria) solo ove non incida in maniera significativa sulle modalità di esercizio del potere di fatto preventivamente sussistente: “in tema di tutela possessoria, non ogni modifica apportata da un terzo alla situazione oggettiva in cui si sostanzia il possesso costituisce spoglio o turbativa, essendo sempre necessario che tale modifica comprometta in modo giuridicamente apprezzabile l’esercizio del possesso (Cass. n. 11036 del 2003; Cass. n. 1743 del 2005) e, in particolare, che l’apposizione di un cancello di agevole apertura, non configura spoglio o molestia ma costituisce un atto lecito rientrante nelle facoltà dei compossessori” (Cass. 1584/2015, Cass. 154/1994; Cass. 3831 1985).

Nel caso di specie non vi è dubbio che l’installazione della sbarra abbia improvvisamente e cruentemente sottratto l’accesso veicolare all’area  e l’uso della stessa da parte dei ricorrenti, elidendo in buona parte il potere di fatto sino a quel momento esercitato da costoro.

Sotto tale profilo non può trovare accoglimento la tesi difensiva di parte convenuta, laddove eccepisce che l’area sarebbe stata comunque inutilizzabile da lungo tempo per l’effettuazione di lavori straordinari di consolidamento (costituendo copertura di autorimesse sottostanti): va infatti rilevato che gli informatori escussi hanno riferito che – dopo l’effettuazione di tali lavori, disposti a  seguito di procedimento giudiziale iniziato nel lontano 2009 –  l’uso dell’area era ripreso anche da parte dei ricorrenti, così come va evidenziato che  la sospensione dell’esercizio del potere di fatto in conseguenza di necessità evidenti e di forza maggiore non appare idoneo a far cessare il possesso da parte di coloro che lo esercitano (essendo circostanza inidonea d incidere sull’elemento soggettivo dello stesso).

Neanche può dedursi per via implicita, come pretenderebbe parte convenuta, che l’installazione della sbarra nell’agosto 2017 rappresenti l’atto ultimo di un iter unitario volto ad impedire l’accesso di terzi a quell’area: l’indisponibilità dell’area per chiunque, in conseguenza del suo transennamento per l’effettuazione dei lavori straordinari di manutenzione  è vicenda ontologicamente diversa e non assimilabile all’attività unilaterale di una parte dei compossessori, volta ad impedirne l’utilizzo agli altri. 

In tal senso ancor meno rilievo ha il cartello di divieto di accesso, richiamato dal convenuto quale elemento idoneo a dimostrare l’antecedente attrazione dell’area nella sfera esclsuiva del convenuto, poiché si tratta di indicazione che ben può essere diretta a terzi estranei, ma che appare inidoneo ad incidere sulla situazione giuridica soggettiva dei ricorrenti, specie a fronte del dimostrato permanere dell’esercizio del loro potere di fatto sull’area. 

Quanto testé evidenziato è idoneo anche ad evidenziare l’infondatezza della eccezione di parte convenuta relativa al decorso del termine annuale per l’azione possessoria: l’installazione della sbarra, che per le ragioni sin qui delineate è l’atto idoneo ad interrompere con violenza l’esercizio del possesso da parte dei ricorrenti, è pacificamente avvenuta nell’agosto 2017 ed il ricorso per tutela possessoria è stato depositato in data 10.5.2018 

Deve infine rilevarsi che le ragioni dei ricorrenti possono trovare tutela anche attraverso modalità che consentano l’utilizzo dell’area senza la rimozione della sbarra, idonea comunque ad impedire a terzi l’accesso e a realizzare eprtanto un interesse lecito degli altri compossessori”

© massimo ginesi 15 maggio 2019 

locazioni: irreperibilità, rito sommario e mediazione

Una conduttrice risulta irreperibile per ben due volte presso l’immobile locato, ove risulta anche la sua residenza anagrafica: la circostanza attestata dapprima dall’ufficiale giudiziario e, successivamente,  dal messo postale.

Il locatore chiede mutamento del rito per provvedere alla notifica ex art 143 c.p.c., modalità che la giurisprudenza di legittimità (opportunamente) non ammette per la intimazione di sfratto.

Al momento della notifica di tali provvedimenti, la conduttrice ricompare nell’immobile e ritira gli atti depositati presso  la casa comunale, chiedendo che il rito sia retrocesso alla fase sommaria (onde poter beneficiare del termine di grazia) ed avanzando domanda riconvenzionale sulla durata del contratto.

Non si reca tuttavia all’incontro di mediazione, eccependo che l’invito è stato comunicato dall’organismo mediante servizio di posta reso da soggetto privato, pur risultando la sua firma sull’avviso di ricevimento.

La vicenda coinvolge diversi aspetti interessanti e di frequente rilievo nel procedimento locatizio, temi su cui si è pronunciato con recente sentenza il tribunale apuano (Trib. Massa 3 maggio 2019 n. 286), accogliendo la domanda di risoluzione avanzata dal locatore.

sulla irreperibilità – Quanto alla circostanza della sua irreperibilità, in forza della quale è stato  mutato  il  rito,  non potendosi procedere per consolidata giurisprudenza in via sommaria nei confoenti dell’irreperibile, va rilevato che la C. è  risultata  per  ben  due  volte  non individuabile al proprio indirizzo di via P, così come risulta dapprima dalla relata del primo tentativo di notifica e, successivamente, dagli avvisi di ricevimento della notifica ex art 140  c.p.c.,  nei  quali  espressamente  si  legge  “nominativo  inesistente”,    che il pubblico ufficiale addetto deve ritenersi non abbia ivi rinvenuto tracce riconducibili  alla convenuta.

 Si tratta di attestazioni la cui rispondenza al vero deve necessariamente essere contestata attraverso lo specifico strumento della querela di falso (Cass. 2486/2018), cui la convenuta ha ritenuto di non fare ricorso.

Ne deriva che deve ritenersi provata e sussistente la circostanza della sua irreperibilità al momento delle tentate notifiche della intimazione di sfratto, divenendo irrilevanti le argomentazioni di merito svolte oggi, senza che sia stata proposta la querela.

La stessa giurisprudenza citata da parte  convenuta  (Cass.  15626/2018)  pare  non attagliarsi al caso di specie, poiché riferita ad ipotesi di mera assenza del destinatario dal luogo di residenza, pur essendo individuati già nella relata possibili siti alternativi di destinazione, sì che si tratta di vicenda ontologicamente diversa dall’ipotesi in cui  – come   nel caso di specie – emerga non già una  semplice  assenza  nel  luogo  indicato  dal notificante, ma risulti invece l’assenza di alcun collegamento fra quel luogo e il soggetto destinatario della notifica (circostanza attestata con efficacia di pubblica fede).

Né si potrà pretendere dal locatore, che non rinvenga  nella  residenza  e  nell’immobile  locato il conduttore, che estenda ricerche all’intero orbe terracqueo, posto  che  la diligenza del notificante va intesa in senso dinamico ed improntata a criteri ordinari e di comune buona fede (Cass. 12526/2014), dovendosi contemperare la tutela del diritto di difesa del convenuto (che pure ha dovere di rendersi reperibile laddove risultano i propri recapiti formali, anagrafici e contrattuali) con l’analoga  tutela  delle  ragioni  del  locatore, che – a fronte di grave e perdurante inadempimento del conduttore – ha diritto di poter accedere a strumenti di tutela giudiziaria in tempi e con modalità parimenti ragionevoli e  non defatigatorie.

Non vale infine a mutare il quadro sin qui delineato la circostanza che la notifica successiva sia avvenuta correttamente all’indirizzo de quo, posto che ben possono darsi mutamenti di fatto successivi, sì che l’irreperibilità antecedente – attestata dal pubblico ufficiale – non può ritenersi ab origine insussistente sol perché il soggetto si sia reso successivamente reperibile nello stesso luogo (Cass. 16864/2018).

Si deve pertanto ritenere che la convenuta non abbia opportunamente assolto all’onere che alla stessa incombeva – in ordine alla prova della propria reperibilità al momento della notifica della intimazione (a fronte di attestazioni di fede privilegiata e di senso opposto), sì che il mutamento del rito e la successiva instaurazione del contraddittorio devono essere ritenuti perfettamente legittimi.

sulla richiesta di retrocessione del rito – “Deve ancora rilevarsi che anche la lamentata lesione del diritto di difesa (circostanza essenziale ai fini della rilevanza della eccezione, Cass. 3805/2018) appare del tutto teorica e sfornita di alcun elemento di concretezza e supporto probatorio: lamenta la convenuta che, ove si fosse proceduto con rito sommario, avrebbe potuto avanzare richiesta di termine ex art. 55 L. 392/1978; tuttavia, poiché tale beneficio non è affatto automatico, omette di fornire anche in questa sede alcun elemento idoneo a supportare una prognosi favorevole di adempimento nell’eventuale termine concesso, e mantiene anzi – anche nelle fasi successive del processo (ben più ampie di qualunque termine eventualmente concedibile in fase sommaria) – totale inerzia rispetto alle proprie obbligazioni (che pure non contesta).

Si tratta di atteggiamento che finisce per apparire decisamente dilatorio ed improntato ad un uso strumentale del processo, al solo fine di procrastinare gli effetti del proprio inadempimento.

sulla mediazione – Parimenti infondata si rileva l’eccezione di improcedibilità per mancato esperimento della mediazione: parte attrice ha prodotto sia l’istanza di mediazione che la convocazione delle parti ad opera del mediatore, nonché l’avviso di ricevimento  relativo  all’invio  di  tali  atti alla convenuta da parte dell’organismo di mediazione, effettuato tramite servizio postale privato.

Il procedimento di mediazione, anche ove prodromico ed obbligatorio per la procedibilità della successiva azione giudiziale, rimane procedimento a carattere non contenzioso e di natura stragiudiziale, cui in alcun modo può ritenersi applicabile la disciplina delle notifiche, tanto che lo stesso D.lgs 28/2010 lascia sotto tale profilo ampia  libertà  di scelta alle parti, non disciplinando in alcun modo tale aspetto. Diviene pertanto ininfluente la natura del soggetto che effettua la comunicazione, così come appare non pertinente la richiamata pronuncia di legittimità (Cass. 26778/2016) – su cui parte convenuta fonda la propria eccezione – che attiene invece unicamente alle notifiche relative ad atti giudiziari e alla valenza certificatoria del messo postale in ordine alla data (che nel caso di specie non è oggetto di specifica contestazione).

Appare  peraltro dirimente la circostanza che  su tale avviso di ricevimento risulti apposta   la firma della stessa convenuta, che costei si  è  ben  guardata  dal  disconoscere  come propria, così come non ha espressamente contestato    la  data  di  ricezione    il contenuto del plico, limitandosi a mere eccezioni formali (…) . Dovendosi ritenere dunque che la C. abbia sottoscritto tale atto nella data ivi indicata,  e  che  a  tale avviso debba quantomeno riconoscersi valenza di scrittura privata circa la  ricezione  dell’atto allegato, diviene irrilevante la natura e il potere certificatorio del soggetto che ha effettuato la consegna, dovendosi necessariamente prendere atto che la convenuta ha ricevuto l’invito in mediazione,  come  risulta  dalla  sua  firma    non  disconosciuta  – apposta sull’avviso datato 4.2.2019 e non vi ha immotivatamente partecipato, sì che la condizione di procedibilità deve ritenersi avverata.

sulla domanda riconvenzionale – “Tale condizione deve inoltre ritenersi sussistente anche con riguardo alla riconvenzionale avanzata da parte convenuta, poiché una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto della mediazione (di recente sancita anche da Cass.8473/2019) deve condurre ad una sua applicazione non manifestamente dilatoria: il soggetto chiamato a mediare per la risoluzione del contratto di locazione, dovuta al suo inadempimento, ben potrebbe in quella sede confrontarsi su ogni altro aspetto relativo a quel contratto, ivi compresa la sua durata, tenuto conto che si deve ritenere che l’istanza iniziale devolva al mediatore tutto il dedotto e il deducibile relativo a quel rapporto (Trib. Roma 27.11.2014, Trib. Massa 17..7.2017 e 6.7.2018 n. 496).

La domanda avanzata in via riconvenzionale da parte convenuta, che ha ad oggetto la durata del contratto, va peraltro respinta per  difetto  di  interesse  ad  agire  ex  art  100  c.p.c.: risulta per tabulas, (ed è incontestato  ex  art  115  c.p.c.),  che  la  convenuta conduttrice risultasse morosa di oltre 2500 euro già al  momento  della  intimazione  ed  abbia poi osservato il più assoluto inadempimento sino ad oggi; ne deriva che, già al momento della introduzione del giudizio,  risultava  sussistente  un  inadempimento  grave  ex art 1455 c.c. (avuto riguardo all’entità del canone mensile e al complessivo assetto patrimoniale convenuto dalle parti), idoneo a dichiarare la risoluzione del vincolo contrattuale per fatto imputabile al  conduttore,  quale  che  fosse  la  configurazione  giuridica corretta del contratto con riguardo alla sua durata.

In proposito, pur non sussistendo sostanziali contestazioni in merito di parte attrice, deve rilevarsi che anche ove si dovesse ritenere illecita la clausola relativa alla durata, la sua nullità non si estenderebbe all’intero contratto (Cass. 20794/2018) né avrebbe immediata ed automatica influenza sulla obbligazione corrispettiva, sì che difetta alcun interesse dello stesso ad avanzare domanda in tal senso.”

La condotta sostanziale e processuale della convenuta le è valsa anche condanna ex art 96 comma III c.p.c. in misura prossima alle spese liquidate.

© massimo ginesi 13 maggio 2019 

le sezioni unite sulla soggettività del condominio

 

La questione era stata rimessa alle sezioni unite con  ordinanza del 2017 , volta a chiarire la discrasia introdotta fra una giurisprudenza ormai decennale e l’isolato dictum delle sezioni unite del 19663/2014 (in tema di azioni ex legge Pinto), che sembrava affermare una autonomia soggettiva del condominio distinta da quella dei singoli condomini che lo compongono.

Che la pronuncia del 2014 non introducesse il criterio della  personalità giuridica, come da taluni troppo affrettatamente si era ipotizzato,  risultava chiaramente dalla impostazione della novella del 2012, che ha radicalmente escluso tale assetto, cui –  senza una  espressa previsione normativa – non si poteva certo prevenire in via giurisprudenziale.

Tuttavia le Sezioni Unite del 2014 hanno fatto assai discutere, aprendo un vulnus nella tradizionale interpretazione, con l’esclusione della legittimazione del singolo condomino in caso azione intentata dall’amministratore.

Le Sezioni Unite attuali (Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 17 aprile 2018 – 18 aprile 2019, n. 10934) fanno chiarezza, riportando la bilancia in favore della piena legittimazione concorrente del singolo condomino (slavo che per le azioni inerenti al mera gestione) ed escludendo al sussistenza di alcuna personalità o oggettività autonoma del condominio.

Quanto alla impostazione tradizionale, va subito detto che essa valorizza l’assenza di personalità giuridica del condominio e la sua limitata facoltà di agire e resistere in giudizio tramite l’amministratore nell’ambito dei poteri conferitigli dalla legge e dall’assemblea e per questa via giunge ad attribuire ai singoli condomini la legittimazione ad agire per la tutela dei diritti comuni e di quelli personali.
Dello stesso segno è la giurisprudenza successiva a SU 19663/14, giurisprudenza che ha continuato a ritenere che nelle controversie aventi ad oggetto un diritto comune, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, nè di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore (cfr, anche argomentando a contrario, Cass. 29748/17; n. 1208 del 18/01/2017; n. 26557 del 09/11/2017, Rv. 646073; n. 22856/17; n. 4436/2017; n. 16562 del 06/08/2015; 10679/15).
3.1) Questo orientamento, salvi i poteri di rappresentanza dell’amministratore di cui all’art. 1131 c.c., trova il suo perdurante ancoraggio nella natura degli interessi in gioco nelle cause, come quella odierna, relative ai diritti dei singoli sulle parti comuni o sui propri beni facenti parte del condominio.

Una volta riscontrato che il legislatore ha respinto in sede di riforma dell’istituto – lo testimonia il confronto tra testo provvisorio e testo definitivo della L. n. 220 del 2012 – la prospettiva di dare al Condominio personalità giuridica con conseguenti diritti sui beni comuni, è la natura dei diritti contesi la ragione di fondo della sussistenza della facoltà dei singoli di affiancarsi o surrogarsi all’amministratore nella difesa in giudizio dei diritti vantati su tali beni.

 

Il mantenimento della tradizionale facoltà dei singoli condomini è coerente con alcuni insegnamenti in materia provenienti dalle Sezioni Unite.
Occorre richiamare Cass. SU 18331 (e 18332) del 2010, la quale ha configurato i poteri rappresentativi processuali dell’amministratore coordinandoli, per subordinazione, con quelli dell’assemblea. Si è in quell’occasione chiarito che il potere decisionale in materia di azioni processuali spetta “solo ed esclusivamente all’assemblea” che può anche ratificare ex tunc l’operato dell’amministratore, “organo meramente esecutivo” del condominio”, che abbia agito senza autorizzazione.
Al di là dell’ambito di applicazione di questa pronuncia, che non è qui necessario indagare, mette conto evidenziare che allorquando si sia in presenza di cause introdotte da un terzo o da un condomino che riguardino diritti afferenti al regime della proprietà e ai diritti reali relativi a parti comuni del fabbricato, e che incidono sui diritti vantati dal singolo su di un bene comune, non può negarsi la legittimazione alternativa individuale.
Non sarebbe concepibile la perdita parziale o totale del bene comune senza far salva la facoltà difensiva individuale.”

Per l’importanza del tema la  sentenza merita comunque integrale lettura.

cassSSUU10934:2019

© massimo ginesi 23 aprile 2019  

il giudizio di appello deve svolgersi nel contraddittorio di tutte le parti del primo grado

una recente sentenza della corte di legittimità (Cass.Civ. sez.II 28 marzo 2019 n. 8695 rel. Scarpa)  fa applicazione piana di un principio cardine del nostro ordinamento processuale, rilevando un difetto di integrità del contraddittorio nel giudizio di appello, rispetto alle parti che avevo preso parte al primo grado.

La vicenda processuale è decisamente complessa: ” Nel corso del giudizio di primo grado intervennero adesivamente rispetto alla posizione del Condominio attore i singoli condomini F, A, S, A e T, nei cui confronti fu quindi pronunciata la sentenza del Tribunale di Roma dell’8 marzo 2010. Proposero poi appello principale il Condominio di Viale P., (i condomini)  F, A e S, ma tale appello venne notificato unicamente alla Is.r.I., alla A s.r.l.  ed alla B s.r.I., e non anche ad A ed a T.

Deve riaffermarsi che, nell’ambito di giudizio promosso dall’amministratore di condominio con riguardo alla tutela delle parti comuni condominiali (nella specie, per far valere l’illegittima realizzazione di canne fumarie apposte sulla facciata dell’edificio, adibite all’esercizio di attività di ristorazione, in violazione dell’art. 844 c.c., nonché di un divieto contenuto nel regolamento di condominio), ciascuno dei partecipanti al condominio può spiegare intervento a difesa della proprietà comune, connotandosi tale intervento come “adesivo autonomo” (così Cass. Sez. 2, 23/06/1976, n. 2341; Cass. Sez. 3, 18/02/1980, n. 1191), ovvero (sul presupposto che il condomino che intervenga personalmente nel processo, in cui sia presente l’amministratore, non si comporta come un terzo che si intromette in una vertenza fra estranei) quale costituzione di una delle parti originarie in senso sostanziale determinatasi a far valere le proprie ragioni direttamente, e non più tramite il rappresentante comune (cfr. ad esempio Cass. Sez. 2, 27/01/1997, n. 826; Cass. Sez. 2, 24/05/2000, n. 6813; Cass. Sez. 2, 30/06/2014, n. 14809).

Tale profilo non è direttamente coinvolto dalla decisione, rimessa alle Sezioni Unite di questa Corte con ordinanza interlocutoria n. 27101 del 2017, sulla più generale questione di diritto concernente la permanente legittimazione del singolo condomino (non costituitosi autonomamente) all’impugnazione di qualsiasi sentenza di primo o di secondo grado resa nei confronti del condominio, alla luce dei principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 19663 del 2014.

A seguito dell’intervento volontario del singolo condomino nel giudizio promosso dall’amministratore di condominio per la tutela delle parti comuni, si configura allora un unico giudizio con pluralità di parti, il quale si definisce con la stessa sentenza rispetto alle parti principali ed agli intervenuti, il che dà luogo ad un litisconsorzio necessario processuale.

La causa deve perciò considerarsi inscindibile anche in grado di appello nei confronti dell’interventore, con la conseguenza che, ove l’atto di impugnazione non sia notificato nei suoi confronti ed il giudice non abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c., si determina la nullità, rilevabile di ufficio pure in sede di legittimità, dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso (arg. da Cass. Sez. 2, 09/05/2018, n. 11156; Cass. Sez. 3, 19/10/2015, n. 21070; Cass. Sez. 2, 06/05/2015, n. 9150; Cass. Sez. 1, 03/04/2007, n. 8350; Cass. Sez. 3, 05/05/2004, n. 8519).

La mancata notificazione dell’atto di impugnazione della sentenza di primo grado a taluno dei condomini intervenuti nella causa promossa dall’amministratore di condominio vizia, dunque, la sentenza di appello che sia stata emessa senza l’integrazione del contraddittorio con i condomini pretermessi e tale vizio può essere fatto valere come motivo di ricorso per cassazione, in quanto, per un verso, la sentenza di primo grado non passa in giudicato nei confronti dei pretermessi in presenza dell’impugnazione di altre parti e, per altro verso, la sentenza che non sia pronunciata nei confronti di tutti i comproprietari risulta comunque ineseguibile e, quindi, inutiliter data (arg. da Cass. Sez. 2, 18/11/2008, n. 27412).

La Corte osserva, con argomenti di grande interesse,  che non ha rilievo la circostanza che taluno dei condomini pretermessi sia poi intervenuto con controricorso nel giudizio di cassazione, poiché rimane il dato oggettivo che costui non ha comunque preso parte al secondo grado di processo.

Si assume, invero, che, allorché in una causa, concernente le cose condominiali, siano costituiti sia uno o alcuni soltanto dei condomini, sia l’amministratore del condominio, la rappresentanza di quest’ultimo resta inevitabilmente limitata agli altri condomini, sicché, ove avvenga piuttosto la costituzione in giudizio di tutti i singoli partecipanti, occorre procedere all’estromissione dell’amministratore, per. sopravvenuto difetto della sua legittimazione passiva (cfr. Cass. Sez. 2, 18/01/1973, n. 184).

Ciò comporta che, allorché il condomino intervenga personalmente nel processo in tema di tutela delle parti comuni, in cui sia già presente l’amministratore, connotandosi quale parte in senso sostanziale del rapporto dedotto in lite che non si avvale più della rappresentanza ex art. 1131 c.c. dell’amministratore stesso, non vale il principio per cui il giudicato, formatosi all’esito di un processo in cui sia stato parte l’amministratore di un condominio, fa stato anche nei confronti dei singoli condomini non intervenuti nel giudizio (Cass. Sez. 3, 24/07/2012, n. 12911; Cass. Sez. 2, 22/08/2002, n. 12343), e l’esigenza di scongiurare eventuali giudicati contrastanti nella stessa materia e tra soggetti già parti del giudizio (il condomino intervenuto ed il condominio in persona dell’amministratore) viene preservata, in ipotesi di impugnazione, proprio dal meccanismo di cui all’art. 331 c.p.c.

Né è sostenibile che le parti intervenute nel giudizio di primo grado, le quali, pur sussistendo un litisconsorzio necessario, non siano state evocate nel giudizio d’appello, possano poi volontariamente intervenire nel giudizio di cassazione e accettare, come avvenuto nel caso in esame, espressamente senza riserve il contenuto della sentenza di secondo grado che, accogliendo l’appello proposto da altri litisconsorti dei pretermessi, abbia riformato la pronuncia impugnata e così posto nel nulla l’iniziale soccombenza che accomunava i medesimi litisconsorti, in maniera da ripristinare, ora per allora, la condizione di integrità del contraddittorio cui era subordinata la pronuncia di appello (a differenza di quanto si afferma nell’ipotesi in cui il litisconsorte necessario pretermesso intervenga volontariamente in appello ed accetti. la causa nello stato in cui si trova, non essendovi in tal caso rischi di possibili contrasti di giudicato: Cass. Sez. 2, 06/11/2014, n. 23701; Cass. Sez. 1, 04/05/2011, n. 9752; Cass. Sez. 2, 05/08/2005, n. 16504).

Poiché la nullità derivante dalla mancata integrazione del contraddittorio nelle ipotesi di cui all’art. 331 c.p.c. si ricollega ad un difetto di attività del giudice di appello, al quale incombeva l’obbligo di adottare un provvedimento per assicurare la regolarità del processo, ed è, come detto, rilevabile d’ufficio pure in sede di legittimità, non opera nemmeno il temperamento stabilito dall’art. 157, comma 3, c.p.c., secondo il quale la nullità non può essere opposta dalla parte che vi abbia dato causa (Cass. Sez. 3, 16/05/1975, n. 1911; Cass. Sez. 2, 04/04/2001, n. 4948; Cass. Sez. 6 – 2, 18/02/2014, n. 3855 ).

© massimo ginesi 2 aprile 2019 

invio avviso di convocazione: una sentenza che non aiuta a capire

La suprema corte torna su un tema che incide significativamente sul’attività dell’amministratore condominiale, ovvero il tempestivo invio dell’avviso di convocazione.

Cass. civ. sez. II 25 marzo 2018 n. 8275  afferma che è onere dell’amministratore provare di                                                                                                                                                  aver inviato tempestivamente la convocazione ed incomba invece al condomino, che intenda contestare l’irrituale convocazione, allegare di averla ricevuta tardivamente senza sua colpa.

La pronuncia non appare di felicissima stesura e potrebbe apparire contraddittoria laddove, da un lato, ritiene onere del condominio fornire prova dell’effettivo pervenimento dell’avviso presso il destinatario e, dall’altro, che l’amministratore sia tenuto a dimostrare solo di averlo inviato.

In realtà l’intero testo della motivazione riafferma l’onere del mittente di dar prova di aver fatto pervenire il plico tempestivamente presso il destinatario (distinguendo l’ipotesi dell’invio della convocazione da quello del verbale); è solo l’infelice parte finale che sembra limitare gli oneri probatori di colui che convoca, anche se in realtà la lettura dell’intera sentenza rende chiaro che rimane onere del condominio dar prova di aver fatto pervenire la convocazione nella sfera giuridica del destinatario tempestivamente e rimane invece onere di costui dimostrare di non averne avuto conoscenza, per fatto a lui non imputabile.

E’ dunque  opportuno che l’interprete accorto non  si abbandoni  alla facile lusinga che sia sufficiente dimostrare la spedizione nei termini, poichè neanche l’odierna pronuncia  legittima simile lettura.

Per costante orientamento di questa corte (ex multis, Cass. 26 settembre 2013 n. 22047), la invocata disposizione dell’art. 66 disp. att. c.c., viene interpretata nel senso che essa esprime il principio secondo cui ogni condomino ha il diritto di intervenire all’assemblea del condominio e deve, quindi, essere messo in condizione di poterlo fare.

Viene, inoltre, affermata la necessità che l’avviso di convocazione sia non solo inviato, ma anche ricevuto nel termine, ivi stabilito, di almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza, avendo riguardo quale dies ad quem alla riunione dell’assemblea in prima convocazione. Con la conseguenza che la mancata conoscenza di tale data, da parte dell’avente diritto, entro il termine previsto dalla legge, costituisce motivo di invalidità delle delibere assembleari, ai sensi dell’art. 1137 c.c., come confermato dal nuovo testo dell’art. 66 disp. att. c.c., comma 3, introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, a nulla rilevando, ai fini della tempestività dell’avviso, né la data di svolgimento dell’assemblea in seconda convocazione, né che la data della prima convocazione fosse stata eventualmente già fissata dai condomini prima dell’invio degli avvisi.

La medesima giurisprudenza, peraltro, qualifica l’avviso di convocazione atto eminentemente privato, e del tutto svincolato, in assenza di espresse previsioni di legge, dall’applicazione del regime giuridico delle notificazioni degli atti giudiziari – quale atto unilaterale recettizio, per cui esso rinviene la propria disciplina nell’art. 1335 c.c., al medesimo applicandosi la presunzione di conoscenza in tale norma prevista (superabile da una prova contraria da fornirsi dal convocato), in base alla quale la conoscenza dell’atto è parificata alla conoscibilità, in quanto riconducibile anche solamente al pervenimento della comunicazione all’indirizzo del destinatario e non alla sua materiale apprensione o effettiva conoscenza.

Invero, la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., degli atti recettizi in forma scritta giunti all’indirizzo del destinatario opera per il solo fatto oggettivo dell’arrivo dell’atto nel luogo indicato dalla norma.

L’onere della prova a carico del mittente riguarda, in tale contesto, solo l’avvenuto recapito all’indirizzo del destinatario, salva la prova da parte del destinatario medesimo dell’impossibilità di acquisire in concreto l’anzidetta conoscenza per un evento estraneo alla sua volontà (cfr., per una fattispecie in tema di comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea di un condominio, Cass. 29 aprile 1999 n. 4352).

Dall’anzidetto quadro normativo viene fatto derivare l’ovvio corollario per cui, se è vero che per ritenere sussistente, ex art. 1335 c.c., la presunzione di conoscenza, da parte del destinatario, della dichiarazione a questo diretta, è necessaria e sufficiente la prova che la dichiarazione stessa sia pervenuta all’indirizzo del destinatario, tale momento, ove la convocazione ad assemblea di condominio sia stata inviata mediante lettera raccomandata non consegnata per l’assenza del condomino (o di altra persona abilitata a riceverla), coincide con il rilascio da parte dell’agente postale del relativo avviso di giacenza del plico presso l’ufficio postale, idoneo a consentire il ritiro del piego stesso, e non già con altri momenti successivi.

Nel senso di cui innanzi si esprimono i precedenti consolidati di questa corte, che il collegio decidente condivide (v. di recente Cass. 3 novembre 2016, n. 22311, in fattispecie condominiale; v. altresì i numerosi precedenti in altre materie, soprattutto lavoristica, agraria e locatizia, anche ivi richiamati: Cass. 31 marzo 2016 n. 6256; Cass. 15 dicembre 2009 n. 26241; Cass. 5 giugno 2009 n. 13087; Cass. 24 aprile 2003 n. 6527; Cass. 27 luglio 1998 n. 7370; Cass. 1 aprile 1997 n. 2847; oltre numerose sentenze non massimate, o non massimate sul punto che rileva, tra le quali ad es. Cass. 4 agosto 2016 n. 1633).

A fronte del predetto orientamento consolidato si pone, in senso contrario il solo precedente di Cass. 14 dicembre 2016 n. 25791 che – emesso in materia condominiale ma in riferimento al diverso termine posto dall’art. 1137 c.c., per l’impugnazione delle delibere assembleari, decorrente per gli assenti dalla comunicazione – ha ritenuto: a) che l’avviso di tentata consegna da parte dell’agente postale, non contenendo l’atto cui si riferisce, non equivalga a sua comunicazione, né può quindi reputarsi che l’atto sia giunto all’indirizzo del destinatario per gli effetti dell’art. 1335 c.c.; b) che, mancando nel regolamento postale una disciplina analoga a quella della L. n. 890 del 1982, art. 8, l’interprete debba applicare il principio di effettiva conoscenza e non la presunzione di conoscibilità di cui all’art. 1335 c.c., altrimenti ponendosi il risultato interpretativo in contrasto con l’art. 24 Cost., trattandosi di una comunicazione – si ripete, del verbale delle deliberazioni dell’assemblea del condominio nei confronti degli assenti – da cui decorre il termine decadenziale per l’esercizio della impugnazione in sede processuale; c) che, quindi, debba farsi applicazione analogica delle disposizioni di cui alla L. n. 890 del 2002, art. 8, adattate tenendo conto del fatto che – non trattandosi di notifica di atto giudiziario – il servizio postale non prevede, per gli invii ordinari, la spedizione di una raccomandata con la comunicazione di avvenuto deposito ma solo il rilascio di avviso di giacenza.
La considerazione della natura isolata del predetto precedente (che peraltro, dal punto di vista della percezione dei valori costituzionali sottesi, si pone in dissonanza implicita con Cass. 23 settembre 1996 n. 8399, decisione che, come detto, aveva in particolare valorizzato la possibilità per il destinatario di dare prova contraria rispetto alla presunzione ex art. 1335 c.c.) e, soprattutto, della circostanza che esso concerne fattispecie non pienamente sovrapponibile a quella in esame, induce a non ritenere sussistente il contrasto diacronico di giurisprudenza dedotto dal procuratore generale in udienza pubblica.

In particolare, in ordine ai caratteri distintivi della questione giuridica esaminata in detto precedente (relativa alla disciplina del termine di impugnazione ex art. 1137 c.c., della delibera di assemblea di condominio) rispetto a quella oggetto della presente controversia (relativa alla disciplina del termine dilatorio ex art. 66 disp. att. c.c., per la convocazione dell’assemblea del condominio), può essere sufficiente sottolineare che, nel primo caso, dalla comunicazione dell’atto (verbale assembleare) decorre un termine decadenziale per proporre un’azione giudiziaria mentre, nel secondo caso, dal pervenimento dello stesso (convocazione di assemblea) decorre un termine dilatorio meramente condizionante la validità della deliberazione, la quale ultima soltanto potrà essere impugnata in giudizio, previa ulteriore comunicazione di essa o partecipazione del convocato all’adunanza: sussistono, dunque, “ragionevoli differenze”, correlate alla presenza solo nella prima fattispecie di possibili pregiudizi, per effetto dell’avverarsi della decadenza, all’esercizio della tutela giurisdizionale (tema su cui, in effetti, il precedente n. 25791 del 2016 cit. si sofferma nella formulazione della ratio decidendi). Ne deriva che, al limite, detto precedente n. 25791 del 2016 introduce una cesura nella catena giurisprudenziale concernente il computo dei termini decadenziali per l’esercizio di azioni giudiziarie decorrenti dalla ricezione dell’atto (per stare ai precedenti citati, v. taluni di quelli in materia lavoristica), ma non in quella (cui pertiene la fattispecie in esame, oltre altre nei precedenti citati) in cui non decorrano – almeno in via immediata e diretta – termini della specie, bensì termini di altre tipologie (sul punto v. precedente in termini, Cass. 22 novembre 2017 n. 23396).

Va riaffermato, dunque, quale principio di diritto, che in tema di condominio, con riguardo all’avviso di convocazione di assemblea ai sensi dell’art. 66 disp. att. c.c., (nel testo ratione temporis vigente), posto che detto avviso deve qualificarsi quale atto di natura privata (del tutto svincolato, in assenza di espresse previsioni di legge, dall’applicazione del regime giuridico delle notificazioni degli atti giudiziari) e in particolare quale atto unilaterale recettizio ai sensi dell’art. 1335 c.c., al fine di ritenere fornita la prova della decorrenza del termine dilatorio di cinque giorni antecedenti l’adunanza di prima convocazione, condizionante la validità delle deliberazioni, è sufficiente e necessario che il condominio (sottoposto al relativo onere), in applicazione della presunzione dell’art. 1335 c.c., richiamato, dimostri la data di pervenimento dell’avviso all’indirizzo del destinatario, salva la possibilità per questi di provare di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

Tale momento, ove la convocazione ad assemblea di condominio sia stata inviata mediante lettera raccomandata (cui il testo dell’art. 66 disp. att. c.c., affianca, nel testo successivo alla riforma di cui alla L. 11 dicembre 2012, n. 220, altre modalità partecipative), e questa non sia stata consegnata per l’assenza del condomino (o di altra persona abilitata a riceverla), coincide con il rilascio da parte dell’agente postale del relativo avviso di giacenza del plico presso l’ufficio postale, idoneo a consentire il ritiro del piego stesso, e non già con altri momenti successivi (quali il momento in cui la lettera sia stata effettivamente ritirata o in cui venga a compiersi la giacenza).
Precisazioni ulteriori derivano dalla considerazione dell’applicazione della disciplina della regolamentazione postale, avuta presente in precedenti pronunce e costituita ratione temporis dal decreto del ministro dello sviluppo economico 01/10/2008 (recante “approvazione delle condizioni generali per l’espletamento del servizio postale universale”), cui è succeduta la delibera 385/13/CONS del 20/06/2013 dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Il regolamento (nei due testi, che sul tema dell’art. 31, non presenta variazioni) contempla, con terminologia impropria, non vincolante sul piano civilistico, che “il mittente resta proprietario dell’invio sino al momento della consegna” e che egli, prima della consegna, ha titolo a chiedere la restituzione dell’invio o la modifica della destinazione o del destinatario. Il riferimento alla “consegna” è nel senso della preclusione alla possibilità di restituzione del plico al mittente al momento dell’emissione dell’avviso di giacenza ove la consegna sia stata comunque tentata, anche se non effettuata, in caso di assenza del destinatario, per cui una volta emesso l’avviso di giacenza, gli invii restano in giacenza (nel caso in esame, per trenta giorni) a disposizione del destinatario (e non del mittente), al quale ultimo essi vengono restituiti solo all’esito, previa richiesta e pagamento di corrispettivo, in alternativa alla distruzione.

Alla luce del quadro giurisprudenziale e normativo riprodotto si osserva che nel caso di specie l’amministratore ha provato la spedizione della convocazione tramite lettera raccomandata, e la sentenza impugnata ha evidenziato, da un lato, la sussistenza della presunzione di conoscenza, tenuto conto dell’affidabilità dello strumento di spedizione utilizzato, e, dall’altro, la mancanza di alcuna allegazione e prova specifica dedotta dalla ricorrente in ordine alla impossibilità di acquisire conoscenza dell’atto senza colpa, generica la sola negazione del ricevimento dello stesso, inidonea a superare la presunzione di conoscenza dell’atto regolarmente inviato.

Con la conseguenza che correttamente è stata ritenuta validamente raggiunta, attraverso la prova della spedizione della raccomandata contenente l’avviso di convocazione in data 25.05.2006, la presunzione di ricezione dello stesso da parte della destinataria, sulla quale gravava, pertanto, l’onere di controllare assiduamente la corrispondenza a lei diretta, per un riscontro della tempestività o meno dell’inserimento dell’avviso medesimo nel rispetto dei cinque giorni previsti dalla disposizione invocata.”

© massimo ginesi 27 marzo 2019

il consiglio di condominio ha competenze consultive e non può deliberare spese

Lo afferma una recente decisione della Suprema Corte ( Cass.Civ. sez.VI-2 15 marzo 2019 n. 7484 rel. Scarpa), con cui è respinto il ricorso di un condominio torinese, il cui consiglio aveva deliberato e ripartito lavori straordinari alle parti comuni e il cui deliberato è stato impugnato da uno dei condomini, che era peraltro risultato vittorioso già in primo grado e in appello.

La decisione, del tutto condivisibile, fa applicazione piana del dettato letterale della norma prevista dall’art. 1130 bis cod.civ., laddove dispone: “L’assemblea può anche nominare, oltre all’amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari. Il consiglio ha funzioni consultive e di controllo.”

A fronte di competenze deliberative rimesse dall’art. 1135 cod.civ. unicamente alla assemblea e di una formulazione chiara della norma che, oggi, prevede la possibilità di istituire un consiglio di condominio, la lettura della corte non desta sorpresa ed appare di assoluta linearità ed i interesse anche con riguardo alla facoltà del condomino di impugnare l’atto consiliare.

Osserva il supremo collegio che “Il comma 2 dell’art. 1130-bis c.c., introdotto dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, consente all’assemblea di nominare, oltre all’amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari. La stessa norma precisa che il consiglio di condominio ha “unicamente funzioni consultive e di controllo”, essendo l’organo votato a garantire una più efficiente e trasparente tutela degli interessi dei condomini nei grandi complessi immobiliari dotati di molteplici strutture comuni.

Già, tuttavia, prima della Riforma del 2012, o comunque in fattispecie sottratte ratione temporis alla vigenza del nuovo art. 1130 bis c.c., questa Corte aveva affermato, con principio che va qui ribadito, che l’assemblea condominiale – atteso il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciutele dall’art. 1135 c.c. – può certamente deliberare la nomina di una commissione di condomini (cui ora equivale il “consiglio di condominio”) con l’incarico di esaminare i preventivi di spesa per l’esecuzione di lavori, ma le decisioni di tale più ristretto consesso condominiale sono vincolanti per tutti i condomini – anche dissenzienti – solamente in quanto rimesse alla successiva approvazione, con le maggioranze prescritte, dell’assemblea, le cui funzioni (quale, nella specie. l’attribuzione dell’approvazione delle opere di manutenzione straordinaria, ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c.) non sono delegabili ad un gruppo di condomini (Cass. Sez. 2, 6 marzo 2007, n. 5130; Cass. Sez. 2, 23 novembre 2016, n. 23903; Cass. Sez. 2, 25 maggio 2016, n. 10865).

Il consiglio di condominio, pure nella vigenza dell’art. 1130-bis c.c., non può, dunque, esautorare l’assemblea dalle sue competenze inderogabili, giacché la maggioranza espressa dal più ristretto collegio è comunque cosa diversa dalla maggioranza effettiva dei partecipanti, su cui poggiano gli artt. 1135, 1136 e 1137 c.c. ai fini della costituzione dell’assemblea, nonché della validità e delle impugnazioni delle sue deliberazioni.

La determinazione dell’oggetto delle opere di manutenzione straordinaria (e cioè degli elementi costruttivi fondamentali delle stesse nella loro consistenza qualitativa e quantitativa), la scelta dell’impresa esecutrice dei lavori, la ripartizione delle relative spese ai fini della riscossione dei contributi dei condomini, rientrano, pertanto, nel contenuto essenziale della deliberazione assembleare imposta dall’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. (Cass. Sez. 2, 26 gennaio 1982, n. 517; Cass. Sez. 2, 21 febbraio 2017, n. 4430; Cass. Sez. 6-2, 16 novembre 2017, n. 27235; Cass. Sez. 6-2, 17 agosto 2017, n. 20136; Cass. Sez. 2, 20 aprile 2001, n. 5889).

Nella specie, è stato accertato in fatto dai giudici del merito che il Consiglio di Condominio, nella riunione del 31 luglio 2014, aveva approvato l’intervento di manutenzione, aveva scelto l’impresa cui affidare i lavori di manutenzione del lastrico ed aveva suddiviso le spese fra i condomini. Queste decisioni del Consiglio di Condominio, sempre per quanto accertato dalla Corte d’Appello di Torino, non vennero poi mai rimesse alla successiva necessaria approvazione dell’assemblea con le. maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c. (né, d’altro canto, i lavori risultavano approvati sin dall’assemblea condominiale del 30 maggio 2014).

Va considerato come le determinazioni prese dai condomini, in assemblea o, come nella specie, nell’ambito del “consiglio di condominio”, devono valutarsi come veri e propri atti negoziali, sicché l’interpretazione del loro contenuto è frutto di apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità unicamente per violazione dei canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 e seguenti c.c. (Cass. Sez. 2, 28 febbraio 2006, n. 4501).

La Corte d’Appello di Torino, ricostruiti i fatti come sinora esposto, ha coerentemente attribuito immediato valore organizzativo (e non dunque meramente consultivo o preparatorio di un futuro pronunciamento assembleare) alla deliberazione del Consiglio di condominio del 31 luglio 2014. Ciò basta a giustificare l’interesse del condomino D. ad agire in giudizio per accertare se siffatto valore organizzativo della deliberazione del 31 luglio 2014 meritasse di essere conservato o andasse, piuttosto, eliminato con la sanzione giudiziale invalidante.

Il D. aveva perciò un interesse sostanziale ad impugnare la delibera in questione, giacché titolare di una posizione qualificata diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che la delibera del consiglio di condominio generava quanto al contenuto dell’assetto organizzativo della materia regolata (le opere di manutenzione straordinaria). A questo interesse sostanziale è certamente abbinato l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. per l’impugnazione della delibera, avendo l’attore prospettato una lesione individuale di rilievo patrimoniale correlata alla delibera impugnata e così rivelato l’utilità concreta che poteva ricevere dall’accoglimento della domanda.

© massimo ginesi 20 marzo 2019 

beni comuni ex art 1117 cod.civ. e pertinenze: due mondi distinti e del tutto autonomi.

Una lunga e dotta sentenza della corte di legittimità ( Cass.Civ. sez.II 6 marzo 2019 n. 6458 rel. Scarpa)  affronta un tema interessante e spesso frainteso: laddove si costituisca una situazione di condominio in conseguenza del frazionamento della unitaria proprietà individuale in unità attribuite a diversi soggetti, i beni comuni e strumentali a tali unità saranno soggetti (ex lege o per titolo) al regime dell’art. 1117 cod.civ.,   non potendosi  invece applicare  la disciplina delle pertinenze.

La vicenda trae origine in terra ligure, da una sentenza del Tribunale di Chiavari, poi appellata dinanzi alla Corte di Genova: “L. C. convenne davanti al Tribunale di Chiavari S. A. T. ed il notaio R.a S., chiedendo di accertare che la prima non avesse alcun diritto di proprietà o comproprietà sulla striscia di terreno aderente alla casa dell’attrice in via T n. 4 di Chiavari (area che invece la signora T. occupava con beni e masserizie, ostruendone il transito), nonché di condannare il notaio S al risarcimento dei danni, per aver erroneamente indicato i confini della proprietà T. nell’atto di acquisto da A C del 19 aprile 2002, nonché in un precedente titolo.

S A T dedusse di essere comproprietaria per un terzo della striscia di terreno in contesa, come da atto di divisione del 20 luglio 1987. Il notaio R S eccepì la prescrizione e chiamò in garanzia la Fondiaria SAI s.p.a. e la Loyd’s of London Rappresentanza Generale per l’Italia.

 Il Tribunale di Chiavari respinse le domande dell’attrice, dichiarando che la striscia di terreno fosse in comunione tra L C, S A T e S P, e, accogliendo la riconvenzionale, condannò la signora C a rimuovere vasi ed altri oggetti dal sedime, nonché a rimborsare le spese alle convenute ed alle assicuratrici chiamate in causa.

La Corte di Genova, rigettando l’appello di L C, osservò che nell’atto di divisione del 20 luglio 1987, stipulato tra i comproprietari originari dell’immobile, era individuata con chiarezza l’esistenza di una striscia di terreno posta tra il fabbricato ed i giardini, definita come “distacco condominiale”, che rimaneva di proprietà comune dei condividenti.

Secondo la Corte d’Appello, la striscia in contesa “come bene condominiale e pertinenza degli appartamenti è stata trasferita agli aventi causa dei condividenti originari, che sono i proprietari attuali della casa: in tanto appartiene per un terzo a L C, per un terzo a S P e per un terzo a S A T.

Per i giudici di secondo grado, nemmeno rileva – in senso contrario – “il fatto che la striscia di terreno in contestazione non sia stata espressamente indicata – come bene pertinenziale – nel titolo di acquisto della signora T. Invero – in forza del principio per cui “accessorium sequitur principale” – gli atti traslativi aventi per oggetto i beni principali ovvero le proprietà individuali facenti parte di un condominio comprendono i beni pertinenziali – ove non sia diversamente disposto – ed i beni condominiali, che siano destinati per la loro funzione all’uso e servizio dei beni di proprietà solitaria.

Nella fattispecie non è sostenibile che la striscia per cui è causa costituisca oggetto di una comunione ordinaria, perpetuatasi tra i proprietari originari dell’immobile, a sé stante e separata dal condominio, trattandosi – al contrario – a tutti gli effetti di un bene pertinenziale, definito espressamente come condominiale nel titolo originale di divisione dagli originari comproprietari della casa ed appositamente escluso dalla divisione, siccome destinato propriamente al passaggio comune”.

A tal proposito il Giudice di legittimità osserva che: ” La Corte d’Appello di Genova ha qualificato la striscia di terreno corrente tra gli immobili delle parti, siti in via T n. 4 di Chiavari, come “bene condominiale e pertinenza degli appartamenti”, e così considerato che “gli  atti  traslativi  aventi per oggetto i beni principali  ovvero  le  proprietà  individuali facenti parte di un condominio comprendono i beni pertinenziali – ove non sia diversamente disposto – ed  i beni  condominiali,  che siano destinati per la loro funzione  all’uso  e  servizio  dei beni di proprietà solitaria”.

La qualificazione dell’area come condominiale è stata ricavata dai giudici di secondo grado dal “titolo originale di divisione dagli originari comproprietari della casa”, trattandosi di bene  “appositamente  escluso  dalla divisione, siccome destinato propriamente  al  passaggio comune”.

 Ora, la situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti del Codice Civile, si attua sin dal momento in cui  si opera il frazionamento della proprietà  di un  edificio,  a  seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto.

La sentenza impugnata individua  l’atto  di frazionamento iniziale, dal quale ebbe  origine  il  condominio  delle unità immobiliari ora appartenenti a L C;  S A T e S P, nella divisione ereditaria del 20 luglio 1987, allorché furono assegnati ai condividenti singoli appartamenti ed una porzione di orto.

Individuato tale momento, doveva reputarsi operante la presunzione legale ex art. 1117e.e.dicomunione”proindiviso”ditutte quelleparti del complessoche, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal primo titolo di frazionamento non risultasse, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente al venditore o ad alcuno dei condomini la proprietà di dette parti (Cass.    Sez.    2,    18/12/2014,    n.   26766;   Cass.    Sez. 2,  22/08/2002,  n. 12340;  Cass.  Sez.  2,  07/08/2002,  n. 11877).

 Nella specie, si ha riguardo (per quanto accertato in fatto dai giudici di merito, sulla  base  di  apprezzamento  loro  spettante) ad area strutturalmente destinata a dare  accesso  al  fabbricato ed ai giardini, definita nel titolo “distacco  condominiale”,  in quanto tale facente parte delle cose comuni di cui all’art. 1117 cod.civ. , dovendosi qualificarsi come cortile, agli effetti di tale disposizione, qualsiasi spazio esterno che abbia la funzione non soltanto di dare aria  e luce  all’adiacente  fabbricato,  ma  anche di consentirne l’accesso (Cass. Sez. 2, 29/10/2003, n. 16241; Cass. Sez. 2, 03/10/1991, n. 10309). Tale bene, pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso nel primo atto di trasferimento qualsiasi univoco riferimento al riguardo, deve essere ritenuto parte comune dell’edificio condominiale,  ai  sensi  del  medesimo  art.  1117  e.e.,  ceduta in comproprietà pro  quota. 

Peraltro,  questa  Corte  ha  ancora di recente ribadito come, al fine di accertare se l’uso esclusivo di un’area esterna al fabbricato, altrimenti idonea a soddisfare le esigenze di accesso all’edificio di tutti i partecipanti, sia attribuito ad uno o più condomini, è irrilevante ex se la circostanza che l’area stessa, per la conformazione dei luoghi, sia stata di fatto goduta più proficuamente e frequentemente dal condomino titolare della contigua unità immobiliare (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712).

Ne consegue che non ha alcun rilievo il contenuto dell’atto traslativo C/T del  19  aprile 2002 (del quale la ricorrente evidenzia che non indicasse espressamente la striscia di terreno), non potendo esso valere quale titolo contrario ex art. 1117 cod.civ. , né validamente disporre della proprietà esclusiva dell’area oggetto di lite, ormai compresa fra le proprietà comuni (rimanendo nulla, al  contrario, la clausola, contenuta nel contratto di vendita di un’unità immobiliare di un condominio, con la quale venga esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni: cfr. Cass. Sez. 2, 29/01/2015, n. 1680).

La mera circostanza che uno dei successivi atti di vendita di una singola unità immobiliare non contenga espressa menzione del trasferimento anche della comproprietà delle aree comuni non è, in sostanza, in alcun modo sufficiente a superare la presunzione posta dall’art. 1117 cod.civ. , la quale, al contrario, comporta che all’atto stesso consegua l’alienazione, unitamente alla porzione esclusiva, della corrispondente quota di condominio su dette parti comuni.

Stando, infatti, al consolidato orientamento di questa Corte, una volta accertata la  sussistenza  di  una  situazione  di  condominio  di  edifici, le vicende traslative riguardanti i piani o le porzioni di piano di proprietà individuale estendono i loro effetti, secondo il principio “accessorium sequitur principale”, alle parti comuni necessarie per la struttura o destinate per la funzione al servizio degli immobili di proprietà solitaria  (come,  nella specie, la striscia destinata al passaggio comune), non trattandosi, per quanto accertato in fatto dalla  Corte  di Genova, di area legata agli appartamenti delle parti da mera relazione spaziale (Cass. Sez. 6 – 2, 26/10/2011, n. 22361; Cass. Sez. 2, 27/04/1993, n. 4931).

Non  è  pertinente   all’acclarata   situazione   di  fatto   la censura, contenuta     nel    secondo     motivo,     di    violazione     e   falsa applicazione dell’art. 817 cod.civ.

 La relazione di accessorietà  tra parti comuni ed unità immobiliari,  tipica  del  condominio  di edifici, ex artt. 1117 e ss. e.e.,  esula  dalla  figura  delle pertinenze ex art. 817  cod.civ.  

Nel condominio, il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, le facciate,  i  tetti,  i  cortili,  gli  impianti che servono all’uso comune, non sono «cose» distinte e autonome   rispetto   alle   porzioni   di   proprietà   individuale, ma «parti» indivisibili di un tutto.

Le parti elencate o richiamate dall’art. 1117 cod.civ. non offrono, invero, alcuna utilità  autonoma e compiuta, in quanto la loro utilizzazione oggettiva e il loro godimento soggettivo sono unicamente strumentali all’utilizzazione o al godimento degli appartamenti.

Le pertinenze  di cui  all’art.  817 cod.civ. , per contro, suppongono due «cose» che mantengono la loro identità, e che sono non congiunte    fisicamente,    quanto   combinate   in   forza   di   una «destinazione durevole» (cioè, di una destinazione  non episodica, ma comunque temporanea) al  servizio  o all’ornamento l’una  dell’altra.  Perché,  peraltro,  si  crei un’efficace destinazione pertinenziale, basta essere proprietario o titolare di altro diritto reale sulla sola cosa principale, mentre non     occorre     affatto     essere     anche     proprietario     (o  comproprietario) della cosa destinata a pertinenza.

Ed ancora, il proprium della res accessoria è la sua non indispensabilità, ovvero la sua separabilità dal tutto, mentre la divisibilità delle parti comuni dell’edificio condominiale è rigidamente condizionata, in base all’art. 1119 e.e., al raffronto tra  i vantaggi che i singoli condomini ritraevano in precedenza da esse e i vantaggi che ne ricaverebbero dopo la divisione (oltre che al “consenso di tutti i partecipanti al condominio”, presupposto esplicitamente aggiunto dalla legge n. 220/2012).

Né vi è alcuna contraddizione tra l’accertamento della condominialità della striscia di terreno e la mancata condanna della signora T a rimuovere i vasi  e  gli  oggetti posizionati su tale area, in quanto è noto come le due fondamentali limitazioni poste dall’art. 1102  cod.civ.   all’uso  della cosa comune da parte di ciascun  condomino, ovvero  il  divieto  di alterarne la destinazione e l’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri comproprietari, non impediscono al singolo partecipante, entro i limiti  ora  ricordati,  di  servirsi  di  essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, quali, nella specie, come denuncia la ricorrente, la collocazione di masserizie e di oggetti ornamentali (cfr., fra le tante, Cass. Sez. 2, 05/12/1997, n. 12344; Cass. Sez. 2, 06/05/1988, n. 3376).”

La Corte esclude infine qualunque responsabilità del notaio: “la mancata menzione da parte del notaio, nella stipula di uno dei successivi atti di vendita di una singola unità immobiliare compresa in un condominio edilizio, del trasferimento anche della comproprietà di alcuna delle aree comuni, ex art. 1117 cod.civ., non concreta alcuna violazione delle regole posta dall’ordinamento professionale a tutela delle esigenze della pubblica fede e della certezza degli strumenti della vita giuridica, tale da trascendere la sfera giuridica dei partecipi dell’atto redatto dal notaio e ledere i terzi, i quali abbiano interesse a fare affidamento sulla validità dell’atto, secondo il generale canone del neminem laedere (arg. da Cass. Sez. 3, 24/05/1960, n. 1327).”

© massimo ginesi 14 marzo 2019 

i balconi costituiscono veduta ai fini delle distanze.

Una ponderosa pronuncia della corte di legittimità (Cass.Civ. sez.II ord. 19.2.2019 n. 4834  rel Criscuolo)  affronta un tema peculiare, ovvero la nozione di parate finestrata ai fini del compito delle distanze.

i fatti: “Il condominio (omissis) conveniva in giudizio la Immobiliare Raffaella S.r.l., lamentando che la convenuta aveva realizzato sull’area denominata “(omissis) ” un fabbricato a confine con l’edificio condominiale, ma a distanza inferiore a quella di legge individuata nella previsione di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9.
Il Tribunale di Milano – sezione distaccata di Legnano rigettava la domanda ma la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 2123 del 18 maggio 2015, in accoglimento del gravame del condominio condannava la società convenuta a demolire ed arretrare le porzioni del fabbricato H, compresi i balconi sulle medesime aggettanti sino a garantire il rispetto della distanza di metri 10 dal frontistante condominio, secondo le indicazioni contenute nella CTU alle pagg. da 15 a 19, nonché al risarcimento del danno che quantificava nell’importo di Euro 10.000,00.
Rilevavano i giudici di appello che le risultanze della CTU avevano permesso di evidenziare che effettivamente il fabbricato realizzato dalla società appellata era posto a confine con l’edificio condominiale, dovendo quindi trovare applicazione l’art. 873 c.c. con il rinvio alle fonti integrative locali.

Tuttavia il potere normativo secondario degli enti locali trovava un limite nelle previsioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, emanato in applicazione dell’art. 41 quinquies della legge urbanistica come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 17.
Infatti, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale, tale norma, sebbene non direttamente applicabile, è però inderogabile da parte degli enti locali che devono conformarsi a quanto nella stessa prescritto, con l’ulteriore conseguenza che l’eventuale disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici locali deve essere disapplicata, occorrendo assicurare il rispetto della distanza assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
Per l’effetto, risultava erroneo quanto affermato dal Tribunale che aveva ritenuto di assicurare prevalenza alle previsioni delle NTA del PRG del Comune di Legnano, che invece non prescrivevano la detta distanza di metri 10 tra pareti finestrate.
Pertanto, poiché la costruzione della società era da intendersi come edificio nuovo costruito in Zona Omogenea Speciale Piano Integrato di Intervento Area (omissis) , dalle risultanze della CTU emergeva che le pareti finestrate della convenuta si ponevano a distanza inferiore a metri 10 dalla facciata del fabbricato condominiale.
Ciò imponeva quindi la condanna della società alla riduzione in pristino, con l’ordine di demolizione e/o arretramento sino alla distanza di metri 10.
Infine, era reputata meritevole di accoglimento anche la domanda risarcitoria, sebbene limitata al solo danno subito temporaneamente dalla data della costruzione sino a quella in cui sarebbe stata eseguita la riduzione in pristino, danno equitativamente determinato nell’importo di Euro 10.000,00.”

La società ricorreva per cassazione, ma la corte di legittimità ha ritenuto i motivi non fondati: “Ed, invero, non può non rilevarsi che, come ammesso da parte della stessa ricorrente, sulla parete del fabbricato di cui è stata ordinata la demolizione ovvero l’arretramento sono collocate, oltre ad alcune aperture, di cui si discute se abbiano carattere di veduta oppure di semplici luci, anche dei balconi, dei quali si è tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze (sul presupposto che non fossero dei meri sporti ornamentali), come confortato anche dalla lettura del dispositivo.

La tesi della ricorrente è che, perché possa invocarsi la previsione di cui al citato D.M. del 1968 n. 1444, lungo una delle pareti frontistanti debbano aprirsi delle finestre intese quali vedute, con la conseguenza che, essendo state apposte delle sbarre in corrispondenza delle finestre ivi allocate, che impediscono la possibilità di affaccio, diretto, laterale e/o obliquo, non si sarebbe più al cospetto di vedute, ma di semplici aperture lucifere, che appunto non rilevano ai fini della norma in esame.

Ritiene il Collegio che tuttavia l’interpretazione della norma de qua non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione in esame.

In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n. 26383/2016), poiché nella disciplina legale dei “rapporti di vicinato” l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione “pareti finestrate” contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 – il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come “vedute”, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette “lucifere” (conf. Cass. n. 6604/2012).

Deve quindi ritenersi che anche la presenza di balconi assicuri la possibilità di veduta (cfr. da ultimo Cass. n. 8010/2018, a mente della quale con riferimento ai balconi, rispetto ad ogni lato di questo si hanno una veduta diretta, ovvero frontale, e due laterali o oblique, a seconda dell’ampiezza dell’angolo), e che quindi la loro presenza sul fronte del fabbricato impone l’applicazione della norma alla quale hanno fatto riferimento i giudici di merito (si veda per la giurisprudenza amministrativa Cons. Stato 5/10/2015 n. 4628, che ha ribadito che per pareti finestrate si devono intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere in esse anche quelle sulle quali si aprono semplici luci, nonché T.A.R. L’Aquila, (Abruzzo), 20/11/2012, n. 788, che ha specificato che ai sensi del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi per “pareti finestrate”, non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento).

Ne consegue che, attesa la presenza di balconi lungo la parete dell’edificio della ricorrente, va esclusa la dedotta violazione di legge, mentre risulta priva del carattere della decisività la pretesa omessa disamina della circostanza che alcune delle aperture non consentano l’affaccio, trattandosi di affermazione che non tiene conto della necessaria rilevanza che invece assumono i balconi ai fini della presente vicenda.
Né sussiste il dedotto vizio motivazionale, avendo la sentenza adeguatamente fatto richiamo alla presenza dei balconi lungo il fronte del fabbricato della società.

Il quarto motivo denuncia la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla domanda subordinata proposta dall’appellata con la conseguente violazione dell’art. 1123 c.p.c. e degli artt. 24 e 111 Cost..
Si deduce che la società nel corso del giudizio di merito ha richiesto, in via subordinata, che la condanna fosse limitata all’esecuzione delle opere necessarie a garantire il rispetto del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, mediante la trasformazione delle finestre in luci o mediante le altre opere che la Corte di Appello avesse voluto stabilire, con esclusione della demolizione parziale dell’edificio, ma tale richiesta non è stata in alcun modo presa in esame.

Anche tale motivo è destituito di fondamento.
Ed, invero, deve in primo luogo farsi richiamo al costante orientamento di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 7809/2014) in tema di violazione delle distanze legali, non incorre in ultrapetizione il giudice che, richiesto dell’ordine di demolizione della costruzione, ne ordini il semplice arretramento, essendo la decisione contenuta nei limiti della più ampia domanda di parte, senza esulare dalla “causa petendi”, intesa come l’insieme delle circostanze di fatto poste a fondamento della pretesa (conf. Cass. n. 475/2002; Cass. n. 1411/1999).
Nel caso in esame, assume tuttavia la ricorrente che aveva chiesto che la condanna, una volta riscontrata la violazione delle previsioni di cui al citato art. 9, fosse limitata alla sola adozione delle opere necessarie a garantire il rispetto della norma, con la trasformazione delle finestre in luci, ovvero delle altre opere che la Corte d’Appello avesse ritenuto di stabilire.
Ed, invero, in disparte il difetto di specificità del motivo nella parte in cui, pur denunciando un error in procedendo omette di riprodurre con precisione il contenuto delle deduzioni difensive alle quali fa riferimento, e dalle quali si dovrebbe desumere la violazione dell’art. 112 c.p.c. (cfr. sul rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 anche in caso di denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, Cass. S.U. n. 8077/2012), non ignora il Collegio che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 9640/2006), allorquando il soccombente nel giudizio in tema di distanze per l’apertura di vedute e balconi impugni la sentenza del giudice di merito che lo abbia condannato alla demolizione dei propri balconi realizzati a confine in violazione dell’art. 905 cod. civ., deducendo che era sufficiente, ai fini del rispetto delle predette distanze, l’adozione di diversi specifici accorgimenti, deve affermarsi che l’eliminazione delle vedute abusive può essere realizzata non solo mediante la demolizione delle porzioni immobiliari per mezzo delle quali si realizza la violazione di legge lamentata, ma anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui, come l’arretramento del parapetto o l’apposizione di idonei pannelli che rendano impossibile il “prospicere” e l’”inspicere in alienum” (conf. Cass. n. 2343/1995).
Trattasi però di giurisprudenza che appare essenzialmente maturata nell’ambito della dedotta violazione delle distanze delle vedute, laddove nella vicenda in esame si dibatte in materia di distanze tra costruzioni, nella quale la presenza delle vedute è un presupposto fattuale per l’applicazione della più restrittiva norma di cui al menzionato art. 9.
Inoltre, come si ricava dalla lettura del motivo, la società aveva chiesto adottarsi i rimedi alternativi per la trasformazione delle vedute in luci, ma ciò sul presupposto, confermato dalla lettura dei primi tre motivi, che non spiegassero alcuna rilevanza ai fini della decisione i balconi pur esistenti lungo la facciata dell’edificio, balconi che invece sono da ritenersi decisivi ai fini della nozione di parete finestrata.
È il balcone in sé che legittima l’esercizio della veduta, avendone la sentenza impugnata disposto l’arretramento.
L’assenza di qualsivoglia riferimento ai balconi nelle richieste subordinate della società esclude pertanto che possa riscontrarsi la detta violazione dell’art. 112 c.p.c..
5. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione sotto altro profilo del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 nonché dell’art. 113 c.p.c. e dell’art. 2058 c.c., nella parte in cui la sentenza gravata ha condannato la società a demolire tutta la parete finestrata, sebbene la stessa fronteggi una parete priva di finestre.
Si assume che il condominio possa vantare solo il diritto alla chiusura delle finestre ma non anche alla demolizione dell’intera parete.
Il motivo è privo di fondamento.
Questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire il principio per il quale (Cass. n. 5017/2018) è illegittima una previsione che imponga il rispetto di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi, in quanto il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 detta disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute.
Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente non può essere condivisa in quanto contrasta con l’interpretazione che delle norme in esame è stata in passato offerta dal giudice di legittimità.
Va in primo luogo richiamato che costituisce opinione consolidata quella secondo cui (cfr. ex multis Cass. n. 20574/2007) ai fini dell’osservanza delle distanze legali, ove sia applicabile il D.M. n. 1444 del 1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici, l’obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata alla salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano, quando uno dei due abbia una parete finestrata.
Le Sezioni Unite sono intervenute sul punto ed hanno avuto modo di precisare (cfr. Cass. S.U. n. 14953/2011) che, attesa l’idoneità del citato art. 9 a dar vita a disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati destinate a prevalere sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, non è legittima una previsione regolamentare che imponga il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi.
Come peraltro chiarito anche in motivazione da Cass. n. 15529/2015, ai fini della corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite, deve ribadirsi che la norma è destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate.
Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontistante facciata e non già la reciproca posizione delle finestre in entrambe le superfici aperte.
Trattasi di conclusione che appare del tutto coerente con quanto in precedenza affermato, e cioè che (cfr. Cass. n. 8383/1999) ai fini dell’applicazione della norma in esame è del tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra, atteso che (cfr. Cass. n. 11404/1998) il regolamento edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantisi, deve esser osservato anche se dalle finestre dell’uno non è possibile la veduta sull’altro perché la “ratio” di tale normativa non è la tutela della privacy, bensì il decoro e sicurezza, ed evitare intercapedini dannose tra pareti.
Va pertanto data continuità al principio già sostenuto da questa Corte, anche prima dell’intervento delle Sezioni Unite del 2011 sopra ricordato, che peraltro si limita a rafforzarne la correttezza, secondo cui (cfr. Cass. n. 13547/2011) ai fini dell’applicazione della norma in esame è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta, sicché il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre (conf. Cass. n. 5741/2008, a mente della quale, essendo “ratio” della norma non la tutela della riservatezza, bensì quella della salubrità e sicurezza, la medesima va applicata indipendentemente dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle pareti di questi, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento).
Sempre in senso conforme si veda, con specifico riferimento alle fattispecie esaminate, Cass. n. 4715/2001, che ha ritenuto applicabile l’art. 7 del P.R.G. di Viterbo, con formulazione identica al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, laddove gli edifici per cui è causa si fronteggiavano con una parete finestrata ed uno spigolo di muro, nonché Cass. n. 9207/1991, la cui massima recita a favore dell’applicazione dell’art. 9 sempre che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ed ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta (la vicenda riguardava fabbricati frontistanti solo per un tratto di metri 0,82 dell’uno ed entrambi con pareti prive di finestre nelle rispettive parti contrapposte, avendo la Corte confermato la correttezza della decisione dei giudici di appello che avevano disposto l’arretramento del nuovo corpo di fabbrica fino a ripristinare la distanza di dieci metri, limitatamente al predetto tratto di metri 0,82).”

© massimo ginesi 20 febbraio 2019