cortile comune: l’utilizzo per il transito verso beni individuali è espressione di (com)proprietà e non di servitù.

Una nitida ordinanza di legittimità (Cass.Civ. sez.II 24 luglio 2018 n. 19550 rel. Scarpa)  richiama i principi cardine in tema di (com)proprietà e uso del bene comune, al fine di valutare la correttezza del provvedimento di merito con cui è stata riconosciuta la liceità della condotta di alcuni condomini, che utilizzavano il cortile comune per accedere con autovetture alla propria proprietà esclusiva.

“La Corte d’Appello di Brescia, tenuto conto che G.C ed A. C. B. avevano rinunciato alle loro domande riconvenzionali di confessoria e negatoria servitutis, ha limitato il proprio esame della fattispecie al disposto dell’art. 1102 c.c., per concludere che l’utilizzo del cortile comune a scopo di transito da parte dei medesimi appellanti C. e B. fosse compatibile con l’uso di fatto dello spazio a piazzola di parcheggio degli autoveicoli dei condomini accertato dal CTU.”

Il principio espresso dal giudice di legittimità delinea con  chiarezza il quadro normativo cui deve farsi riferimento nella individuazione dei diritti esercitati da ciascun comproprietario, che in nessun caso possono essere ricondotti allo schema della servitù ove si discuta di utilizzo – anche più intenso e a fini individuali – del bene comune: essendo inclusa nel termine “cortile”, ex art. 1117, n. 1, c.c., ogni area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ivi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate del fabbricato, quali, appunto, gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi (così Cass. Sez. 2, 09/06/2000, n. 7889).

Una volta ritenuto il nesso di condominialità corrente tra l’unità immobiliare di proprietà esclusiva dei signori C. e B. e l’area compresa nel mappale 1…, l’uso di tale bene da parte dei medesimi convenuti ed attuali controricorrenti deve trovare regolamentazione nella disciplina del condominio di edifici, la quale è costruita sulla base di un insieme di diritti e obblighi, armonicamente coordinati, contrassegnati dal carattere della reciprocità, che escludono la possibilità di fare ricorso alla disciplina in tema di servitù, presupponente, invece, fondi appartenenti a proprietari diversi, nettamente separati, uno al servizio dell’altro.

Né può quindi astrattamente ipotizzarsi, come fatto a fondamento del secondo e del terzo motivo di ricorso, un’azione negatoria ex art. 949 c.c. per la cessazione delle molestie attribuite ai controricorrenti C. e B., i quali transitano con automezzi nel cortile, in quanto la qualità di condomini riconosciuta in capo a quest’ultimi deve, appunto, essere regolata, come fatto dalla Corte d’Appello di Brescia, sulla base dell’art. 1102 c.c., norma avente per oggetto l’uso legittimo delle cose comuni (cfr. di recente Cass. Sez. 2, 16/01/2018, n. 884).

Ai sensi dell’art. 1102, comma 1, c.c. l’uso della cosa comune da parte del singolo partecipante al condominio è consentito in conformità alla destinazione della cosa stessa, considerata non già in astratto, con esclusivo riguardo alla sua consistenza, bensì con riguardo alla complessiva entità delle singole proprietà individuali cui la cosa comune è funzionalizzata.

Ciascun condomino ha, così, diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest’ultimi.

In particolare, per stabilire se l’uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell’art. 1102 c.c., non deve aversi riguardo all’uso concreto fatto della cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; l’uso deve ritenersi in ogni caso consentito, se l’utilità aggiuntiva, tratta dal singolo comproprietario dall’uso del bene comune, non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene.”

Tale valutazione di fatto, che compete dal giudice di merito, nel caso di specie ha avuto esito positivo e congruamente motivato: ” la Corte d’Appello, in conformità a tali principi, ha  accertato che l’utilizzo dell’area comune a scopo di transito veicolare da parte dei condomini C. e B. fosse compatibile con l’uso ad essa impresso, come risultante dalla CTU, di parcheggio di autoveicoli, esistendo, del resto, l’accesso carrabile dalla proprietà C.-B. sin dal momento di costruzione delcomplesso immobiliare (cfr. Cass. Sez. 2, 01/08/2001, n. 10453; Cass. Sez. 2, 06/06/1988, n. 3819)”.

© massimo ginesi 26 luglio 2018

responsabilità del progettista, del direttore lavori e dell’appaltatore: l’obbligo risarcitorio.

Cass.Civ. sez.III ord. 21 giugno 2018 n. 16323 si sofferma su un tema di diffusa applicazione, richiamando principi stabili  nella giurisprudenza di legittimità e delineando il contenuto del diritto al risarcimento del soggetto che sia incorso in una prestazione inadeguata da parte dell’appaltare e delle figure tecniche allo stesso contigue.

Si trattava, nella fattispecie, della realizzazione di un muro di contenimento rivelatosi inidoneo a svolgere la propria funzione.

sugli obblighi  dell’appaltatore: la corte tratteggia, incidentalmente, la sussistenza di “un obbligo in capo all’appaltatore, a fronte di un progetto che sia visibilmente contrario alle regole dell’arte, di individuarne le criticità e farle presenti al committente, rifiutandosi di realizzare un’opera che ad un professionista non possa non apparire non rispondente alle regole dell’arte.

L’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è infatti obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. In mancanza di tale prova, l’ appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori.: v. in questo senso Cass. n. 23594 del 2017.

L’ appaltatore, essendo tenuto alla realizzazione di un’opera tecnicamente idonea a soddisfare le esigenze del committente risultanti dal contratto, ha il conseguente dovere di rendere edotto il committente medesimo di eventuali obiettive situazioni o carenze del progetto, rilevate o rilevabili con la normale diligenza, ostative all’utilizzazione dell’opera ai fini pattuiti (Cass. n. 1981 del 2016).

sulla entità del risarcimento dovuto“Sotto il profilo della responsabilità contrattuale, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, il risarcimento del danno per inadempimento contrattuale deve comprendere sia la perdita subita dal creditore, sia il mancato guadagno, quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, al fine di ristabilire l’equilibrio economico turbato, mettendo il creditore nella stessa situazione economica nella quale si sarebbe trovato se il fatto illecito (inadempienza) non si fosse verificato, e, quindi, la somma liquidata a titolo di risarcimento deve essere equivalente all’effettivo valore dell’utilità perduta (Cass. n. 2458 del 1980; Cass. n 12578 del 1995).

Nel caso di specie, il danno effettivamente patito dal proprietario committente e che possa causalmente ricondursi all’operato del progettista è costituito dai costi di realizzazione dell’opera ( il muro) da questi progettata, inidonea all’uso, e dai costi necessari per l’eliminazione dei danni provocati, costituiti nel caso di specie nei consti necessari per l’eliminazione del predetto muro.

Diversamente opinando, ossia addebitando al ricorrente il costo integrale di realizzazione di un muro nuovo e avente caratteristiche tecniche differenti rispetto a quello progettato e realizzato, ovvero avente le effettive caratteristiche tecniche necessarie per poter svolgere una funzione di contenimento, per un verso si incorrerebbe nella violazione del principio per cui il risarcimento del danno deve tendere alla mera restitutio in integrum (art. 1223 c.c.), e per l’altro si accorderebbe al danneggiato un vantaggio indebito (in violazione dell’art. 2041 c.c.), consistente nell’ottenere un quid pluris rispetto alla sua situazione antecedente, ossia nel venire a fruire gratuitamente della realizzazione di un’opera.

In definitiva, il progettista, in conseguenza della sua errata progettazione, può essere chiamato a rispondere dei costi della progettazione e della realizzazione dell’opera che ha effettivamente progettato, del risarcimento dei danni a terzi eventualmente provocati dall’opera realizzata non a regola d’arte in conformità dell’errore nella progettazione (siano essi terzi estranei o, come in questo caso, lo stesso committente che ha dovuto rimuovere il muro inidoneo alla funzione di contenimento), ma non anche dei diversi costi di esecuzione dell’opera a regola d’arte, perché ciò non costituisce oggetto della prestazione pattuita, né è un danno conseguente all’illecito.”

sulla responsabilità dele diverse figure: Della responsabilità solidale di appaltatore e progettista o direttore dei lavori non si dubita: è consolidata affermazione nella giurisprudenza della Corte (da ultimo, Cass. n. 3651 del 2016), quella per cui in tema di responsabilità risarcitoria, contrattuale ed extracontrattuale, se l’unico evento dannoso è imputabile a più persone, è sufficiente, al fine di ritenere la solidarietà di tutte nell’obbligo al risarcimento, che le azioni e le omissioni di ciascuna abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse.

Pertanto nel caso di danno risentito dal committente di un opera, per concorrenti inadempimenti del progettista e dell’appaltatore, sussistono le condizioni di detta solidarietà, con la conseguenza che il danneggiato può rivolgersi indifferentemente all’uno o all’altro per il risarcimento dell’intero danno e che il debitore escusso ha verso l’altro corresponsabile azione per la ripetizione della parte da esso dovuta.”

sulla transazione conclusa con uno soltanto dei responsabili: ” in ordine al legame di solidarietà che lega i due professionisti, questa Corte ha recentemente puntualizzato (Cass. n. 23418 del 2016, che richiama la pronuncia a Sezioni Unite n. 30174 del 2011) che in presenza di una transazione tra il creditore ed uno dei debitori in solido, è anzitutto da accertare se la transazione abbia riguardato l’intero debito o, invece, abbia avuto ad oggetto unicamente la quota del debitore con cui essa è stata stipulata, riferendosi la previsione dell’art. 1304 c.c. alla prima fattispecie.

Mentre nel primo caso – transazione per l’intero – gli altri debitori possono dichiarare di volerne profittare, come previsto dalla menzionata disposizione, con l’effetto che anche per essi opera l’estinzione del debito, nel secondo caso – transazione pro quota – si determina lo scioglimento della solidarietà passiva unicamente rispetto al debitore che vi aderisce, corrispondentemente riducendosi il debito per gli altri.

La ratio di tale norma, allorché il negozio transattivo riguardi l’intero debito, risiede nella comunanza dell’oggetto della transazione, che consente al condebitore in solido di avvalersene, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e, quindi, in deroga al principio dell’art. 1372 c.c. secondo cui il contratto produce effetto solo tra le parti. Viceversa, tale fondamento non sussiste in presenza di una transazione interna per la singola quota, la quale non può coinvolgere gli altri condebitori, che non avrebbero alcun titolo per profittarne e per vedere estendere nei loro confronti l’effetto estintivo della obbligazione: ma, in ogni caso, ne consegue la riduzione del loro debito per effetto di quanto pagato dal debitore transigente. Nel nostro caso, all’accoglimento del motivo di ricorso consegue la caducazione dell’accertamento, contenuto nella sentenza impugnata, secondo la quale l’appaltatore avrebbe transatto non l’intero debito ma solo la quota di sua spettanza, ed anche la conseguente esclusione dell’applicabilità dell’art. 1304 c.c.

Deve al contrario affermarsi che, poiché nel caso di specie l’obbligazione risarcitoria del progettista comprende le stesse voci risarcitorie a carico dell’appaltatore, che sono comprese nell’accordo transattivo e coperte dalla transazione (pari ai costi sostenuti per la costruzione del muro, conforme al progetto ma inidoneo all’uso e per la sua eliminazione), il progettista si possa utilmente giovare – come richiesto fin dal primo grado – della transazione conclusa dal suo condebitore solidale onde ritenere estinta anche nei suoi confronti l’obbligazione risarcitoria”

© massimo ginesi 11 luglio 2018

abbattimento barriere architettoniche e tutela del diritto di proprietà

L’abbattimento delle barriere architettoniche è attività favorita dalla legge anche in condominio, dapprima con a L. 13/1989 e poi con una lettura giurisprudenziale che ha a lungo sottolineato come tali iniziative siano volte ad attuare la funzione sociale della proprietà prevista dall’art. 42 Cost.

In realtà tale favore (che il legislatore del 2012 nel novellare l’art. 1120 cod.civ. ha ridotto, aumentando i relativi quorum deliberativi) va contemperato con la tutela del diritto dei proprietari (ergo, dei condomini), che hanno comunque diritto di precludere l’installazione ove la stessa violi il disposto dell’art. 1120 u.c. cod.civ.

Ne deriva che se da un lato il diritto di proprietà  potrà subire una compressione  a fronte di uno scopo nobile come l’abbattimento delle barriere architettoniche, non sussiste affatto un diritto assoluto del disabile all’installazione di strumenti atti a migliorare la sua mobilità, sì che il giudice è tenuto a contemperare le due esigenze contrapposte con una lettura costituzionalmente orientata

E’ quanto emerge da un recente provvedimento Trib. Massa 6 giugno 2018 reso a conclusione di un procedimento ex art 702 bis c.p.c.

A scioglimento della riserva assunta all’udienza del 27 marzo 2018

Ritenuto che, con riguardo al petitum principale di cui al ricorso introduttivo, sia cessata la materia di contesa per ammissione della stessa attrice, posto che il condominio ha deliberato – in data successiva alla introduzione della causa – di non frapporre ostacoli all’installazione dell’ascensore.

Ritenuto tuttavia che debbano essere respinte le altre domande avanzate da parte attrice, per le ragioni che seguono.

Quanto alla richiesta di risarcimento del danno ex art 2043 e 2059 c.c., essa appare del tutto nuova ed avanzata solo all’udienza del 27 marzo 2018, come tale tardiva e inammissibile, posto che la sommarietà del rito non vale a mutare i principi generali delineati dall’art. 163 c.p.c., espressamente richiamato dall’art. 702 bis c.p.c.,di talchè si dovrà comunque ritenere vietata la mutatio libelli; a tal proposito il combinato disposto dagli artt. 702 bis e 702 ter c.p.c. indica un iter procedurale che non prevede momenti ulteriori, rispetto alla introduzione della domanda, in cui si possano o debbano precisare le conclusioni, posto che per la natura del rito e l’assenza di necessità istruttorie, la causa va in decisione (salvo la sussistenza di domande riconvenzionali e chiamateincausa)sugliassuntiinizialidelleparti;l’informalità individuata dall’art. 703 comma V c.p.c., che appare riferirsi unicamente al rito e alle attività istruttorie, appare inidonea a superare i parametri preclusivi che valgono nel rito ordinario circa l’integrazione e la modifica delle domande.

Allo stesso modo appare del tutto inammissibile la richiesta di condanna ex art 96 I comma c.p.c. poiché non è dato ravvisare alcuna posizione processuale ostativa o temeraria in colui che non si è costituito in giudizio, mentre – in forza di quanto si esporrà di seguito – non paiono ravvisabili neanche i presupposti per irrogare la condanna (ascrivibile ai c.d. indennizzi punitivi) ex art 96 III comma c.p.c.

Cessata la materia del contendere sulla installazione dell’ascensore, la ricorrente chiede di valutare la soccombenza virtuale del convenuto, onde ottenere condanna dello stesso alla refusione delle spese di questo giudizio, sull’assunto di una condotta ostativa del condominio che avrebbe gravemente violato e compromesso diritti costituzionalmente garantiti.

Tuttavia tale raffigurazione non può essere condivisa, così come non può ritenersi – dalla disamina delle delibere condominiali prodotte dalla stessa ricorrente – che la condotta del condominio abbia assunto valenza meramente ostruzionistica e defatigatoria.

Va infatti rilevato che, se da un lato i principi costituzionali espressi dagli artt. 32 e42 della carta fondamentale tutelano la salute e sottolineano la funzione sociale della proprietà, lo stabilire i modi in cui tale funzione potrà essere assolta è stato demandato dal legislatore costituzionale alla legge.

Al riguardo il testo di riferimento è senza dubbio la L. 13/1989 e, assai meno, il novellato art. 1120 c.c. che – rispetto a principi di rilevanza costituzionale, quali la tutela della salute e la solidarietà sociale, dei quali l’abbattimento delle barriere architettoniche rappresenta certamente un aspetto rilevante – ha inopinatamente innalzato nuovamente i quorum deliberativi per le innovazioni che perseguono tali fini, con ciò evidenziando una concorrente e rinnovata tutela anche del diritto dominicale.

Con riferimento all’odierno contendere non può inoltre dimenticarsi che – pur adottando una lettura ampia e guardando con maggior favore alle iniziative volte a predisporre meccanismi agevolativi per i disabili – lo stesso legislatore del 1989 ha finito per porre un limite assai prosaico ai dichiarati e perseguiti scopi sociali, mantenendo ferma l’applicabilità dell’art. 1120 comma IV c.c. con riferimento alle innovazioni vietate, sì che – infine – le esigenze di tutela sociale delle persone svantaggiate sotto il profilo motorio finisce per doversi confrontare sullo stesso piano con i parametri di tutela della proprietà (decoro architettonico dell’edificio, pari uso dei condomini, inviolabilità del diritto dominicale dei singoli), cedendo il passo ove tali valori – assolutamente privatistici e scevri di ogni connotazione solidaristica – ne risultino lesi.

Di talché non sussiste affatto un diritto assoluto e preminente del disabile ad installare in condominio strumenti di ausilio, sussistendo eventualmente una pretesa, da valutare in ottica ampia e alla luce dei principi costituzionali e primari sopra ricordati, e da raffrontare con i parimenti legittimi diritti (anch’essi costituzionalmente garantiti) dei singoli condomini titolari dei correlativi diritti reali.

In una lettura del diritto di proprietà costituzionalmente orientata, ai sensi dell’art. 42 Cost., volta a contemperare il diritto soggettivo dei singoli condomini con la funzione sociale che i loro beni sono chiamati a svolgere, i giudici di legittimità hanno sempre dato interpretazione ampia alle facoltà del singolo di comprimere il diritto di  godimento al fine di realizzare opere volte all’abbattimento delle barriere architettoniche, dovendosi tuttavia tale facoltà arrestare ove quella compressione si traduca in una lesione della effettiva possibilità di utilizzo del bene comune o individuale, lesione che può essere integrata anche da una significativa compromissione estetico/funzionale (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 14 settembre 2017 n. 2133)

Il fatto che la ricorrente intendesse procedere in via autonoma all’installazione dell’ascensore, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ, non sottrae il suo operato alla valutazione testè menzionata, che la giurisprudenza ha delineato per gli interventi innovativi decisi dalla maggioranza, mutando – ove proceda il singolo – solo l’imputazione della spesa ma non i criteri generali che sovraintendono alla esecuzione dell’opera.

In tal senso è infatti orientato l’art. 1122 cod.civ., specie dopo l’intervento del legislatore del 2012, che è volto proprio a consentire al condominio e ai condomini di conoscere tali modalità onde attivarsi tempestivamente per farvi fronte ove le ritengano lesive dei diritti comuni o dei singoli; non è infatti prevista la necessità di alcuna autorizzazione assembleare per intervenire ai sensi dell’art. 1102 c.c,  restando tuttavia salva la possibilità dell’amministratore o dei singoli di reagire ad eventuali iniziative che ritengano vietate o comunque illecite.

A tale attività di valutazione e comparazione pare essere improntata la condotta del condominio, poiché dalle delibere (in particolare 1.7.2017 e 23.9.2017) emerge una ampia dialettica fra le parti, volta non già ad impedire alla R. di installare l’impianto quanto a salvaguardare il decoro e la fruibilità dell’edificio condominiale e delle parti comuni soggette alla installazione.

Dalla documentazione prodotta dalla ricorrente non emerge una volontà prettamente ostruzionistica del condominio, quanto piuttosto un’attenzione della compagine condominiale a rendere l’intervento meno invasivo possibile, suggerendo eventuali soluzioni alternative quali il servoscala (anche interno, come prospettato alla assemblea del 23.9.2017, rifiutato dalla ricorrente per generiche ragioni di salute).

A tal proposito non può essere ritenuta esaustiva e dirimente né la documentazione prodotta dalla ricorrente che rimane mero atto di parte (tanto più che la stessa non ha neanche ritenuto di allegare gli elaborati grafici e progettuali dei propri tecnici), posto che era comunque pieno diritto del condominio valutare se non sussistessero alternative ugualmente soddisfacenti delle necessità della ricorrente: non appare infatti necessario – per assolvere al superamento delle barriere architettoniche – l’installazione della miglior soluzione possibile, potendo essere utilmente adottabile anche soluzioni alternative che siano volte “quantomeno ad attenuare e non necessariamente ad eliminare – le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione” (Cass. Civ. sez. II 6 giugno 2018 n.14500).

Né appare convincente e del tutto pertinente la certificazione medica che sconsiglia l’uso di servoscala, in quanto da una parte generica e sfornita di qualunque motivazione (certificato Dr. C 18.1.2018) e, dall’altra, sorretta da valutazione del tutto ipotetica, che peraltro non spiega per quale ragione l’ascensore sarebbe di diversa utilità e di maggior protezione rispetto al montascale (certificato dr. M 12.1.2018).

Va rilevato che la certificazione allegata dalla stessa ricorrente indica patologie ed esiti diagnostici che paiono presupporre un costante accompagnamento, sì che non si comprende quale aggravamento del rischio porterebbe l’adozione di un servoscala, mentre alcuna valenza possono avere i maggiori costi di manutenzione e la più rapida deteriorabilità di tale impianto, lamentati dalla R, ove lo stesso risulti idoneo adassolvere all’ausilio per la mobilità e, al contempo, salvaguardi maggiormente i beni e diritti comuni.

Ancora meno convincenti appaiono le osservazioni della difesa di parte attrice relative a problemi atmosferici per l’utilizzo del montascale, posto che – come si è già rilevato – laricorrentepareaverrifiutatoanchequello internoechein ogni caso la stessa afferma di trascorrere “ i mesi caldi da aprile a settembre presso l’appartamento di cui trattasi”, periodo in cui l’eventualità di avversità atmosferiche appare tendenzialmente di scarsa rilevanza ed incidenza.

Dai documenti allegati al ricorso non si evince dunque la volontà meramente ostruzionistica né la totale infondatezza delle obiezioni del condominio, che paiono invece rispondere al legittimo esercizio di un diritto derivante dal combinato disposto dagli artt. 1102 e 1122 c.c., sì che le ragioni in forza delle quali oggi la ricorrente richiede la condanna del condominio appaiono fondate su mere e unilaterali affermazioni di parte, così come mere allegazioni di parte inidonee a costituire prova, appaiono le osservazioni tecniche (doc.20) prodotte che, in assenza dei relativi progetti, rendono in questa sede impossibile qualunque valutazione oggettiva sulla incidenza dell’impianto.

L’onere della prova circa i fatti costitutivi della pretesa azionata incombeva comunque alla ricorrente, anche ai soli fini della valutazione circa la soccombenza virtuale, onere che non si può ritenere assolto.

Il deliberato finale del condominio in data 10.3.2018 non potrà, come invece pretende l’attrice, essere ritenuto indicativo di alcun riconoscimento o della fondatezza della domanda, poiché quella decisione assembleare appare piuttosto una ponderata scelta che oscilla fra valutazioni di carattere patrimoniale sulla prosecuzione del contenzioso e ragioni di opportunità e disponibilità nell’ambito dei normali rapporti interpersonali  e condominiali, laddove si riconosce “ a malincuore” e per “la volontà di chiudere definitivamente l’annosa questione” la possibilità di procedere alla installazione secondo una delle soluzioni indicate, con materiali a minor impatto esteticopossibile.

Ai fini della valutazione della condotta delle parti non appare significativa neanche l’offerta della ricorrente – dalla stessa più volte indicata quale mero atto di disponibilità personale – di far subentrare in futuro eventuali condomini che desiderassero utilizzare l’impianto, essendo ciò specifico obbligo previsto dall’art. 1121 III commac.c

E’ di intuitiva evidenza, infine, che la scelta del Condominio di non resistere in giudizio non significa necessariamente che lo stesso si sia riconosciuto ex ante soccombente né vale ad invertire alcun onere della prova, rimanendo la contumacia  condotta  a valenza neutra (Cass. Civ. sez. VI 24 febbraio 2017 n. 4871), tanto più alla luce della natura della domanda proposta dalla attrice, che presuppone “un’azione di accertamento del … diritto di servirsi della cosa comune nei limiti consentitidall’art. 1102 C.C.; e nella causa da loro promossa legittimi contraddittori potevano essere soltanto quei condomini che tale diritto avevano contestato, e non necessariamente tutti i condomini o il condominio” (Cass. Civ. sez. II 12 febbraio 1993 n. 1781)

Non paiono dunque sussistenti, neanche a livello virtuale, le ragioni che possono condurre ex art. 91 c.p.c. ad una condanna alle spese del convenuto, in assenza di prova da parte del ricorrente dei fatti costituitivi della propria pretesa iniziale P.Q.M. Visti gli artt. 702 bis e segg. c.p.c. Dichiara cessata la materia del contendere sulla domanda principale relativa alla installazione dell’ascensore. Respinge ogni altra domanda della ricorrente.”

sul tema possono essere ancora interessanti  e non superate le riflessioni di approfondimento svolte in un ormai lontano convegno presso  il Politecnico di Torino.

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© massimo ginesi 15 giugno 2018

installazione dell’ascensore e servitù di passo: è sufficiente la conservazione della utilità per il fondo dominante a rendere lecita l’opera

Una lunga e argomentata ordinanza (Cass.Civ. sez. II 6 giugno 2018 n. 14500 rel. Scarpa)  che affronta il tema del bilanciamento di interessi fra fondo servente e fondo dominante, ai sensi dell’art. 1067 cod.civ.  e alla luce della rilevanza sociale delle innovazioni volte all’abbattimento delle barriere architettoniche.

Un condominio installa un ascensore esterno, che restringe la servitù di passo costituita a favore del fondo dominante, rimanendo tuttavia l’ampiezza del passaggio idonea all’esercizio della servitù.

In tal caso, pur avuto riguardo alla meritevolezza della innovazione, è sufficiente  l’applicazione della norma civilistica derivante dal  giudizio di fatto sulla conservazione dev’utilità per il fondo dominante, espresso  dal giudice di merito, circostanza che rende irrilevante ogni altra valutazione sulla opportunità della innovazione o sulla possibilità di realizzarla in luoghi e con modalità diverse.

i fatti ed il processo: “La Corte d’Appello di Torino ha accolto l’appello del Condominio S R contro la pronuncia di primo grado resa 1’11 febbraio 2010 dal Tribunale di Alessandria, sezione distaccata di Novi Ligure.

Il Tribunale era stato adito con citazione del 22 marzo 2006 da R, G, R A e S Ad, titolari di servitù di passaggio pedonale e  carrabile sulla strada di proprietà del Condominio S R di Novi Ligure (come da titolo costitutivo del condominio stesso del 4 gennaio 1966), i quali lamentarono la costruzione in adiacenza alla parete dell’edificio condominiale di un ascensore esterno che aveva ridotto il passaggio in questione da m. 4,15 a m. 2,50.

La sentenza di primo grado ravvisò la violazione dell’art. 1067 e.e. a causa del restringimento del transito provocato dall’ascensore, anche interpretando la norma in esame  in senso costituzionalmente orientato alla luce dell’esigenza del condominio convenuto di eliminare  le barriere architettoniche. Il Tribunale argomentò come, in forza dell’espletata CTU, un’analoga opera, adeguata alla tutela dei portatori  di handicap, poteva essere realizzata lungo la parete posta sul retro dell’edificio condominiale, senza scarificare il diritto reale degli attori.

La Corte d’appello, adita con gravame dal Condominio S R, ravvisata la sussistenza della servitù imposta sull’area condominiale nell’atto del 4 gennaio 1966, affermò, in riforma della sentenza di primo grado, che la collocazione dell’ascensore nell’area gravata da servitù di passaggio in favore dei signori Ad, aventi causa del comune venditore geometra C, fosse l’unica soluzione praticabile idonea ad eliminare le barriere architettoniche.

La soluzione alternativa, emersa dalla CTU e consistente nell’installare l’impianto sul retro dell’edificio condominiale, venne ritenuta inadeguata sia per l’ubicazione del sito e la realizzabilità dell’intervento (possibile presenza di condutture interrate, ostacolo all’ingresso in un box di proprietà esclusiva di terzi), sia per le difficoltà di  raggiungimento dell’ascensore da persone in condizioni di inabilità fisica (accesso dalla via pubblica e dal cortile interno servendosi di percorso più lungo e ricoperto da ghiaia, oppure tramite l’atrio comune ed il “locale biciclette”). Inoltre, ritennero i giudici di secondo grado, l’installazione dell’ascensore nel lato del cortile interno avrebbe avuto costi molto elevati, avrebbe compromesso la facciata del fabbricato   ed  avrebbe  creato   nuovi  ingressi  dall’esterno  nei balconi di proprietà esclusiva, i quali avrebbero dovuto essere   allungati con  la  creazione  di ballatoi  e muniti  di cancelletti  o di porte per motivi di sicurezza.

La sentenza impugnata, in definitiva, escluse la violazione dell’art. 1067 e.e., in quanto il restringimento del  passaggio  oggetto  di servitù da  m. 4, 15 a m. 2,50 di larghezza consente comunque il passaggio di autoveicoli di tale ultima dimensione  ed impedisce  unicamente la manovra di inversione di marcia.”

i principi espressi dal giudice di legittimità: “Tutti i motivi si incentrano sull’ambito di applicazione  dell’art. 1067, comma 2, cod.civ. , a norma  del  quale  il  proprietario  del fondo servente (nella specie, il Condominio SR) non  può compiere alcuna cosa che  tenda  a diminuire  l’esercizio della servitù o a renderlo più incomodo (e ciò con riguardo al passaggio sulla porzione censita al mappale 489,  foglio 27, Comune  di Novi Ligure, di proprietà  Condominio  S R,          servitù     costituita     con   atto del 4 gennaio 1966  in  favore  dell’attuale     proprietà     Ad).    

L’art.     1067,   comma     2, cod.civ.  esclude perciò la facoltà del proprietario del fondo servente di eseguire opere che, incidendo sull’andatura e sull’estensione della servitù, riducano la possibilità per il proprietario del fondo dominante di trarre dalla stessa servitù la più ampia utilitas assicurata dal titolo.

Conseguentemente, per interpretazione consolidata di questa Corte, in tema di servitù di passaggio, non comporta diminuzione dell’esercizio della servitù l’esecuzione di opere, ovvero la modifica dello stato dei luoghi che, pur riducendo la larghezza dello spazio di fatto disponibile a tal fine, la conservino, tuttavia, in quelle dimensioni che non comportino una riduzione o una maggiore scomodità dell’esercizio delle servitù (cfr. Cass. Sez. 2, 03/11/1998, n. 10990; Cass. Sez. 2, 19/04/1993, n. 4585).

L’indagine sulla natura, sull’entità e perciò sulla rilevanza delle innovazioni  o delle  trasformazioni  apportate  nel  fondo servente, e sul correlativo pregiudizio derivabile dalle stesse al fondo dominante, con riferimento all’art 1067, comma 2, cod.civ. , costituisce apprezzamento di fatto spettante  al  giudice  del merito (e qui compiutamente operato dalla Corte d’Appello di Torino), apprezzamento sindacabile in  sede  di  legittimità soltanto nell’ambito del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n.  5,  c.p.c. 

Ai fini del giudizio di liceità,  ex art. 1067, comma  2, cod.civ. , degli atti di godimento compiuti dal proprietario del  fondo  servente sullo stesso, non rileva perciò in alcun senso la valutazione (propria invece, ad esempio, dell’art. 1051 e.e., in tema di imposizione del passaggio coattivo) circa la praticabilità di soluzioni alternative, più o meno convenienti,  oppure  più  o meno comode, quanto la verifica dell’incidenza di tali atti sul contenuto essenziale dell’altrui diritto  di  servitù. 

Tale conclusione vale da sola a privare di “decisività” (ovvero del carattere di astratta idoneità a  determinare  un  esito  diverso della controversia) la circostanza, su cui poggiano i primi due motivi di ricorso, della  mancata  considerazione che l’installazione di un servo scala a partire da  piano  terra  e  per tutti i piani sarebbe stata comunque in grado di superare le barriere architettoniche.

L’opera  realizzata  sul  fondo  servente, in sostanza, non viola l’art. 1067, comma 2, cod.civ., sol perché altrove  realizzabile   dal  proprietario  dello stesso con uguale comodità econvenienza.

Piuttosto,   si   è  in   passato   sostenuto  in   giurisprudenza che, qualora il proprietario di un fondo gravato da una servitù di passaggio proceda ad opere di ristrutturazione incidenti sull’esercizio della servitù, il giudice non potrebbe ritenere giustificata la trasformazione solo in considerazione della dinamica dei rapporti e dell’evolversi delle situazioni sociali, dovendo comunque vagliare  la  compatibilità  della trasformazione con il libero e comodo ingresso che l’art. 1067, comma 2, cod.civ.  vuole garantito al titolare del diritto di passaggio (Cass. Sez. 2, 29/08/1990, n. 8945).

Ancora più risalente, ma tuttora attuale, è il precedente di questa Corte secondo cui non possono comunque ritenersi compresi nel divieto posto dall’art. 1067, comma 2, cod.civ.  quegli atti che, restando contemperate le esigenze del fondo dominante con quelle del fondo servente, rappresentino l’esercizio compiuto civiliter dal proprietario delle facoltà di godimento del fondo servente stesso, facoltà che l’esistenza della servitù non può totalmente  elidere  (Cass.  Sez. 2, 03/01/1966, n. 10).

Tra tali facoltà di godimento del fondo servente, che il diritto di passaggio su esso gravante non può obliterare, vi sono certamente, come argomentato dalla Corte d’Appello di Torino, anche (o soprattutto) quelle finalizzate a consentire una piena accessibilità alla casa di  abitazione  da parte di qualsiasi portatore di handicap o persona con ridotta capacità motoria.

Questa Corte ha già  chiarito  come  la pronuncia della Corte costituzionale n. 167 del 1999 abbia  imposto   un   mutamento    di  prospettiva,   in   forza   del  quale l’istituto  della  servitù  di  passaggio   non  è  più  limitato  ad  una visuale dominicale e produttivistica, ma è proiettato in una dimensione  dei valori  della persona,  di  cui agli art.  2 e 3 Cost., che permea di sé anche lo statuto dei beni ed i rapporti patrimoniali in generale (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14103; si vedano anche Cass. Sez. 2, 28/01/2009, n. 2150; Cass. Sez.  2, 16/04/2008, n.10045).

La Corte d’Appello di Torino ha apprezzato in fatto, aderendo alle conclusioni del CTU, che il restringimento del passaggio destinato all’esercizio     della servitù  da  m.  4,15  a  m. 2,50, cagionato dall’ingombro dovuto alla costruzione dell’impianto di ascensore, conserva comunque il diritto reale dei proprietari  del fondo dominante in dimensioni che non compromettono significativamente l’esercizio dello stesso.

Allo stesso tempo, l’impianto di ascensore realizzato dal Condominio S R appaga le esigenze          di accessibilità  del     fabbricato,   pur necessitando dell’installazione  di  un  servoscala  al     piano intermedio per il collegamento con il pianerottolo di ingresso delle singole abitazioni.

Questa Corte ha altresì precisato come la meritevolezza di un  intervento innovativo consistente nell’installazione di un ascensore allo scopo di eliminare le barriere architettoniche vada valutata in termini di  idoneità dello  stesso  quantomeno ad attenuare e non necessariamente ad eliminare – le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione (Cass. Sez. 6-2, 09/03/2017, n.  6129);     sicché   nessuna inconciliabilità o implausibilità affligge le argomentazioni adoperate dalla Corte d’Appello nel valutare la piena funzionalità dell’impianto di ascensore in concreto allestito dal Condominio SR, pur necessitante di un servo scala per il collegamento con i pianerottoli.

Poiché, infine, la  sentenza  impugnata,  rigettando  la  domanda di R, G, R A e S A, ha escluso che il Condominio S R avesse violato il  divieto sancito  dal  capoverso  dell’art  1067 cod.civ. , in quanto l’opera realizzata sul fondo servente non ha ingenerato alcuna permanente riduzione dell’esercizio della servitù di passaggio, la pronuncia resa dalla Corte d’Appello di Torino non ha comportato affatto una modifica dell’originaria servitù convenzionale costituita  con  atto  del  4  gennaio  1966, né pertanto occorreva una apposita domanda giudiziale del Condominio, o una convenzione scritta, ex art. 1350,  n. 4, e.e.,  le quali, invero, si impongono soltanto per i mutamenti  di esercizio che implicano variazioni nel contenuto della servitù medesima”

© massimo ginesi 7 giugno 2018 

 

mediazione, un tema controverso: alcune considerazioni sulla partecipazione personale e sulla procura a terzi.

Una recente sentenza apuana (Trib. Massa 29 maggio 2018 n. 398)  affronta alcuni aspetti relativi al procedimento di mediazione, tema a tutt’oggi di grande fermento nella giurisprudenza merito  e di legittimità

In particolare una delle parti eccepiva la mancata partecipazione dell’avversario al procedimento, poichè costui, legale rappresentante di una società di capitali, dopo il primo incontro – cui aveva preso personalmente parte – aveva delegato altro soggetto a proseguire nel procedimento.

Parte opposta eccepisce in via preliminare l’improcedibilità della opposizione, affermando che  non sarebbe stato ritualmente espletato il procedimento di mediazione  per la mancata partecipazione personale della parte opponente.

L’eccezione è infondata.

Ancor prima di verificare se si tratti di procedimento sottoposto obbligatoriamente alla condizione di procedibilità anzidetta, va osservato che la partecipazione di S. s.p.a. al procedimento di A.D.R. appare conforme alla normativa vigente che, ad avviso di questo giudice, deve essere valutata sia con riguardo ai fini che la stessa si prefigge e alle modalità tipiche ed idonee a perseguire tali fini (il confronto diretto fra le parti), senza che si possa tuttavia  prescindere da una lettura costituzionalmente orientata di tale peculiare condizione di procedibilità, poiché una visione eccessivamente rigida o formalistica del fenomeno potrebbe finire per precludere, o comunque intaccare, il diritto costituzionale di difesa garantito dall’art. 24 della carta fondamentale. 

Il dibattito sul tema ha assunto le più diverse connotazioni nella giurisprudenza di merito, sì che oggi è dato rinvenire più orientamenti che vanno da posizioni assai minoritarie che ritengono necessaria la presenza sia dell’avvocato che della parte personalmente, senza che costei possa in alcun modo delegare ad altri la partecipazione (Trib. Pordenone 10/3/2017), a visioni più flessibili,  e che appaiono di maggior diffusione, in cui si  ammette la possibilità della parte di farsi rappresentare nella mediazione da un procuratore speciale, pur escludendo che tale potere possa essere conferito al difensore ( Trib. Firenze 19/3/2014; Trib. Palermo 23/12/2016; tali pronunce traggono dal dato letterale dell’articolo 8 D.Lgs. n. 28/2010 – ove si afferma che “le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato” – la conseguenza che il difensore non possa cumulare in sé anche la posizione di parte, seppur in forma di delegato); non sono infine mancate posizioni in giurisprudenza, e più largamente in dottrina, che con argomentazioni non prive di pregio e suggestione hanno comunque ritenuto che nulla osti a che l’avvocato cumuli la posizione di difensore e di procuratore speciale della parte sostanziale (Trib. Verona  11 maggio 2017, in Dottrina, con ampia rassegna Morlini, “Mediazione e possibilità di partecipare al procedimento con procura speciale al proprio difensore” In Persona & Danno a cura P.Cendon 2017).

Il tema di cui si è fatto cenno è solo parzialmente contiguo a quello oggetto dell’odierno contendere, poiché nel caso di specie è pacifico che il legale rappresentante di S. (rectius, uno dei) abbia partecipato al primo incontro dinnanzi al mediatore e che, ai successivi, abbia partecipato un terzo soggetto, munito di procura speciale rilasciata da costui.  

Gli elaborati giurisprudenziali e dottrinali richiamati, tuttavia, pur se parzialmente attinenti al diverso tema della procura sostanziale rilasciata al difensore, paiono funzionali anche alla soluzione della questione sollevata oggi dall’opposto circa la procedibilità, poiché – salvo il più restrittivo – tutti ammettono, con ragioni che si ritiene di condividere, la possibilità di delegare ad un terzo soggetto il potere sostanziale di partecipare al procedimento (e quindi di conciliare la lite), esito interpretativo peraltro del tutto conforme ai principi fondamentali del nostro ordinamento in tema di mandato (art. 1392 c.c.), pacificamente ritenuti applicabili anche alla transazione (Cass. civ. Sez. III 27 gennaio 2012 n. 1181) e che appaiono del tutto conformi e funzionali anche allo spirito del D.Lgs 28/2010. 

Se lo scopo dichiarato della mediazione è quello enunciato programmaticamente all’art. 1 del testo normativo che la istituisce e la definsce come : “ l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”, non può non ritenersi che la partecipazione di un soggetto cui siano stati demandati dal titolare tutti i poteri sostanziali di gestione della situazione giuridica soggettiva oggetto di  lite sia più che sufficiente a consentire al mediatore di esperire tutti i possibili tentativi di componimento bonario, sollecitando ogni distretto anche metagiuridico, personale e/o patrimoniale che la parte titolare del diritto di disporre di quella situazione – anche su delega –  può utilmente attivare.

Ovviamente non potrà avere alcun rilievo, al fine di valutare la sussistenza della procedibilità, che la società abbia tre amministratori e, tuttavia, abbia preferito delegare un terzo, poiché, una volta ritenuto legittimo il conferimento di tale potere, non è dato al giudice sindacare le scelte amministrative e difensive della parte sotto il profilo della opportunità (va rilevata l’irritualità e tardività, con conseguente inammissibilità, dei documenti prodotti a tal fine dall’opposto  con la memoria difensiva finale). 

Va inoltre sottolineato che due dei presupposti su cui si fonda la sollevata eccezione appaiono erronei anche sotto il profilo letterale e non trovano corrispondente alcuno nel dato normativo testuale ad oggi vigente; sembra del tutto non condivisibile negare valenza alcuna al primo incontro dinanzi al mediatore, ritenendo che lo stesso abbia mero carattere informativo e che la partecipazione personale della parte debba essere considerata solo dal secondo incontro, poiché solo tale evento deve ritenersi quello in cui inizia il relativo procedimento: tale immotivata e apodittica tesi, avanzata dall’opposto,  è contradetta da quanto prevede l’art. 8 comma 1 D.lgs 28/2010 “Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento.”

La norma certamente prevede la possibilità (che pare essere quella fisiologica) di fissare più incontri successivi, ma certo non prevede o presuppone che il primo incontro abbia mera valenza informativa, né – tantomeno – esclude che in tale sede la mediazione possa avere inizio o addirittura compiuto svolgimento, sì che la partecipazione del legale rappresentante di Supermatic a tale primo incontro già elide l’eccezione di mancata partecipazione della parte.

Quanto agli incontri successivi, cui per le ragioni anzidette, si ritiene potesse legittimamente partecipare un mandatario speciale della parte, appare destituita di fondamento anche l’eccezione che costui dovesse essere necessariamente munito di procura notarile, poiché tale dato urta con quanto disposto dall’art. 1392 c.c. né trova alcuna previsione positiva (che, peraltro, parte opposta non indica) nelle norme in tema di mediazione.

Né si comprende (poiché l’opposto pare assumerlo come postulato, senza fornire in proposito alcuna utile argomentazione) per quale ragione – aldilà degli aspetti formali connessi al combinato disposto dagli artt. 1392 e 1350 c.c., che qui non ricorrono – la procura notarile dovrebbe avere maggior efficacia sotto il profilo sostanziale della procura comunque conferita in forma scritta e pacificamente prodotta in sede di mediazione dal mandatario di S.”

© massimo ginesi 30 maggio 2018  

 

legittimazione processuale amministratore. Quando la causa esula dalle sue competenze: un caso particolare e una significativa sentenza della Cassazione.

 

La corte di legittimità (Cass.Civ. sez. II 21 maggio 2018, n. 12525 rel. Scarpa) torna su un tema tormentato e complesso, che – sotto il profilo dei principi – ha trovato una definitiva consacrazione nelle sezioni unite 18331/2010 e che, tuttavia, continua a manifestare una complessità applicativa che non sempre consente all’amministratore o ai condomini di percepire la correttezza del loro operato.

La Corte – coordinando due pronunce a sezioni unite – esprime un concetto di significativo e pericoloso rilievo per il condominio: il criterio  espresso dalle sezioni unite del 2010,  ovvero la possibilità che – per le controversie che esulano dalla competenza dell’amministratore e in assenza di delibera – venga assegnato un termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c. per munirsi della ratifica assembleare vale anche in sede di legittimità, ma solo ove  il rilievo della carenza di legittimazione autonoma sia compiuto dal Giudice, poichè ove sia eccepito dalla controparte la sussistenza del potere rappresentativo processuale dovrà essere immediatamente giustificata dall’amministratore.

Nè si può ritenere, afferma la corte, che l’opposizione a decreto ingiuntivo rientri di per sé nei poteri dell’amministratore, poichè anche tali controversie vedranno una legittimazione autonoma di tale figura ratione materiae, ovvero secondo le  attribuzioni previste dall’art 1130 c.c.

I fatti: “Il Condominio (omissis) ha proposto ricorso in cassazione articolato in sette motivi avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 2921/2013, depositata il 21 maggio 2013.
Resiste con controricorso R.S. , il quale propone ricorso incidentale in unico motivo, dal quale a sua volta si difende con controricorso il Condominio (omissis) .
La Corte d’Appello accolse il gravame di R.S. contro la sentenza del Tribunale di Rieti n.576/2005 e rigettò perciò l’opposizione proposta dal Condominio (omissis) contro il decreto ingiuntivo per la somma di Euro 11.298,33, emesso il 25 febbraio 2002 su domanda del R. , ex amministratore condominiale, a titolo di compenso aggiuntivo per la cura dei lavori straordinari. La Corte di Roma superò l’eccezione del difetto di legittimazione del Condominio a proporre l’opposizione a decreto ingiuntivo, stanti i tempi ristretti per proporre la stessa. Quanto però al merito, i giudici di appello ritennero che dal verbale di assemblea del 14 marzo 1999 emergessero un riconoscimento del debito del Condominio in favore del R. di Lire 22.000.000, nonché una riduzione transattiva dell’importo del 50%, quale “gesto di collaboratrice sensibilità” dell’ex amministratore, con l’impegno del Condominio stesso di accreditare la somma nelle future quote “a copertura” del debito viceversa gravante sul R. . Questo accordo transattivo contenuto nel verbale del 14 marzo 1999 non poteva perciò essere modificato dall’assemblea nell’adunanza del 1 maggio 1999, che invece deliberò una riduzione della somma da accordare al R. , liquidata in Lire 8.000.000. Avendo poi il Condominio (omissis) azionato decreto ingiuntivo contro il R. , questo, a dire della Corte di Roma, ritenne “correttamente annullato l’accordo transattivo”, e perciò richiese a sua volta in via monitoria l’intera somma oggetto di riconoscimento nel verbale 14 marzo 1999.”

Le parti hanno articolato diversi motivi di censura in sede di legittimità, tuttavia: “Il Collegio antepone tuttavia una valutazione di tipo pregiudiziale.

Secondo l’insegnamento reso da Cass. Sez. U, 06/08/2010, n. 18331, l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni, ed essendo però tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e 3, c.c., può costituirsi in giudizio ed impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.

Nel ricostruire la portata dell’art. 1131, comma 2, c.c., Cass., sez. un., 6 agosto 2010, n. 18331, ha invero affermato che, ferma la possibilità dell’immediata costituzione in giudizio dell’amministratore convenuto, ovvero della tempestiva impugnazione dell’amministratore soccombente (e ciò nel quadro generale di tutela urgente di quell’interesse comune che è alla base della sua qualifica e della legittimazione passiva di cui è investito), non di meno l’operato dell’amministratore deve poi essere sempre ratificato dall’assemblea, in quanto unica titolare del relativo potere. La ratifica assembleare vale a sanare retroattivamente la costituzione processuale dell’amministratore sprovvisto di autorizzazione dell’assemblea, e perciò vanifica ogni avversa eccezione di inammissibilità, ovvero ottempera al rilievo ufficioso del giudice che abbia all’uopo assegnato il termine ex art. 182 c.p.c. per regolarizzare il difetto di rappresentanza.

La regolarizzazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., in favore dell’amministratore privo della preventiva autorizzazione assembleare, come della ratifica, può operare in qualsiasi fase e grado del giudizio, con effetti “ex tunc” (Cass. Sez. 6 – 2, 16/11/2017, n. 27236).

Peraltro, come di seguito ribadito da Cass. Sez. 2, 23 gennaio 2014, n. 1451, e da Cass. Sez. 2, 25/05/2016, n. 10865, la necessità dell’autorizzazione o della ratifica assembleare per la costituzione in giudizio dell’amministratore va riferita soltanto alle cause che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e 3, c.c.

Non può dunque sostenersi, come fatto dalla Corte d’Appello di Roma sul presupposto dell’urgenza dell’opposizione, che, poiché l’opponente a decreto ingiuntivo ha la posizione processuale di convenuto e così di legittimato passivo rispetto alla pretesa azionata con il ricorso monitorio, e tale posizione non muta nei successivi gradi del giudizio, indipendentemente dall’iniziativa dei mezzi di gravame adoperati, l’amministratore di un condominio che proceda a siffatta opposizione, nonché alla successiva impugnazione della pronuncia che l’abbia decisa, non ha, per ciò solo, necessità dell’autorizzazione dell’assemblea condominiale, a termini del secondo comma dell’art. 1131 c.c.

Piuttosto, l’amministratore di condominio può proporre opposizione a decreto ingiuntivo, e altresì impugnare la relativa decisione del giudice di primo grado, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, ad esempio, nella controversia avente ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio dal terzo creditore in adempimento di obbligazione assunta dal medesimo amministratore nell’esercizio delle sue attribuzioni in rappresentanza dei partecipanti, ovvero dando esecuzione a deliberazione dell’assemblea o erogando le spese occorrenti per la manutenzione delle parti comuni o per l’esercizio dei servizi condominiali, e quindi nei limiti di cui all’art. 1130 c.c. (così Cass. Sez. 2, 03/08/2016, n. 16260).

Diversa è la causa, quale quella in esame, in cui il precedente amministratore, cessato dall’incarico, agisca in sede monitoria nei confronti del nuovo amministratore del condominio per ottenerne la condanna al pagamento del compenso suppletivo inerente all’attività svolta con riguardo all’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’edificio. Si tratta di controversia non rientrante tra quelle per le quali l’amministratore è autonomamente legittimato ad agire ai sensi dell’art. 1130 e 1131 c.c., sicché, ai fini della sua costituzione in giudizio come della proposizione delle impugnazioni, gli occorre l’autorizzazione assembleare, eventualmente richiesta anche in via di ratifica del suo operato (cfr. per analoga fattispecie Cass. Sez. 2, 31/01/2011, n. 2179).

Il Collegio ritiene tuttavia, per ciò che segue, di discostarsi da quanto disposto nell’ordinanza interlocutoria del 27 settembre 2017, e così di revocare la stessa, ai sensi dell’art. 177 c.p.c., norma applicabile anche al giudizio di cassazione (cfr. Cass. Sez. 2, 11/02/2011, n. 3409; Cass. Sez. L, 26/03/1999, n. 2911; Cass. Sez. U, 25/03/1988, n. 251).

Secondo quanto stabilito da Cass. Sez. U, 04/03/2016, n. 4248, il difetto di rappresentanza o autorizzazione può essere sanato ex art. 182 c.p.c. (come nella specie) in sede di legittimità, dando prova della sussistenza del potere rappresentativo o del rilascio dell’autorizzazione, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., sempre che il rilievo del vizio nel giudizio di cassazione sia officioso, e non provenga dalla controparte, come invece appunto qui fatto dal controricorrente R.S. , giacché, in tal caso, l’onere di sanatoria sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine da parte del giudice (a meno che lo stesso non sia motivatamente richiesto, il che neppure risulta avvenuto, nella specie), in quanto sul rilievo di parte l’avversario è chiamato prima ancora a contraddire (si veda già Cass. Sez. 2, 31/01/2011, n. 2179).

IV. Deve perciò essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dall’amministratore del Condominio (omissis) senza l’autorizzazione assembleare, trattandosi di controversia riguardante un credito per compenso straordinario preteso dal precedente amministratore cessato dall’incarico, e perciò non rientrante tra quelle per le quali l’amministratore è autonomamente legittimato ai sensi degli artt. 1130 e 1131 c.c.; né può essere concesso il termine per la regolarizzazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., atteso che il rilievo del vizio in sede di legittimità è stato operato dalla controparte nel suo controricorso, e non d’ufficio, sicché l’onere di sanatoria dell’amministratore ricorrente doveva intendersi sorto immediatamente.

Il ricorso incidentale di R.S. , giacché proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, e relativo a questioni preliminari di merito e pregiudiziali di rito (quale, nella specie, il difetto di legittimazione processuale del condominio e la carenza dei poteri rappresentativi del nuovo amministratore), oggetto di decisione esplicita da parte della Corte d’Appello, ha natura di ricorso condizionato all’accoglimento del ricorso principale, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte. Ne consegue che, attesa l’inammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale rimane assorbito per difetto di attualità dell’interesse.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza (con condanna del Condominio (omissis) , e non dell’amministratore personalmente, ex art. 94 c.p.c., avendo comunque l’assemblea, sia pure tardivamente agli effetti dell’ammissibilità del ricorso, ratificato l’operato dell’amministratore stesso) e vengono liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente R.S. .”

© massimo ginesi 23 maggio 2018 

 

parcheggi vincolati e obblighi del venditore: ancora una sentenza della Cassazione su un tema assai controverso.

Cass.Civ.  sez. II 8 maggio 2018 n. 11141 ritorna su un tema complesso e oggetto di diversi interventi legislativi e giurisprudenziali.

Le vicende traslative delle aree destinate a parcheggio e  soggette  a disciplina  vincolistica sono spesso fonte di contenzioso, con riflessi interpretativi non sempre lineari e di facile comprensione.

L’ipotesi all’esame della Corte ha origini lontanissime e contiene interessanti implicazioni sulla tutela dell’acquirente pretermesso e sulle responsabilità di venditore e acquirenti successivi.

 I fatti: “Dal dicembre 1986 pende controversia per far valere i diritti sugli spazi di parcheggio proposta da sei condomini (P., T., L., M., D.J. e D. ), acquirenti di unità immobiliari in due stabili del “Centro direzionale e commerciale di via (omissis)”, nei confronti della proprietaria costruttrice (Bestat spa, poi incorporata in Italscai spa – convenuta iniziale – fusasi con Italstrade spa, ora divenuta Astaldi spa).
Venivano chiamati in causa, come risulta in atti, gli acquirenti delle “aree esterne e interrate in contestazione” Banco di Roma spa, srl 2 D (ora Alfa Immobiliare), spa SOGET e srl D’Addario, tutte costituitesi.
Il giudizio veniva più volte interrotto e riassunto per le vicende societarie delle varie società parti nel giudizio, che resistevano alle domande.
Il tribunale di Taranto nel 2006, in parziale accoglimento della domanda dei condomini, dichiarava la parziale invalidità dei contratti di compravendita nella parte in cui veniva omesso il contestuale trasferimento agli attori del diritto vantato e dichiarava trasferito in loro favore il diritto reale d’uso di parcheggio, nei limiti dello standard urbanistico, sulle aree da individuarsi tra le parti, restando la proprietà in capo ad Astaldi e alle sue aventi causa.
Dichiarava il diritto della convenuta a percepire l’integrazione del corrispettivo nella misura determinata dal ctu.
Investita da appello principale di P., T., L., D.J. e D. e da appelli incidentali delle società resistenti, la Corte di appello di Lecce sezione di Taranto il 4 febbraio 2012 così decideva:
in accoglimento dell’appello T. condannava gli appellati Astaldi – per il periodo in cui è stata proprietaria – e gli altri soggetti chiamati in causa – per i periodi successivi – al risarcimento dei danni per il mancato godimento delle aree, da liquidare in favore degli appellanti in separata sede.
Accoglieva l’appello incidentale di Astaldi, sancendone il diritto esclusivo di percepire il corrispettivo ad integrazione del prezzo gravante sugli appellanti principali.
Rigettava i restanti appelli incidentali.”

il giudizio di legittimità affronta diversi motivi di ricorso:

  • La Corte di appello ha inteso dire che, avendo la originaria costruttrice trattenuto per sé le aree destinate a parcheggio che avrebbe dovuto trasferire agli attori al momento della vendita a loro delle unità immobiliari, era formalmente piena proprietaria dei beni venduti ad Alfa, cosicché questa non poteva dirsi acquirente a non domino nel senso dell’art. 1159 c.c., dovendo evidentemente reagire in altro modo alla pretesa azionata dai condomini,
    In ogni caso il rigetto del motivo discende dall’insegnamento di questa Corte secondo la quale: “Non è configurabile l’usucapione decennale, ai sensi dell’art. 1159 cod. civ., in favore di colui che abbia acquistato un’area di parcheggio vincolata al diritto d’uso riservato “ex lege” ai proprietari delle unità immobiliari comprese nei fabbricati di nuova costruzione, trattandosi di atto nullo per contrarietà a norme imperative e, perciò, di titolo inidoneo a trasferire la proprietà, a prescindere dalla sua trascrizione. (Cass. n. 12996 del 24/05/2013).”
  • “Il fatto posto a base della pretesa risarcitoria era inequivocabile, essendo costituito dal mancato godimento del bene.
    Questo atto lesivo deriva dalla violazione della norma urbanistica posta dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, a causa dell’elusione del vincolo di destinazione dell’area di parcheggio edificata e fa sorgere in capo ai soggetti in favore dei quali tale vincolo è previsto, il conseguente danno.
    La violazione è addebitabile, come ha ritenuto la Corte di appello, sia al venditore che abbia trattenuto per sé il diritto reale d’uso, sia, per il tempo in cui è coinvolto, all’acquirente successivo, il quale ha concorso nella violazione acquistando un bene che urbanisticamente spettava al danneggiato e ha protratto gli effetti della violazione rifiutando la consegna, nonostante la richiesta in sede giudiziaria.”
  • a fronte di un’espressa dichiarazione del venditore di poter disporre integralmente dei diritti dominicali che cede, questi assume la responsabilità nei confronti dell’acquirente (nella specie Alfa), indotto a credere che l’immobile sia libero da vincoli.
    Parte ricorrente ha fatto rilevare opportunamente: che esistono spazi di parcheggio condominiali che sono liberamente negoziabili perché costruiti in eccedenza rispetto agli standards di legge; che l’indicazione della destinazione urbanistica a garages non era sufficiente a far supporre l’esistenza del vincolo, posto che garages erano oggetto dell’acquisto e che la venditrice con le clausole riportate in ricorso ne garantiva “la buona proprietà”; che pertanto il proprio obbligo di diligenza nei confronti del venditore Astaldi era attenuato. Questi rilievi, potenzialmente decisivi, non sono stati considerati dalla Corte di appello, la quale ha governato alla stessa maniera la responsabilità dell’acquirente successivo nei confronti degli attori (rispetto ai quali il suo acquisto non era giustificato potendo egli accertare l’effettiva condizione urbanistica dei beni, cfr in proposito, in motivazione, Cass. SU 25454/13) e i diritti nei confronti del proprio dante causa, che gli aveva venduto un bene gravato dal vincolo di destinazione garantendo che fosse libero da pesi.

E così la sentenza viene cassata con rinvio ad altra sezione della stessa corte di appello, per un giudizio che ormai supera i trent’anni di durata.

© massimo ginesi 18 maggio 2018 

trascrizione ed opponibilità a terzi del trasferimento: quando nella nota mancano i dati catastali.

una ponderosa sentenza di legittimità (Cass.Civ.  sez. II 14 maggio 2018 n. 11687 rel. Scarpa) affronta una complessa e peculiare vicenda relativa alla opponibili ai creditori di un trasferimento immobiliare di un bene per il quale, al momento della cessione, era in corso variazione catastale.

Il bene era stato aggredito dai creditori e sia il Tribunale di Paola che la Corte di Appello di Catanzaro avevano respinto l’opposizione di terzo all’esecuzione, proposta da coloro che si ritenevano titolari del bene.

La Corte di Cassazione censura le valutazioni dei giudici di merito con ampia motivazione: “I due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi, e si rivelano fondati. La Corte d’Appello di Catanzaro (avendo affermato che l’immobile, cui si riferiva il titolo della nota di trascrizione inerente alla donazione del 2 giugno 1989, non fosse sufficientemente identificato mediante il rinvio alla denuncia di variazione n. 6243/1985, attenendo tale denuncia “unicamente all’ampliamento della palazzina” e perciò occorrendo comunque l’indicazione dei dati catastali indicati nella formalità immediatamente precedente) ha deciso la questione di diritto in modo non conforme alla giurisprudenza di questa Corte, senza offrire in motivazione elementi idonei a mutare l’orientamento pure da essa richiamato.

Il precedente di questa Corte, citato nella stessa sentenza impugnata, affermava proprio che “per i fabbricati per i quali è stata presentata denuncia di variazione e ai quali il Catasto non ha ancora attribuito l’identificazione catastale definitiva, la mancata indicazione, nel Quadro B della nota compilata secondo i modelli approvati con Decreto Interministeriale 10 marzo 1995, dei dati catastali con i quali l’immobile era individuato nella formalità di trascrizione o iscrizione precedente, non incide sulla validità della trascrizione, allorché nella nota sia riportato il numero di protocollo della denuncia di variazione presentata per ciascun immobile” (Cass. Sez. 2, 19/10/2015, n. 21115).

Si ha riguardo, nella specie, a giudizio per opposizione di terzo, ex art. 619 c.p.c., proposto da M F F e B F, donatari degli immobili oggetto delle esecuzioni forzate promosse dalla Caricai s.p.a. e dal Banco di Napoli, i quali hanno dedotto di aver trascritto il 13 giugno 1989 il proprio titolo d’acquisto, costituito dalla donazione del 2 giugno 1989, anteriormente alla trascrizione dei pignoramenti eseguiti in danno della propria dante causa E. P., e fanno perciò valere il loro diritto di nuda proprietà sui beni in questione al fine di sottrarre gli stessi all’espropriazione.

E’ stato accertato in fatto, in particolare, che il bene donato consistesse in una palazzina di un solo piano con lastrico solare, sita in via G. di Tortora, località Impresa, composta da nove vani ed annesso garage ripostiglio.

Nella nota di trascrizione del 13 giugno 1989 l’immobile veniva descritto come non ancora rappresentato nel N.C.E.U. del Comune di Tortora, aggiungendosi, tuttavia, che erano state presentate le relative planimetrie in data 28 dicembre 1985 all’Ufficio Tecnico Erariale di Cosenza “con denuncia di variazione n. 6243/1985”.

La nota di trascrizione, pertanto, non riportava i nuovi dati catastali definitivi degli immobili, non ancora assegnati dai competenti uffici, ma indicava che era stata presentata denuncia di variazione.

La costante interpretazione degli artt. 2659 e 2665 c.c. conclude che, per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci e di incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce, in maniera che non sia nemmeno necessario esaminare il contenuto del titolo, il quale, insieme con la nota, viene depositato presso la Conservatoria dei registri immobiliari (cfr.Cass. Sez. 3, 31/08/2009, n. 18892; Cass. Sez. 2, 14/10/1991, n. 10774; anche Cass. Sez. 2, 07/06/2013, n. 14440).

In particolare, in virtù del richiamo alle indicazioni richieste dall’art. 2826 c.c. contenuto nell’art. 2659, comma 1, n. 4, c.c., alla nota di trascrizione è attribuita la funzione di consentire la inequivoca individuazione (oltre che del titolo trascritto e dei suoi estremi soggettivi, altresì) dei beni cui il titolo si riferisce, compresi proprio i dati di identificazione catastale, come espressamente voluto dall’art. 13 della legge 27 febbraio 1985, n. 52 (Cass. Sez. 2, 11/08/2005, n. 16853; Cass. Sez. 3, 08/03/2005, n. 5002; Cass. Sez. 3, 11/01/2005, n. 368).

La disciplina di riferimento è poi completata dall’appena richiamata legge 27 febbraio 1985, n. 52, la quale introdusse il sistema informatizzato di trascrizione basato su modelli standard di redazione delle note, specificati con d.m. 10 marzo 1994 ed illustrati nella Circolare del Ministero delle Finanze 128/T, recante le istruzioni per la relativa compilazione dei modelli.

Come già argomentava Cass. Sez. 2, 19/10/2015, n. 21115, tale Circolare del Ministero delle Finanze 128/T (dopo aver affermato al punto 2.3.4.1. che, per gli immobili aventi il codice di identificazione catastale definitivo, occorre indicare, negli appositi spazi del modello di nota, il foglio, la particella ed il subalterno), al punto 2.3.4.2.1., per i fabbricati in corso di accatastamento, ovvero, in particolare, per i fabbricati per i quali sia stata presentata denuncia di variazione ed ai quali il Catasto non abbia ancora attribuito l’identificazione catastale definitiva, richiede la descrizione degli immobili sulla nota “mediante l’indicazione del numero ed anno del protocollo ….della variazione”.

Per il periodo, allora, intercorrente fra la presentazione della denuncia di variazione e l’attribuzione della identificazione catastale definitiva, perché la nota di trascrizione adempia all’onere di contenuto di cui all’art. 2659, comma 1, n. 4, c.c., e così consenta di individuare gli estremi essenziali del bene al quale si riferisce il titolo, è dunque sufficiente l’indicazione del numero e dell’anno del protocollo della denuncia di variazione, senza che sia perciò comunque necessario, come sostenuto dalla Corte d’Appello di Catanzaro, riportare nell’apposito riquadro della medesima nota gli estremi identificativi dell’immobile nella formalità immediatamente precedente. 

Ciò a conferma di un’ancora più risalente interpretazione, secondo la quale, ai fini della trascrizione del bene alienato, l’indicazione del numero catastale e delle mappe censuarie è richiesta soltanto quando tali dati “esistono”, di tal che risultano soddisfatte le esigenze di individuazione del bene quando lo stesso sia sufficientemente individuato nel contratto (Cass. Sez. 2, 04/04/1981, n. 1914).

Siffatta interpretazione  trova conforto negli studi della dottrina, la quale osserva come nessuna norma vigente imponga che i dati catastali indicati nel titolo e nella nota di trascrizione siano già acquisiti al sistema della banca dati catastale. Questa conclusione è stata convalidata altresì alla luce della mancata emanazione del decreto ministeriale che, a norma dell’art. 9, comma 12, del d.l. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito con modificazioni in legge 26 febbraio 1994, n. 133, avrebbe dovuto segnare l’attivazione della completa automazione delle procedure di aggiornamento degli archivi catastali e delle conservatorie dei registri immobiliari, in maniera da consentire al conservatore di rifiutare, ai sensi dell’art. 2674 c.c., di ricevere note e titoli e di eseguire la trascrizione di atti tra vivi contenenti dati identificativi degli immobili oggetto di trasferimento o di costituzione di diritti reali, non conformi a quelli acquisiti al sistema alla data di redazione degli atti stessi, ovvero, nel caso di non aggiornamento dei dati catastali, di atti non conformi alle disposizioni contenute nelle norme di attuazione dell’art. 2, commi 1-quinquies e 1-septies del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito dalla legge 24 marzo 1993, n. 75.

E’ quindi piuttosto possibile inserire nella parte libera della nota di trascrizione informazioni pure diverse dagli identificativi catastali (essenzialmente allorché tali dati non si rivelino idonei, come quando la porzione immobiliare non sia ultimata o non risulti ancora censita o frazionata in catasto), che possano tuttavia rivelarsi utili, in un regime di pubblicità immobiliare su base personale, ai fini dell’opponibilità a terzi, nonché della validità della formalità eseguita, in maniera da far prevalere le esigenze della circolazione rispetto a quelle, pure rilevanti, della compiuta identificazione dei cespiti.”

Il ricorso è dunque ascolto e la causa rinviata ad altra sezione della stessa corte di appello per un nuovo esame alla luce dei principi esposti.

© massimo ginesi 17 maggio 2018

 

art. 2051 cod.civ. e caduta: spetta all’agente porre attenzione a dove cammina.

 

L’art. 2051 cod.civ. non è il grimaldello per ottenere sempre e comunque un risarcimento per danni occorsi in seguito a cadute accidentali, anche se nei Tribunali continuano ad abbondare controversie promosse da soggetti che asseriscono di essere inciampati in un gradino troppo alto oppure di essere scivolati nel vialetto condominiale in un giorno di pioggia.

Il primo caso è affrontato da Tribunale Massa 16 maggio 2018 e il secondo da Tribunale Pordenone 5 aprile 2018.

Due sentenze che pongono l’accento su un principio  consolidato nella giurisprudenza di legittimità: deve essere dimostrato il nesso causale fra la cosa oggetto di custodia e l’evento e , soprattutto, la condotta colposa dell’agente integra il caso fortuito idonea ad interromperlo.

Insomma vale il vecchio adagio di guardare bene dove si posano i piedi, perché solo ciò che non è prevedibile con l’ordinaria diligenza o contiene comunque una intrinseca insidiosità può costringere il custode a risarcire il danno.

A proposito della caduta sul vialetto bagnato dalla pioggia il tribunale friulano  afferma che : “In caso analogo a quello per cui è causa condivisibile giurisprudenza ha ritenuto che: “In tema di danno causato da cose in custodia, costituisce circostanza idonea ad interrompere il nesso causale e, di conseguenza, ad escludere la responsabilità del custode di cui all’art. 2051 cod. civ., il fatto della vittima la quale, non prestando attenzione al proprio incedere, in un luogo normalmente illuminato, inciampi in una pedana (oggettivamente percepibile) destinata all’esposizione della merce all’interno di un esercizio commerciale, con successiva sua caduta, riconducendosi in tal caso la determinazione dell’evento dannoso ad una sua esclusiva condotta colposa configurante un idoneo caso fortuito escludente la suddetta responsabilità del custode” (Cass. 993/2009).

Nel caso di specie il sig. B. afferma di essere caduto nel vialetto del Condominio in cui risiedeva già da quattro mesi, sicché deve ritenersi che lo stesso fosse a conoscenza sia dello stato dei luoghi che della asserita “pericolosità” degli stessi in caso di precipitazioni piovose.

Il B., pertanto, consapevole delle condizioni metereologiche e del contesto in cui si inseriva il vialetto e considerate le caratteristiche esteriori dello stesso (l’incidente si sarebbe verificato, secondo quanto allegato, in pieno giorno e con condizioni di visibilità ottimali), avrebbe dovuto prestare particolare attenzione alla pavimentazione bagnata e prevedibilmente scivolosa.”

Per ciò che invece attiene alla caduta dovuta ad un gradino di diversa altezza il tribunale apuano rileva che: “Lo stato dei luoghi oggetto di causa è raffigurato da alcune fotografie, che peraltro rappresentano la scalinata della piscina comunale che non nasconde insidia di sorta, che è perfettamente visibile a chi la percorre e che – tuttavia – è ritenuta dalla attrice quale elemento generatore di danno per la differente altezza del suo ultimo gradino, su cui ella stessa  asserisce di essere caduta.

Già tali elementi, in ossequio alla copiosa giurisprudenza sul punto (ampiamente richiamata dal convenuto nella propria difesa finale), consentono di escludere qualunque responsabilità dell’Ente proprietario dell’impianto, poiché non vi è dubbio che è onere del soggetto che percorra un tracciato perfettamente visibile adeguare il proprio passo alle caratteristiche del terreno: appare quantomeno bizzarro sostenere che la caduta sia ascrivibile alle caratteristiche del bene quando un utente mediamente accorto e diligente avrebbe semplicemente adeguato il proprio passo all’ostacolo concreto da superare, né si può ritenere che l’attrice si muovesse con una sorta di camminata presuntiva, sulla scorta dell’altezza degli scalini precedentemente superati, poiché era suo ovvio e intuitivo onere valutare il terreno dinanzi a sè e adeguare allo stesso la propria camminata. ..

La caduta, stando così i fatti e alla luce di quanto testè evidenziato, pare dunque ascrivibile ad una mancata attenzione o ad una inadeguata condotta in capo alla attrice.

In ogni caso, come si è rilevato, i testi non descrivono il dinamismo della caduta, hanno solo riferito di aver visto (o addirittura sentito) cadere la L. e di aver poi verificato che in quel punto vi è un gradino di diversa altezza, sicchè difetta anche prova adeguata sul nesso fra bene ed evento: su caso del tutto analogo, Cassazione Civile, sez. III, sentenza 21/03/2013 n° 7112…

Quel nesso tuttavia ben può essere mitigato, sino ad eliderlo completamente, dalla concorrente  responsabilità dell’agente, condotta che laddove risulti  idonea – come nel caso di specie – ad essere da sola causa dell’evento, esclude la responsabilità del custode

L’elemento selettivo in base al quale limitare la portata dell’art. 2051 c.c. riguarda pertanto, esclusivamente, il nesso di causalità, essendo estraneo alla natura dell’imputazione il profilo del comportamento del custode.

Tuttavia, la prova del nesso causale si presenta particolarmente delicata nei casi in cui il danno non sia l’effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento (ad es. scoppio della caldaia, frana della strada etc.), ma richieda che al modo di essere della cosa si unisca l’agire umano ed in particolare quello del danneggiato, essendo essa di per sè statica ed inerte (cfr. Cass. 29.11.2006, n. 25243); pertanto, la buca nella strada, il tombino sporgente, il dislivello delle pertinenze stradali et similia non manifestano di per sè soli il collegamento causale – necessario ed ineliminabile – con la caduta del passante, ove questi non provi che lo stato dei luoghi presentava un’obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, la caduta.

In ipotesi di tal fatta, risultano dunque necessari ulteriori accertamenti quali la maggiore o minore facilità di evitare l’ostacolo, il grado di attenzione richiesto ed ogni altra circostanza idonea a stabilire se effettivamente la cosa avesse una potenzialità dannosa intrinseca, tale da giustificare l’oggettiva responsabilità del custode (cfr. Cass. 5.2.2013, n. 2660). Del resto, anche in relazione all’ipotesi di responsabilità gravante sul custode, la giurisprudenza ha più volte precisato che il comportamento colposo del danneggiato può – secondo un ordine crescente di gravità – atteggiarsi come concorso causale colposo, valutabile ai sensi dell’art. 1227 co. 1 c.c., ovvero addirittura giungere ad escludere del tutto la responsabilità del custode” (Tribunale Massa 16.6.2016 n. 623)”

© massimo ginesi 16 maggio 2018