inagibilità dell’appartamento, esonero dalle spese di riscaldamento ed interpretazione del regolamento contrattuale.

Un caso peculiare impegna i giudici di legittimità, chiamati a verificare le modalità di interpretazione di un regolamento contrattuale alla luce del mancato utilizzo di una unità abitativa per un apprezzabile lasso di tempo.

Cass.Civ.  sez. VI 3 maggio 2018, n. 10478 richiama gli ordinari canoni di interpretazione del contratto per verificare l’effettiva portata di clausole regolamentari di natura convenzionale, mettendo in luce come la ratio delle clausole regolamentari debba essere intesa in ottica ampia e complessiva e non alla luce del significato circoscritto della singola disposizione.

Nel caso in esame il regolamento prevedeva due norme distinte: l’una che , in caso di temporanea inagibilità del bene individuale, prevedeva una riduzione delle spese del 50% e l’altra che, viceversa, impediva al singolo di sottrarsi alla contribuzione in caso di omessa costante  utilizzazione del bene (disposizione peraltro in linea con quanto disposto dall’art. 1118 cod.civ.)

Nel caso di specie accade che “C.G. impugnava davanti al Tribunale di Roma la delibera del 14.10.2010 del Condominio (omissis) con cui erano stati approvati il bilancio consuntivo del 2009 e il bilancio preventivo del 2010, relativamente alle spese di riscaldamento e ad altri oneri condominiali. Affermava che, a seguito di un incendio sviluppatosi nell’appartamento di sua proprietà in data 19.04.2005, il Comando dei VV.FF. aveva dichiarato l’appartamento inagibile sino al ripristino delle condizioni di sicurezza, sicché aveva diritto alla riduzione del 50% della quota inerente alle spese di riscaldamento, come previsto dall’art. 5 del regolamento condominiale”

Il Tribunale di Roma accoglie la domanda e  la Corte d’Appello capitolina respinge la successiva impugnazione del Condominio, che ricorre in cassazione.

Il giudice di legittimità osserva che “Il Condominio lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto l’inagibilità dell’appartamento temporanea e dipendente dall’incendio.
La Corte d’appello ha ritenuto la fattispecie inquadrabile nell’art. 5 del regolamento condominiale secondo cui “se un’unità rimanesse disabitata durante il periodo invernale per un periodo superiore a due mesi il condomino interessato potrà ottenere una riduzione del 50 % della quota a suo carico facendone richiesta con lettera raccomandata chiudendo i corpi radianti e facendolo constatare all’amministrazione o a un suo incaricato”.
Secondo il Condominio tale disposizione andava coordinata con l’art. 13 del regolamento, secondo cui “nessun condomino può sottrarsi al pagamento della quota parte di spese che gli compete, nemmeno mediante abbandono o rinunzia delle proprietà comuni”.
Parte ricorrente sostiene che secondo una valutazione alla luce del principio di buona fede contrattuale la persistente mancata riattivazione dell’impianto di riscaldamento aveva mutato l’iniziale temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni” ai sensi dell’art. 13 del regolamento e non temporanea inagibilità ai sensi dell’art. 5 del medesimo atto.
Parte ricorrente sostiene, in definitiva, che le disposizioni del regolamento condominiale e, in particolare, l’art. 5 e l’art. 13 dovevano essere interpretate in modo sistematico alla stregua dei canoni di ermeneutica contrattuale ex artt. 1362 e 1363 c.c..

Con il secondo mezzo, il Condominio deduce la violazione degli artt. 281 sexies, 132 n. 4 e 277, comma 1, c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c..

La Corte d’appello avrebbe omesso di confrontarsi con la circostanza della inagibilità permanente per scelta del condomino, obliterando così la valutazione su tale specifico punto.

I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro attinenza alla medesima problematica interpretativa del regolamento condominiale, sono fondati nei termini che seguono.

In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. nn. 14460/2011;4670/09, 18180/07, 4176/07 e 28479/05).

Di qui l’erroneità dell’esegesi fissata esclusivamente su di una singola parola o frase, astratta dal resto della stessa o di altre clausole del contratto, cui pure deve applicarsi il medesimo canone interpretativo.

Nello specifico la sentenza impugnata ha adoperato in modo non conforme agli enunciati anzidetti i canoni ermeneutici dell’interpretazione complessiva della clausole (1363 c.c.) e dell’interpretazione secondo l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c.).

L’interpretazione isolata dell’art. 5 del regolamento conduce a qualificare erroneamente il caso di specie come provvisoria sospensione dell’utilizzo dell’impianto di riscaldamento.

Dal complesso delle clausole contrattuali, artt. 5 e 13 del regolamento, raccordate tra loro, si evince chiaramente che lo scopo delle previsioni era nel senso di tutelare il singolo condomino in caso di temporaneo non utilizzo dell’impianto e, al contempo, salvaguardare le ragioni del Condominio da una eventuale mancata contribuzione alle spese condominiali per una scelta prolungata, si potrebbe dire “strutturale”, della proprietà quale l’abbandono o la rinuncia alla proprietà comune di un impianto.

In tale prospettiva, risulta operazione contraria alle regole di ermeneutica contrattuale sancite dagli artt. 1362 e 1363 c.c. ricondurre il caso in esame all’ambito di applicazione dell’art. 5 del regolamento condominiale, quando in base ai fatti accertati nei giudizi di merito, risultava all’evidenza integrata l’ipotesi contemplata dall’art. 13.

In tale operazione di qualificazione giuridica e esegesi sistematica occorreva tenere conto del fatto per cui la mancata riattivazione dell’impianto, perdurante nel tempo già per quattro anni al momento della delibera, alla stregua del principio di buona fede contrattuale, mutava l’iniziale situazione di temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente.

Il limite alla qualificabilità di una sospensione temporanea con pagamento ridotto ex art. 5 Reg., era da trarre dalla connessione con l’art. 13 che negava la facoltà di trasformare la transitorietà di utilizzo in condizione permanente di esonero totale dal pagamento, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni”.

Significativamente il ricorso evidenzia che in citazione la richiesta principale del condomino era di esonero totale ex art. 13, circostanza che è verificabile perché emerge dalla sentenza del tribunale 10 ottobre 2013.

Il tutto trova conferma anche nel comportamento complessivo tenuto posteriormente dal condomino. Condotta rilevante ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c..

A tal proposito, parte ricorrente deduce che già in appello aveva denunciato il fatto che dopo otto anni dal risarcimento assicurativo l’appartamento era ancora disusato per scelta, sicché se l’iniziale inagibilità non era imputabile al C. , non altrettanto poteva dirsi a seguito del risarcimento del danno che lo metteva nella condizione di ripristinare l’agibilità dell’appartamento.

Simile circostanza, acclarata nella sentenza di secondo grado, riscontra che già nel 2009 il comportamento di mancato ripristino dell’impianto equivaleva ad abbandono o rinunzia, con conseguente applicabilità dell’art. 13 del regolamento condominiale, nel cui perimetro ricade la fattispecie in esame.”

© massimo ginesi 7 maggio 2018 

art. 1669 cod.civ. – gravi vizi nell’appalto: la responsabilità del venditore, del direttore lavori e la nozione di grave difetto.

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Secondo  un orientamento ormai diffuso della giurisprudenza di legittimità, la disciplina dell’art. 1669 cod.civ. – che prevede una responsabilità decennale dell’appaltatore per i gravi difetti costruttivi – ha natura di ordine pubblico, in quanto volta a garantire la sicurezza  degli edifici, si applica, a determinate condizioni,  anche al venditore che ponga in commercio immobili di nuova costruzione e vede sempre più ampliati i limiti dei difetti che possono rientrare nel perimetro della norma.

Cass.Civ.sez. II, del 24 aprile 2018, n. 10048 compie una ampia disamina sul punto, spingendosi a valutare anche la responsabilità concorrente del direttore lavori, figura che troppo spesso assume invece una posizione defilata nelle controversie in tema di responsabilità del costruttore.

termine per la denunzia – ormai da tempo la giurisprudenza ritiene che il termine per la denunzia dei vizi all’appaltatore (che l’art. 1669 cod.civ. indica in un anno dalla scoperta) decorra da quando il committente (o compratore, nel caso di specie) abbia una chiara conoscenza non solo della manifestazione esteriore del problema ma anche della sua connessione causale con operato dell’appaltatore. sul punto la pronuncia in commento conferma tale orientamento: “il ricorrente principale si duole che la corte territoriale abbia ritenuto avvenuta la scoperta dei vizi – ai fini della decorrenza dei termini per la denuncia e l’azione ex art. 1669 cod. civ. – al momento del deposito della relazione peritale nel corso del procedimento di accertamento tecnico preventivo, in luogo che in uno dei momenti anteriori quali la redazione della relazione del consulente tecnico di parte, ciò che avrebbe imposto di ritenere tardive denuncia e azione. La censura, in entrambe le articolazioni, è infondata. Invero, con motivazione congrua rispetto al parametro di cui al n. 5 dell’art. 360 primo comma cit. (p. 6 della sentenza), la corte d’appello ha dato atto delle ragioni per le quali si dovesse ritenere che il condominio avesse avuto una conoscenza imperfetta dei vizi e dell’impatto di essi sulla complessiva struttura sino al completamento dell’accertamento tecnico preventivo all’uopo richiesto, non essendo a tanto idonea la parziale consapevolezza prima acquisita, a livello ancora di sospetto.

Tanto, dall’altro punto di vista della conformità al diritto ex n. 3 dell’art. 360 primo comma cit., è in linea con l’orientamento di questa corte (v. ad es. Cass. n. 9966 del 2014) secondo cui il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 cod. civ. a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause, e tale termine può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale. L’importanza a tal fine di accertamenti tecnici è stata sottolineata anche (da Cass. n. 1463 del 2008) per il fatto che, ai fini del decorso del termine, è necessaria la piena comprensione del fenomeno e la chiara individuazione ed imputazione delle sue cause, non potendosi onerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo”

la responsabilità del venditore/committente – “la parte ricorrente pare attribuire alla sentenza impugnata l’affermazione dell’applicabilità dell’art. 1669 cod. civ. per disciplinare la responsabilità della venditrice, sulla base del riconoscimento all’appaltatrice di un ruolo di nudus minister che, nella sentenza impugnata, non trova riscontro. In questa, piuttosto, si afferma che la s.r.l. venditrice-committente, per avere essa mantenuto autonomia decisionale e sorvegliato i lavori, dovesse ritenersi costruttrice a fianco dell’appaltatrice ai fini dell’art. 1669 cod. civ., e in base a tale ingerenza responsabile…

Ove la parte ricorrente principale abbia, invece, inteso contestare l’applicazione di tale regula iuris, quale innanzi ricostruita, essa peraltro non è difforme dall’orientamento applicativo di questa corte, che in più pronunce – anche richiamate dalla corte di merito – ha affermato che la responsabilità ex art. 1669 cod. civ. trova applicazione, anche in via concorrente, quando il venditore- costruttore abbia realizzato l’edificio servendosi dell’opera di terzi, se la costruzione sia a esso riferibile, in tutto o in parte, per aver partecipato in posizione di autonomia decisionale, mantenendo il potere di coordinare lo svolgimento di attività altrui o di impartire direttive e sorveglianza, sempre che i difetti siano riportabili alla sua sfera di esercizio e controllo (così ad es. Cass. n. 16202 del 2007), accogliendo in tal senso una nozione di riferibilità più ampia rispetto a quella tra committente dominante e nudus minister; in tal senso l’art. 1669 cod. civ., mirando a finalità di ordine pubblico, è applicabile non solo nei casi in cui il venditore abbia con propria gestione di uomini e mezzi provveduto alla costruzione, ma anche nelle ipotesi in cui, pur avendo utilizzato l’opera di soggetti professionalmente qualificati, come l’appaltatore, il progettista, il direttore dei lavori, abbia mantenuto il potere di impartire direttive o di sorveglianza sullo svolgimento dell’altrui attività, sicché anche in tali casi la costruzione dell’opera è a lui riferibile (così Cass. n. 567 del 2005).”

responsabilità del direttore lavori – “DG contesta poi l’affermazione di sua responsabilità quale direttore dei lavori contenuta nella sentenza impugnata, e tanto con copia di massime giurisprudenziali in ordine al riparto dell’onere della prova in tema di danno extracontrattuale quale quello ex art. 1669 cod. civ., all’ambito di controllo sui lavori edili lasciato al professionista officiato quale direttore di essi, nonché all’esigenza che – anche per completezza della motivazione – sussistano elementi che facciano emergere scelte tecniche erronee o mancato controllo sull’esecuzione. Contesta, in particolare, la natura a suo dire meramente presuntiva delle affermazioni contenute in sentenza.

La sentenza impugnata sfugge alle mosse censure. Essa si diffonde adeguatamente sulla figura e sul ruolo dell’arch. DG, figlio del legale rappresentante e socio di maggioranza della F s.r.I., “con studio nello stesso stabile ove questa aveva sede”; afferma come altamente verosimile quindi che questi svolgesse non solo l’alta sorveglianza sui lavori, ma anche “ulteriori e più pregnanti controlli e più specifiche e ingerenti direttive per realizzare l’interesse della società e del genitore”, ponendo anche in luce il nesso tra il suo legame e la tutela interessi della F s.r.I., che egli “rappresentava a tutti gli effetti” nelle “assemblee di condominio ove si trattava dei vizi e difetti, proponendo soluzioni tecniche, interventi riparatori o anche proposte conciliative”. La corte locale, poi, integrando sul punto la decisione del tribunale, si è rettamente posta il problema – al di là del richiamo del principio di corresponsabilità del direttore dei lavori – di individuare “la prova, quantomeno presuntiva, del contributo causale in concreto ascrivibile”; nel ciò fare, ha richiamato ampiamente le considerazioni già svolte circa il ruolo dell’architetto eccedente “l’espletamento dei compiti istituzionali del direttore dei lavori” (che venivano citati), con lo svolgimento di “ulteriori e più incisive ingerenze sotto il profilo della sorveglianza e delle direttive alla ditta appaltatrice” . La sentenza è poi passata a considerare “la tipologia, la consistenza e la natura dei vizi e difetti” oggetto di lite, e ha – categoria per categoria di opere – diffusamente giustificato l’affermazione di responsabilità di un professionista non avvedutosi che nessuna impermeabilizzazione era stata adottata, che mancavano le protezioni di copertura, che sussistevano disfunzioni dell’impianto fognario e di adduzione del gas con utilizzo di tubazioni non appropriate e scorretta collocazione di pozzetti e connessioni. Ha concluso dunque reputando che la responsabilità non fosse “affermata in modo automatico, come sostiene nei suoi atti difensivi” l’arch. G.”

la natura dei gravi difettiil ricorrente lamenta che fra i vizi ricondotti all’art. 1669 cod.civ. vi sia anche la realizzazione della condotta di adduzione gas, non di proprietà del condominio ma dell’ente erogatore, che è stata tuttavia realizzata dall’appaltatore.

“…quanto all’inclusione tra i danni risarcibili di quelli all’impianto di adduzione del gas, che non rileva a fini risarcitori l’assetto proprietario di un bene, quanto la circostanza che l’utilità data da quel bene sia persa per l’utilizzatore, per cui rettamente la corte di merito ha considerato priva di rilievo l’opinione del c.t.u., su cui si impernia un’argomentazione di DG, secondo cui il risarcimento idoneo a ricostruire tubazioni da realizzarsi dal costruttore sarebbe incompatibile con l’eventuale ricadere in proprietà delle stesse (per accessione o altrimenti) in capo all’ente erogatore (e senza che il c.t.u. si sia posto il problema del se dette opere, pur accedute in proprietà altrui, fossero state realizzate dall’appaltatrice). Quanto alle dilavazioni e ai percolamenti, poi, con congrua motivazione la corte d’appello ha posto in luce che essi, lungi dall’essere un dato secondario, rivelavano il grave difetto della mancanza di protezioni di copertura sulle murature, con imbibizione delle strutture sottostanti”

il condominio ha avanzato un unico motivo di controricorso, relativo alle cavillature in facciata, ritenute della corte territoriale non ascrivibili alla disciplina dell’art. 1669 cod.civ. : “Secondo il condominio (che richiama l’opinione del proprio consulente di parte) dette fessurazioni sulle facciate sarebbero suscettibili anche in relazione ai fenomeni di dilavamento di causare rigonfiamenti di intonaci e infiltrazioni, e sarebbero da qualificarsi come gravi vizi.

Il motivo è fondato e va accolto. Fermo restando che compete al giudice del merito, con accertamento in fatto insuscettibile di riesame in sede di legittimità, qualificare in concreto una determinata anomalia costruttiva di edificio, va richiamato che al fine di distinguere dal punto di vista giuridico il concetto di vizi che incidano sulla conservazione e funzionalità dell’edificio ex art. 1669 cod. civ. dalla diversa nozione di vizi dell’opera ex art. 1667 cod. civ. questa corte è di recente intervenuta a sezioni unite (Cass. sez. U n. 7756 del 2017) chiarendo che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardino elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, etc.), purché tali da comprometterne la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo.

Ciò posto, va considerato che, al fine di pervenire all’esclusione delle cavillature in concreto accertate dal novero delle poste risarcibili, la corte milanese – dopo aver ricordato che il c.t.u. aveva distinto due tipologie di cavillature “entrambe non … dovute a debolezza della struttura” e non tali da provocare “infiltrazioni all’interno delle abitazioni” – ha affermato, con valutazione che, come si dirà, concreta error in iudicando pur se costituente citazione di precedenti (ora superati) di questa corte, che “l’articolo 1669 cod. civ. non trova applicazione per quei vizi che non incidano negativamente sugli elementi strutturali essenziali … e, quindi, sulla … solidità, efficienza e durata, ma solamente sul[V] … aspetto decorativo ed estetico” del manufatto (p. 4 della sentenza impugnata).

Tale affermazione contrasta con la linea interpretativa fatta propria dalle sezioni unite (alla cui pronuncia del 2017 cit. si rinvia per i richiami, tra i quali, ad es., quello a Cass. n. 22553 del 2015 concernente fessurazioni incidenti però in maniera infiltrativa).

Secondo l’indirizzo ora accolto anche vizi che riguardino elementi secondari ed accessori, come i rivestimenti, devono ritenersi tali da compromettere la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo.

Come noto, in edilizia il rivestimento (verticale o murale e orizzontale, quest’ultimo se sottostante definito pavimento – v. per l’utilizzo delle nozioni ad es. art. 1125 cod. civ.) è applicato agli elementi strutturali di un edificio con finalità di accrescimento della resistenza alle aggressioni degli agenti chimico-fisici, anche da obsolescenza, e atmosferici, svolgendo anche funzioni estetiche; in tale quadro le fessurazioni o microfessurazioni (tra le quali le cavillature) di intonaci (o anche di altri tipi di rivestimento), se non del tutto trascurabili, a prescindere dalla possibilità di dar luogo o no a infiltrazioni, realizzano comunque nel tempo una maggiore esposizione alla penetrazione di agenti aggressivi sugli elementi strutturali, per cui esse – pur se ascrivibili a ritrazione dei materiali – sono prevenute mediante idonee preparazioni dei rivestimenti in senso compensativo e idonea posa.

A prescindere da ciò, peraltro, quand’anche le fessurazioni o crepe siano inidonee a mettere a rischio altri elementi strutturali e quindi impattino solo dal punto di vista estetico, e siano eliminabili con manutenzione anche meramente ordinaria (Cass. n. 1164 del 1995 e n. 1393 del 1998), esse – in quanto incidenti sull’elemento pur accessorio del rivestimento (di norma, l’intonaco) – debbono essere qualificate in via astratta, ove non siano del tutto trascurabili, idonee a compromettere la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene e, quindi, a rappresentare grave vizio ex art. 1669 cod. civ. (così Cass. sez. U n. 7756 del 2017).

In tal senso, deve ritenersi superato, all’esito dell’arresto nomofilattico richiamato, il precedente indirizzo – cui si è invece ispirata la sentenza impugnata – per cui lesioni – anche sottoforma di microfessurazioni – ai rivestimenti (pur se d’intonaco) possano considerarsi irrilevanti in quanto incidenti solo dal punto di vista estetico (v. ad es. Cass. n. 13268 del 2004 e n. 26965 del 2011, ma in senso contrario v. già n. 12792 del 1992). Ciò, del resto, è coerente anche con il sempre maggior rilievo che il decoro degli edifici svolge ai fini del loro godimento e commerciabilità secondo l’evoluzione sociale.”

© massimo ginesi 2 maggio 2018

anticipazioni dell’amministratore uscente e ricognizione di debito da parte del condominio

Accade con frequenza che l’amministratore uscente reclami la restituzione di somme, che assume di aver personalmente anticipato nell’interesse del condominio  durante la propria gestione.

Il tema della prova di tali anticipazioni e, soprattutto, la condotta del condominio, che può comportare riconoscimento del debito, sono oggetto di una recente ed interessante pronuncia  della Suprema Corte.

Cass.Civ. sez. II ord. 12 aprile 2018, n. 9097 esamina la vicenda di un amministratore torinese che ha convenuto dinanzi al Tribunale sabaudo il condominio per vedersi restituiti i denari, che afferma di aver anticipato per la gestione del fabbricato. A tal fine  esponeva: “di esserne stato amministratore sino al 3.8.2006; di avere l’assemblea approvato il consuntivo della gestione ordinaria 2006 ed il relativo riparto, pari ad Euro 42.782,96; di avere egli sostenuto spese nell’interesse del Condominio per Euro 11.916,57, nel corso della gestione 2005 e per Euro 16.486,56 nel corso della gestione 2006 e di avere, invece, i condomini, versato la sola somma di Euro4.129,35; di avere, quindi, egli anticipato la complessiva somma di Euro 28.534,53, vedendosi rimborsare solo il suddetto importo, con un credito residuo pari, quindi, ad Euro 24.405,18. Esponeva, inoltre, di avere il nuovo amministratore, Francesco Bove, sottoscritto apposito documento da cui si evinceva la situazione contabile del Condominio al 3.8.2006 ed il debito verso l’amministratore uscente; di avergli il Condominio corrisposto tre acconti (il 10.11.2006 di Euro 4.500,00, il 18.12.2006 di Euro 5.000,00 ed il 30.6.2007 di Euro 6.000,00), rimanendo debitore di Euro 8.905,18.”

Il Tribunale accoglieva la domanda e la  Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza; la vicenda giunge  in cassazione su ricorso del condominio, che fonda la propria impugnazione sul fatto che l’amministratore non avrebbe fornito adeguata prova delle anticipazioni e che la sottoscrizione, da parte del nuovo amministratore, del documento in cui tale credito è indicato non costituirebbe ricognizione di debito.

Il condominio, tuttavia, vede esito sfavorevole anche in sede di legittimità, ove si chiarisce che se l’amministratore appena nominato sottoscrive – in sede di passaggio delle consegne – un documento da cui risulta il saldo passivo relativo alle somme anticipate dall’amministratore uscente e,  successivamente, il condominio ratifica tale operato, versando acconti su detti importi senza contestazione alcuna, tali condotte non possono che avere valenza ricognitiva del debito, così che si inverte l’onere della prova e deve essere il condomino a dar dimostrazione dell’inesistenza del credito azionato in giudizio.

Osserva a tal proposito  la Corte di Cassazione   che : “La Corte distrettuale (ma ancor prima il Tribunale) ha ampiamente chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto dimostrata la sussistenza del credito di M.L. .

Il ragionamento della Corte distrettuale che conduce ad affermare il riconoscimento del debito del Condominio nei confronti di M. , si snoda su due coordinate essenziali la cui sussistenza è stata dimostrata, e cioè: da un verso, la Corte distrettuale ha preso atto che il M. aveva prodotto un documento intitolato “Situazione contabile al 3 agosto 2006”, il quale recava l’indicazione del passivo complessivo a tale data (composto dal passivo di bilancio relativo al 2005 e 2006 nonché da un residuo c/c evidentemente passivo e ripianato dal M. secondo la prospettazione dello stesso), dei versamenti effettuati dai condomini per l’anno 2006, di un’ulteriore somma a credito del Condominio, nonché il debito nei confronti dell’ex amministratore pari ad Euro 24.405,18.

E, tale documento veniva sottoscritto dal nuovo amministratore.

Successivamente, si dava atto di ulteriori pagamenti per complessivi Euro 15.500,00. Per altro, (la Corte distrettuale ha preso atto) che il versamento delle somme di cui si è già detto, successive alla sottoscrizione del documento del 3 agosto 2006 non era controverso ed, anzi, la circostanza era stata posta a base delle difese svolte in via subordinata dal Condominio stesso, che non ha contestato, neppure, la legittimità di tali pagamenti, tanto che, relativamente ad essi, nessuna domanda di tipo restitutorio, o eccezione, è stata proposta.

Ora, si deve considerare che il riconoscimento di un debito non esige formule speciali e può essere contenuto in una dichiarazione di volontà diretta consapevolmente all’intento pratico di riconoscere l’esistenza di un diritto, ma, può risultare, implicitamente, anche da un atto compiuto dal debitore per una finalità diversa e senza la consapevolezza dell’effetto ricognitivo.

L’atto di riconoscimento, infatti, non ha natura negoziale, né carattere recettizio e non deve necessariamente essere compiuto con una specifica intenzione riconoscitiva. Ciò che occorre è che esso rechi, anche implicitamente, la manifestazione della consapevolezza dell’esistenza del debito e riveli i caratteri della volontarietà (Cass. n. 15353 del 30/10/2002).

Non vi è dubbio che i dati accertati dalla Corte distrettuale integrano gli estremi di un riconoscimento di debito. La Corte distrettuale, ha ulteriormente aggiunto: a) che il versamento delle somma di cui si dice era imputabile a tutti i condomini poiché in difetto di una diversa allegazione i suddetti pagamenti andavano imputati ad essi secondo le rispettive quote millesimali; b) che il comportamento dei condomini andava, altresì, qualificato quale ratifica dell’operato del nuovo amministratore, non potendo ad esso essere attribuito altro significato, se non quello di dar corso al riconoscimento del debito da questi sottoscritto e, quindi, di adesione ad esso. E, significativamente, la Corte ha concluso, come è giusto che fosse, che in forza del riconoscimento incombeva sul Condominio dimostrare l’inesistenza del debito e tale prova, non solo non è stata fornita, ma, sarebbe stata del tutto in contrasto con il suo adempimento, seppure parziale.

Il ricorrente, per altro, non tiene conto che il riconoscimento del quale si discute costituisce un atto giuridico in senso stretto, la cui identificazione, non implica l’applicazione di specifiche norme di diritto, ma, più semplicemente, la ricostruzione di un accadimento, di un fatto umano, la quale deve essere solamente motivata in modo congruo e corretto e, se priva, come nel caso in esame, da vizi logici non è suscettibile di sindacato nel giudizio di cassazione.”

© massimo ginesi 17 aprile 2018 

compenso dell’amministratore e frontalini: due temi eterogenei in un’interessante sentenza.

 

SUL COMPENSO DELL’AMMINISTRATORE – E’ noto che la giurisprudenza della Cassazione, anteriormente alla entrata in vigore della L. 220/2012, ha sempre affermato che il compenso dell’amministratore, ove forfettariamente indicato, deve ritenersi comprensivo di tutte le attività necessarie al corretto svolgimento  del mandato, sì che costui non potrà richiedere compensi aggiuntivi per attività che – seppur impreviste o sporadiche – debbano ritenersi riconducibili all’espletamento del suo compito (ad esempio la gestione amministrativa di lavori straordinari).

La riforma della disciplina condominiale, in vigore dal giugno 213, ha introdotto all’art. 1129 XIV comma cod.civ. l’obbligo per l’amministratore di indicare analiticamente il proprio compenso, a pena di nullità, e ciò all’atto della nomina e all’eventuale  successivo rinnovo.

La norma comporta perlatro applicazione ope legis di quanto già individuato dalla giurisprudenza di legittimità: ove non sia analiticamente indicato il compenso e l’amministratore richieda al conferimento dell’incarico  un importo forfettario, tale somma  dovrà ritenersi comprensiva di ogni attività connessa allo svolgimento del mandato.

E’ tema affrontato dalla recente Cass.Civ.  sez. II sent. 2 marzo 2018 n. 5014 rel. Criscuolo: ” è pur vero che questa Corte ha avuto modo di precisare che (cfr. Cass. n. 10204/2010) l’attività dell’amministratore, connessa ed indispensabile allo svolgimento dei suoi compiti istituzionali e non esorbitante dal mandato con rappresentanza – le cui norme sono applicabili nei rapporti con i condomini, deve ritenersi compresa, quanto al suo compenso, nel corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell’incarico per tutta l’attività amministrativa di durata annuale e non deve, perciò, essere retribuita a parte (conf. Cass. n. 3596/2003, richiamata anche dalla difesa della ricorrente), ma trattasi di principi che non attengono alla diversa ipotesi, qui ricorrente, in cui un compenso straordinario non sia preteso in maniera unilaterale dall’amministratore, ma sia stato oggetto di un’espressa delibera da parte dell’assemblea.

In tal senso valga il richiamo a Cass. n. 22313/2013 (non massimata) che, proprio facendo riferimento ai precedenti sopra indicati, ha per converso precisato che gli stessi appaiono correttamente applicabili alle ipotesi in cui manchi una specifica delibera condominiale che abbia invece ritenuto di dover autonomamente remunerare l’attività straordinaria dell’amministratore, non ravvisando sufficiente il compenso forfettario in precedenza accordato.


La sentenza di appello ha fatto corretta applicazione di tale principio avendo per l’appunto ribadito che rientra nelle competenze dell’assemblea ex art. 1135 c.c. anche quella di riconoscere un compenso straordinario all’amministratore, costituendo oggetto di una valutazione esclusivamente riservata all’organo assembleare, la cui decisione non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, dovendosi escludere quindi anche la ricorrenza del denunciato vizio della motivazione (tale modus operandi va ritenuto sicuramente conforme a legge in relazione alla fattispecie in esame, sviluppatasi in epoca anteriore alla riforma di cui alla L. n. 220 del 2012, dovendosi in relazione al novellato testo dell’art. 1129 c.c., tenere in debita considerazione la previsione che impone all’amministratore all’atto dell’accettazione della nomina, di dovere analiticamente specificare, a pena di nullità della nomina stessa, l’importo dovuto a titolo di compenso, ben potendosi ipotizzare che in tale indicazione debbano includersi anche i compensi legati all’esecuzione di eventuali attività straordinarie).

SUI FRONTALINI – la sentenza analizza anche con esauriente motivazione, indicando con chiarezza le diverse fattispecie che possono occorrere in tema di balconi, l’imputazione delle spese relative alla loro manutenzione, chiarendo in quali ipotesi la parte esterna del balcone possa ritenersi bene comune: “La sentenza di appello in motivazione ha adeguatamente ricostruito i termini giuridici della questione concernente la natura comune o meno dei balconi, richiamando i precedenti di questa Corte, che nel corso degli anni hanno avuto modo di chiarire, e spesso proprio in relazione al tema che qui viene in discussione, della legittimità del riparto delle spese di manutenzione tra tutti i condomini, entro quali limiti possa attribuirsi natura condominiale a elementi dei balconi.

Sul punto, e volendo sommariamente ripercorrere le opinioni espresse sul punto, va ricordato che l’approdo al quale è pervenuta questa Corte è nel senso che gli elementi esterni, quali i rivestimenti della parte frontale e di quella inferiore, e quelli decorativi di fioriere, balconi e parapetti di un condominio, svolgendo una funzione di tipo estetico rispetto all’intero edificio, del quale accrescono il pregio architettonico, costituiscono, come tali, parti comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c., n. 3), con la conseguenza che la spesa per la relativa riparazione ricade su tutti i condomini, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (cfr. ex plurimis, Cass. civ., sez. 2, 30 aprile 2012, n. 6624; Cass. n. 21641/2017).

Nella fattispecie, in cui pacificamente si controverte in materia di balconi aggettanti, i quali, non assolvendo ad alcuna funzione di sostegno/copertura, costituiscono un mero prolungamento della corrispondente unità immobiliare, si è precisato che occorre verificare se l’intervento manutentivo abbia interessato la struttura portante, di proprietà esclusiva dal titolare dell’appartamento, o il rivestimento che, se ha una funzione estetica, costituisce bene comune di tutti i condomini.

Tra i summenzionati elementi decorativi, possono annoverarsi – alla luce delle vicende oggetto di precedenti di questa Corte appunto i frontalini (intendendo per tali la parte terminale della struttura armata del balcone semplicemente perchè visibile guardando il balcone, a volte a filo, a volte sporgente dallo stesso), il rivestimento (in marmo o con intonaco) della fronte della soletta dell’aggetto, i cielini, le piantane, le fasce marcapiano, le aggiunte sovrapposte con malta cementizia, le balaustre, le viti in ottone, i piombi, le cimose, i basamenti, i pilastrini.

Tuttavia, e senza che questa elencazione possa reputarsi esaustiva, all’interno dei balconi, possono eventualmente anche ricorrere elementi decorativi che costituiscono un ornamento della facciata, assimilabili, per tale loro funzione, ai sensi dell’art. 1117 c.c., alle parti comuni dell’edificio, dovendosi però reputare che l’individuazione di tali elementi, la loro funzione architettonica e il conseguente regime di appartenenza – condominiale, che devono essere orientati dal canone ermeneutico costituito dalla loro idoneità ad assolvere alla funzione di rendere esteticamente gradevole l’edificio, non possono essere oggetto di un riscontro in astratto, ma devono essere frutto di una verifica in concreto, in base al criterio della loro funzione precipua e prevalente.

In tale prospettiva, ad esempio, si è ritenuto: che le spese di rifacimento dei frontalini sono relative a lavori eseguiti sui balconi dell’edificio, e da considerare beni comuni in quanto elementi che si inseriscono nella facciata e concorrono a costituire il decoro architettonico dell’immobile (Cass. civ., sez. 2, 30 gennaio 2008, n. 2241); il rivestimento del parapetto e della soletta possono essere beni comuni se svolgono una prevalente funzione estetica per l’edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata (Cass. civ., sez. 2, 21 gennaio 2000, n. 637); i cementi decorativi relativi ai frontalini ed ai parapetti, svolgendo una funzione di tipo estetico rispetto all’intero edificio, del quale accrescono il pregio architettonico, costituiscono, come tali, parti comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c., n. 3), con la conseguenza che la spesa per la relativa riparazione ricade su tutti i condomini, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (Cass. civ., sez. 2, 19 gennaio 2000, n. 568); i fregi ornamentali e gli elementi decorativi, che ad essi ineriscano, quali i rivestimenti della fronte o della parte sottostante della soletta, i frontalini e i pilastrini, sono condominiali, se adempiono prevalentemente alla funzione ornamentale dell’intero edificio (Cass. civ., sez. 2, 7 settembre 1996, n. 8159); deve essere riconosciuta la natura comune dei frontalini di marmo, riguardo all’esclusa loro funzione protettiva od ornamentale dei balconi ed alla rilevata efficacia decorativa dell’intero edificio nonchè all’utilizzazione come gocciolatoi (Cass. civ., sez. 2, 3 agosto 1990, n. 7831).

Risulta altresì confortata la soluzione per la quale la valutazione circa la natura comune delle parti dei balconi interessate dai lavori di manutenzione non è suscettibile di una soluzione aprioristica, ma richiede una valutazione in concreto che evidentemente, ed in maniera tendenzialmente insindacabile, è demandata al giudice di merito.

Nel caso in esame, la sentenza della Corte distrettuale ha osservato che sulla scorta della documentazione fotografica in atti, la forma geometrica e la simmetrica disposizione delle proiezioni esterne delle balconate, cui accedono le balaustre e le solette, conferiscono alla facciata del fabbricato una particolare connotazione che si traduce in una peculiare conformazione del decoro architettonico.

A tal fine ha valorizzato il rapporto tra la forma di parallelepipedo dei balconi posizionati in posizione centrale e quella dei balconi posti ai lati delle facciate, laddove le balaustre di tali balconi assumono forma semicircolare, al fine di assicurare un apprezzabile raccordo stilistico, smussando l’angolo retto che si verrebbe a formare in loro assenza.

La sentenza ha altresì evidenziato che le balaustre dei balconi hanno un rivestimento in intonaco che si colloca in armonia con quello della restante facciata, e che la loro complessiva superficie impegna una parte considerevole della facciata, venendone quindi a costituire un elemento integrante.

Con valutazione tipicamente in fatto, e logicamente argomentata, e come tale insuscettibile di censura in questa sede, i giudici di merito hanno ritenuto che le balaustre dei balconi, ivi inclusi quelli prospicienti l’unità immobiliare della ricorrente, avessero natura comune, in quanto destinate a contribuire nel loro insieme all’aspetto estetico del fabbricato assicurando l’euritmia architettonica della facciata.

La decisione in esame, lungi dall’avere pretermesso la valutazione circa la natura comune del singolo balcone alla luce dei criteri sopra esposti, ha invece motivatamente considerato la complessiva conformazione del fabbricato, atteso che solo dalla visione unitaria della facciata è possibile stabilire quale sia la nozione di decoro dello stesso, e quindi di poter apprezzare la natura ornamentale e decorativa dell’elemento del singolo balcone.”

 © massimo ginesi 12 aprile 2018  

 

 

il difetto di trascrizione del regolamento condominiale che impone vincoli alle proprietà esclusive è rilevabile d’ufficio.

Interessantissima e significativa pronuncia della suprema Corte (Cass.Civ.  sez.II  19 marzo 2018 n. 6769 rel. Scarpa) che affronta un tema per molti aspetti inedito e già oggetto di ordinanza interlocutoria.

La vicenda trae origine dalla controversia promossa da un condominio nei confronti di un proprietario e di un conduttore che avevano mutato l’utilizzo della unità immobiliare posta nel fabbricato, destinandola ad affittacamere,  nonostante  il regolamento di condominio prevedesse divieto in tal senso.

I convenuti eccepiscono solo in sede di precisazione delle conclusioni l’inopponibilità della clausola del regolamento, per difetto di trascrizione. Il Tribunale di Lucera  e poi la Corte d’appello di Bari hanno ritenuto tardiva l’eccezione, qualificandola non come mera difesa ma quale eccezione in senso stretto.

Su tale tema pregiudiziale si focalizza la decisione della Cassazione, che rinvia al giudice di merito per nuova valutazione accogliendo il relativo motivo di ricorso: con ampia disamina la Corte evidenzia la natura della clausola che limiti il godimento del bene individuale posto in condominio, le modalità con cui deve esplicarsi la relativa  pubblicità ai fini della opponibilità a terzi e la rilevabilità del difetto di trascrizione, ai fini della “giusta decisione”.

Va innanzitutto confermato l’orientamento interpretativo cui è pervenuta questa Corte, nel senso che vada ricondotta alla categoria delle servitù atipiche la previsione, contenuta in un regolamento condominiale convenzionale, comportante limiti alla destinazione delle proprietà esclusive (quale appunto risulta, nella specie, l’invocato art. 5 del regolamento del Condominio P. F.), in modo da incidere non sull’estensione ma sull’esercizio del diritto di ciascun condomino.

Ne consegue che l’opponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti deve essere regolata secondo le norme proprie delle servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, mediante l’indicazione, in apposita nota distinta da quella dell’atto di acquisto (in forza dell’art. 17, comma 3, della legge 27 febbraio 1985, n. 52), delle specifiche clausole limitative, ex artt. 2659, comma 1, n. 2, e 2665 e.e., non essendo, invece, sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale (Cass. Sez. 2, 18/10/2016, n. 21024; Cass. Sez. 2, 31/07/2014, n. 17493).

Non è, quindi, atto soggetto alla trascrizione nei registri immobiliari, ai sensi dell’art. 2645 cod.civ., il regolamento di condominio in sé, quanto le eventuali convenzioni costitutive di servitù che siano documentalmente inserite nel testo di esso.

Ove si tratti di clausole limitative inserite nel regolamento predisposto dal costruttore venditore, originario unico proprietario dell’edificio, con le note di trascrizione del primo atto di acquisto di un’unità immobiliare ivi compresa e del vincolo reale reciproco, si determina l’opponibilità di quelle servitù, menzionandovi tutte le distinte unità immobiliari, ovvero ciascuno dei reciproci fondi dominante e servente.

All’atto dell’alienazione delle ulteriori unità immobiliari, il regolamento andrà ogni volta richiamato o allegato e dovrà eseguirsi ulteriore trascrizione per le servitù che man mano vengono all’esistenza, fino all’esaurimento del frazionamento della proprietà originariamente comune.


In assenza di trascrizione, queste disposizioni del regolamento del regolamento, che stabiliscano i limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, valgono altrimenti soltanto nei confronti del terzo acquirente che ne prenda atto in maniera specifica nel medesimo contratto d’acquisto.

In mancanza, cioè, della certezza legale della conoscenza della servitù da parte del terzo acquirente, derivante dalla trascrizione dell’atto costitutivo, occorre verificare la certezza reale della conoscenza di tale vincolo reciproco, certezza reale che si consegue unicamente mediante la precisa indicazione dello ius in re aliena gravante sull’immobile oggetto del contratto.

Il quinto motivo di ricorso comporta, allora, la necessità di verificare come possa entrare nel processo la questione dell’inopponibilità delle servitù reciproche che siano contenute nel regolamento di condominio, ma non indicate in apposita nota di trascrizione.

Questa Corte, in alcuni precedenti, per lo più remoti, aveva affermato che il difetto di trascrizione di un atto non sarebbe fatto rilevabile d’ufficio, costituendo, piuttosto, materia di eccezione riservata alla parte che dalla mancata trascrizione pretenda di ricavare conseguenze giuridiche a proprio favore (si vedano Cass. Sez. 2, 27/05/2011, n. 11812; Cass. Sez. 2, 18/02/1981, n. 994; Cass. Sez. 2, 11/10/1969, n. 3288).

Nel caso in esame, peraltro, le convenute, ed attuali ricorrenti, M. C. s.a.s. e La B. s.n.c., interessate a far valere la mancata trascrizione della clausola di cui all’art. 5 del regolamento del Condominio P. F., avevano svolto un’eccezione in tal senso, ma soltanto in sede di comparse conclusionali.

La Corte d’Appello di Bari, come già il Tribunale di Lucera, hanno sostenuto che una tale eccezione fosse tardiva, in quanto “eccezione in senso stretto”.

La decisione dei giudici del merito non tiene però conto dell’orientamento, ormai consolidatosi, che questa Corte ha elaborato a seguito di Cass. Sez. U, 27/07/2005, n. 15661, secondo il quale nel nostro sistema processuale le eccezioni in senso stretto, cioè quelle rilevabili soltanto ad istanza di parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte per svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico (Cass. Sez. 3, 30/06/2015, n. 13335; Cass. Sez. 3, 05/08/2013, n. 18602; Cass. Sez. 3, 24/11/2009, n. 24680).

Più di recente, Cass. Sez. U, 07/05/2013, n. 10531, dando il giusto rilievo alla distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato in ordine alle regole di allegazione e prova, ha poi ulteriormente chiarito che il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, valore che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto.

Ha osservato la sentenza n. 10531 del 2013 delle Sezioni Unite che, ove si ritenesse che le eccezioni in senso lato siano pur sempre “da allegare e provare entro il limite delle preclusioni istruttorie”, il regime di esse verrebbe quasi a coincidere con quello delle eccezioni in senso stretto, restando solo la differenza in ordine alla anticipata rilevazione di queste ultime in comparsa di risposta.
Da ultimo, Cass. Sez. U, 03/06/2015, n. 11377, ha concluso che “tutti i fatti estintivi, modificativi od impeditivi, siano essi fatti semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo giudizio, sono rilevabili d’ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in senso lato;
l’ambito della rilevabilità a istanza di parte (eccezioni in senso stretto) è confinato ai casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con una fattispecie che potrebbe dar luogo all’esercizio di un’autonoma azione costitutiva”.

Tali considerazioni inducono ad affermare che il potere-dovere del rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non può dirsi subordinato alla posizione difensiva assunta dal convenuto rispetto alla domanda, ovvero alla verifica della proposizione, ad opera della parte legittimata a contraddire, di contestazioni specifiche, rimanendo altrimenti vanificata, pur in difetto di un esclusivo diritto potestativo dei contendenti in ordine alla definizione del tema di lite, la finalità primaria del processo costituita dalla giustizia della decisione.

Sulla base del richiamato quadro giurisprudenziale, non vi è più ragione, come già si sosteneva da parte della dottrina, per ritenere il difetto di trascrizione di un atto (nella specie, di un regolamento di condominio) quale fatto impeditivo dell’apponibilità di esso, affidato, in quanto tale, unicamente all’espressa e tempestiva eccezione della parte interessata.


Deve quindi enunciarsi il seguente principio di diritto:
“La questione relativa alla mancata trascrizione di una clausola del regolamento di condominio, contenente limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, ed alla conseguente inopponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti, non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, quanto di un’eccezione in senso lato, sicché il suo rilievo non è subordinato alla tempestiva allegazione della parte interessata, ma rimane ammissibile indipendentemente dalla maturazione delle preclusioni assertive o istruttorie”.

© massimo ginesi 20 marzo 2018 

 

terrazza a livello e spese anticipate dal singolo condomino: principi generali e risvolti fiscali.

Un condomino provvede a lavori di ripristino della propria terrazza a livello, dalla quale derivano copiose infiltrazioni all’unità sottostante, e poi chiede in giudizio il rimborso agli altri condomini in ragione delle quote previste dall’art. 1126 cod.civ.; costoro solo in secondo grado contestano la sussistenza dell’urgenza e rilevano anche che l’iniziativa del singolo ha pregiudicato  il loro diritto a beneficiare delle consentite detrazioni fiscali per interventi similari.

Dapprima il Giudice di Pace di Alghero e poi il Tribunale di Sassari accolgono la domanda; contro le statuizioni di merito ricorrono per cassazione i soccombenti, le cui istanze vengono rigettate anche in tale sede (Cass.Civ. sez. II ord. 28 febbraio 2018 n. 4684 rel. Scarpa).

La corte di legittimità ripercorre i principi consolidati in tema di spese anticipate dal singolo, di responsabilità per danni derivanti dal lastrico e sottolinea come la detraibilità fiscale dell’intervento sia una facoltà e non un obbligo, sì che non può ritenersi sussistente  pregiudizio in tal senso.

Non è dubbio che, ai fini dell’applicabilità dell’art 1134 c.c. (nella formulazione qui operante ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), il condomino che ha fatto spese per le cose comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente; né può confutarsi che debba considerare “urgente” la sola spesa la cui erogazione non possa essere differita, senza danno o pericolo, fino a quando l’amministratore o l’assemblea dei condomini possano utilmente provvedere.

E’ altresì inevitabile ribadire che la prova dell’indifferibilità della spesa incombe sul condomino che chiede il rimborso, il quale deve dimostrare, a tal fine, la sussistenza delle condizioni che imponevano di provvedere senza ritardo e che impedivano di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini (così da ultimo Cass., Sez. 6 -2, 16/11/2017, n. 27235; e già, tra le tante, Cass. Sez. 2, 12/09/1980, n. 5256).”

La corte ribadisce tuttavia che il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. vale anche nel processo dinanzi al Giudice di Pace, di talchè correttamente il tribunale di Sassari aveva ritenuto provata la circostanza: “Quanto tuttavia residui come fatto incontroverso tra le parti, rimane per ciò solo non bisognoso di prova; di tal che, pure il fatto dell’urgenza ex art. 1134 c.c., posto dall’attore a fondamento della domanda di rimborso delle spese anticipate, se non contestato dal convenuto, deve essere considerato incontroverso e non richiedente una specifica dimostrazione, né la contestazione di fatti originariamente non contestati può poi essere ammessa in appello.

I ricorrenti, avendo la sentenza impugnata rilevato che essi avevano tenuto in primo grado una condotta processuale di non contestazione, avrebbero pertanto dovuto innanzitutto allegare e dimostrare l’erroneità di tale statuizione, indicando specificamente in ricorso, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., gli atti difensivi in cui fosse stata sin dall’inizio opposta l’insussistenza dell’urgenza ex art. 1134 c.c. (cfr. tra le tante Cass. Sez. 3, 09/08/2016, n. 16655; Cass. Sez. 6 – 1, 12/10/2017, n. 24062). Ric. 2014″

Osserva ancora la Corte che “l’infondatezza delle censure articolate deriva altresì dall’operatività del principio già affermato in giurisprudenza, per cui il dovere di contribuzione dei condomini ai costi di manutenzione di un terrazzo di proprietà esclusiva non fonda sull’applicazione degli artt. 1110 e 1134 c.c., siccome postulanti spese inerenti ad una cosa comune, ma trova la propria ragione, ex art. 1126 c.c., nell’utilità che i condomini sottostanti traggono dal bene, fermo poi il diverso profilo della qualificazione dell’azione che garantisca il rimborso delle somme eventualmente anticipate per intero dal titolare del diritto esclusivo (così Cass. Sez. 2, 09/01/2017, n. 199).

Quanto alla questione posta col terzo motivo, ove si lamenta che il V. avrebbe dovuto dimostrare che i danni non erano dovuti a fatti a lui imputabili, vale piuttosto il principio enunciato da Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449, per cui qualora l’uso del lastrico solare o della terrazza a livello non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia, appunto, il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull’assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n.4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria.”

In merito alle agevolazioni fiscali il giudice di legittimità sottolinea che “neppure può incidere sulla sussistenza e sulla misura del credito del V. per il rimborso delle quote anticipate, con riguardo alla riparazione del terrazzo a livello, l’allegata circostanza che lo stesso controricorrente non si fosse avvalso delle detrazioni in ragione della spesa sostenuta per l’intervento edilizio, in forza dell’art.1 della legge 27 dicembre 1997, n. 449.

Tale detrazione è, infatti, oggetto di una facoltà, e non di un obbligo, per il creditore; peraltro, di essa, sempre che si tratti di lavori eseguiti su parti condominiali, possono beneficiare tutti i comproprietari che abbiano in concreto provveduto ai relativi pagamenti, salva la regolamentazione dei loro rapporti interni e la delega conferita ad uno di essi ad eseguire i bonifici.”

© massimo ginesi 8 marzo 2018

 

varco sul cortile condominiale per accedere ad altro edificio: è servitù.

L’apertura di un varco nel cortile condominiale, per accedere ad altro edificio in cui il condomino sia proprietario di un fondo, costituisce creazione di servitù e richiede il consenso di tutti i condomini.

Lo ribadisce la Suprema Corte (Cass.Civ.  sez. II ord. 12 febbraio 2018 n. 3345), evidenziando come al condomino sia consentito l’uso più intenso della cosa comune – ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. – solo per attività che rimangano circoscritte alla sfera giuridica del condominio.

Dalla sentenza impugnata si ricava che il contestato cancello pedonale mette in comunicazione tra loro una proprietà esclusiva della Co. con il cortile del condominio cui quest’ultima partecipa (v. pag. 12 sentenza impugnata, nella parte sopra testualmente trascritta in narrativa). Dal che si ricava che tale collegamento avviene tra un’area condominiale ed una proprietà estranea al condominio stesso, da non confondersi con un’altra unità immobiliare appartenente alla stessa Co. , ma facente parte del condominio di via (omissis) .

Questo essendo l’accertamento di fatto operato dalla Corte di merito, si rileva che la sentenza impugnata ha ritenuto che tale apertura sia legittima in quanto non pregiudica il pari godimento del cortile da parte degli altri condomini. Conclusione, questa, cui i giudici d’appello sono pervenuti richiamando in particolare (oltre ad altre sentenze del tutto non pertinenti al caso in esame) Cass. nn. 8591/99 e 42/00.

Entrambe dette sentenze, però, si riferiscono al diverso caso di modifiche apportate su di un muro o una recinzione comune che separavano un cortile condominiale deputato proprio all’utilità delle proprietà individuali.

In particolare, la prima delle due suddette sentenze, al di là di quanto riportato nella massima (non sufficientemente precisa), chiarisce in motivazione che “negli edifici soggetti al regime del condominio, ciascun partecipante ha il diritto di servirsi delle cose comuni a vantaggio del proprio piano o appartamento.

Spesso il godimento si attua mediante l’imposizione sulla cosa comune di un vero e proprio peso a vantaggio della cosa propria: di uno di quei pesi che, al di fuori del condominio, darebbero luogo al sorgere di una servitù prediale (apertura di porte, finestre, luci, vedute sul cortile comune).

Al singolo condomino non è consentito costituire sulla cosa comune una servitù a vantaggio della cosa propria, essendo richiesto per la costituzione della servitù il consenso (negoziale) di tutti i partecipanti (art. 1059 c.c.).

Peraltro, non si fa luogo a costituzione di servitù quando la destinazione della cosa comune è precisamente quella di fornire alle unità immobiliari in proprietà esclusiva, site nell’edificio, quella specifica utilità, che formerebbe il contenuto di una servitù prediale.

Per conseguenza, fino a che il partecipante, esercitando il suo diritto, rispetta la destinazione della cosa, di questa gode iure proprietatis. Non sussiste, infatti, imposizione di servitù sulla cosa comune, posto che il potere rientra tra quelli inerenti al diritto di condominio.

Se invece il godimento del singolo partecipante si concreta in un peso sulla cosa comune, che la destinazione della cosa in sé non consente, tale forma di godimento non può essere giustificata con il diritto di condominio. In questo caso inevitabilmente si pone in essere una servitù e, per conseguenza, ogni atto di godimento di fatto assoggetta la cosa comune ad un peso, che le norme sul condominio non permettono”.

Di qui l’inapplicabilità di tali precedenti al caso di specie. Il fatto che la Co. per altro titolo partecipi al condominio di via (omissis) , e perciò abbia al pari degli altri condomini libero accesso al cortile condominiale, non le attribuisce il potere di asservire tale bene comune al diverso ed adiacente altro suo immobile, che di tale condominio non fa parte.

E di conseguenza l’applicabilità, invece, del costante indirizzo di questa Corte in base al quale in tema di uso della cosa comune, viola l’art. 1102 c.c. l’apertura praticata da un condomino nella recinzione del cortile condominiale, senza il consenso degli altri condomini al fine di creare un accesso dallo spazio interno comune ad un immobile limitrofo di sua esclusiva proprietà, determinando, tale utilizzazione illegittima della corte condominiale, la costituzione di una servitù di passaggio a favore del fondo estraneo alla comunione ed in pregiudizio della cosa comune (v. Cass. n. 24243/08).

Nello stesso senso si è altresì affermato che l’azione con cui un condomino metta in comunicazione il cortile condominiale con una sua proprietà estranea alla comunione, determina uno stato di fatto corrispondente ad una servitù di passaggio sul cortile a favore di tale proprietà con la conseguenza che, come può subire l’eliminazione della predetta sua posizione di vantaggio ove i condomini esercitino vittoriosamente l’actio negatoria servitutis, così può consolidarla mercé l’esercizio continuato della servitù per il periodo utile all’usucapione, senza in ogni caso poter porre in essere, per il divieto dell’art 1067 c.c., una situazione di aggravamento della servitù di fatto esercitata, sicché questa si configura come molestia del possesso dei comproprietari del cortile (Cass. n. 5888/79; analogamente, v. anche Cass. nn. 23608/06, 9036/06, 17868/03, 360/95, 2773/92 e 5790/88).”

© massimo ginesi 27 febbraio 2018

 

quando l’appello rimedia a una stortura di primo grado: un caso emblematico in tema di cortile comune e azione ex art 1102 cod.civ.

Un condomino provvede a recintare una parte del cortile retrostante l’edificio condominiale e a destinarlo a dehor dell’attività di ristorazione che esercita nel  fondo di sua proprietà, posto al piano terra.

Il condominio agisce in Tribunale per vedere restituito il bene alla funzione comune ma, del tutto inopinatamente, la domanda viene respinta.

La Corte d’appello di Genova, con sentenza 7 febbraio 2018 n. 214 ribalta il verdetto e osserva: “Con la sentenza impugnata, il Tribunale della Spezia ha respinto la domanda proposta dal Condominio di via R. 37 La Spezia diretta a sentir accertare la proprietà condominiale dell’area cortilizia retrostante il fabbricato, cui si accedeva anche dall’androne condominiale e identificata al N.C.E.U. del Comune della Spezia al fg. 30 part. 531 e 533 e a sentir condannare i convenuti I. D. e D.C., proprietari del fondo sito in via R. 31, in ragione della indebita occupazione dell’area, a rimuovere le opere realizzate, quali la recinzione in rete e canniccio, la pavimentazione cementizia. Il Tribunale qualificava la domanda come azione di rivendicazione, e affermava che nonostante il rigoroso onere probatorio gravante sul Condominio (cd. probatio diabolica), nessuna prova era stata da questi fornita della proprietà condominiale dell’area. Neppure la disposta CTU aveva fornito elementi utili per attribuire la proprietà dell’area all’una o all’altra parte, avendo anche accertato che altri proprietari confinanti avevano accesso all’area e che l’area non poteva essere ritenuta solo condominiale. Condannava quindi parte attrice al pagamento delle spese di lite e di CTU”

Il giudice di secondo grado accoglie l’appello con ampia motivazione, ritenendo fondate le ragioni del Condominio: “Seppure, l’azione si caratterizzi come azione di rivendica, posto che l’area oggetto della domanda non si trova nel possesso del rivendicante e seppure, anche volendo qualificare l’azione come di mero accertamento, secondo la giurisprudenza della Corte Suprema, l’onere probatorio non muti anche per chi agisce con azione di accertamento (tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla “probatio diabolica” della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione, inclusa quella di accertamento, che fonda sul diritto di proprietà tutelato “erga omnes” Cass. n. 1210/2017), occorre considerare che la vicenda di cui è causa si caratterizza per il fatto che il bene rivendicato è di natura condominiale e che la domanda, sulla base delle difese iniziali dei convenuti fatte proprie dal Condominio, risulta essere stata proposta contro un condomino.

Sul punto, come è stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema (cfr. 2016/9035) “In tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumere la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova”.

Ciò in quanto la comunione condominiale dei beni di cui all’art. 1117 c.c., è presunta e, tale presunzione legale può essere superata dalla prova di un titolo contrario, che si identifica nella dimostrazione della proprietà esclusiva del bene in capo ad un soggetto diverso.

Si è poi anche affermato che al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata a uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni”.

Nel caso di specie, occorre considerare, in primo luogo, che l’area di cui è causa, descritta con planimetria nella CTU del geom. T e visibile nelle fotografie ivi allegate, può essere considerata un cortile, rientrante quindi nella previsione di cui all’art. 1117 c.c., a nulla rilevando che si trovi in posizione esterna al Condominio. Sul punto infatti secondo la Corte Suprema (cfr. Cass. n. 2532/2017) “il cortile, tecnicamente, è l’area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti. Ma avuto riguardo all’ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – che, sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione” (Cass. n. 7889 del 09/06/2000).

L’area in questione, infatti, risponde alle caratteristiche delineate dalla giurisprudenza per essere considerata comune, trattandosi di area posta all’esterno dell’edificio condominiale, e destinata a dare aria e luce al predetto, oltre che funzionale all’accesso al condominio: “Ai fini dell’inclusione nelle parti comuni dell’edificio elencate dall’art. 1117 c.c., deve qualificarsi come cortile lo spazio esterno che abbia la funzione non soltanto di dare aria e luce all’adiacente fabbricato, ma anche di consentirne l’accesso” (cfr. Cass. n. 16241/2003).

A nulla rileva il fatto che anche altri fondi e fabbricati abbiano accesso su tale area posto che, come sempre chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema, la presunzione legale di comunione di talune parti di un edificio, stabilita dell’art. 1117 cc, senz’altro applicabile quando si tratti di parti dello stesso edificio, può ritenersi applicabile in via analogica anche quando si tratti di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, purché si tratti di beni oggettivamente e stabilmente destinati all’uso o al godimento degli stessi, come nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano (Cass. II nn. 7630/91; 4881/93; 9982/96), e più di recente (cfr. Cass. n. 17993/2010 e 21693/2014): “In tema di condominio degli edifici, la presunzione legale di comunione di talune parti, stabilita dall’art. 1117 cod. civ., trova applicazione anche nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano”

Rispondendo, pertanto, il cortile in contestazione alla presunzione di cui all’art. 1117 c.c., erroneamente il Tribunale non ha ritenuto che il cortile oggetto della controversia fosse comune, ai sensi dell’art. 1117 cc, anche in ragione del fatto che le parti convenute non avevano fornito alcuna convincente prova contraria atta a superare la presunzione di comproprietà, prova che doveva consistere o in un titolo contrario oppure in elementi oggettivi, certi ed univoci, atti a far ritenere che il cortile era destinato a loro servizio esclusivo, ma anzi ammettendo esplicitamente la natura comune dell’area.

Risulta dagli accertamenti peritali che gli appellati hanno occupato un’area di circa mq 67, nella zona sud ovest, a ridosso del fondo degli appellati, ed ove gli stessi hanno una porta di accesso al locale stesso e dove è collocato, altresì, un servizio igienico in muratura (cfr. foto 8 e 11). La Corte ritiene che la stabile occupazione di detta ampia parte dell’area comune da parte degli appellati, delimitata in parte da fioriere in plastica, in parte da un muretto in mattoni pieni a vista piastrellata con quadroni in calcestruzzo prefabbricato non possa considerarsi espressione di un uso intensivo della cosa comune, ai sensi dell’art. 1102 c.c., tale da attrarre il bene nella sfera della proprietà esclusiva degli appellati e legittimare questi ultimi ad opporsi alla sua utilizzazione da parte del Condominio.

…  poiché l’uso della cosa comune è sottoposto dall’art. 1102 c.c. ai due limiti fondamentali consistenti nel divieto per ciascun partecipante di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, esso non può estendersi alla occupazione di una parte del bene comune, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, alla usucapione della parte occupata (Cass. 14-12-1994 n. 10699; Cass. 5-2-1982 n. 693).

Le limitazioni poste dall’art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, inoltre, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini (Cass. 28-4-2004 n. 8119; Cass. n. 4372/2015).

Se pertanto deve ritenersi indiscussa la possibilità di utilizzo del cortile da parte degli appellati, tali utilizzo non può di certo spingersi fino ad impedire un pari utilizzo dell’area da parte degli altri condomini, impedimento attuato con la materiale delimitazione ben descritta dalla ctu. Ne consegue che in riforma della sentenza impugnata, dato atto della proprietà comune dell’area cortilizia retrostante il fabbricato e censita al NCEU della Spezia F. , della inesistenza di alcun diritto di uso esclusivo degli appellati su detta area, gli appellati debbono essere condannati a rimuovere le opere realizzate a servizio del loro fondo, e segnatamente recinzione in rete e canniccio meglio descritte nella relazione CTU Geom. T., pavimentazione cementizia ed ogni altra opera che impedisca l’uso comune.”

© massimo ginesi 16 febbraio 2018 

responsabilità da cosa in custodia e fortuito: eccezionalità e imprevedibilità non coincidono.

Una monumentale pronuncia della Suprema Corte (Cass.Civ. sez. III ord. 1 febbraio 2018 n. 2482) ripercorre la disciplina e l’inquadramento dogmatico della responsabilità da cosa in custodia, sia sotto il profilo del nesso causale che deve legare evento e res custodita, sia riguardo all‘incidenza della condotta colposa del danneggiato, che può giungere ad integrare il fortuito previsto dall’art. 2051 cod.civ., come requisito idoneo ad escludere la responsabilità del custode.

L’approfondita e sistematica disamina della fattispecie, la netta differenziazione dell’azione riguardo alla generica richiesta di risarcimento da fatto illecito ex art. 2043 cod.civ. e l’ampio panorama giurisprudenziale richiamato consigliano la lettura della lunghissima ordinanza, che consta di ben 27 pagine.

Resta tuttavia da segnalare l’aspetto  peculiare dell’evento atmosferico, analizzato dalla corte con riguardo al caso specifico, che ove eccezionale ed imprevedibile, può escludere la responsabilità del custode.

La responsabilità ex art 2051 cod.civ. trova frequente applicazione anche in condominio, con riguardo ai beni comuni ex art 1117 cod.civ. di cui l’ente condominiale risponde per i danni cagionati ai condomini e a terzi in funzione di detta norma.

LA pronuncia, dunque, anche se non riguarda espressamente la realtà condominiale, si profila di grande interesse.

Con particolare riguardo all’evento atmosferico, spesso chiamato a fungere da esimente per infiltrazioni dal tetto, o dal manto di copertura in sede di rifacimento, oppure per danni cagionati da tegole e camini volati via durante eventi meteorologici avversi, la Corte sottolinea come eccezionale non significhi, di per sé anche imprevedibile.

Alla luce dei mutamenti climatici e di fenomeni ciclici (si pensi al classico caso delle bombe d’acqua che tanto danno hanno fatto in liguria negli ultimi anni), l’evento – seppur eccezionale quanto ad intensità – potrebbe non essere considerato imprevedibile e dunque non fungere da esimente. 

La Corte osserva che la valutazione andrà dunque fatta caso per caso.

A tal fine la Corte rileva ancora che  dichiarazione di calamità naturale, resa dagli enti pubblici preposti, se è idonea ad integrare l’elemento della eccezionalità, non è di per sé integrativa, sotto il profilo civilistico, del requisito della imprevedibilità.

qui sotto la sentenza per esteso

custodia2482

© massimo ginesi 6 febbraio 2018

 

revisione delle tabelle millesimali per errore: una esaustiva e recente pronuncia

Cass.Civ. sez. VI 25 gennaio 2018 n. 1848 rel. Scarpa affronta l’annosa questione dell’errore che da luogo a revisione delle tabelle millesimali.

La Suprema Corte ha sempre ritenuto che l’errore dovesse consistere in una obiettiva divergenza fra il valore reale del bene e quello attribuito in tabella (id est errore di calcolo o erronea attribuzione di superfici, volumi o caratteristiche oggettive), sì che rimane esclusa la revisione quando la discrasia riscontrata sia da ricondurre ai parametri valutativi espressi dal tecnico che ha predisposto lo strumento.

Tuttavia, qualora emerga una inequivocabile differenza fra valore reale e valore attribuito, il giudice dovrà procedere alla revisione, principio cui non si è conformato, nel caso di specie, il giudice fiorentino.

I principi valgono anche con riguardo alle tabelle c.d. convenzionali, ovvero approvate da tutti i condomini o allegate al regolamento contrattuale, poichè la convenzione attiene ai diversi valori scientemente adottati ma non certo alle discrasie derivanti da errore.

La sentenza è di netta chiarezza e merita di riportare la motivazione per intero, poiché rappresenta una summa cristallina dei principi  che regolano la materia.

La Corte d’Appello di Firenze ha deciso la questione di diritto ad essa sottoposta senza uniformarsi all’interpretazione costante di questa Corte.

Il diritto spettante anche al singolo condomino di chiedere la revisione delle tabelle millesimali, in base all’art. 69 disp. att. c.c. (nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla I. n. 220 del 2012) è subordinato all’esistenza di un errore o di un’alterazione del rapporto originario tra i valori delle singole unità immobiliari.

L’errore, in particolare, determinante la revisione delle tabelle millesimali, è costituito dalla obiettiva divergenza fra il valore effettivo delle unità immobiliari e quello tabellarmente previsto.

La parte che chiede la revisione delle tabelle millesimali non ha, peraltro, l’onere di provare la reale divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, potendo limitarsi a fornire la prova anche implicita di siffatta divergenza, dimostrando in giudizio l’esistenza di errori, obiettivamente verificabili, che comportano necessariamente una diversa valutazione dei propri immobili rispetto al resto del condominio.

Il giudice, a sua volta, sia per revisionare o modificare le tabelle millesimali di alcune unità immobiliari, sia per la prima caratura delle stesse, deve verificare i valori di tutte le porzioni, tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi – quali la superficie, l’altezza di piano, la luminosità, l’esposizione – incidenti sul valore effettivo di esse e, quindi, adeguarvi le tabelle, eliminando gli errori riscontrati (Cass. Sez. 2, 25/09/2013, n. 21950; Cass. Sez. 2, 15/06/1998, n. 5942).

Non rileva decisivamente, a tal fine, il mero dato che le tabelle non abbiano “origine deliberativa, ma convenzionale”, sottolineato dalla Corte d’Appello di Firenze.

Questa Corte ha già spiegato, e il principio va riaffermato, come, soltanto qualora i condomini, nell’esercizio della loro autonomia, abbiano espressamente dichiarato di accettare che le loro quote nel condominio vengano determinate in modo difforme da quanto previsto negli artt. 1118 c.c. e 68 disp. att. c.c., dando vita alla “diversa convenzione” di cui all’art. 1123, comma 1, c.c., la dichiarazione di accettazione ha valore negoziale e, risolvendosi in un impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ai sensi dell’art. 69 disp. att. c.c., la quale, come visto, attribuisce rilievo esclusivamente alla obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari dell’edificio ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle.

Ove, invece, tramite l’approvazione della tabella, anche in forma contrattuale (mediante la sua predisposizione da parte dell’unico originario proprietario e l’accettazione degli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero mediante l’accordo unanime di tutti i condomini), i condomini stessi intendano (come, del resto, avviene nella normalità dei casi) non già modificare la portata dei loro rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio, bensì determinare quantitativamente siffatta portata (addivenendo, così, alla approvazione delle operazioni di calcolo documentate dalla tabella medesima), la semplice dichiarazione di approvazione non riveste natura negoziale, con la conseguenza che l’errore che, in forza dell’art. 69 disp. att. c.c., giustifica la revisione delle tabelle millesimali, non coincide con l’errore vizio del consenso, di cui agli artt. 1428 e ss. c.c., ma consiste per l’appunto, nella obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito (Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300).

La Corte d’Appello di Firenze non si è attenuta ai principi richiamati, in quanto, pur avendo accertato delle divergenze tra le tabelle millesimali in uso e le stime operate dal CTU (quanto meno per la proprietà Rione, la proprietà Lamanna e la proprietà Giraldi), ha ritenuto gli stessi sopportabilmente “contenuti nei limiti della decenza estimativa”, laddove, sussistendo una qualsiasi obiettiva divergenza fra il valore effettivo delle unità immobiliari e quello tabellarmente determinato, è obbligo del giudice di eliminare l’errore riscontrato. Il ricorso va quindi accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Firenze, che deciderà la causa uniformandosi ai principi richiamati e tenendo conto dei rilievi svolti, e regolerà anche le spese del presente giudizio di cassazione.”

© massimo ginesi 2 febbraio 2018