costruzioni sopra l’ultimo piano dell’edificio: innovazione e sopraelevazione

Una ponderosa ordinanza della Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  15 giugno 2020 n. 11490 rel. Scarpa) ripercorre – con dettagliata analisi e grande lucidità – la natura degli interventi che possono essere compiuti sulla parte sommitale  dell’edificio, evidenziando come possa trattarsi di innovazione ex art 1120 c.c. ove si intervenga su parti comuni in seguito a delibera assembleare, di intervento ex art 1102 c.c. ove il singolo intervenga in tali termini nell’ambito delle sue facoltà di godimento oppure di sopraelevazione, ove il singolo non modifichi   parti comuni, ma provveda alla edificazione di nuovi corpi di fabbrica nello spazio sovrastante l’edificio, sì che l’intervento si configura come facoltà riconosciuta ai sensi dell’art. 1127 c.c.

Il corretto inquadramento della fattispecie in fatto da parte del giudice di merito è essenziale, poiché ad ogni intervento – e alla conseguente norma applicabile –  conseguono differenti ampiezze delle facoltà e dei correlativi obblighi e limiti.

La pronuncia consente  di ripercorrere, con grande chiarezza e abbondanti richiami, gli orientamenti giurisprudenziali in tema di facoltà di maggior godimento, di innovazioni vietate e – soprattutto – di soprelevazione, concetto cui la più recente giurisprudenza di legittimità ha attribuito  dimensioni decisamente più ampie del significato letterale del termine.

Interessante anche l’aspetto della legittimazione e della successione nel diritto controverso di una delle parti.

E’ provvedimento che richiede integrale lettura, apparendo riduttivo pubblicarne semplicemente stralci.

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© massimo ginesi 16 giugno 2020 

 

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bonus 110% e cessione del credito in condominio

 l’ecobonus 110  o bonus ristrutturazione 110 è una detrazione fiscale del 110% delle spese sostenute per gli interventi di efficientamento energetico e riduzione del rischio sismico (l’ecobonus per la ristrutturazione al 110 è anche un sismabonus).

Il beneficio è previsto dall’art. 119 D.L. 34/2020 per una serie di interventi ed è prevista espressamente dal comma 9 lett. a), mentre al successivo art. 121 si prevede che  ‘I soggetti che sostengono, negli anni 2020 e 2021, spese per gliinterventi elencati al comma 2 possono optare, in luogo dell’utilizzo diretto della detrazione, alternativamente:  a) per un contributo, sotto forma di sconto sul corrispettivo dovuto fino a un importo massimo pari al corrispettivo dovuto anticipato dal fornitore che ha effettuato gli interventi e da quest’ultimo recuperato sotto forma di credito d’imposta, con facolta’ di successiva cessione del credito ad altri soggetti, ivi inclusi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari;   b) per la trasformazione del corrispondente importo in credito d’imposta, con facolta’ di successiva cessione ad altri soggetti, ivi inclusi istituti di credito e altri intermediari finanziari’ .

Mentre la delibera sui lavori che prevedono il beneficio è certamente adottabile con le ordinarie maggioranze per interventi di straordinaria manutenzione o per innovazioni (a seconda della natura dell’opera che si intende realizzare) si deve ritenere che  che la cessione del credito – certamente ammissibile anche per il condominio, come ha chiarito per le precedenti disposizioni che prevedevano tale meccanismo anche da circolare della agenzia delle Entrate 28.8.2017 n. 165110 –   avendo ad oggetto un diritto personale del condomino ed essendo destinata ad incidere sulla sua posizione patrimoniale e fiscale personale, sia sottratta alle competenze dell’assemblea e debba vedere espresso consenso dei singoli interessati.

In altri termini: la decisione di  giovarsi direttamente di benefici fiscali, a seconda della personale situazione contributiva di ciascuno, o di cedere piuttosto il proprio vantaggio fiscale in forma di credito al fornitore, è scelta che compete ai singoli titolari della posizione di vantaggio, con  conseguenze patrimoniali direttamente incidenti nella sfera individuale dei singoli condomini – che hanno diritto a detrazione in misura proporzionale alla propria quota millesimale – e su cui l’assemblea non ha alcun  titolo ad intervenire.

© massimo ginesi 12 giugno 2020 

 

l’ascensore installato successivamente sfugge alla presunzione di condominialità ex art 1117 c.c.

E’ quanto riafferma la Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 8 giugno 2020 10850 rel. Scarpa)   richiamando orientamenti consolidati: laddove uno o più condomini installino  un impianto di ascensore successivamente alla costruzione del fabbricato, quel bene sfugge alla presunzione di condominialità prevista dall’art.. 1117 c.c. e sarà onere di chi – successivamente – intende rivendicarne la (com)proprietà dar prova che l’intervento fu effettuato con il consenso suo o dei suoi danti causa.

Le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata circa la ripartizione dell’onere probatorio sono perciò errate, sia quanto al funzionamento della “presunzione di condominialità”, sia quanto alle conseguenze tratte dalla mancata dimostrazione di un “asserito diritto di proprietà esclusiva” ad opera della convenuta Università degli Studi di Sassari.

La decisione della Corte d’appello di Sassari, come visto, ha affermato la condominialità dell’ascensore alla stregua dell’art. 1117 c.c., nonché della prova conseguita dell’utilizzo dell’ascensore al servizio altresì della unità immobiliare in proprietà Promozione Professionale s.r.l.

In tal modo, i giudici di secondo grado hanno risolto la questione di diritto affrontata senza tener conto del consolidato orientamento interpretativo di questa Corte. Si è infatti più volte affermato che l’installazione “ex novo” di un ascensore in un edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino: Cass. Sez. 2, 25/03/2004, n. 5975; Cass. Sez. 2, 17/02/2005, n. 3264) costituisce innovazione, che può essere deliberata dall’assemblea condominiale con le maggioranze prescritte dall’art 1136 c.c., oppure direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo l’impianto di proprietà comune.

Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata, proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa comune conseguente alla realizzazione dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (come si desume dallo stesso art. 1121 c.c., che, al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia “deliberata o accettata” l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art. 1102 c.c.), salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20713; Cass. Sez. 2, 18/08/1993, n. 8746; Cass. Sez. 2, 18/11/1971, n. 3314; Cass. Sez. 2, 13/03/1963, n. 614).

A differenza di quanto supposto nella impugnata sentenza della Corte d’Appello di Sassari, dunque, “l’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano impiantato a loro spese. Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art. 1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi. L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri condomini la facoltà di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale” (così Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20713).

Se l’art. 1117, n. 3, c.c., come sottolinea la Corte di Sassari, ricomprende gli ascensori fra gli oggetti della proprietà comune, è anche da considerare che la presunzione legale di comunione di talune parti dell’edificio condominiale, stabilita dall’art. 1117 c.c., si basa sulla loro destinazione all’uso ed al godimento comune, e deve risultare da elementi obiettivi, cioè dalla attitudine funzionale della parte di cui trattasi al servizio od al godimento collettivo.

Tale necessaria relazione strumentale tra la singola parte (nella specie, l’impianto di ascensore) e l’uso comune deve comunque sussistere sin dal momento della nascita del condominio, restando escluso che sia determinante il collegamento materiale tra le res, se eseguito successivamente.

In tal senso, ove dimostrato che l’impianto di ascensore sia stato realizzato per iniziativa ed a spese solo di uno o di alcuni condomini dopo la costituzione del condominio, trova applicazione il regime presupposto dall’art. 1121 c.c., e non assume rilievo giuridicamente determinante la circostanza che il bene sia stato poi di fatto utilizzato anche a servizio delle unità immobiliari di proprietà di quei condomini che non avevano inizialmente inteso trarre vantaggio dall’innovazione. Neppure rileva quanto dedotto dalla controricorrente circa l’esistenza dell’ascensore – installato, si assume nel medesimo controricorso, intorno al 1960 – al momento del subentro nelle rispettive proprietà ad opera delle parti in lite (risalente al 1996/1997 per l’Università degli Studi di Sassari ed al 1986 per la Promozione Professionale s.r.l.).

La mera circostanza che i successivi titoli d’acquisto delle singole unità immobiliari non contengano alcuna espressa menzione delle vicende delle parti altrimenti sorrette dalla presunzione posta dall’art. 1117 c.c., non comporta che essi possano validamente includere pro quota il diritto di comproprietà di beni originariamente sottratti alla presunzione e rientranti perciò nella proprietà esclusiva di uno o più condomini. Poiché, dunque, è l’attrice Promozione Professionale s.r.l. onerata di dar prova di un valido titolo di comproprietà del bene danneggiato, essa potrà anche avvalersi della presunzione ex art. 1117 c.c., ove però abbia dimostrato che l’ascensore destinato all’uso comune fosse già esistente al momento della nascita del condominio, ovvero che l’impianto, benché installato successivamente alla costruzione dell’edificio, fosse stato comunque realizzato con il consenso della medesima condomina Promozione Professionale s.r.l. o del suo dante causa.”

© massimo ginesi 11 giugno 2020 

 

le ringhiere dei balconi sono comuni se hanno funzione decorativa

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 8 giugno 2020 n. 10848, rel. Scarpa)   ribadisce un orientamento consolidato, relativo alla funzione estetica che possono assumere, nel frontespizio dell’edificio condominiale, anche beni che, usualmente, appartengono ai singoli e che invece, in tal caso, assumono natura comune per funzione, quali frontalini, parapetti e ringhiere.

Il ricorso muoveva censure ad una sentenza del Tribunale di Milano che, quale giudice di appello rispetto a pronuncia del Giudice di Pace, aveva ritenuto che le ringhiere dei balconi di quello specifico condominio avessero  funzione decorativa.

“La sentenza impugnata contiene esaurientemente le argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione.

La sostanza della censura intende contestare che le ringhiere ed i divisori dei balconi dell’edificio del Condominio (omissis) , rientrino tra le parti comuni, le cui spese debbano perciò essere ripartite fra tutti i condomini, come fatto nella impugnata deliberazione assembleare 26 marzo 2012, in quanto essi non costituirebbero elementi decorativi dell’insieme.

Il motivo di ricorso è volto perciò a contrastare sotto il profilo fattuale la ricostruzione operata dal Tribunale di Milano, che si è poi conformato al principio di diritto elaborato da un orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui, mentre i balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c., non essendo necessari per l’esistenza del fabbricato, nè essendo destinati all’uso o al servizio di esso, i rivestimenti dello stesso devono, invece, essere considerati beni comuni se svolgono in concreto una prevalente, e perciò essenziale, funzione estetica per l’edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole (Cass. Sez. 2, 21/01/2000, n. 637 del; Cass. Sez. 2, 30/07/2004, n. 14576; Cass. Sez. 2, 30/04/2012, n. 6624; Cass. Sez. 2, 14/12/2017, n. 30071).

L’accertamento del giudice del merito che le ringhiere costituenti il parapetto del fronte dei balconi ed i divisori degli stessi, giacché “ben visibili all’esterno”, “disposti simmetricamente”, “omogenei per dimensioni, forma geometrica e materiale” (pagina 3 della sentenza del Tribunale di Milano), assolvano in misura preponderante alla funzione di rendere esteticamente gradevole l’edificio, costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.”

© massimo ginesi 10 giugno 2020

 

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interpretazione del regolamento contrattuale: la delibera del condominio non vincola il giudice.

Qualora nel condominio sia in vigore un regolamento di natura contrattuale,, il giudice è tenuto ad interpretarlo secondo le ordinarie regole ermeneutica in tema di contratti e non potrà limitarsi a recepire la lettura che di tali norme sia stata data in sede di successive delibere condominiali.

Nella fattispecie il regolamento vietava innovazioni lesive del decoro e il Condominio aveva  ritenuto conforme alla clausola un intervento di recupero del sottotetto effettuato da un condomino.

La Corte di legittimità ( Cass.civ. sez. II  ord. 27 maggio 2020 n. 9957), nel ribadire nozioni ormai consolidate in tema di decoro, rileva che il giudice di merito era tenuto a valutare se quell’intervento fosse effettivamente in contrasto con la clausola regolamentare, non potendo limitarsi a prendere atto del consenso espresso dalla maggioranza assembleare.

“Questa Corte ha affermato, con orientamento consolidato al quale il collegio intende dare continuità, che costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (Cassazione civile sez. II, 28/06/2018, n. 17102).
L’alterazione di tale decoro è integrata, quindi, da qualunque intervento che alteri in modo visibile e significativo la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono all’edificio una sua propria specifica identità (Cass. 1076/05 e Cass. 14455/09).

Ne consegue che, attesa la sostanziale identità della domanda basata sulla lesione del decoro architettonico o sull’art. 8 del regolamento condominiale, sia in relazione all’art. 1120 c.c., il motivo dedotto non è decisivo perché basato sui medesimi presupposti fattuali.

Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa interpretazione dell’art. 1362 c.c., in relazione al regolamento condominiale ed agli artt. 1120, 1137, 1138, 1350, 1372 e 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., commi 2 e 3, per avere la corte distrettuale interpretato il regolamento condominiale, facendo riferimento alla volontà dei condomini manifestata nella Delib. 25 febbraio 2003, con la quale i medesimi nulla obiettavano in ordine al progetto di modifica delle parti comuni; la corte di merito non avrebbe tenuto conto che, trattandosi di regolamento di natura contrattuale, non avrebbe potuto essere modificato a semplice maggioranza, ma con il consenso unanime dei condomini, in quando incidente sul decoro architettonico. Contestava, inoltre, che si fosse formato il giudicato per assenza di opposizione alla citata Delib. condominiale in quanto l’oggetto della Delib. era limitato al riconoscimento della legittimità degli interventi purché conformi al regolamento condominiale.

Il motivo è fondato sotto diversi profili.
È incontestato che il regolamento del Condominio (omissis) abbia natura contrattuale e che la domanda dal medesimo proposta fosse diretta alla declaratoria di illegittimità dei lavori eseguiti dai convenuti, consistenti nel recupero, ai fini abitativi, del sottotetto, perché lesivi del decoro architettonico.
Nell’interpretare il regolamento contrattuale, il giudice deve utilizzare i canoni ermeneutici previsti dal codice civile e quindi leggere le clausole complessivamente e non limitarsi alla singola disposizione (art. 1363 c.c.) e cercare di ricostruire la volontà e l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c. (Cassazione civile sez. VI, 03/05/2018, n. 10478).

L’art. 1362 c.c., allorché nel comma 1, prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cassazione civile sez. II, 22/08/2019, n. 21576).

La corte di merito ha interpretato l’art. 8 del regolamento contrattuale e, in particolare della volontà delle parti, non sulla base dei citati criteri ermeneutici, ovvero tenendo conto del dato letterale e delle altre clausole contrattuali, ma sulla base del comportamento successivo, costituito dal contenuto della Delib. 22 maggio 2003, nella quale il condominio nulla obiettava in relazione al progetto di realizzazione del recupero dell’abitabilità dei sottotetti, secondo il progetto presentato.
Tale deliberazione , che non risulta essere stata adottata all’unanimità, non poteva costituire l’unico parametro interpretativo per l’individuazione della volontà dei condomini espressa nel regolamento contrattuale, nè era idonea a modificarlo perché attinente ad innovazioni incidenti sul decoro architettonico.
In tale ipotesi, infatti, esula dai poteri istituzionali dell’assemblea dei condomini la facoltà di deliberare o consentire opere lesive del decoro dello edificio condominiale, alla stregua dell’art. 1138 c.c., comma 4 (Cassazione civile sez. VI, 18/11/2019, n. 29924).
Ne consegue che l’interpretazione del regolamento contrattuale, erroneamente basato, sulla Delib. Condominiale 22 maggio 2003, non poteva avere autorità di giudicato.”

© massimo ginesi 3 giugno 2020

anche il lastrico solare si può usucapire

Lo afferma Cass.civ. sez. II  ord. 21 maggio 2020 n. 9380, che ribadisce un consolidato orientamento in tema di beni comuni – ossia la necessità di un evidente interversione del possesso da parte del singolo – posto che il mero utilizzo, in situazioni di contitolarità, non è di per sè requisito dirimente ai fini dell’animus.

La Corte evidenzia  come il lastrico solare, ai sensi dell’art. 1126 c.c., possa essere di proprietà esclusiva,  circostanza che dunque ne legittima anche l’usucapione da parte del singolo che lo utilizzi in via esclusiva, rendendo evidente tale sua volontà agli altri condomini, per il periodo di tempo previsto dalla legge.

La Corte d’appello, dopo aver escluso che i lastrici solari appartenessero per titoli contrattuali ad una delle parti, ha accolto la domanda di usucapione senza avere previamente accertato la natura condominiale o non degli immobili in contestazione, laddove il lastrico solare è compreso nel catalogo delle parti comuni del fabbricato, ai sensi dell’art. 1117 c.c., con conseguente presunzione di condominialità (ex plurimis, Cass. 23/08/2017, n. 20287).

Si tratta, infatti, di bene che svolge una funzione di utilità comune a tutti i condomini, in quanto assicura la copertura dell’edificio (cfr. Cass. Sez. U. 10/05/2016, n. 9449, del 10/05/2016).

Nondimeno, come chiaramente emerge dal regime delle spese di riparazione e ricostruzione previsto dall’art. 1126 c.c., è configurabile l’”uso esclusivo” del lastrico (o di parte di esso), al quale la giurisprudenza consolidata ha assimilato l’ipotesi in cui il lastrico solare sia di proprietà esclusiva. Si trova ripetutamente affermato che il lastrico solare, anche se attribuito in uso esclusivo o di proprietà esclusiva di uno dei condomini, svolge funzione di copertura del fabbricato e perciò l’obbligo di provvedere alla sua riparazione o ricostruzione, sempre che non derivi da fatto imputabile soltanto a detto condomino, grava su tutti i condomini, con ripartizione delle relative spese secondo i criteri di cui all’art. 1126 c.c. (ex plurimis, in ordine cronologico, Cass. 29/10/1992, n. 11774; Cass. Sez. U. 29/04/1997, n. 3672; Cass. 28/11/2001, n, 15131; Cass. 21/02/2006, n. 3676; Cass. 07/02/2017, n. 3239).

Una volta ammessa l’appartenenza esclusiva del lastrico, è consequenziale ammettere che la proprietà dello stesso possa essere acquistata per usucapione, dovendosi ritenere superata l’affermazione risalente, secondo cui il lastrico solare non sarebbe usucapibile perché concettualmente insopprimibili le utilità tratte dagli altri partecipi della comunione, per effetto della connaturata destinazione di copertura del fabbricato (Cass. 05/06/1968, n. 3544).

È vero, al contrario, che l’utilitas concettualmente insopprimibile – copertura dell’edificio – che tutti i condomini ricavano dal lastrico solare non costituisce una facoltà connessa al diritto di proprietà, esercitabile dal proprietario ovvero dal possessore o compossessore, trattandosi di utilità che si trae dal bene in sé, mentre sono altre le utilità, esse sì corrispondenti ad altrettante facoltà connesse alla proprietà e coincidenti con il godimento del bene, che possono rilevare ai fini dell’usucapione.

Come ripetutamente affermato da questa Corte, il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune deve provare di averla sottratta all’uso comune per il periodo utile all’usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituita da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l’imprescrittibilità del diritto in comproprietà (ex plurimis, Cass. 02/03/1998, n, 2261; Cass. 23/07/2010, n. 17322; Cass. 09/06/2015, n. 11903; Cass. 19/10/2017, n. 24781).”

© massimo ginesi 28 maggio 2020

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sottottetto: l’accesso dal vano scala non basta a ritenerlo condominiale

La Corte di legittimità (Cass.civ. sez. II  ord. 21 maggio 2020 n. 9383) richiama una costante giurisprudenza in tema di titolarità del sottotetto, osservando come -al fine di stabilirne la riconducibilità ai beni comuni ex art 1117 c.c. – valga, in prima istanza, il titolo e, ove quello non disponga sul punto, l’effettiva destinazione al soddisfacimento di esigenze comuni.

La pronuncia non brilla per argomenti e valenza espositiva, tuttavia appare interessante laddove sottolinea un aspetto assai frequente nella morfologia del fabbricato in condominio, ovvero l’esistenza di un unico accesso posto nel vano scale dal quale accedere ai volumi sommitali.

La Corte osserva che la condominialità del bene  non può essere desunta dalla sola circostanza che l’accesso a tale vano avvenga da una botola posta nel vano scale:” la natura del sottotetto di un edificio è, in primo luogo, determinata dai titoli e, solo in difetto di questi ultimi, può ritenersi comune, se esso risulti in concreto, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune; il sottotetto può considerarsi, invece, pertinenza dell’appartamento sito all’ultimo piano solo quando assolva alla esclusiva funzione di isolare e proteggere l’appartamento medesimo dal caldo, dal freddo e dall’umidità, tramite la creazione di una camera d’aria e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo (Sez. 2, n. 17249 del 12/08/2011, Rv. 619027);

con l’ulteriore precisazione che per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali, sicchè, quando il sottotetto sia oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c., comma 1; viceversa, allorchè il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento (Sez. 2, n. 6143 del 30/03/2016, Rv. 639396);
– dalla laconica e ingiustificatamente apodittica motivazione, comunque erronea in punto di asserzione in diritto, non si comprende quali accertamenti abbiano convinto il Giudice a reputare che quella frazione di sottotetto (invero assai piccola, 15 mq.) fosse destinata all’uso comune, nel senso sopra specificato;
– non supplisce il difetto di sussunzione il mero riferimento a non meglio specificate foto, nè l’affermata presenza di una botola d’accesso nel vano scala e di un cavo televisivo;
il fatto che il sottotetto svolga funzioni isolanti per tutto l’edificio non dimostra affatto lo specifico uso condominiale, ma, anzi, al contrario, conferma che esso riveste prevalente funzione di coibentazione dei singoli appartamenti posti all’ultimo piano;
– manca, in definitiva, ogni compiuto accertamento in fatto sulla base del quale potersi affermare che le originarie caratteristiche strutturali dell’edificio fossero tali da doversi concludere per la destinazione dell’intiero sottotetto (quindi, anche della frazione sovrastante l’appartamento del ricorrente) a servizi comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c., comma 1, n. 2, non potendosi affermare raggiunta una tale prova attraverso il nudo riferimento all’esistenza di una botola d’accesso dal vano scala e di un cavo televisivo;
considerato che, pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio, perchè il Giudice del rinvio riesamini la vicenda alla luce del principio di diritto sopra riportato, nonchè dell’ulteriore specificazione seguente: “lo spurio richiamo a una botola d’accesso dal vano scala e a un cavo televisivo, non dimostra che il sottotetto, “per le (sue) caratteristiche strutturali e funzionali” sia destinato all’uso comune, senza previamente aver verificato la consistenza strutturale originaria del sottotetto e, nel caso di accertata originaria destinazione all’uso comune, se essa concerna l’intiera superficie dello stesso e, comunque, se la stessa sia tale da assumere carattere di oggettiva prevalenza sulla tipica funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano”;

© massimo ginesi 27 maggio 2020

 

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il regolamento non può vietare il distacco dall’impianto centralizzato

E’ nulla la clausola regolamentare, anche di natura contrattuale che vieti tout court al singolo di distaccarsi dall’impianto centralizzato di riscaldamento, ove da tale operazione non derivi squilibrio o aggravio di consumi.

E’ quanto afferma una recente ordinanza di legittimità (Cass.civ. sez. II  21 maggio 2020 n. 9387):

Il regolamento di condominio, anche se contrattuale, non può, invero, derogare alle disposizioni richiamate dall’art. 1138 c.c., comma 4 e non può menomare i diritti che ai condomini derivino dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni.

La clausola del regolamento condominiale, come la deliberazione assembleare che vi dia applicazione, che vieti “in radice” al condomino di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento e di distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto termico comune, è nulla, per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune, se il distacco non cagioni alcun notevole squilibrio di funzionamento (Cassazione civile sez. II, 02/11/2018, n. 28051; Cassazione civile sez. II, 12/05/2017, n. 11970; Cassazione civile sez. II, 29/09/2011, n. 19893).

Le condizioni per il distacco dall’impianto centralizzato, vanno quindi ravvisate, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, nell’assenza di pregiudizio al funzionamento dell’impianto e comportano il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123 c.c., comma 2, dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato; in tal caso, il condomino che opera il distacco è tenuto solo a pagare le spese di conservazione dell’impianto stesso.

Inoltre, l’ordinamento ha mostrato di privilegiare un favor per il distacco dall’impianto centralizzato, al preminente fine di interesse generale rappresentato dal risparmio energetico e, nei nuovi edifici, ha previsto l’esclusione degli impianti centralizzati e la realizzazione dei soli individuali.

Non trascurabile è il richiamo alle previsioni di cui alla L. n. 10 del 1991, art. 26 (che al comma 5, prevede che “Per le innovazioni relative all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato, l’assemblea di condominio Delibera con le maggioranze previste dall’art. 1120 c.c., comma 2″) nonché della L. n. 102 del 2014, che impongono la contabilizzazione dei consumi di ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi (art. 9, comma 5); emerge da tale quadro normativo l’intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento all’effettivo consumo.”

© Massimo Ginesi 26 maggio 2020

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Decreto rilancio: sparite le norme sull’amministratore

In questo bizzarro paese si annunciano decreti legge in conferenza stampa, se ne diffondono le bozze, si attende  una settimana per vederli pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, quando ciò avviene, si scopre che talune norme sono sparite.

Accade con quanto era previsto in tema di condominio, del tutto depennato nella versione pubblicata, posto che l’art. 221 effettivamente emanato prevede unicamente la seguente modifica, che nulla importa per il condominio

 è invece scomparso il testo che prevedeva, quale modifica all’art. 83 d.l. 18/2020 anche la seguente:

b) dopo il comma 21, sono aggiunti i seguenti:

21-bis. Quando il mandato dell’amministratore è scaduto alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto

 o scade entro tre mesi dalla stessa alla data, l’incarico dell’amministratore è rinnovato per ulteriori sei mesi dalla scadenza in deroga a quanto previsto dall’articolo 1129 del codice civile, fermo il diritto dei condòmini di procedere alla revoca nella prima assemblea successiva al rinnovo.

21-ter. In deroga a quanto stabilito dall’articolo 1130, comma primo, numero 10), del codice civile, il termine per la convoca

zione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto condominiale annuale con data di chiusura successiva al 31 luglio 2019 è differito di 12 mesi dalla data di chiusura dell’esercizio contabile.

attenzione dunque: al momento niente proroga per l’incarico dell’amministratore e per il termine di presentazione e approvazione del rendiconto  

© massimo ginesi 20 maggio 2020