pausa estiva

i mesi estivi sono tradizionalmente avari di significativa elaborazione giurisprudenziale e, quest’anno in particolare, forse complice il caldo sahariano, sembra  particolarmente scarsa  la pubblicazione di provvedimenti degni di nota.

Le attività dello studio e l’aggiornamento del sito dunque rallentano in conseguenza e, sino al 31 agosto 2019, proseguiranno per le sole urgenze, quanto alle prime, e solo ove sussistano novità degne di nota, quanto alle seconde. 

 

“Il miracolo non è quello di camminare sulle acque, ma di camminare sulla terra verde nel momento presente e d’apprezzare la bellezza e la pace che sono disponibili ora”

Thich Nhat Hanh

 

© massimo ginesi 25 luglio 2019

immobile pignorato: la locazione non abitativa non si rinnova senza ordine del giudice dell’esecuzione

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. III 19 luglio 2019 n. 19522)  chiarisce che, dopo il primo rinnovo che avviene automaticamente laddove non vi ia disdetta motivata da parte del locatore, non può darsi rinnovo tacito del contratto in assenza di disdetta ove nel frattempo alcune quote del bene risultino essere state pignorate.

i fatti: “Con sentenza resa in data 10/10/2016 la Corte d’appello di Milano, in accoglimento dell’impugnazione proposta da P.A. e in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda avanzata da D.A.N.F. per l’accertamento della cessazione del contratto di locazione stipulato tra i comproprietari (il D.A. per la quota del 50%, e M.M. e Mo.Ma. per le quote del 25% ciascuno), quali locatori, e P.A. , quale conduttore.
2. A fondamento della decisione assunta, la corte d’appello ha evidenziato come il contratto in esame fosse stato concluso tra le parti in data 1/6/2003, con previsione di rinnovo quadriennale automatico in assenza di tempestiva disdetta.
3. Nel corso del rapporto, più volte rinnovatosi, le quote di comproprietà spettanti a M.M. e Mo.Ma. erano state sottoposte a pignoramento e, conseguentemente, il D.A. aveva agito in giudizio al fine di far rilevare l’intervenuta automatica cessazione del rapporto per la successiva scadenza del 31/5/2015, non essendo intervenuta l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione per la rinnovazione della locazione, ai sensi dell’art. 560 c.p.c..
4. Peraltro, il D.A. aveva altresì provveduto a manifestare tempestivamente la propria volontà di negare l’automatico rinnovo del contratto alla scadenza del 31/5/2015.”

la disamina di legittimità: “secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza, per il mancato esercizio, da parte del locatore, della facoltà di diniego di rinnovazione, ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, artt. 28 e 29, costituisce un effetto automatico derivante direttamente dalla legge e non da una manifestazione di volontà negoziale, con la conseguenza che, in caso di pignoramento dell’immobile, tale rinnovazione non necessita dell’autorizzazione del giudice dell’esecuzione, prevista dell’art. 560 c.p.c., comma 2 (Sez. U, Sentenza n. 11830 del 16/05/2013, Rv. 626185-01).

In coerenza a tale premessa, si è quindi ritenuto (sempre in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo) che la rinnovazione tacita del contratto alla seconda scadenza contrattuale, a seguito del mancato esercizio, da parte del locatore, della facoltà di disdetta (non motivata) del rapporto ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 28, comma 1, costituisce una libera manifestazione di volontà negoziale, con la conseguenza che, in caso di pignoramento dell’immobile locato eseguito in data antecedente la scadenza del termine per l’esercizio della menzionata facoltà da parte del locatore, la rinnovazione della locazione necessita dell’autorizzazione del giudice dell’esecuzione prevista dall’art. 560 c.p.c., comma 2 (Sez. 3, Sentenza n. 11168 del 29/05/2015, Rv. 635497-01).

In forza di tali premesse, è agevole concludere che, nel caso di specie, in corrispondenza del terzo rinnovo della locazione – e quindi in situazione di libera disponibilità del termine di scadenza contrattuale -, sopravvenuto il pignoramento delle quote di proprietà dei M. , il mancato intervento di alcuna autorizzazione del giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 560 c.p.c., deve ritenersi tale da aver determinato l’automatica cessazione di efficacia del contratto, poiché la comune volontà dei comproprietari locatori, in ipotesi diretta a consentirne l’eventuale rinnovazione, si sarebbe dovuta necessariamente formare (vieppiù a fronte del dissenso alla rinnovazione dell’unico comunista in bonis) previa autorizzazione del giudice dell’esecuzione.

In tal senso, nessun rilievo può essere ascritto al mero dissenso manifestato stragiudizialmente dai M. in ordine alla gestione della cosa comune operata dal D.A. , atteso che l’unica modalità possibile per l’(eventuale) impedimento della definitiva scadenza della locazione (voluta dal D.A. ) sarebbe stata quella di adire, previa autorizzazione del giudice dell’esecuzione ex art. 560 c.p.c., il giudice della comunione (ex art. 1105 c.c.) allo scopo di provocare un’eventuale (ma solo possibile) decisione diversa da quella in concreto fatta propria dal D.A. 

Allo stesso modo, nessun rilievo può essere attribuito (al prospettato fine di far rivivere, a seguito dell’intercorsa estinzione della procedura esecutiva, il contratto di locazione nelle more definitivamente cessato) alla previsione dell’art. 632 c.p.c. (che sancisce l’inefficacia degli atti compiuti, là dove l’estinzione del processo esecutivo si verifichi prima dell’aggiudicazione o dell’assegnazione dei beni staggiti), non essendo stato nella specie propriamente compiuto alcun atto della procedura in ipotesi destinato a determinare la cessazione dell’efficacia del contratto di locazione (e di cui predicare l’eventuale inefficacia ai sensi dell’art. 632 c.p.c.) e dovendo in ogni caso ritenersi (in forza di un elementare principio di certezza delle situazioni giuridiche sostanziali) che l’estinzione del procedimento esecutivo non valga a comportare l’inefficacia degli atti ritualmente posti in essere nel corso del processo esecutivo, là dove dal relativo compimento sia eventualmente derivata la legittima attribuzione di diritti in favore di terzi.”

© massimo ginesi 23 luglio 2019 

opposizione a decreto ingiuntivo e onere della mediazione: la questione alle sezioni unite

Cass. civ. sez. III 12 luglio 2019 n. 18741 rimette alle Sezioni Unite la questione se sia onere dell’opponente a decreto ingiuntivo – oppure dell’opposto – introdurre il procedimento, per le materie ove la mediazione costituisca condizione di procedibilità, . 

Ritiene il Collegio che sussista il presupposto della questione di massima di particolare importanza che giustifica la rimessione alle Sezioni Unite. Entrambe le posizioni evidenziate sono assistite da valide ragioni tecniche e appaiono essere proiezione di diversi principi. La questione riveste particolare importanza perchè tocca un tema sul quale, per riprendere le parole di Cass. 15 dicembre 2011 n. 27063 (con cui fu chiesta la valutazione di opportunità della rimessione alle Sezioni Unite in ordine alla questione della fattibilità del concordato preventivo), “si registra non solo un ampio dibattito in dottrina ma anche un tuttora non sopito contrasto nella giurisprudenza di merito, reso più acuto dalla frequenza delle questioni che in siffatta materia vengono sottoposte a giudizio”. La vastità del contenzioso interessato dalla mediazione (condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari), ed il diffuso ricorso al procedimento monitorio, richiedono a parere del Collegio, in considerazione dei presupposti evidenziati, la rilevanza nomofilattica della pronuncia delle Sezioni Unite.”

L’ordinanza, che contiene ampia disamina e sintesi delle posizioni giurisprudenziali ad oggi emerse, merita integrale lettura.

cass_18741_2019

copyright massimo ginesi 18 luglio 2019

abbattimento barriere architettoniche: va comunque preservata la proprietà individuale

Il legislatore da molti anni ha emanato norme che semplificano e incentivano la mobilità all’interno degli edifici  in condominio (anche se non può tacersi del passo indietro compiuto dalla L. 220/2012, che ha nuovamente innalzato le maggioranze previste dalla L. 13/1989); nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza, che ha sempre fornito interpretazioni estensive sulla  possibilità di installare manufatti ed impianti volti all’abbattimento delle barriere architettoniche.

A tali interventi, sia che vengano deliberati dall’assemblea ai sensi dell’art. 1120 c.c. che posti in essere dal singolo ai sensi dell’art. 1102 c.c.,  resta tuttavia un limite invalicabile, ovvero il divieto  di incidere sui diritti individuali dei singoli condomini, posto che già la legge 13/1989 faceva salvo quanto disposto dall’art. 1120 comma II  c.c. (nella formulazione all’epoca vigente, oggi comma IV).

Una recente sentenza del Tribunale meneghino  (Trib. Milano   sez. XIII, 21/06/2019 n. 6072, est. Manunta) ribadisce con chiarezza tale orientamento.

i fatti : “con atto di citazione ritualmente notificato Fr. La. conveniva in giudizio il CONDOMINIO di VIA M., MILANO, ove risiede, chiedendo che fossero annullate o dichiarate nulle le delibere assembleari assunte in data 15.05.2013 e 15.03.2016 nella parte in cui statuivano di allocare un impianto di ascensore dinanzi alla proprietà attorea ed a mt. 1,40 dalle finestre del bagno e della cucina ed a poco più di 2 da quella della camera da letto; chiedeva anche il risarcimento dei danni, quantificati in E 5.200,00″

la decisione: ” va evidenziato che l’installazione di un ascensore con sacrificio dei diritti individuali anche di un solo condomino costituisce innovazione vietata e la relativa delibera è affetta da nullità; pertanto, l’impugnazione non è neppure soggetta al termine di decadenza e non ha rilievo che lo stesso condomino interessato abbia espresso voto favorevole;

anche a prescindere dall’applicabilità delle distanze legali (mt.3 previsti dall’art.907 c.c.) in ambito condominiale, appare evidente che la realizzazione dell’impianto limiterebbe fortemente il godimento del cavedio comune in danno della condomina La., in particolare, con riguardo all’afflusso di aria e luce (funzione precipua del cortile) e con un evidente decremento di valore dell’immobile;

esattamente in termini va richiamato l’orientamento della S.C.: ‘L’art. 2 della legge 9 gennaio 1989 n. 13, recante norme per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, dopo aver previsto la possibilità per l’assemblea condominiale di approvare le innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze indicate nell’art. 1136, comma secondo e terzo, cod. civ. – così derogando all’art. 1120, comma primo, che richiama il comma quinto dell’art. 1136 e, quindi, le più ampie maggioranze ivi contemplate – dispone tuttavia, al terzo comma, che resta fermo il disposto dell’art. 1120, comma secondo, il quale vieta le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della comunione. Ne deriva che è nulla la delibera, la quale, ancorché adottata a maggioranza al fine indicato (nella specie, relativa all’installazione di un impianto di ascensore nell’interesse comune), sia lesiva dei diritti di un condomino sulle parti di sua proprietà esclusiva, e la relativa nullità è sottratta al termine di impugnazione previsto dall’art. 1137, ultimo comma, cod. civ., potendo essere fatta valere in ogni tempo da chiunque dimostri di averne interesse, ivi compreso il condomino che abbia espresso voto favorevole’ (Cass. sent. n. 12930/ 2012);

quanto alla lesione dei diritti individuali con riferimento alla riduzione di valore della singola unità abitativa in conseguenza dell’installazione di ascensore, l’indirizzo è stato ribadito dalla stessa Corte nella sentenza n.24760/2013;

inoltre con pronuncia recente e su un caso assolutamente analogo a quello di specie (realizzazione nella comune corte interna dell’edificio di un ascensore che aveva ridotto la luce e l’aria dell’appartamento, posto al piano terra, della ricorrente e impedito a quest’ultima l’uso di una porzione rilevante della stessa corte) la S.C. ha ribadito l’illegittimità dell’installazione in violazione dei diritti individuali dei condòmini: ‘La delibera dell’assemblea di condominio che privi il singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune dell’edificio, rendendola inservibile all’uso e al godimento dello stesso, integra un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condòmino medesimo, il quale, lamentando la nullità della delibera, ha facoltà di chiedere la condanna al risarcimento del danno del condominio, quale centro di imputazione degli atti e delle attività compiute dalla collettività condominiale e delle relative conseguenze patrimoniali sfavorevoli.’ (Cass. sentenza n. 23076 del 26/09/2018);

in forza di tali principi si deve assumere una decisione difforme dalle conclusioni formulate dalla c.t.u. in ordine alle limitazioni che si produrrebbero a carico della proprietà individuale dell’attrice;

 non è risultata possibile e praticabile la realizzazione dell’impianto in una diversa posizione e non si è potuti giungere a una soluzione condivisa;

pertanto, deve essere accertata la nullità delle due delibere impugnate;

va, invece, rigettata la domanda risarcitoria proposta dall’attrice, atteso che l’impianto non ha avuto alcuna realizzazione e non si è, quindi, prodotto alcun pregiudizio a carico della La. (nel caso dell’ultima massima sopra citata, invece, il diritto al risarcimento risulta riconosciuto in quanto l’impianto era già stato realizzato)”

copyright massimo ginesi 17 luglio 2019

distanze in condominio: il giudice deve valutare se l’applicazione della norma risulti irragionevole

Con orientamento ormai consolidato la Cassazione afferma che le norme sulle distanze in condominio trovano applicazione ove compatibili, salvo che la disputa coinvolga unicamente proprità individuali. 

Una recente pronuncia (Cass.civ. sez. II  ord. 28 giugno 2019 n. 17549) sottolinea l’onere del giudice di merito di valutare e motivare in ordine alla loro eventuale disapplicazione, laddove ciò avvenga per contemperare le esigenze sottese a tali precetti con quelle legate ad una corretta e moderna fruizione degli immobili.

La vicenda riguarda il posizionamento di una condotta fognaria sul muro perimetrale, resa necessaria dall’esigenza di adeguamento di un bagno decisamente obsoleto.

la sentenza impugnata pur avendo invocato il principio di diritto che ritiene la disposizione dell’art. 889 c.c., relativa alle distanze da rispettare per pozzi, cisterne, fossi e tubi, applicabile anche con riguardo agli edifici in condominio, non l’ha adeguatamente applicato nella valutazione delle circostanze concrete, così come indicato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità che impone il contemperamento degli interessi fra norme che regolano i rapporti di vicinato e diritti e facoltà dei condomini (cfr. Cass. 12633/2016; id.12520/2010);

– ne consegue che l’art. 889 c.c., non opera nel caso di impianti da considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione dell’immobile, tale da essere adeguata all’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene (cfr. Cass. 8801/1999);

– in particolare, tale principio è già stato affermato in relazione alla creazione o modifica di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di taglio medio, in quanto esigenza tanto diffusa da rivestire il carattere dell’essenzialità e che giustifica la mancata applicazione dell’art. 889 c.c., negli edifici in condominio (così Cass. 13313/2009);

– ciò posto, risulta tempestivamente dedotto dagli appellanti che la delocalizzazione del nuovo bagno, era indispensabile per adeguare il bagno esistente, accessibile solo dalla cucina ed avente estensione di 1 mq, dotato di sola tazza wc, alle norme di igiene dettatte dal decreto del Ministero della sanità del 5/7/1975 e dall’art. C-I-6 commi 1 e 2 del Regolamento edilizio del Comune di (OMISSIS) (secondo il quale deve essere provvisto di vaso, bidet, lavabo e vasca da bagno o doccia, con divieto di accesso dalla cucina anche se con interposto antibagno);

– parimenti risulta che il ctu P. con la relazione a chiarimenti del 28/11/2006, in risposta al quesito se la condotta fecale potesse essere realizzata nel muro senza arrecare eventuali ed ulteriori danni alla statica dell’immobile, si sia pronunciato ammettendo la possibilità di uno scavo nel muro di facciata nel quale allocare la condotta senza pregiudizio della statica e al tempo stesso, in risposta al quesito se la condotta possa essere collocata in altra posizione sul medesimo muro nel rispetto delle distanze legali, affermava (cfr. ricorso pagg. 20,30,34, 40 ove si richiamano le pag. 22-23 della relazione) “la condotta non può essere collocata nè a sinistra della porta del civico n. 12, nè a destra di quella del civico 10 in quanto violerebbe la distanza legale dai fabbricati confinanti;

– da ultimo il ctu concludeva che ” nel caso in cui il giudicante ritenesse indispensabile l’impianto e, quindi, fosse possibile superare, in tema di edifici condominiali, la limitazione della distanza legale con la proprietà S., l’unica possibile collocazione della condotta è sul tratto di muro compreso tra I due civici innanzi citati, ossia in posizione simile a quella attuale”;

– a fronte di dette non contestate considerazioni, appare perciò fondata la censura perchè la corte territoriale non ha adeguatamente verificato la ‘impossibilità di collocare diversamente la colonna fognante (cfr. pag. 10 della sentenza);

il giudice d’appello ha omesso di accertare se la rigorosa osservanza dell’art. 889 c.c., non sia irragionevole, considerando – alla luce del sopra descritto accertamento di fatto svolto dal ctu – che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sè il contemperamento dei vari interessi al fine dell’ordinato svolgersi della convivenza tra I condomini (cfr. Cass. 1989/2016);

– al contrario, la corte ha concluso, senza alcun cenno alle suddette risultanze del ctu e senza operare il contemperamento degli interessi, che lo spostamento della condotta era dipeso da una scelta deliberata degli attori e non da esigenze inderogabili (cfr. pag. 11 della sentenza);

– si rende, pertanto, necessario l’accoglimento del motivo e la cassazione della sentenza in relazione ad esso, con l’assorbimento degli altri due motivi (cfr. Cass. 28995/2018);

– va dunque disposto il rinvio alla Corte d’appello di Bari, altra sezione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.”

© massimo ginesi 16 luglio 2019

lesione del decoro del fabbricato: quando il giudice si discosta dalle valutazione del CTU

Una recente sentenza del Tribunale di Roma (Trib. Roma sez. V, 24/06/2019,  n.13287 est. Ghiron) ripercorre orientamenti consolidati in tema di decoro del fabbricato e rgiunge a ritenere illecito l’accorpamento di più balconi in uno solo, discostandosi motivatamente da quanto invece aveva suggerito il CTU:

Parte attrice contesta le opere realizzate dalla convenuta assumendo che le stesse avrebbero violato i limiti imposti, nell’uso delle cose comune, dall’art. 1102 cc e che, in particolare, avrebbero violato il decoro e la statica dell’edificio, alterando altresì la destinazione della facciata.

Quanto alla lamentata violazione del decoro dell’edificio si osserva invero che, per -decoro architettonico’, deve intendersi l’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture architettoniche che connotano il fabbricato e che gli imprimono una determinata, armonica fisionomia. E l’alterazione di tale decoro può ben correlarsi alla realizzazione di opere che modifichino l’originario aspetto soltanto di singoli elementi o punti dell’edificio tutte le volte che l’immutazione sia suscettibile di riflettersi sull’insieme dell’aspetto del fabbricato (v. Cass. 17398/04, Cass. 8174/12). E non occorre ulteriormente che il fabbricato, nel quale il decoro si assuma violato, abbia un particolare pregio artistico (Cass. 27551/09) né rileva che il decoro sia stato alterato da precedenti interventi sull’immobile (Cass. 14455/09 e Cass. 21835/07) ma è sufficiente che vengano alterate in modo visibile e significativo la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono all’edificio una sua propria specifica identità (Cass. 1076/05 e Cass. 14455/09).

Orbene, nel caso in esame, l’ausiliario ha rappresentato la non incidenza in senso negativo dell’opera (costituita dall’accorpamento di alcuni balconi di proprietà esclusiva dell’attrice in un unico balcone, al quale si accede attraverso tre porte-finestre dall’appartamento della convenuta, balcone munito di una -pesante’ ringhiera mediante modifica del cornicione) sotto tale profilo.

L’assunto, peraltro frutto di una mera convinzione personale, non è condivisibile in particolare in quanto l’ausiliario è giunto alla suddetta conclusione erroneamente comparando la situazione dell’edificio oggetto di causa con altri limitrofi laddove la valutazione deve essere effettuata esaminando esclusivamente il fabbricato oggetto degli interventi.

Dall’esame delle fotografie prodotte e dei rilievi effettuati dal ctu è emerso, invece, che tale modifica ha alterato, in senso peggiorativo, il prospetto della facciata (su strada) dell’edificio (v. fotografie allegate alla ctu) trasformando quella che era una mera piccola falda a protezione della facciata in passerella di collegamento fra i precedenti piccoli balconi, accorpati in uno solo munito di una pesante ringhiera che stride con il resto della facciata. Ciò in un fabbricato da ritenersi di pregio ubicato in zona Prati. Le opere realizzate (trasformazione della falda, accorpamento dei balconi, installazione di ringhiera, ecc.) hanno invero modificato, in senso peggiorativo, una facciata di pregio connotata (v. ctu pag. 13) architettonicamente dalla presenza di -vuoti’ fra le finestre oggi riempiti dalla balaustra.

Donde l’accoglimento, in parte qua, della domanda di rimozione”

© massimo ginesi 15 luglio 2019 

il lastrico che copre un solo fondo esterno non comporta partecipazione alla spesa del condominio.

Ove nel condominio esista un fondo commerciale posto in corpo di fabbrica attiguo al fabbricato principale, la copertura piana di cui è dotato, ove non raccolga e smaltisca acque piovane del condominio, non svolga alcuna altra funzione comune e non veda diritti di calpestio di terzi, rimane bene della cui manutenzione deve gravarsi unicamente il proprietario del fondo.

 E’ quanto ha stabilito di recente la suprema Corte (Cass.Civ. Sez. VI-2 ord. 20 giugno 2019 n. 16625 rel. Scarpa), rilevando che in tal caso l’applicazione dell’art. 1126 c.c. non potrà comportare responsabilità del condominio, non sussistendo nè funzione comune nè altre unità sottostanti la copertura nè, tantomeno, potrà ipotizzarsi una sua responsabilità come custode.

Secondo orientamento giurisprudenziale consolidato, la responsabilità concorrente del condominio con il proprietario o usuario esclusivo di un lastrico solare o di una terrazza a livello, per i danni da infiltrazione nell’appartamento sottostante, in base ai criteri di cui all’art. 1126 c.c., suppone che il lastrico o la terrazza – indipendentemente dalla sua proprietà o dal suo uso esclusivo -, per i suoi connotati strutturali e funzionali, svolga funzione di copertura del fabbricato, ovvero di più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a diversi proprietari (arg. da Cass. Sez. U, 07/07/1993, n. 7449; Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449).

L’obbligo del condominio di concorrere al risarcimento dei danni da infiltrazioni cagionate dal lastrico solare o dalla terrazza a livello che non sia comune, ex art. 1117 c.c., a tutti i condomini, è quindi correlato all’accertamento in concreto di tale funzione di copertura dell’intero edificio, o della parte di esso cui il bene «serve», in quanto superficie terminale del fabbricato.

Se, come accertato nel caso in esame, la terrazza a livello sovrasta soltanto un piano terraneo di proprietà esclusiva, costituendo un autonomo corpo di fabbrica rispetto all’edificio condominiale (a prescindere dalla questione della sua estraneità alla “presunzione” di condominialità, su cui si sofferma la Corte d’Appello di Napoli e che è invece irrilevate ai fini dell’art. 1126 c.c.), l’inconfigurabilità di una responsabilità risarcitoria concorrente del condominio, da quantificare secondo il criterio di imputazione previsto dall’art. 1126 c.c., discende dal difetto della funzione di copertura e protezione dell’edificio, che costituisce la ratio di tale disposizione.”

Su detto lastrico finivano anche scarichi abusivi di alcuni condomini, per i quali, parimenti, non può invocarsi alcuna responsabilità del condominio: “ La fattispecie di cui all’art. 2051 c.c., in tema di responsabilità civile per i danni cagionati da cose in custodia, postula la sussistenza di un rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo.

In tal senso, il condominio di un edificio può intendersi custode dei beni e dei servizi comuni, e perciò obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le parti comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, rispondendo dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini.

Viceversa, il singolo condomino non può pretendere di affermare la responsabilità del condominio, a norma dell’art. 2051 c.c., per il risarcimento dei danni sofferti a causa del cattivo funzionamento di tubazioni di scarico delle acque destinate a servizio esclusivo di proprietà individuali, di cui alcune (come nella specie, accertato in base a giudizio di fatto demandato al giudice del merito) pure estranee al complesso condominiale, essendo il condominio stesso tenuto alla custodia ed alla manutenzione unicamente delle parti e degli impianti comuni dell’edificio.

L’eliminazione delle caratteristiche di una cosa, che rendono questa atta a produrre danno, deve essere chiesta nei confronti del proprietario-possessore della cosa stessa, la cui responsabilità è presunta a norma dell’art. 2051 c.c.”

© massimo ginesi 2 luglio 2019 

 

sconfinamenti fra edifici condominiali contigui: il principio dell’accessione prevale sulla presunzione di comunione.

Una recentissima pronuncia della Cassazione ( Cass.civ. sez. VI-2 25 giugno 2019 n. 17022 rel. Scarpa) affronta un tema davvero singolare e che ben si attaglia ai tipici fabbricati liguri (anche se la vicenda di causa ha luogo in toscana).

In due edifici condominiali contigui (ma costituenti autonomi e distinti condomini) taluni condomini provvedono a sopraelevare e a modificare la consistenza delle proprie unità, sforando  nell’edificio vicino e quindi giovandosi di parti comuni dell’altro fabbricato (quali tetto e strutture): la causa origina dalla impugnazione di delibera del condominio “invaso” dall’ampliamento  con la quale si dava mandato all’amministratore di agire per il recupero delle quote di spesa nei confronti di uno di questi soggetti, sull’assunto che lo stesso fosse divenuto – in forza di dette modifiche – condomino anche di tale fabbricato.

Il Tribunale di Firenze ha annullato la delibera, rigettando la richiesta  avanzata dall’impugnante volta ad accertare che non era condomino di quel fabbricato che pretendeva di imputargli oneri di manutenzione;la Corte di Appello di Firenze – sul gravame proposto dalla società impugnante – ha invece ritenuto che questa fosse divenuta condomina di quel fabbricato in virtù delle opere svolte che, pacificamente, debordavano nel condominio vicino.

Il giudice di legittimità rileva in primo luogo che l’accertamento sulla qualità di condomino, ove richiesto con efficacia di giudicato, debba vedere litisconsorzio necessario fra gli altri condomini, difettando legittimazione passiva dell’amministratore in ordine a tali domande, mentre ben può costituire mero accertamento incidentale volto a statuire unicamente sulla validità della delibera impugnata: “ la  domanda  di accertamento  della  qualità di  condomino, ovvero dell’appartenenza, o meno, di un’unità immobiliare di proprietà esclusiva ad un condominio edilizio, in quanto inerente all’esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 e.e., non va proposta nei confronti della persona che svolga l’incarico di amministratore del condominio medesimo, imponendo, piuttosto, la partecipazione quali legittimati passivi di tutti condomini in una  situazione  di  litisconsorzio necessario.

La definizione della vertenza postula, invero, una decisione implicante un accertamento in ordine a titoli di proprietà confliggenti fra loro, suscettibile di assumere valenza solo se, ed in quanto, data nei confronti di tutti i soggetti, asseriti partecipi del preteso condominio in discussione (Cass. Sez.  6-2,  25/06/2018,  n. 16679;  Cass.  Sez. 6-2, 17/10/2017, n. 24431; Cass. Sez. 6-2, 22/06/2017, n. 15550; Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez.  2,  01/04/1999,  n. 3119). 

Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, ex art. 1137 e.e. (quale quello in esame, relativo alla deliberazione dell’assemblea 26 settembre 2003 del Condominio di Via dei N.) in cui la legittimazione passiva spetta all’amministratore, l’allegazione, ad opera della ricorrente, della estraneità degli immobili di sua proprietà esclusiva ad un condominio può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della  sola causa  sulla  validità  dell’atto  collegiale  ma  privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612).”

Quanto all’acquisto della qualità di condomino, la Cassazione evidenzia come la stessa possa operare solo ove le modifiche intervengano interiormente alla costituzione del condominio o comunque su area già comune anche ai condomini che effettuano la nuova costruzione, mentre ove lo sconfinamento avvenga su area che già appartiene pro indiviso solo ad altri soggetti, debba prevalere il regime dell’accessione: ” La presunzione legale di comunione di talune parti dell’edificio condominiale, stabilita dall’art. 1117 c.c., si basa sulla loro destinazione all’uso ed al godimento comune, destinazione che deve sussistere anche per le parti nominativamente elencate in detta norma e risultare da elementi obiettivi, cioè dalla  attitudine funzionale della parte di cui trattasi al servizio od al godimento collettivo, intesa come relazione strumentale necessaria tra questa parte e l’uso comune.

La presunzione di condominialità è applicabile (come conferma ora l’art. 1117 bis c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012) anche quando si tratti non di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, oggettivamente e stabilmente destinate alla conservazione, all’uso od al servizio di tali edifici, ancorché insistenti su un’area appartenente al proprietario  (o  ai proprietari) di uno solo degli immobili; in simile ipotesi, però, la presunzione è invocabile solo se l’area e gli edifici siano appartenenti ad una stessa persona – od a più persone “pro­ indiviso” – nel momento della costruzione della cosa o del suo adattamento o trasformazione all’uso comune, mentre, nel caso in cui l’area sulla quale siano state realizzate le opere destinate a  servire i due edifici  sia  appartenuta  sin dall’origine  ai proprietari di uno solo di essi, questi ultimi acquistano per accessione la proprietà esclusiva delle opere realizzate sul loro fondo, anche se poste in essere per un accordo intervenuto tra tutti gli interessati e/o col contributo economico dei  proprietari degli altri edifici.

Così, al fine di accertare se un fabbricato adiacente ad altro edificio faccia parte dei beni condominiali, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è necessario stabilire  se  siano sussistenti i presupposti per l’operatività della presunzione di proprietà comune con riferimento al momento della nascita del condominio, restando escluso che sia determinante il collegamento materiale tra i due immobili, se eseguito successivamente all’acquisto. 

  Alla stregua di tali criteri non può essere condivisa l’affermazione della Corte di  Firenze  secondo cui le fondazioni, i muri maestri ed il tetto  dell’edificio condominiale di Via dei N. siano divenuti comuni  ai proprietari  di  unità  immobiliari  comprese  nell’edificio   limitrofo di via della M.,  per il solo  fatto che alcuni condomini  di  via Dei N., sopraelevando il tetto e “sfondando” il muro perimetrale, avessero debordato, con le costruzioni, dall’area di loro spettanza ed invaso l’area di proprietà  del vicino edificio di  via della M, non avendo i costruttori in tal modo  conseguito l’attribuzione della proprietà  dello  spazio  occupato, né soccorrendo più al momento di tali opere la  presunzione  ex art. 1117 c.c., in quanto il suolo e gli edifici all’epoca della costruzione appartenevano ormai a proprietari diversi, sicché dovevano piuttosto trovare applicazione – in difetto di apposita convenzione scritta, o di maturata  usucapione    le  norme relative all’accessione e alla  forma  richiesta  ad substantiam  per il trasferimento dei diritti reali immobiliari (cfr. Cass. Sez. 2, 26/04/1993, n. 4881; Cass. Sez. 2, 26/04/1990,  n.  3483;  Cass. Sez. 2, 18/03/1968, n. 863; Cass. Sez.  2,  22/10/1975, n. 3501; Cass. Sez. 2, 23/09/2011, n. 19490).”

© massimo ginesi 27 giugno 2019 

 

autorimesse costruite sul cortile comune: prevale l’accessione ex art 934 c.c. e divengono comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Le autorimesse costruite su un cortile comune accedono all’area su cui sono costruite e, per tale ragione, divengono comuni pro quota fra i singoli condomini ai sensi dell’art. 1117 c.c., seguendo anche nei trasferimenti dell’unità immobiliare il particolare regime giuridico circolatorio che attiene ai beni condominiali. Non incide, nello specifico caso, la disciplina vincolistica sui parcheggi, ma la disciplina generale del condominio.

 E’ quanto afferma, con esaustiva ed interessante motivazione, una recente sentenza  di legittimità (Cass.civ. sez. II  14 giugno 2019 n. 16070 rel. Scarpa).

la Corte di Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, per raggiungere la conclusione che il box era stato trasferito a C.G.A. quale pertinenza dell’appartamento di cui all’atto pubblico del 16 giugno 1999, ha posto in evidenza che il cortile dove furono realizzati i nuovi box nel 1988 era di proprietà comune pro quota fra i condomini, sicché “tutti e ciascuno di essi appartenevano… ai singoli trentatrè titolari delle proprietà esclusive”.

Ora, secondo consolidato orientamento di questa Corte, il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dalla L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 sexies, in base al testo introdotto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 18 (e prima della modifica introdotta dalla L. n. 246 del 2005, art. 12, comma 9, nella specie inoperante ratione temporis) norma di per sé imperativa, non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa.

La normativa urbanistica, dettata dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per l’epoca dell’edificazione (parametri poi modificati dalla L. n. 122 del 1989, art. 2), verificati a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3393).

Questa Corte ha altresì spiegato come gli spazi che debbono essere riservati a parcheggio ex art. 41 sexies possono essere ubicati indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe idonee a soddisfare l’esigenza, costituente la ratio della norma, di deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22 febbraio 2006, n. 3961).

L’elaborazione giurisprudenziale ha anche chiarito come lo standard urbanistico prescritto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, pone un vincolo pubblicistico di destinazione degli spazi da utilizzare come parcheggio “a servizio delle singole unità immobiliari”, con la conseguenza che “il godimento di tale spazio, nell’ipotesi di fabbricato condominiale, deve essere assicurato in favore del proprietario del singolo appartamento” (Cass. 4 agosto 2017, n. 19647; Cass. 4 febbraio 1999, n. 973). Il vincolo non opera, quindi, genericamente a favore del fabbricato condominiale o dei condomini indistintamente, ma delle singole unità immobiliari di cui l’edificio si compone.

Nella specie, è tuttavia accertato in fatto che le autorimesse oggetto della concessione edilizia del 7 gennaio 1988 furono costruite in un cortile di proprietà condominiale.

I cortili (ed esplicitamente pure le stesse aree destinate a parcheggio, dopo l’entrata in vigore della L. n. 220 del 2012), rispetto ai quali manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio, rientrano tra le parti comuni dell’edificio condominiale, a norma dell’art. 1117 c.c. (Cass. 8 marzo 2017, n. 5831), e la loro trasformazione in un’area edificabile destinata alla installazione, con stabili opere edilizie, di autorimesse, a beneficio di alcuni soltanto dei condomini, seppur faccia venir meno la funzione dell’area comune, non ne comporta una sottrazione al regime della condominialità sotto il profilo dominicale (arg. da Cass. 9 dicembre 1988, n. 6673; Cass. 14 dicembre 1988, n. 6817; Cass. 16 febbraio 1977, n. 697).

Ciò a differenza del locale autorimessa, che, se anche situato entro il perimetro dell’edificio condominiale, non può ritenersi ex se incluso tra le “parti comuni dell’edificio” ai diretti effetti dell’art. 1117 c.c. (cfr. Cass. 22 ottobre 1997, n. 10371).

Essendo state costruite le autorimesse, assentite con concessione edilizia del 7 gennaio 1988, nel cortile comune, su richiesta di ventuno condomini del complesso di (OMISSIS), le stesse dovevano intendersi per accessione, ai sensi dell’art. 934 c.c., di proprietà comune pro indiviso a tutti i condomini dell’immobile, salvo contrario accordo, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam (arg. da Cass. Sez. Un. 16 febbraio 2018, n. 3873).

Giacché appartenenti in comunione ai singoli condomini, quali comproprietari ex art. 1117 c.c. del cortile sul cui suolo sono state costruite, ogni acquisto di un’unità immobiliare compresa nell’edificio condominiale comprende la quota di comproprietà delle autorimesse comuni e il diritto di usufruire della stessa, a nulla rilevando l’eventuale divergenza fra il numero delle autorimesse e quello dei partecipanti al condominio (divergenza su cui invece si sofferma la ricorrente), la quale può semmai incidere ai fini della regolamentazione dell’uso di esse (arg. da Cass. 16 gennaio 2008, n. 730; Cass. 18 luglio 2003, n. 11261; Cass. 28 gennaio 2000, n. 982).

Deve concludersi che l’acquisto del diritto sul box auto sito all’interno del Condominio di (OMISSIS), riconosciuto dalla Corte d’Appello in capo a C.G.A. a titolo di “pertinenza dell’appartamento” di cui all’atto pubblico 16 giugno 1999, discenda piuttosto quale automatica conseguenza dall’essere comprese le autorimesse realizzate nel complesso edilizio fra le parti comuni a tutti i partecipanti. Non rileva, cioè, in maniera decisiva, nella fattispecie di causa, il vincolo previsto dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, su cui si incentra il ricorso, quanto il regime circolatorio tipico delle parti comuni, proprio del condominio edilizio.

L’alienazione dell’unità immobiliare compresa nel Condominio di (OMISSIS) in favore di C.G.A. doveva per questo comportare il trasferimento della titolarità pro quota delle autorimesse costruite nel cortile condominiale.”

© massimo ginesi 20 giugno 2019 

 

uso della cosa comune: il singolo condomino ha diritto di possedere le chiavi degli ingressi comuni.

in un supercondominio il regolamento contrattuale indica specificatamente quali debbano intendersi le porte di accesso comuni, fra cui non ne è ricompresa una che pure affaccia su parti comuni e di cui un condomino chiede di avere le chiavi, per poter accedere da quel varco ad un suo box esterno, posto nel perimetro del condominio.

I giudice di merito (Giudice di Pace e, in appello, Tribunale di Milano) hanno negato tale facoltà, ritenuta invece del tutto legittima dalla Cassazione (Cass.civ. sez. VI 12 giugno 2019 n. 15851),   che ha rilevato come la circostanza che quella porta non fosse indicata nel regolamento quale accesso comune non ne fa venir meno la sua natura sostanziale di bene comune, sì che della stessa ben potrà giovarsi in maniera più intensa un condomino, secondo quanto previsto dall’art. 1102 c.c., essendo peraltro vietato unicamente collegare beni comuni a beni individuali esterni al condominio, poichè ciò darebbe luogo a costituzione di servitù, mentre è perfettamente ammissibile giovarsi di parti comuni per accedere  a proprietà individuali poste nel condominio.

La sentenza impugnata ha ritenuto desumibile la non destinazione della porta in questione all’apertura come varco verso l’esterno dall’elencazione contenuta nell’art. 10 del regolamento contrattuale degli accessi pedonali e carrabili al condominio, che non la contempla pur essendo coeva all’edificazione (cfr. pp. 4 e 5 della sentenza impugnata); secondo il tribunale la non destinazione della porta ad accesso non inciderebbe sul diritto dei condomini a far pari uso della cosa comune garantito da detta norma, trattandosi di un mero divieto contrattuale di accesso generalizzato nell’interesse comune.

La statuizione non è in linea con la giurisprudenza di questa corte (v. recentemente Cass. n. 2114 del 29/01/2018) secondo cui l’art. 1102 c.c. prescrive che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, salvo il limite della non alterazione della destinazione, chiarendosi che l’art. 1102 c.c. non pone una norma inderogabile, potendo detto limite essere reso perfino più rigoroso dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il “quorum” prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni.

Ciò posto, è evidente che, nel caso di specie, la decisione del giudice d’appello concreta l’introduzione di un siffatto divieto di uso generalizzato, peraltro attraverso una visione peculiare secondo la quale gli unici accessi a parti comuni sarebbero da ritenere quelli elencati nel regolamento. Erroneamente dunque il giudice d’appello, in base all’interpretazione del regolamento condominiale contrattuale, ha ritenuto – in ragione di una malintesa tassatività dell’elencazione degli accessi pedonali e carrabili – doversi ritenere precluso l’accesso mediante la porta in questione, pur se parte comune; esclusione che viola il diritto dei condomini all’uso delle parti comuni.

Neppure coerente con l’interpretazione corretta dell’art. 1102 c.c. come sopra accolta è la considerazione, svolta dal tribunale, secondo cui – avendo l’Immobiliare Poasco s.r.l. edificato un complesso di box all’esterno del supercondominio, ed immettendo la porta in questione su una striscia di terreno comune interclusa, ma separata da un cancello dall’esterno, ove sono siti i box (cfr. p. 5 della sentenza impugnata) – il libero accesso alla porta realizzerebbe, attraverso il cancello, un varco all’esterno non autorizzato.

In sé infatti, in relazione all’indimostrata sussistenza di un divieto contrattuale di creazione di ulteriori accessi all’esterno, l’uso della porta e dell’ulteriore cancello al fine di entrare e uscire dal condominio non potrebbe essere in contrasto con la menzionata norma, a meno che non si alterni la destinazione del cancello o della striscia di terreno interclusa; temi, questi, su cui però il tribunale non si è soffermato.

Parimenti il tribunale non si è soffermato in merito all’eventuale ricorrere, nel caso di specie, dei presupposti per cui l’utilizzo della parte comune per dar accesso a un fabbricato contiguo (nel caso di specie, adibito a box), estraneo al condominio, sia tale da alterare la destinazione della parte comune ex art. 1102 c.c., comportandone (per la possibilità di far usucapire al proprietario del fabbricato contiguo una servitù) lo scadimento ad una condizione deteriore rispetto a quella originaria (così ad es. Cass. n. 76 del 15/01/1970, sulla base di più remoti precedenti; per le successive, ad es. Cass. n. 2960 del 09/10/1972, n. 939 del 15/03/1976, n. 939 del 15/03/1976, n. 3963 del 24/06/1980, n. 2175 del 08/04/1982, n. 5628 del 16/11/1985, n. 2973 del 27/03/1987, n. 5780 del 25/10/1988, n. 2773 del 07/03/1992, n. 360 del 13/01/1995, n. 24243 del 26/09/2008; v. anche la fattispecie particolare di Cass. n. 23608 del 06/11/2006); l’uso della parte comune per creare un accesso a favore di parte esclusiva è legittimo, ai sensi dell’art. 1102 c.c., se l’unità del condomino avvantaggiata è inserita nel condominio, fermi gli altri limiti, in quanto, pur realizzandosi un utilizzo più intenso del bene comune da parte di quel condomino, non si esclude il diritto degli altri di farne parimenti uso e non si altera la destinazione, restando esclusa la costituzione di una servitù per effetto del decorso del tempo (Cass. n. 24295 del 14/11/2014).

La Corte ha dunque cassato la decisione di merito, con rinvio ad altra sezione del Tribunale di Milano.

© massimo ginesi 14 giugno 2019