locazioni: irreperibilità, rito sommario e mediazione

Una conduttrice risulta irreperibile per ben due volte presso l’immobile locato, ove risulta anche la sua residenza anagrafica: la circostanza attestata dapprima dall’ufficiale giudiziario e, successivamente,  dal messo postale.

Il locatore chiede mutamento del rito per provvedere alla notifica ex art 143 c.p.c., modalità che la giurisprudenza di legittimità (opportunamente) non ammette per la intimazione di sfratto.

Al momento della notifica di tali provvedimenti, la conduttrice ricompare nell’immobile e ritira gli atti depositati presso  la casa comunale, chiedendo che il rito sia retrocesso alla fase sommaria (onde poter beneficiare del termine di grazia) ed avanzando domanda riconvenzionale sulla durata del contratto.

Non si reca tuttavia all’incontro di mediazione, eccependo che l’invito è stato comunicato dall’organismo mediante servizio di posta reso da soggetto privato, pur risultando la sua firma sull’avviso di ricevimento.

La vicenda coinvolge diversi aspetti interessanti e di frequente rilievo nel procedimento locatizio, temi su cui si è pronunciato con recente sentenza il tribunale apuano (Trib. Massa 3 maggio 2019 n. 286), accogliendo la domanda di risoluzione avanzata dal locatore.

sulla irreperibilità – Quanto alla circostanza della sua irreperibilità, in forza della quale è stato  mutato  il  rito,  non potendosi procedere per consolidata giurisprudenza in via sommaria nei confoenti dell’irreperibile, va rilevato che la C. è  risultata  per  ben  due  volte  non individuabile al proprio indirizzo di via P, così come risulta dapprima dalla relata del primo tentativo di notifica e, successivamente, dagli avvisi di ricevimento della notifica ex art 140  c.p.c.,  nei  quali  espressamente  si  legge  “nominativo  inesistente”,    che il pubblico ufficiale addetto deve ritenersi non abbia ivi rinvenuto tracce riconducibili  alla convenuta.

 Si tratta di attestazioni la cui rispondenza al vero deve necessariamente essere contestata attraverso lo specifico strumento della querela di falso (Cass. 2486/2018), cui la convenuta ha ritenuto di non fare ricorso.

Ne deriva che deve ritenersi provata e sussistente la circostanza della sua irreperibilità al momento delle tentate notifiche della intimazione di sfratto, divenendo irrilevanti le argomentazioni di merito svolte oggi, senza che sia stata proposta la querela.

La stessa giurisprudenza citata da parte  convenuta  (Cass.  15626/2018)  pare  non attagliarsi al caso di specie, poiché riferita ad ipotesi di mera assenza del destinatario dal luogo di residenza, pur essendo individuati già nella relata possibili siti alternativi di destinazione, sì che si tratta di vicenda ontologicamente diversa dall’ipotesi in cui  – come   nel caso di specie – emerga non già una  semplice  assenza  nel  luogo  indicato  dal notificante, ma risulti invece l’assenza di alcun collegamento fra quel luogo e il soggetto destinatario della notifica (circostanza attestata con efficacia di pubblica fede).

Né si potrà pretendere dal locatore, che non rinvenga  nella  residenza  e  nell’immobile  locato il conduttore, che estenda ricerche all’intero orbe terracqueo, posto  che  la diligenza del notificante va intesa in senso dinamico ed improntata a criteri ordinari e di comune buona fede (Cass. 12526/2014), dovendosi contemperare la tutela del diritto di difesa del convenuto (che pure ha dovere di rendersi reperibile laddove risultano i propri recapiti formali, anagrafici e contrattuali) con l’analoga  tutela  delle  ragioni  del  locatore, che – a fronte di grave e perdurante inadempimento del conduttore – ha diritto di poter accedere a strumenti di tutela giudiziaria in tempi e con modalità parimenti ragionevoli e  non defatigatorie.

Non vale infine a mutare il quadro sin qui delineato la circostanza che la notifica successiva sia avvenuta correttamente all’indirizzo de quo, posto che ben possono darsi mutamenti di fatto successivi, sì che l’irreperibilità antecedente – attestata dal pubblico ufficiale – non può ritenersi ab origine insussistente sol perché il soggetto si sia reso successivamente reperibile nello stesso luogo (Cass. 16864/2018).

Si deve pertanto ritenere che la convenuta non abbia opportunamente assolto all’onere che alla stessa incombeva – in ordine alla prova della propria reperibilità al momento della notifica della intimazione (a fronte di attestazioni di fede privilegiata e di senso opposto), sì che il mutamento del rito e la successiva instaurazione del contraddittorio devono essere ritenuti perfettamente legittimi.

sulla richiesta di retrocessione del rito – “Deve ancora rilevarsi che anche la lamentata lesione del diritto di difesa (circostanza essenziale ai fini della rilevanza della eccezione, Cass. 3805/2018) appare del tutto teorica e sfornita di alcun elemento di concretezza e supporto probatorio: lamenta la convenuta che, ove si fosse proceduto con rito sommario, avrebbe potuto avanzare richiesta di termine ex art. 55 L. 392/1978; tuttavia, poiché tale beneficio non è affatto automatico, omette di fornire anche in questa sede alcun elemento idoneo a supportare una prognosi favorevole di adempimento nell’eventuale termine concesso, e mantiene anzi – anche nelle fasi successive del processo (ben più ampie di qualunque termine eventualmente concedibile in fase sommaria) – totale inerzia rispetto alle proprie obbligazioni (che pure non contesta).

Si tratta di atteggiamento che finisce per apparire decisamente dilatorio ed improntato ad un uso strumentale del processo, al solo fine di procrastinare gli effetti del proprio inadempimento.

sulla mediazione – Parimenti infondata si rileva l’eccezione di improcedibilità per mancato esperimento della mediazione: parte attrice ha prodotto sia l’istanza di mediazione che la convocazione delle parti ad opera del mediatore, nonché l’avviso di ricevimento  relativo  all’invio  di  tali  atti alla convenuta da parte dell’organismo di mediazione, effettuato tramite servizio postale privato.

Il procedimento di mediazione, anche ove prodromico ed obbligatorio per la procedibilità della successiva azione giudiziale, rimane procedimento a carattere non contenzioso e di natura stragiudiziale, cui in alcun modo può ritenersi applicabile la disciplina delle notifiche, tanto che lo stesso D.lgs 28/2010 lascia sotto tale profilo ampia  libertà  di scelta alle parti, non disciplinando in alcun modo tale aspetto. Diviene pertanto ininfluente la natura del soggetto che effettua la comunicazione, così come appare non pertinente la richiamata pronuncia di legittimità (Cass. 26778/2016) – su cui parte convenuta fonda la propria eccezione – che attiene invece unicamente alle notifiche relative ad atti giudiziari e alla valenza certificatoria del messo postale in ordine alla data (che nel caso di specie non è oggetto di specifica contestazione).

Appare  peraltro dirimente la circostanza che  su tale avviso di ricevimento risulti apposta   la firma della stessa convenuta, che costei si  è  ben  guardata  dal  disconoscere  come propria, così come non ha espressamente contestato    la  data  di  ricezione    il contenuto del plico, limitandosi a mere eccezioni formali (…) . Dovendosi ritenere dunque che la C. abbia sottoscritto tale atto nella data ivi indicata,  e  che  a  tale avviso debba quantomeno riconoscersi valenza di scrittura privata circa la  ricezione  dell’atto allegato, diviene irrilevante la natura e il potere certificatorio del soggetto che ha effettuato la consegna, dovendosi necessariamente prendere atto che la convenuta ha ricevuto l’invito in mediazione,  come  risulta  dalla  sua  firma    non  disconosciuta  – apposta sull’avviso datato 4.2.2019 e non vi ha immotivatamente partecipato, sì che la condizione di procedibilità deve ritenersi avverata.

sulla domanda riconvenzionale – “Tale condizione deve inoltre ritenersi sussistente anche con riguardo alla riconvenzionale avanzata da parte convenuta, poiché una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto della mediazione (di recente sancita anche da Cass.8473/2019) deve condurre ad una sua applicazione non manifestamente dilatoria: il soggetto chiamato a mediare per la risoluzione del contratto di locazione, dovuta al suo inadempimento, ben potrebbe in quella sede confrontarsi su ogni altro aspetto relativo a quel contratto, ivi compresa la sua durata, tenuto conto che si deve ritenere che l’istanza iniziale devolva al mediatore tutto il dedotto e il deducibile relativo a quel rapporto (Trib. Roma 27.11.2014, Trib. Massa 17..7.2017 e 6.7.2018 n. 496).

La domanda avanzata in via riconvenzionale da parte convenuta, che ha ad oggetto la durata del contratto, va peraltro respinta per  difetto  di  interesse  ad  agire  ex  art  100  c.p.c.: risulta per tabulas, (ed è incontestato  ex  art  115  c.p.c.),  che  la  convenuta conduttrice risultasse morosa di oltre 2500 euro già al  momento  della  intimazione  ed  abbia poi osservato il più assoluto inadempimento sino ad oggi; ne deriva che, già al momento della introduzione del giudizio,  risultava  sussistente  un  inadempimento  grave  ex art 1455 c.c. (avuto riguardo all’entità del canone mensile e al complessivo assetto patrimoniale convenuto dalle parti), idoneo a dichiarare la risoluzione del vincolo contrattuale per fatto imputabile al  conduttore,  quale  che  fosse  la  configurazione  giuridica corretta del contratto con riguardo alla sua durata.

In proposito, pur non sussistendo sostanziali contestazioni in merito di parte attrice, deve rilevarsi che anche ove si dovesse ritenere illecita la clausola relativa alla durata, la sua nullità non si estenderebbe all’intero contratto (Cass. 20794/2018) né avrebbe immediata ed automatica influenza sulla obbligazione corrispettiva, sì che difetta alcun interesse dello stesso ad avanzare domanda in tal senso.”

La condotta sostanziale e processuale della convenuta le è valsa anche condanna ex art 96 comma III c.p.c. in misura prossima alle spese liquidate.

© massimo ginesi 13 maggio 2019 

il creditore non può agire per l’intero contro il singolo, che può proporre opposizione al precetto

Lo afferma, in linea con orientamenti ormai consolidati di dottrina e giurisprudenza, il Tribunale di Roma con sentenza 24 aprile 2019 n. 9006, pronunciandosi sull’opposizione a precetto promossa dal singolo condomino escusso.

Il Tribunale osserva che il terzo creditore può agire contro i condomini virtuosi solo dopo la preventiva infruttuosa escussione del singolo condomino moroso. Ove poi non sussistano singoli morosi, poiché il credito è totalmente inadempiuto, il fornitore deve comunque agire per l’intero nei limiti della quota di ciascuno condomino.

Ebbene, nel caso di specie, la parte che sarebbe risultata soccombente è l’opposta in quanto la M… non avrebbe potuto agire per l’intero nei confronti del singolo condomino.

Difatti, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse del Condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote (si veda, da ultimo Cass. civ., n. 22856 del 2017).

Tali principi generali non sono, inoltre, stati intaccati dalla riforma ad opera della l. n. 220/2012, che, ferma restando la parziarietà dell’obbligazione del singolo condomino relativamente alle spese assunte dall’amministratore per il condominio, ha introdotto nell’art. 63 comma 2 disp. att. c.c. un meccanismo di garanzia, a tenore del quale i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti delle spese condominiali, se non dopo l’escussione dei condomini morosi.

Ebbene, nel caso di specie, il creditore non poteva agire nei confronti del singolo condomino in forza della garanzia prevista dall’art. 63 disp. att. c.c., che presuppone in ogni caso la preventiva infruttuosa escussione dei condomini morosi.

E’ vero che, nel caso di specie, come dimostrato dalla M., non vi erano condomini morosi verso cui agire, in quanto il mancato pagamento integrale della ditta non derivava dalla morosità dei condomini, ma dall’anormale gestione delle somme da parte dell’amministratore, che le destinava parzialmente a utilizzi diversi.

L’assenza di condomini morosi non è però sufficiente a legittimare l’immediata escussione di un singolo condomino per l’intero, in quanto si tratta di una garanzia che ha natura sussidiaria e pertanto il creditore avrebbe comunque dovuto agire preventivamente verso il condominio o verso i singoli condomini pro quota, secondo la regola della parziarietà.”

© massimo ginesi 8 maggio 2019

 

accertamento della condominialità di beni: utilizzabile anche la prova per testi

Il giudice, nella valutazione della destinazione di beni  al servizio comune, onde stabilire se costituiscano proprietà esclusiva oppure beni comuni ex art 1117 c.c., può avvalersi anche delle dichiarazioni testimoniali assunte durante l’istruttoria.

E’ quanto afferma una recente sentenza di legittimità, (Cass. civ. sez. II 3 maggio 2019 n. 11729),   ritenendo che – pur trattandosi di beni immobili – l’accertamento della loro natura comune non sottostà ai rigidi principi probatori in tema di azione di rivendicazione, secondo una consolidata giurisprudenza.

“Non sussiste, anzitutto, la lamentata violazione di legge riguardo al fatto che la natura condominiale delle nicchie collocate lungo il tracciato interposto tra i fabbricati sia stata desunta dalle deposizioni testimoniali in assenza di prova scritta, poiché tale accertamento dipendeva dal riscontro della concreta destinazione delle nicchie a servizio delle proprietà esclusive e dalla specifica relazione di accessorietà tra i beni comuni e quelli di proprietà esclusiva, alla stregua delle complessive risultanze di causa.

Tale relazione costituisce – difatti – il presupposto applicativo della presunzione sancita dall’art. 1117 non essendo richiesto, ai fini dell’accertamento della natura condominiale dei beni, il rigore probatorio proprio dell’azione di rivendica (Cass. 20593/2018; Cass. 11195/2010; Cass. 15372/2000; Cass. 884/2018; Cass.20071/2017), fermo inoltre che la predetta presunzione può essere vinta solo da un titolo contrario (da intendersi come atto costitutivo del condominio: Cass. 11877/2002; Cass. 11844/1997; Cass. 9062/1994), la cui esistenza deve essere dedotta e dimostrata dal condomino che si affermi proprietario esclusivo del bene o della porzione controversa (Cass. 27145/2017).

Va inoltre precisato che, in considerazione del rapporto di accessorietà necessaria che lega le parti comuni dell’edificio alle proprietà singole, la condominialità non è esclusa per il solo fatto che le costruzioni siano realizzate, anziché come porzioni di piano l’una sull’altra (condominio verticale), quali proprietà singole in sequenza (villette a schiera, condominio in orizzontale), poiché la nozione di condominio è configurabile anche nel caso di immobili adiacenti orizzontalmente in senso proprio, ove dotati delle strutture e degli impianti essenziali indicati dall’art. 1117 c.c. (Cass. 27360/2016; Cass. 18344/2015; Cass. 4973/2007; Cass. 8066/2005).

La decisione non è infine censurabile, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., per aver ritenuto credibili le dichiarazioni testimoniali de relato o rese da soggetti legami da vincoli di parentela e professionali con le parti.

Premesso che, a seguito della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 247 c.p.c. (Corte Cost. 248/1974), la sussistenza di rapporti di parentela tra i testi e le parti non si traduce in un motivo di incapacità a testimoniare, nè comporta ex se alcun giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni rese in giudizio, e che la testimonianza de relato, pur se munita di una valenza probatoria attenuata, è certamente utilizzabile per la decisione specie se, come nel caso concreto, confermata dal raffronto con le altre risultanze processualità (cfr. sentenza pag. 9; Cass. 8358/2007; Cass. 43/1998), resta che l’apprezzamento delle prove ed il giudizio di attendibilità dei testi, anche in presenza di particolari legami con le parti, è rimessa al giudice di merito ed è sindacabile solo per vizi di motivazione (Cass. 25358/2015; Cass. 1109/2006; Cass. 7061/2002).”

copyright massimo ginesi 7 maggio 2019

opposizione a decreto ingiuntivo: la sentenza che annulla la delibera può essere prodotta in appello

Judge with gavel on table

Costituisce giurisprudenza costante della Corte di legittimità che in sede di opposizione a decreto ingiuntivo possano essere fatte valere unicamente questioni di nullità dei deliberati posti a fondamento della richiesta monitoria, mentre l’annullabilità deve essere fatta valere in apposito giudizio.

L’orientamento è ripreso da una recente pronuncia (Cass. civ.  sez. II 30 aprile 2019 n. 11482) che, tuttavia, chiarisce che ove il giudizio sia stato intrapreso e , nelle more dell’opposizione, sia stata emessa sentenza che annulla la delibera, tale documento possa essere introdotto in ogni tempo nel procedimento in cui si contesta il decreto.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia delle relative delibere assembleari, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo tale sindacato riservato al giudice davanti al quale dette delibere sono state impugnate (tra le varie, v. Sez. 2 -, Sentenza n. 4672 del 23/02/2017 Rv. 643364; Sez. 2, Sentenza n. 3354 del 19/02/2016 Rv. 638789; Sez. U, Sentenza n. 26629 del 18/12/2009 Rv. 610632).

In altri termini, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione, ma solo questioni riguardanti l’efficacia di quest’ultima.

La delibera costituisce, infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non soltanto la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena, il cui ambito è, dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629 cit.; Cass. Sez. 2, 23/02/2017, n. 4672 cit.).

Il giudice deve quindi accogliere l’opposizione solo qualora la delibera condominiale abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137 c.c., comma 2, o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la deliberazione (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 1502 del 2018; Cass. Sez. 2, 14/11/2012, n. 19938).

Nel caso in esame, la deliberazione posta a base del ricorso per decreto ingiuntivo è stata annullata dalla Corte d’Appello de L’Aquila con sentenza n. 82/2019 pubblicata il 16.1.2019, la cui produzione in allegato alla memoria della ricorrente deve ritenersi consentita.

Il divieto dell’art. 372 c.p.c., infatti, riferendosi esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli, successivi, comprovanti il venir meno dell’efficacia della deliberazione posta a base del provvedimento monitorio opposto.

Tale soluzione – che si pone sulla scia dell’indirizzo giurisprudenziale che ammette la produzione di documenti nuovi dai quali si ricavi la sopravvenuta cessazione della materia del contendere (Cass., Sez. 2, 5 agosto 2008, n. 21122; Cass., Sez. lav., 23 giugno 2009, n. 14657; Cass., Sez. 1, 10 giugno 2011, n. 12737) o la successiva formazione del giudicato esterno (Cass., Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916) – si giustifica perché la sentenza che dichiara invalida la delibera condominiale posta a fondamento del decreto ingiuntivo opposto, sebbene non sia rilevante per le specifiche questioni di rito indicate nell’art. 372 c.p.c. (nullità della sentenza impugnata; ammissibilità del ricorso e del controricorso), ma abbia un’incidenza sul merito, comprova la sopravvenuta formazione di una regula iuris operante in relazione alla decisione del caso concreto.

Diversamente, se non fosse consentita la produzione di tale documento, la Corte di cassazione dovrebbe rigettare il ricorso e lasciare in vita una sentenza che, se eseguita coattivamente, causerebbe la proposizione di un’opposizione all’esecuzione e, se eseguita spontaneamente, giustificherebbe la proposizione di un’azione di ripetizione dell’indebito in violazione dei più elementari principi di economia processuale.”

copyright massimo ginesi 6 maggio 2019

l’amministratore che non si aggiorna è revocabile ma la sua nomina non è nulla

L’amministratore che non adempie al dovere di formazione periodica ex art 71 bis disp.att. cod.civ. e dm 140/2014 è semplicemente revocabile.

La tesi è stata ribadita dai giudici meneghini (Trib. Milano sez. XIII 27 marzo 2019 n. 3145), con una motivazione assai sintetica e che omette di affrontare il vero aspetto della questione.

La pronuncia è comunque  condivisibile negli esiti, che si conformano a quanto già statuito dal Tribunale di Verona con più opportuna motivazione.

© massimo ginesi 24 aprile 2019

le sezioni unite sulla soggettività del condominio

 

La questione era stata rimessa alle sezioni unite con  ordinanza del 2017 , volta a chiarire la discrasia introdotta fra una giurisprudenza ormai decennale e l’isolato dictum delle sezioni unite del 19663/2014 (in tema di azioni ex legge Pinto), che sembrava affermare una autonomia soggettiva del condominio distinta da quella dei singoli condomini che lo compongono.

Che la pronuncia del 2014 non introducesse il criterio della  personalità giuridica, come da taluni troppo affrettatamente si era ipotizzato,  risultava chiaramente dalla impostazione della novella del 2012, che ha radicalmente escluso tale assetto, cui –  senza una  espressa previsione normativa – non si poteva certo prevenire in via giurisprudenziale.

Tuttavia le Sezioni Unite del 2014 hanno fatto assai discutere, aprendo un vulnus nella tradizionale interpretazione, con l’esclusione della legittimazione del singolo condomino in caso azione intentata dall’amministratore.

Le Sezioni Unite attuali (Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 17 aprile 2018 – 18 aprile 2019, n. 10934) fanno chiarezza, riportando la bilancia in favore della piena legittimazione concorrente del singolo condomino (slavo che per le azioni inerenti al mera gestione) ed escludendo al sussistenza di alcuna personalità o oggettività autonoma del condominio.

Quanto alla impostazione tradizionale, va subito detto che essa valorizza l’assenza di personalità giuridica del condominio e la sua limitata facoltà di agire e resistere in giudizio tramite l’amministratore nell’ambito dei poteri conferitigli dalla legge e dall’assemblea e per questa via giunge ad attribuire ai singoli condomini la legittimazione ad agire per la tutela dei diritti comuni e di quelli personali.
Dello stesso segno è la giurisprudenza successiva a SU 19663/14, giurisprudenza che ha continuato a ritenere che nelle controversie aventi ad oggetto un diritto comune, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, nè di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore (cfr, anche argomentando a contrario, Cass. 29748/17; n. 1208 del 18/01/2017; n. 26557 del 09/11/2017, Rv. 646073; n. 22856/17; n. 4436/2017; n. 16562 del 06/08/2015; 10679/15).
3.1) Questo orientamento, salvi i poteri di rappresentanza dell’amministratore di cui all’art. 1131 c.c., trova il suo perdurante ancoraggio nella natura degli interessi in gioco nelle cause, come quella odierna, relative ai diritti dei singoli sulle parti comuni o sui propri beni facenti parte del condominio.

Una volta riscontrato che il legislatore ha respinto in sede di riforma dell’istituto – lo testimonia il confronto tra testo provvisorio e testo definitivo della L. n. 220 del 2012 – la prospettiva di dare al Condominio personalità giuridica con conseguenti diritti sui beni comuni, è la natura dei diritti contesi la ragione di fondo della sussistenza della facoltà dei singoli di affiancarsi o surrogarsi all’amministratore nella difesa in giudizio dei diritti vantati su tali beni.

 

Il mantenimento della tradizionale facoltà dei singoli condomini è coerente con alcuni insegnamenti in materia provenienti dalle Sezioni Unite.
Occorre richiamare Cass. SU 18331 (e 18332) del 2010, la quale ha configurato i poteri rappresentativi processuali dell’amministratore coordinandoli, per subordinazione, con quelli dell’assemblea. Si è in quell’occasione chiarito che il potere decisionale in materia di azioni processuali spetta “solo ed esclusivamente all’assemblea” che può anche ratificare ex tunc l’operato dell’amministratore, “organo meramente esecutivo” del condominio”, che abbia agito senza autorizzazione.
Al di là dell’ambito di applicazione di questa pronuncia, che non è qui necessario indagare, mette conto evidenziare che allorquando si sia in presenza di cause introdotte da un terzo o da un condomino che riguardino diritti afferenti al regime della proprietà e ai diritti reali relativi a parti comuni del fabbricato, e che incidono sui diritti vantati dal singolo su di un bene comune, non può negarsi la legittimazione alternativa individuale.
Non sarebbe concepibile la perdita parziale o totale del bene comune senza far salva la facoltà difensiva individuale.”

Per l’importanza del tema la  sentenza merita comunque integrale lettura.

cassSSUU10934:2019

© massimo ginesi 23 aprile 2019  

moto in cortile: possono violare l’art. 1102 cod.civ.

La sosta di motocicli nel cortile condominiale, laddove impedisca agli altri condomini di fare pari uso del bene, è vietata ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.

Si tratta di principio  evidente e pacifico, che una recente pronuncia della Cassazione (Cass.civ. sez. VI-2  ord. 18 marzo 2019 n. 7618 rel.Scarpa) richiama con una interessante precisazione: la circostanza che la sosta si protragga per pochi minuti non elimina la lesività della condotta, ove da quella circostanza derivi comunque una lesione del diritto degli altri condomini sul bene comune.

La causa ebbe inizio con citazione di (omissis), il quale convenne davanti al Giudice di Pace di Napoli (omissis),  chiedendo  che venisse vietato a questi ultimi di parcheggiare i loro motoveicoli nello spazio prospiciente l’immobile di proprietà del (omissis) nel fabbricato di (omissis), impedendo tale condotta all’attore di godere delle parti condominiali dell’edificio.

La domanda venne accolta dal Giudice di pace, anche alla luce del regolamento condominiale, che contiene divieto di ingombro del cortile, e considerate le deposizioni dei testimoni, i quali avevano confermato la circostanza del parcheggio dei veicoli ad opera dei convenuti con intralcio all’accesso nella proprietà (omissis) .

Il Tribunale di Napoli ha poi respinto gli appelli di (omissis) e (omissis)  richiamando le dichiarazioni dei testi  circa il  parcheggio dei motoveicoli compiuto dal (omissis) e le documentazioni fotografiche prodotte, e negando rilievo, ai fini della fondatezza della ravvisata violazione dell’art. 1102 c.c., al dato della saltuarietà o sporadicità delle soste denunciate, sia perché tale sporadicità non esclude la possibilità di una prolungata durata dei parcheggi illegittimi, sia perché  comunque non erano stati precisati dai testimoni indicati dai convenuti i limiti temporali delle medesime soste nel cortiletto.”

osserva la Suprema Corte che “I giudici di merito hanno accertato in fatto, con apprezzamento loro spettante e sindacabile in sede di legittimità solo nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., che la sosta dei mezzi        meccanici nel cortile comune antistante la proprietà (omissis)     ne pregiudichi la transitabilità, sì da impedire od ostacolare l’accesso all’unità immobiliare del singolo condomino, con correlata violazione del principio stabilito dall’art. 1102 c.c.

La decisione del Tribunale di Napoli è conforme all’interpretazione di questa Corte, secondo cui l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto.

Pertanto, deve ritenersi che la condotta del condomino, consistente nella stabile occupazione – mediante il parcheggio per lunghi periodi di tempo della propria autovettura – di una porzione del cortile comune, configuri un abuso, poiché impedisce agli altri condomini di partecipare all’utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l’equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà (Cass. Sez. 2, 24/02/2004, n. 3640).

E’ poi decisivo osservare che l’art 1102 c.c., sull’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante alla comunione, non pone alcun margine minimo di tempo e di spazio per l’operatività delle limitazioni del predetto uso, sicché può costituire abuso anche l’occupazione per pochi minuti di una porzione del cortile comune, ove comunque impedisca agli altri condomini di partecipare al godimento dello spazio oggetto di comproprietà (Cass. Sez. 2, 07/07/1978, n. 3400).”

© massimo ginesi 19 aprile 2019 

distanze legali: l’ente locale può incrementare l’entità ma non il metodo di misura.

Lo afferma, condivisibilmente, Cass.civ. sez. II  sent. 16 aprile 2019 n. 10580: “Il giudice d’appello ha osservato che “oggetto di censura è unicamente la modalità radiale di misurazione” cui sono quindi limitati “l’esame e la decisione del gravame”, che, in forza del richiamo operato dagli artt. 872 e 873 c.c., i regolamenti edilizi e i piani regolatori generali hanno valore di legge e possono sempre stabilire una distanza maggiore, il che può indifferentemente avvenire sia in virtù della espressa indicazione di una maggiore misura dello spazio che come effetto di una particolare misurazione da essi imposta, così che conclude il giudice – è legittimo il metodo radiale stabilito dall’art. 18, delle norme di attuazione del piano regolatore del Comune di (…) e bene ha fatto il giudice di primo grado ha ritenere violata la distanza minima.

L’iter argomentativo del giudice si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall’art. 873 c.c., è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto” (così Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).

Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell’art. 873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.”

© massimo ginesi 18 aprile 2019

l’art 63 disp.att. cod.civ. è inderogabile: il regolamento non può ampliare l’ambito di responsabilità dell’acquirente

un’interessante pronuncia della Cassazione ( Cass.civ. sez. II  sentenza 12 aprile 2019 n. 10346) ribadisce  precisi limiti alla responsabilità patrimoniale dell’acquirente di unità immobiliare posta in condominio, limitata al biennio antecedente l’acquisto, così come previsto dall’art. 63 disp.att. cod.civ. e senza che tale limite, temporale e quantitativo,  possa essere ampliato da alcuna disposizione convenzionale.

La Corte chiarisce anche come l’obbligazione condominiale non debba qualificarsi obliato propter rei, tesi invero addotta più è più volte dalla giurisprudenza della stessa Corte e che nell’ultimo decennio  ha visto un deciso mutamento.

“Il decisum della Corte distrettuale si fonda – come già accennato in narrativa- sulla ricostruzione della portata della disposizione dell’art. 63 disp. att. c.c., comma 4 (come, da ultimo modificato ex L. n. 220 del 2012).

Alla stregua di tale ricostruzione operata dal Giudice di appello, in riforma di quella svolta dal Tribunale di prime cure, si tende all’affermazione di un principio, invero innovativo, per cui il limite temporale (biennale) per il pagamento dei contributi condominiali pregressi da parte del condomino subentrate a precedente condomino moroso costituirebbe un limite inderogabile ma solo nel limite e non nel massimo.

Si ipotizza, quindi, la possibilità di deroga per affermare la possibile responsabilità del nuovo condomino anche per le morosità condominiali arretrate oltre il biennio precedente all’acquisto dell’unità immobiliare condominiale.

L’affermazione della impugnata sentenza non può essere condivisa sotto un duplice profilo.

Innanzitutto la stessa, con un’interpretazione additiva ed estensiva rispetto alla chiara volontà della norma de qua, amplia oltremodo i margini temporali retroattivi della responsabilità solidale dell’acquirente di una proprietà condominiale.

Così facendo la decisione oggi gravata innanzi a questa Corte finisce per creare, con l’artificioso ricorso ed il riferimento all’autonomia regolamentare condominiale ed alle obligationes propter rem, una estensione non prevista dalla legge del particolare tipo di responsabilità solidale del nuovo condomino.

Quest’ultimo, giova ricordare, è comunque estraneo – prima dell’acquisto – al regolamento condominiale, la cui autonomia non può mai esercitarsi contro una ben precisa inderogabilità voluta dalla citata norma di attuazione del c.c. anche all’evidente fine di non alimentare incertezze sui limiti della responsabilità de qua in concreto oltremodo ostativi alla circolazione dei beni (che è bene ancorare a certezza del diritto e non ad incertezze interpretative).
In secondo luogo ed ancor più decisivamente va osservato quanto segue.

Tutto il ragionamento su cui è fondato il dictum della Corte piemontese poggia su una ricostruzione della parziale inderogabilità (solo nel minimo) del predetto limite ex art. 63 cit., in via interpretativa e sul un fondante presupposto espressamente affermato: “il regolamento condominiale di natura contrattuale può disporre a carico dell’acquirente condomino l’accollo di debiti maturati, costituenti “obligationes propter rem”, da parte del condomino dante causa in esercizio precedenti” all’acquisto.
L’Assunto è, quindi, fondato sulla possibilità di configurare i predetti debiti come obligationes propter rem.

Sennonché – aspetto questo, decisivo, ma eluso dalla valutazione della Corte a quo – la predetta configurabilità dei medesimi debiti come è del tutto ed univocamente esclusa dalla giurisprudenza di questa Corte.

Giova, all’uopo, rammentare i principi – già affermati da questa Corte – per cui, “in tema di condominio negli edifici, la responsabilità solidale dell’acquirente di una porzione di proprietà esclusiva per il pagamento dei contributi dovuti al condominio dal condomino venditore è limitata al biennio precedente all’acquisto, trovando applicazione l’art. 63 disp. att. c.c., (già) comma 2, e non già l’art. 1104 c.c., atteso che, ai sensi dell’art. 1139 c.c., le norme sulla comunione in generale si estendono al condominio soltanto in mancanza di apposita disciplina” (Cass. 27 febbraio 2012, n. 2979).”

© massimo ginesi 16 aprile 2019 

modifica e innovazione: la linea di discrimine.

 

Cass.Civ. sez.VI ord. 10 aprile 2019 n. 10077 ribadisce principi consolidati in tema di innovazioni, esaminando l’ipotesi di trasformazione dell’area verde esterna in parcheggio, in una vicenda che, ragione temporis, vede ancora l’applicazione della normativa anteriore al 2012.

la pronuncia, tuttavia, salve le ipotesi oggi espressamente riconducibile all’art. 1117 tre cod.civ., contiene principi ancora del tutto attuali.

Ed invero “In tema di condominio negli edifici, la distinzione tra modifica ed innovazione si ricollega all’entità e qualità dell’incidenza della nuova opera sulla consistenza e sulla destinazione della cosa comune, nel senso che per innovazione in senso tecnico-giuridico deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11936 del 23/10/1999, Rv.530743; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5101 del 20/08/1986, Rv.447737; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15460 del 05/11/2002, Rv.558221).

La Corte territoriale dà atto, in motivazione, che con la prima deliberazione del 10.8.2009 l’assemblea condominiale aveva deliberato di adibire a parcheggio l’area sino ad allora destinata a giardino e, a tal fine, l’esecuzione di lavori “quali rimozione dei muretti, abbattimento delle piante di epitosfero, livellamento del suolo delle parti interessate ai lavori e spostamento dei lampioncini” (cfr. pag.3 della sentenza impugnata).
Dette opere non costituiscono semplici modifiche alla cosa comune finalizzate a sopperire alla sua eventuale insufficienza strutturale ovvero a migliorarne l’utilizzazione da parte dei condomini, bensì vere e proprie innovazioni, in quanto mediante le stesse viene ad essere modificata la concreta destinazione della cosa.

In argomento, questa Corte ha affermato – a titolo esemplificativo -che la ristrutturazione dell’impianto fognario, vecchio di oltre cinquant’anni e bisognoso di interventi strutturali, non costituisce innovazione, trattandosi di opera necessaria alla conservazione ed al godimento della cosa comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16639 del 27/07/2007, Rv.599342). O ancora, che la bonifica di un terreno compiuta da uno dei comproprietari, non alterandone la destinazione economica ed essendo diretta al miglioramento del bene o a renderne più agevole la fruizione senza pregiudicare il diritto di godimento degli altri comproprietari, non integra gli estremi di un atto innovativo (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 5729 del 23/03/2015, Rv.634993).

Il tratto caratterizzante dell’intervento di ristrutturazione o miglioria che non costituisce innovazione in senso tecnico-giuridico va pertanto individuato nella conservazione della precedente destinazione concreta della cosa sulla quale esso incide.

Costituisce invece innovazione qualsiasi intervento modificativo eseguito sulle parti comuni di un edificio o su impianti o cose comuni che ne alteri l’entità materiale operandone la trasformazione, ovvero ne modifichi la destinazione di fatto, nel senso che detti beni, a seguito delle opere eseguite su di essi, presentino caratteristiche oggettive, abbiano una consistenza materiale o comunque siano utilizzati per fini diversi da quelli precedenti all’intervento, di guisa che le opere predette precludono la concreta utilizzazione della cosa comune in modo conforme alla sua naturale e precedente fruibilità (in tal senso, cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8622 del 29/08/1998, Rv.518497).

Detti principi, che meritano di essere ribaditi, consentono di affermare che la trasformazione del giardino comune, realizzata mediante abbattimento dei muretti e delle essenze verdi, livellamento del suolo e spostamento dei punti di illuminazione, in funzione della nuova destinazione dell’area a parcheggio, costituisce innovazione, che come tale dev’essere assoggettata al regime previsto dall’art. 1120 c.c., commi 1 e 2, nel testo in vigore anteriormente all’entrata in vigore della L. 11 dicembre 2012, n. 220, applicabile ratione temporis alla fattispecie.”

© Massimo Ginesi 12 aprile 2019