calcinacci dal balcone: chi ne risponde sotto il profilo penale?

Alcuni calcinacci cadono dal balcone aggettante e colpiscono un passante cagionandogli lesioni. la condomina dell’appartamento a cui il balcone serve viene condannata in 1° e 2° grado per lesioni colpose ex art 590 c.p. e ricorre alla Corte di Cassazione, sostenendo che – poiché nel fabbricato era stato indicato un amministratore, a costui unicamente doveva essere ascritta la relativa responsabilità penale.

La Corte di legittimità (Cass. pen. sez. IV 28 febbraio 2019 n. 7665) rigetta il ricorso, ponendo alcune osservazioni che risultano di interesse per l’interprete: anche ove vi sia un amministratore ritualmente nominato, la responsabilità del rporpiatrio non è automaticamente esclusa, poiché costui rimane un delegato all’assolvimento di obblighi altrui, pertanto, ove nona tempia correttamente si potrà configurare una sua responsabilità in concorso con quella del delegante ma mai una esclusione della responsabilità del proprietario che è comunque tenuto a vigilare sull’opera altrui.

E’  dunque opportuno che l’amministratore consideri con grande cautela il proprio ruolo e la necessità di interventi su beni pericolanti che si stacchino dal prospetto dell’edificio, interpretando in senso ampio la posizione di garanzia che la legge gli conferisce e senza trincerarsi dietro la proprietà individuale del balcone che, ove si inserisca nel prospetto dell’edificio, è stato comunque ritenuto anche in passato dalla giurisprudenza  fonte di responsabilità per l’amministratore (Cass. 34147/2012, ove si afferma che “L’amministratore del condominio riveste una specifica posizione di garanzia, ex art. 40, comma 2, c.p., in virtù del quale ha l’obbligo di attivarsi per rimuovere le situazioni di pericolo per l’incolumità di terzi”, anche ove tale pericolo fderivi da beni individuali ma si rifletta su parti comuni.)

 Ecco i due passaggi significativi della pronuncia:

il primo sulla responsabilità personale  del proprietario

il secondo sulla valenza non esimente della ruolo dell’amministratore

© massimo ginesi 10 aprile 2019 

niente ristorante se il regolamento consente solo attività di commercio.

Ove il regolamento di condominio, di natura contrattuale, vieti attività diverse da quella di commercio, deve ritenersi non consentirà l’apertura di un ristorante, poiché tale attività non è riconducibile alla generale categoria della attività di commercio.

L’interpretazione della norma regolamentare è attività rimessa al giudice di merito, che dovrà procedervi secondo le norme generali in tema di contratti, al fine di appurare l’effettiva volontà delle parti.

E’ quanto statuito da una recente sentenza di legittimità (Cass.Civ. sez. II 4 aprile 2019 n. 9402 rel. Scarpa): “l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi (al fine di tutelare l’interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all’abitabilità dell’intero edificio, nonché ad incrementare il valore di scambio delle singole unità immobiliari) è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393; più di recente, non massimate, Cass. Sez. 6-2, 14/05/2018, n. 11609; Cass. Sez. 6-2, 21/06/2018, n. 16384).

La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. L’art. 1362 c.c., del resto, allorché nel primo comma prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290).

In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente il divieto di destinare i negozi ad uso diverso da “commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti”, secondo cui collide con lo stesso divieto l’esercizio dell’attività di ristorazione, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica interpretazione possibile, né la migliore in astratto.

E’ invero plausibile concludere, come inteso dalla Corte di Roma, che esuli dalla mera attività di commercio (la quale si risolve nella semplice intermediazione e distribuzione dei prodotti, di per sé consentita dalla disposizione regolamentare) l’esercizio di un’attività di ristorazione, in quanto comunque o connotata dalla trasformazione delle materie prime alimentari a fini di commercializzazione di un bene direttamente utilizzabile per il consumo con caratteristiche diverse da quelle del bene originario, e dunque volta alla creazione di un risultato economico nuovo, elemento questo distintivo delle imprese industriali ex art. 2195 c.c.; oppure consistente, in ogni caso, nella produzione di beni per la somministrazione di alimenti e bevande avvalendosi di laboratori di carattere artigianale.

Non rileva decisivamente opporre in questa sede l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità o dalla dottrina in ordine alla nozione normativa di commercio, ai fini della riconducibilità ad essa dell’attività di ristorazione, in quanto l’interpretazione delle disposizioni di legge (la cui erroneità è denunciabile per cassazione quale violazione o falsa applicazione di norme di diritto), regolata dall’art. 12 delle preleggi assegnando un valore prioritario al dato letterale ed individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore, costituisce un’operazione ontologicamente distinta dall’interpretazione contrattuale in senso stretto, avendo questa ad oggetto la determinazione della volontà dei contraenti ed essendo perciò riservata al giudice del merito (la cui decisione resta censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica o per vizi di motivazione).”

© Massimo Ginesi 9 aprile 2019

impianti sul lastrico solare: la questione va alle sezioni unite

La concessione del lastrico solare condominiale per l’installazione da parte di terzi di impianti tecnologici è fenomeno di sempre più ampia diffusione e pone problemi di qualificazione giuridica che hanno indotto la seconda sezione civile del Supremo Collegio (Cass.Civ.  sez.II ord. 29 marzo 2019 n. 8943 rel. Scarpa)  a rimettere la valutazione alle sezioni unite.

La fattispecie è relativa alla concessione in uso dello spazio comune per l’installazione di ripetitori telefonici (fenomeno che dovrebbe essere attentamente valutato non solo sotto il profilo dei diritti reali ma anche sotto quello più ampio del diritto alla salute, posto che l’effettiva influenza di tali strumenti sulla salute umana è a tutt’oggi ignoto ma certamente non irrilevante ), ma ben può attagliarsi anche alla diffusa installazione di pannelli fotovoltaici o di altri impianti tecnologici.

La Corte si sofferma a lungo sulla qualificazione giuridica del contratto con cui si formalizza tale concessione, con una ordinanza interlocutoria che merita integrale lettura, attesa la grande acutezza e finezza  del relatore.

Alle sezioni unite viene rimessa la seguente valutazione: “la questione che si pone è se è necessario il consenso di tutti i partecipanti, ai sensi dell’art. 1108 c.c., comma 3, per l’approvazione del contratto col quale un condominio conceda in godimento ad un terzo, dietro il pagamento di un corrispettivo, il lastrico solare, o altra idonea superficie comune, allo scopo precipuo di consentirgli l’installazione di infrastrutture ed impianti (nella specie, necessari per l’esercizio del servizio di telefonia mobile), che comportino la trasformazione dell’area, riservando comunque al detentore del lastrico di acquisire e mantenere la proprietà dei manufatti nel corso del rapporto come alla fine dello stesso. Attesa la particolare importanza della questione di massima, il Collegio ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.”

(Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza interlocutoria n. 8943:19; depositata il 29 marzo) – LOCAZIONI e CONDOMINIO | Diritto e Giustizia

© massimo ginesi 4 aprile 2019 

il giudizio di appello deve svolgersi nel contraddittorio di tutte le parti del primo grado

una recente sentenza della corte di legittimità (Cass.Civ. sez.II 28 marzo 2019 n. 8695 rel. Scarpa)  fa applicazione piana di un principio cardine del nostro ordinamento processuale, rilevando un difetto di integrità del contraddittorio nel giudizio di appello, rispetto alle parti che avevo preso parte al primo grado.

La vicenda processuale è decisamente complessa: ” Nel corso del giudizio di primo grado intervennero adesivamente rispetto alla posizione del Condominio attore i singoli condomini F, A, S, A e T, nei cui confronti fu quindi pronunciata la sentenza del Tribunale di Roma dell’8 marzo 2010. Proposero poi appello principale il Condominio di Viale P., (i condomini)  F, A e S, ma tale appello venne notificato unicamente alla Is.r.I., alla A s.r.l.  ed alla B s.r.I., e non anche ad A ed a T.

Deve riaffermarsi che, nell’ambito di giudizio promosso dall’amministratore di condominio con riguardo alla tutela delle parti comuni condominiali (nella specie, per far valere l’illegittima realizzazione di canne fumarie apposte sulla facciata dell’edificio, adibite all’esercizio di attività di ristorazione, in violazione dell’art. 844 c.c., nonché di un divieto contenuto nel regolamento di condominio), ciascuno dei partecipanti al condominio può spiegare intervento a difesa della proprietà comune, connotandosi tale intervento come “adesivo autonomo” (così Cass. Sez. 2, 23/06/1976, n. 2341; Cass. Sez. 3, 18/02/1980, n. 1191), ovvero (sul presupposto che il condomino che intervenga personalmente nel processo, in cui sia presente l’amministratore, non si comporta come un terzo che si intromette in una vertenza fra estranei) quale costituzione di una delle parti originarie in senso sostanziale determinatasi a far valere le proprie ragioni direttamente, e non più tramite il rappresentante comune (cfr. ad esempio Cass. Sez. 2, 27/01/1997, n. 826; Cass. Sez. 2, 24/05/2000, n. 6813; Cass. Sez. 2, 30/06/2014, n. 14809).

Tale profilo non è direttamente coinvolto dalla decisione, rimessa alle Sezioni Unite di questa Corte con ordinanza interlocutoria n. 27101 del 2017, sulla più generale questione di diritto concernente la permanente legittimazione del singolo condomino (non costituitosi autonomamente) all’impugnazione di qualsiasi sentenza di primo o di secondo grado resa nei confronti del condominio, alla luce dei principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 19663 del 2014.

A seguito dell’intervento volontario del singolo condomino nel giudizio promosso dall’amministratore di condominio per la tutela delle parti comuni, si configura allora un unico giudizio con pluralità di parti, il quale si definisce con la stessa sentenza rispetto alle parti principali ed agli intervenuti, il che dà luogo ad un litisconsorzio necessario processuale.

La causa deve perciò considerarsi inscindibile anche in grado di appello nei confronti dell’interventore, con la conseguenza che, ove l’atto di impugnazione non sia notificato nei suoi confronti ed il giudice non abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c., si determina la nullità, rilevabile di ufficio pure in sede di legittimità, dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso (arg. da Cass. Sez. 2, 09/05/2018, n. 11156; Cass. Sez. 3, 19/10/2015, n. 21070; Cass. Sez. 2, 06/05/2015, n. 9150; Cass. Sez. 1, 03/04/2007, n. 8350; Cass. Sez. 3, 05/05/2004, n. 8519).

La mancata notificazione dell’atto di impugnazione della sentenza di primo grado a taluno dei condomini intervenuti nella causa promossa dall’amministratore di condominio vizia, dunque, la sentenza di appello che sia stata emessa senza l’integrazione del contraddittorio con i condomini pretermessi e tale vizio può essere fatto valere come motivo di ricorso per cassazione, in quanto, per un verso, la sentenza di primo grado non passa in giudicato nei confronti dei pretermessi in presenza dell’impugnazione di altre parti e, per altro verso, la sentenza che non sia pronunciata nei confronti di tutti i comproprietari risulta comunque ineseguibile e, quindi, inutiliter data (arg. da Cass. Sez. 2, 18/11/2008, n. 27412).

La Corte osserva, con argomenti di grande interesse,  che non ha rilievo la circostanza che taluno dei condomini pretermessi sia poi intervenuto con controricorso nel giudizio di cassazione, poiché rimane il dato oggettivo che costui non ha comunque preso parte al secondo grado di processo.

Si assume, invero, che, allorché in una causa, concernente le cose condominiali, siano costituiti sia uno o alcuni soltanto dei condomini, sia l’amministratore del condominio, la rappresentanza di quest’ultimo resta inevitabilmente limitata agli altri condomini, sicché, ove avvenga piuttosto la costituzione in giudizio di tutti i singoli partecipanti, occorre procedere all’estromissione dell’amministratore, per. sopravvenuto difetto della sua legittimazione passiva (cfr. Cass. Sez. 2, 18/01/1973, n. 184).

Ciò comporta che, allorché il condomino intervenga personalmente nel processo in tema di tutela delle parti comuni, in cui sia già presente l’amministratore, connotandosi quale parte in senso sostanziale del rapporto dedotto in lite che non si avvale più della rappresentanza ex art. 1131 c.c. dell’amministratore stesso, non vale il principio per cui il giudicato, formatosi all’esito di un processo in cui sia stato parte l’amministratore di un condominio, fa stato anche nei confronti dei singoli condomini non intervenuti nel giudizio (Cass. Sez. 3, 24/07/2012, n. 12911; Cass. Sez. 2, 22/08/2002, n. 12343), e l’esigenza di scongiurare eventuali giudicati contrastanti nella stessa materia e tra soggetti già parti del giudizio (il condomino intervenuto ed il condominio in persona dell’amministratore) viene preservata, in ipotesi di impugnazione, proprio dal meccanismo di cui all’art. 331 c.p.c.

Né è sostenibile che le parti intervenute nel giudizio di primo grado, le quali, pur sussistendo un litisconsorzio necessario, non siano state evocate nel giudizio d’appello, possano poi volontariamente intervenire nel giudizio di cassazione e accettare, come avvenuto nel caso in esame, espressamente senza riserve il contenuto della sentenza di secondo grado che, accogliendo l’appello proposto da altri litisconsorti dei pretermessi, abbia riformato la pronuncia impugnata e così posto nel nulla l’iniziale soccombenza che accomunava i medesimi litisconsorti, in maniera da ripristinare, ora per allora, la condizione di integrità del contraddittorio cui era subordinata la pronuncia di appello (a differenza di quanto si afferma nell’ipotesi in cui il litisconsorte necessario pretermesso intervenga volontariamente in appello ed accetti. la causa nello stato in cui si trova, non essendovi in tal caso rischi di possibili contrasti di giudicato: Cass. Sez. 2, 06/11/2014, n. 23701; Cass. Sez. 1, 04/05/2011, n. 9752; Cass. Sez. 2, 05/08/2005, n. 16504).

Poiché la nullità derivante dalla mancata integrazione del contraddittorio nelle ipotesi di cui all’art. 331 c.p.c. si ricollega ad un difetto di attività del giudice di appello, al quale incombeva l’obbligo di adottare un provvedimento per assicurare la regolarità del processo, ed è, come detto, rilevabile d’ufficio pure in sede di legittimità, non opera nemmeno il temperamento stabilito dall’art. 157, comma 3, c.p.c., secondo il quale la nullità non può essere opposta dalla parte che vi abbia dato causa (Cass. Sez. 3, 16/05/1975, n. 1911; Cass. Sez. 2, 04/04/2001, n. 4948; Cass. Sez. 6 – 2, 18/02/2014, n. 3855 ).

© massimo ginesi 2 aprile 2019 

medizione obbligatoria: la cassazione (finalmente) rintuzza gli eccessi formalistici.

una importante sentenza della Cassazione ( Cass. civ. sez. III 27 marzo 2019 n. 8473) affronta per la prima volta la corretta interpretazione delle norme in tema di mediazione, in particolare per quel che attiene alla possibilità della parte di conferire mandato al proprio difensore di comparire all’incontro in propria vece  sostanziale oltre che quale assistenza tecnica obbligatoria, tesi che la fazione più rigida e formale della giurisprudenza di merito aveva radicalmente escluso.

La pronuncia di legittimità, correttamente, riconosce tale possibilità a fronte di specifica procura sostanziale, ma ciò che più rileva nell’analisi della Suprema Corte è una lettura costituzionalmente orientata che evita di rendere il procedimento di mediazione, specie laddove costituisca obbligatoria condizione di proedibilità, una forca caudina che di fatto renda più difficile l’esercizio dei propri diritti.

Fra le righe della pronuncia sembra trasparire anche un certo scetticismo nei confronti dello strumento di ADR quale effettivo toccasana per la riduzione del contenzioso (chi frequenta  abitualmente le aule di giustizia si sarà reso conto che in realtà i numeri sono drasticamente calati negli ultimi anni per una serie di fattori che, a leggere le statistiche ministeriali, paiono più imputabili ai costi astronomici di accesso alla giustizia e alla complessa congiuntura economica attuale più che all’efficacia degli strumenti approntati dal D.lgs 28/2010).

Ancor più interessante appare l’inciso in ordine al momento in cui può ritenersi effettivamente esperito il tentativo di mediazione e avverata la condizione di procedibilità: la corte di legittimità mostra di aderire anche in tal caso ad una lettura improntata ad agilità processuale e a garanzia del diritto costituzionale di difesa. 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8473 DEL 27 MARZO 2019

© massimo ginesi 28 marzo 2019 

invio avviso di convocazione: una sentenza che non aiuta a capire

La suprema corte torna su un tema che incide significativamente sul’attività dell’amministratore condominiale, ovvero il tempestivo invio dell’avviso di convocazione.

Cass. civ. sez. II 25 marzo 2018 n. 8275  afferma che è onere dell’amministratore provare di                                                                                                                                                  aver inviato tempestivamente la convocazione ed incomba invece al condomino, che intenda contestare l’irrituale convocazione, allegare di averla ricevuta tardivamente senza sua colpa.

La pronuncia non appare di felicissima stesura e potrebbe apparire contraddittoria laddove, da un lato, ritiene onere del condominio fornire prova dell’effettivo pervenimento dell’avviso presso il destinatario e, dall’altro, che l’amministratore sia tenuto a dimostrare solo di averlo inviato.

In realtà l’intero testo della motivazione riafferma l’onere del mittente di dar prova di aver fatto pervenire il plico tempestivamente presso il destinatario (distinguendo l’ipotesi dell’invio della convocazione da quello del verbale); è solo l’infelice parte finale che sembra limitare gli oneri probatori di colui che convoca, anche se in realtà la lettura dell’intera sentenza rende chiaro che rimane onere del condominio dar prova di aver fatto pervenire la convocazione nella sfera giuridica del destinatario tempestivamente e rimane invece onere di costui dimostrare di non averne avuto conoscenza, per fatto a lui non imputabile.

E’ dunque  opportuno che l’interprete accorto non  si abbandoni  alla facile lusinga che sia sufficiente dimostrare la spedizione nei termini, poichè neanche l’odierna pronuncia  legittima simile lettura.

Per costante orientamento di questa corte (ex multis, Cass. 26 settembre 2013 n. 22047), la invocata disposizione dell’art. 66 disp. att. c.c., viene interpretata nel senso che essa esprime il principio secondo cui ogni condomino ha il diritto di intervenire all’assemblea del condominio e deve, quindi, essere messo in condizione di poterlo fare.

Viene, inoltre, affermata la necessità che l’avviso di convocazione sia non solo inviato, ma anche ricevuto nel termine, ivi stabilito, di almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza, avendo riguardo quale dies ad quem alla riunione dell’assemblea in prima convocazione. Con la conseguenza che la mancata conoscenza di tale data, da parte dell’avente diritto, entro il termine previsto dalla legge, costituisce motivo di invalidità delle delibere assembleari, ai sensi dell’art. 1137 c.c., come confermato dal nuovo testo dell’art. 66 disp. att. c.c., comma 3, introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, a nulla rilevando, ai fini della tempestività dell’avviso, né la data di svolgimento dell’assemblea in seconda convocazione, né che la data della prima convocazione fosse stata eventualmente già fissata dai condomini prima dell’invio degli avvisi.

La medesima giurisprudenza, peraltro, qualifica l’avviso di convocazione atto eminentemente privato, e del tutto svincolato, in assenza di espresse previsioni di legge, dall’applicazione del regime giuridico delle notificazioni degli atti giudiziari – quale atto unilaterale recettizio, per cui esso rinviene la propria disciplina nell’art. 1335 c.c., al medesimo applicandosi la presunzione di conoscenza in tale norma prevista (superabile da una prova contraria da fornirsi dal convocato), in base alla quale la conoscenza dell’atto è parificata alla conoscibilità, in quanto riconducibile anche solamente al pervenimento della comunicazione all’indirizzo del destinatario e non alla sua materiale apprensione o effettiva conoscenza.

Invero, la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., degli atti recettizi in forma scritta giunti all’indirizzo del destinatario opera per il solo fatto oggettivo dell’arrivo dell’atto nel luogo indicato dalla norma.

L’onere della prova a carico del mittente riguarda, in tale contesto, solo l’avvenuto recapito all’indirizzo del destinatario, salva la prova da parte del destinatario medesimo dell’impossibilità di acquisire in concreto l’anzidetta conoscenza per un evento estraneo alla sua volontà (cfr., per una fattispecie in tema di comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea di un condominio, Cass. 29 aprile 1999 n. 4352).

Dall’anzidetto quadro normativo viene fatto derivare l’ovvio corollario per cui, se è vero che per ritenere sussistente, ex art. 1335 c.c., la presunzione di conoscenza, da parte del destinatario, della dichiarazione a questo diretta, è necessaria e sufficiente la prova che la dichiarazione stessa sia pervenuta all’indirizzo del destinatario, tale momento, ove la convocazione ad assemblea di condominio sia stata inviata mediante lettera raccomandata non consegnata per l’assenza del condomino (o di altra persona abilitata a riceverla), coincide con il rilascio da parte dell’agente postale del relativo avviso di giacenza del plico presso l’ufficio postale, idoneo a consentire il ritiro del piego stesso, e non già con altri momenti successivi.

Nel senso di cui innanzi si esprimono i precedenti consolidati di questa corte, che il collegio decidente condivide (v. di recente Cass. 3 novembre 2016, n. 22311, in fattispecie condominiale; v. altresì i numerosi precedenti in altre materie, soprattutto lavoristica, agraria e locatizia, anche ivi richiamati: Cass. 31 marzo 2016 n. 6256; Cass. 15 dicembre 2009 n. 26241; Cass. 5 giugno 2009 n. 13087; Cass. 24 aprile 2003 n. 6527; Cass. 27 luglio 1998 n. 7370; Cass. 1 aprile 1997 n. 2847; oltre numerose sentenze non massimate, o non massimate sul punto che rileva, tra le quali ad es. Cass. 4 agosto 2016 n. 1633).

A fronte del predetto orientamento consolidato si pone, in senso contrario il solo precedente di Cass. 14 dicembre 2016 n. 25791 che – emesso in materia condominiale ma in riferimento al diverso termine posto dall’art. 1137 c.c., per l’impugnazione delle delibere assembleari, decorrente per gli assenti dalla comunicazione – ha ritenuto: a) che l’avviso di tentata consegna da parte dell’agente postale, non contenendo l’atto cui si riferisce, non equivalga a sua comunicazione, né può quindi reputarsi che l’atto sia giunto all’indirizzo del destinatario per gli effetti dell’art. 1335 c.c.; b) che, mancando nel regolamento postale una disciplina analoga a quella della L. n. 890 del 1982, art. 8, l’interprete debba applicare il principio di effettiva conoscenza e non la presunzione di conoscibilità di cui all’art. 1335 c.c., altrimenti ponendosi il risultato interpretativo in contrasto con l’art. 24 Cost., trattandosi di una comunicazione – si ripete, del verbale delle deliberazioni dell’assemblea del condominio nei confronti degli assenti – da cui decorre il termine decadenziale per l’esercizio della impugnazione in sede processuale; c) che, quindi, debba farsi applicazione analogica delle disposizioni di cui alla L. n. 890 del 2002, art. 8, adattate tenendo conto del fatto che – non trattandosi di notifica di atto giudiziario – il servizio postale non prevede, per gli invii ordinari, la spedizione di una raccomandata con la comunicazione di avvenuto deposito ma solo il rilascio di avviso di giacenza.
La considerazione della natura isolata del predetto precedente (che peraltro, dal punto di vista della percezione dei valori costituzionali sottesi, si pone in dissonanza implicita con Cass. 23 settembre 1996 n. 8399, decisione che, come detto, aveva in particolare valorizzato la possibilità per il destinatario di dare prova contraria rispetto alla presunzione ex art. 1335 c.c.) e, soprattutto, della circostanza che esso concerne fattispecie non pienamente sovrapponibile a quella in esame, induce a non ritenere sussistente il contrasto diacronico di giurisprudenza dedotto dal procuratore generale in udienza pubblica.

In particolare, in ordine ai caratteri distintivi della questione giuridica esaminata in detto precedente (relativa alla disciplina del termine di impugnazione ex art. 1137 c.c., della delibera di assemblea di condominio) rispetto a quella oggetto della presente controversia (relativa alla disciplina del termine dilatorio ex art. 66 disp. att. c.c., per la convocazione dell’assemblea del condominio), può essere sufficiente sottolineare che, nel primo caso, dalla comunicazione dell’atto (verbale assembleare) decorre un termine decadenziale per proporre un’azione giudiziaria mentre, nel secondo caso, dal pervenimento dello stesso (convocazione di assemblea) decorre un termine dilatorio meramente condizionante la validità della deliberazione, la quale ultima soltanto potrà essere impugnata in giudizio, previa ulteriore comunicazione di essa o partecipazione del convocato all’adunanza: sussistono, dunque, “ragionevoli differenze”, correlate alla presenza solo nella prima fattispecie di possibili pregiudizi, per effetto dell’avverarsi della decadenza, all’esercizio della tutela giurisdizionale (tema su cui, in effetti, il precedente n. 25791 del 2016 cit. si sofferma nella formulazione della ratio decidendi). Ne deriva che, al limite, detto precedente n. 25791 del 2016 introduce una cesura nella catena giurisprudenziale concernente il computo dei termini decadenziali per l’esercizio di azioni giudiziarie decorrenti dalla ricezione dell’atto (per stare ai precedenti citati, v. taluni di quelli in materia lavoristica), ma non in quella (cui pertiene la fattispecie in esame, oltre altre nei precedenti citati) in cui non decorrano – almeno in via immediata e diretta – termini della specie, bensì termini di altre tipologie (sul punto v. precedente in termini, Cass. 22 novembre 2017 n. 23396).

Va riaffermato, dunque, quale principio di diritto, che in tema di condominio, con riguardo all’avviso di convocazione di assemblea ai sensi dell’art. 66 disp. att. c.c., (nel testo ratione temporis vigente), posto che detto avviso deve qualificarsi quale atto di natura privata (del tutto svincolato, in assenza di espresse previsioni di legge, dall’applicazione del regime giuridico delle notificazioni degli atti giudiziari) e in particolare quale atto unilaterale recettizio ai sensi dell’art. 1335 c.c., al fine di ritenere fornita la prova della decorrenza del termine dilatorio di cinque giorni antecedenti l’adunanza di prima convocazione, condizionante la validità delle deliberazioni, è sufficiente e necessario che il condominio (sottoposto al relativo onere), in applicazione della presunzione dell’art. 1335 c.c., richiamato, dimostri la data di pervenimento dell’avviso all’indirizzo del destinatario, salva la possibilità per questi di provare di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

Tale momento, ove la convocazione ad assemblea di condominio sia stata inviata mediante lettera raccomandata (cui il testo dell’art. 66 disp. att. c.c., affianca, nel testo successivo alla riforma di cui alla L. 11 dicembre 2012, n. 220, altre modalità partecipative), e questa non sia stata consegnata per l’assenza del condomino (o di altra persona abilitata a riceverla), coincide con il rilascio da parte dell’agente postale del relativo avviso di giacenza del plico presso l’ufficio postale, idoneo a consentire il ritiro del piego stesso, e non già con altri momenti successivi (quali il momento in cui la lettera sia stata effettivamente ritirata o in cui venga a compiersi la giacenza).
Precisazioni ulteriori derivano dalla considerazione dell’applicazione della disciplina della regolamentazione postale, avuta presente in precedenti pronunce e costituita ratione temporis dal decreto del ministro dello sviluppo economico 01/10/2008 (recante “approvazione delle condizioni generali per l’espletamento del servizio postale universale”), cui è succeduta la delibera 385/13/CONS del 20/06/2013 dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Il regolamento (nei due testi, che sul tema dell’art. 31, non presenta variazioni) contempla, con terminologia impropria, non vincolante sul piano civilistico, che “il mittente resta proprietario dell’invio sino al momento della consegna” e che egli, prima della consegna, ha titolo a chiedere la restituzione dell’invio o la modifica della destinazione o del destinatario. Il riferimento alla “consegna” è nel senso della preclusione alla possibilità di restituzione del plico al mittente al momento dell’emissione dell’avviso di giacenza ove la consegna sia stata comunque tentata, anche se non effettuata, in caso di assenza del destinatario, per cui una volta emesso l’avviso di giacenza, gli invii restano in giacenza (nel caso in esame, per trenta giorni) a disposizione del destinatario (e non del mittente), al quale ultimo essi vengono restituiti solo all’esito, previa richiesta e pagamento di corrispettivo, in alternativa alla distruzione.

Alla luce del quadro giurisprudenziale e normativo riprodotto si osserva che nel caso di specie l’amministratore ha provato la spedizione della convocazione tramite lettera raccomandata, e la sentenza impugnata ha evidenziato, da un lato, la sussistenza della presunzione di conoscenza, tenuto conto dell’affidabilità dello strumento di spedizione utilizzato, e, dall’altro, la mancanza di alcuna allegazione e prova specifica dedotta dalla ricorrente in ordine alla impossibilità di acquisire conoscenza dell’atto senza colpa, generica la sola negazione del ricevimento dello stesso, inidonea a superare la presunzione di conoscenza dell’atto regolarmente inviato.

Con la conseguenza che correttamente è stata ritenuta validamente raggiunta, attraverso la prova della spedizione della raccomandata contenente l’avviso di convocazione in data 25.05.2006, la presunzione di ricezione dello stesso da parte della destinataria, sulla quale gravava, pertanto, l’onere di controllare assiduamente la corrispondenza a lei diretta, per un riscontro della tempestività o meno dell’inserimento dell’avviso medesimo nel rispetto dei cinque giorni previsti dalla disposizione invocata.”

© massimo ginesi 27 marzo 2019

sulla ricorribilità del reclamo che decide sulla revoca dell’amministratore

La Suprema Corte (Cass. civ. sez. VI- 2, ord. 18 marzo 2019, n. 7623 rel. Scarpa) torna su un tema pacifico, ovvero la non ricorribilità per cassazione del provvedimento della corte di Appello che statuisce sul reclamo in ordine alla revoca dell’amministratore, se non per il capo che attiene alla eventuale condanna alle spese. 

Nel caso di specie un condomino impugna il decreto con cui la Corte d’Appello di Roma, “pronunciando sulla richiesta di modifica o revoca di precedente decreto della medesima Corte d’Appello, avente ad oggetto il rigetto della domanda di revoca giudiziale di R.G. dall’incarico di amministratore del Condominio di (omissis) , ha evidenziato come l’istanza deducesse anche nuove cause di “gravi irregolarità” non poste alla base dell’iniziale domanda, e come, comunque, ai sensi dell’art. 739 c.p.c., u.c., non potesse ammettersi un reclamo o un riesame contro i decreti già pronunciati in sede di reclamo.”

La corte di legittimità  non introduce principi nuovi, ma l’eccellente relatore traccia un quadro chiarissimo e completo della disciplina vigente, sia in tema di impugnazione che di applicabilità al rito camerale del principio della soccombenza; la motivazione merita dunque integrale lettura: “Secondo consolidato orientamento di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo avverso il decreto del tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio, previsto dagli art. 1129 c.c. e art. 64 disp. att. c.c., trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione; tale ricorso è, invece, ammissibile soltanto avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo (Cass. Sez. 6 – 2, 11/04/2017, n. 9348; Cass. Sez. 6 – 2, 27/02/2012, n. 2986; Cass. Sez. 6 – 2, 01/07/2011, n. 14524; Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957).

Non sono dunque ammissibili avverso il decreto in tema di revoca dell’amministratore di condominio le censure proposte sotto forma di vizi in iudicando o in procedendo, dirette a rimettere di discussione la sussistenza, o meno, delle gravi irregolarità ex art. 1129 c.c., comma 12, ovvero la valutazione dei presupposti legittimanti la statuizione di cessazione della materia del contendere, o, ancora, l’omesso esame di elementi istruttori che avrebbero diversamente potuto determinare il giudice del merito nella declaratoria della soccombenza virtuale (cfr. in termini Cass. Sez. 2, 06/05/2005, n. 9516).

Va allora ribadito come il procedimento di revoca dell’amministratore di condominio si svolge in camera di consiglio, si conclude con decreto reclamabile alla corte d’appello (art. 64 disp. att. c.p.c.), e si struttura, pertanto, come giudizio camerale plurilaterale tipico, che culmina in un provvedimento privo di efficacia decisoria, siccome non incidente su situazioni sostanziali di diritti o “status” (cfr. Cass. Sez. 6-2, 23/06/2017, n. 15706; Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957).

Ne consegue che il decreto con cui la corte d’appello provvede, su reclamo dell’interessato, in ordine alla domanda di revoca dell’amministratore di condominio, non avendo carattere decisorio e definitivo, non è, come detto, ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., mentre può essere revocato o modificato dalla stessa corte d’appello, per un preesistente vizio di legittimità o per un ripensamento sulle ragioni che indussero ad adottarlo (restando attribuita al tribunale, giudice di primo grado, la competenza a disporre la revisione del provvedimento emesso in sede di reclamo, sulla base di fatti sopravvenuti: cfr. Cass. Sez. 1, 01/03/1983, n. 1540), ai sensi dell’art. 742 c.p.c., atteso che quest’ultima disposizione si riferisce, appunto, unicamente ai provvedimenti camerali privi dei caratteri di decisorietà e definitività (cfr. Cass. Sez. 1, 06/11/2006, n. 23673).

Il decreto con cui la Corte d’Appello dichiari inammissibile l’istanza di modifica o revoca, ex art. 742 c.p.c., del decreto pronunciato in sede di reclamo sul provvedimento di revoca dell’amministratore di condominio comunque non costituisce “sentenza”, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 111 Cost., comma 7, essendo sprovvisto dei richiesti caratteri della definitività e decisorietà, in quanto non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi, non pregiudica il diritto del condomino ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, nè il diritto dell’amministratore allo svolgimento del suo incarico. Trattasi, dunque, di provvedimento non suscettibile di acquisire forza di giudicato, atteso che la pronuncia di inammissibilità resta pur sempre inserita in un provvedimento non decisorio sul rapporto sostanziale, e non può pertanto costituire autonomo oggetto di impugnazione per cassazione, avendo la pronuncia sull’osservanza delle norme processuali necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato (arg. da Cass. Sez. 1, 05/02/2008, n. 2756; Cass. Sez. 1, 01/02/2016, n. 1873; Cass. Sez. 6-1, 07/07/2011, n. 15070; Cass. Sez. 6-2, 18/01/2018, n. 1237, non massimata).

È poi infondato il secondo motivo di ricorso, che censura la condanna al pagamento delle spese, ritenendola non dovuta nel provvedimento con cui la Corte d’appello decida, come nella specie, sull’istanza di modifica o revoca del decreto in tema di revoca di un amministratore di condominio. Il secondo motivo, avendo ad oggetto esclusivamente la statuizione relativa alle spese processuali, va, invero, ritenuto ammissibile, come già detto, risultando irrilevante che essa acceda ad un provvedimento avente natura, formale, e sostanziale, di volontaria giurisdizione, non ricorribile, in quanto tale, per cassazione. Nel merito, tuttavia, la statuizione impugnata, giacché conforme al criterio della soccombenza indicato come normale dall’art. 91 c.p.c., risulta corretta. Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957, seguita dalla costante interpretazione giurisprudenziale, ha espressamente affrontato e risolto affermativamente la questione dell’applicabilità dell’art. 91 c.p.c., al procedimento camerale azionato in base all’art. 1129 c.c., comma 11, ed all’art. 64 disp. att. c.p.c., chiarendo come il principio di soccombenza si riferisca ad ogni processo, senza distinzioni di natura e di rito, e come il termine “sentenza” sia usato dall’art. 91 c.p.c., nell’accezione di provvedimento che, nel risolvere contrapposte posizioni, chiude il procedimento stesso innanzi al giudice che lo emette, accezione perciò comprensiva delle ipotesi in cui tale provvedimento sia emesso nella forma dell’ordinanza o del decreto (si veda Cass. Sez. 2, 22/10/2013, n. 23955).

Agli effetti del regolamento delle spese processuali la soccombenza può poi ben essere determinata, anziché da ragioni di merito, da ragioni di carattere processuale tra cui, come nel caso in esame, l’assunta inammissibilità della domanda.

© massimo ginesi 26 marzo 2019

divieto di nomina dell’amministratore revocato: alcuni interessanti principi affermati dalla Cassazione

Una recente pronuncia della Corte di legittimità (Cass.Civ. sez.VI-2 15 marzo 2019 n.  7699 rel. Scarpa) detta alcuni interessanti sul divieto di nomina dell’amministratore condominiale giudizialmente revocato introdotto dalla legge 220/2012 con l’art. 1129 comma XIII cod.civ.

La Corte di legittimità sottolinea che tale nomina deve intendersi nulla e che, tuttavia, l’amministratore continuerà a svolgere in via interinale le sue funzioni sino alla sua sostituzione, laddove non sia ancora intervenuta pronuncia giudiziale di accertamento della invalidità della nomina.

“Deve tuttavia essere ribadito il costante orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di condominio negli edifici, nei casi di revoca o annullamento per illegittimità della delibera di nomina dell’amministratore, e quindi tanto più ove ancora non sia stata pronunciata una sentenza dichiarativa

dell’invalidità della medesima delibera, come nel caso di specie, lo stesso amministratore continua ad esercitare legittimamente, fino all’avvenuta sostituzione, i poteri di rappresentanza, anche processuale, dei comproprietari, rimanendo l’accertamento di detta permanente legittimazione rimesso al controllo d’ufficio del giudice e non soggetto ad eccezione di parte, in quanto inerente alla regolare costituzione del rapporto processuale.

Tale interpretazione, che trova fondamento nella presunzione di conformità alla volontà dei condomini e nell’interesse del condominio alla continuità delle funzioni gestorie dell’amministratore, rende in questa sede irrilevante l’esame della questione, su cui insiste la ricorrente, della esatta natura della illegittimità della delibera di nomina dell’amministratore che sia stato revocato dall’autorità giudiziaria, in rapporto al divieto posto dall’art. 1129, comma 13, c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012.

Il riconoscimento dei permanenti poteri rappresentativi dell’amministratore, la cui delibera di nomina, per quanto tacciata di invalidità per contrasto con il citato art. 1129, comma 13,c.c., non sia stata ancora oggetto di specifica impugnazione, non è smentito dall’assunto che il divieto posto all’assemblea dalla citata disposizione costituisca norma imperativa di ordine pubblico, posta a tutela dell’interesse generale ad impedire una deviazione dallo scopo essenziale economico-pratico del rapporto di amministrazione.

Ne consegue che l’amministratore di condominio, che pur si assuma nominato con delibera illegittima, finché non sostituito, può validamente conferire procura ad un difensore al fine di costituirsi in giudizio per conto del condominio (cfr. Cass. Sez. 2, 30/10/2012, n. 18660; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1405; Cass. Sez. 2, 27/03/2003, n. 4531).

Tale interpretazione si uniforma a quanto affermato in giurisprudenza, sul fondamento dell’art. 2385 c.c., per le società di capitali, con riguardo alle quali viene affermato che la parte, la quale eccepisce la nullità della procura alle liti rilasciata da un amministratore la cui nomina fosse invalida, ha l’onere di provare non solo che tale nomina era stata già annullata prima del conferimento della procura alle liti, ma anche che quell’amministratore aveva a tale data conseguentemente già perduto la rappresentanza della società in forza della avvenuta sostituzione con altro amministratore (Cass. Sez. 1, 03/01/2013, n. 28).” 

© massimo ginesi 22 marzo 2019 

il consiglio di condominio ha competenze consultive e non può deliberare spese

Lo afferma una recente decisione della Suprema Corte ( Cass.Civ. sez.VI-2 15 marzo 2019 n. 7484 rel. Scarpa), con cui è respinto il ricorso di un condominio torinese, il cui consiglio aveva deliberato e ripartito lavori straordinari alle parti comuni e il cui deliberato è stato impugnato da uno dei condomini, che era peraltro risultato vittorioso già in primo grado e in appello.

La decisione, del tutto condivisibile, fa applicazione piana del dettato letterale della norma prevista dall’art. 1130 bis cod.civ., laddove dispone: “L’assemblea può anche nominare, oltre all’amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari. Il consiglio ha funzioni consultive e di controllo.”

A fronte di competenze deliberative rimesse dall’art. 1135 cod.civ. unicamente alla assemblea e di una formulazione chiara della norma che, oggi, prevede la possibilità di istituire un consiglio di condominio, la lettura della corte non desta sorpresa ed appare di assoluta linearità ed i interesse anche con riguardo alla facoltà del condomino di impugnare l’atto consiliare.

Osserva il supremo collegio che “Il comma 2 dell’art. 1130-bis c.c., introdotto dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, consente all’assemblea di nominare, oltre all’amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari. La stessa norma precisa che il consiglio di condominio ha “unicamente funzioni consultive e di controllo”, essendo l’organo votato a garantire una più efficiente e trasparente tutela degli interessi dei condomini nei grandi complessi immobiliari dotati di molteplici strutture comuni.

Già, tuttavia, prima della Riforma del 2012, o comunque in fattispecie sottratte ratione temporis alla vigenza del nuovo art. 1130 bis c.c., questa Corte aveva affermato, con principio che va qui ribadito, che l’assemblea condominiale – atteso il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciutele dall’art. 1135 c.c. – può certamente deliberare la nomina di una commissione di condomini (cui ora equivale il “consiglio di condominio”) con l’incarico di esaminare i preventivi di spesa per l’esecuzione di lavori, ma le decisioni di tale più ristretto consesso condominiale sono vincolanti per tutti i condomini – anche dissenzienti – solamente in quanto rimesse alla successiva approvazione, con le maggioranze prescritte, dell’assemblea, le cui funzioni (quale, nella specie. l’attribuzione dell’approvazione delle opere di manutenzione straordinaria, ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c.) non sono delegabili ad un gruppo di condomini (Cass. Sez. 2, 6 marzo 2007, n. 5130; Cass. Sez. 2, 23 novembre 2016, n. 23903; Cass. Sez. 2, 25 maggio 2016, n. 10865).

Il consiglio di condominio, pure nella vigenza dell’art. 1130-bis c.c., non può, dunque, esautorare l’assemblea dalle sue competenze inderogabili, giacché la maggioranza espressa dal più ristretto collegio è comunque cosa diversa dalla maggioranza effettiva dei partecipanti, su cui poggiano gli artt. 1135, 1136 e 1137 c.c. ai fini della costituzione dell’assemblea, nonché della validità e delle impugnazioni delle sue deliberazioni.

La determinazione dell’oggetto delle opere di manutenzione straordinaria (e cioè degli elementi costruttivi fondamentali delle stesse nella loro consistenza qualitativa e quantitativa), la scelta dell’impresa esecutrice dei lavori, la ripartizione delle relative spese ai fini della riscossione dei contributi dei condomini, rientrano, pertanto, nel contenuto essenziale della deliberazione assembleare imposta dall’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. (Cass. Sez. 2, 26 gennaio 1982, n. 517; Cass. Sez. 2, 21 febbraio 2017, n. 4430; Cass. Sez. 6-2, 16 novembre 2017, n. 27235; Cass. Sez. 6-2, 17 agosto 2017, n. 20136; Cass. Sez. 2, 20 aprile 2001, n. 5889).

Nella specie, è stato accertato in fatto dai giudici del merito che il Consiglio di Condominio, nella riunione del 31 luglio 2014, aveva approvato l’intervento di manutenzione, aveva scelto l’impresa cui affidare i lavori di manutenzione del lastrico ed aveva suddiviso le spese fra i condomini. Queste decisioni del Consiglio di Condominio, sempre per quanto accertato dalla Corte d’Appello di Torino, non vennero poi mai rimesse alla successiva necessaria approvazione dell’assemblea con le. maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c. (né, d’altro canto, i lavori risultavano approvati sin dall’assemblea condominiale del 30 maggio 2014).

Va considerato come le determinazioni prese dai condomini, in assemblea o, come nella specie, nell’ambito del “consiglio di condominio”, devono valutarsi come veri e propri atti negoziali, sicché l’interpretazione del loro contenuto è frutto di apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità unicamente per violazione dei canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 e seguenti c.c. (Cass. Sez. 2, 28 febbraio 2006, n. 4501).

La Corte d’Appello di Torino, ricostruiti i fatti come sinora esposto, ha coerentemente attribuito immediato valore organizzativo (e non dunque meramente consultivo o preparatorio di un futuro pronunciamento assembleare) alla deliberazione del Consiglio di condominio del 31 luglio 2014. Ciò basta a giustificare l’interesse del condomino D. ad agire in giudizio per accertare se siffatto valore organizzativo della deliberazione del 31 luglio 2014 meritasse di essere conservato o andasse, piuttosto, eliminato con la sanzione giudiziale invalidante.

Il D. aveva perciò un interesse sostanziale ad impugnare la delibera in questione, giacché titolare di una posizione qualificata diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che la delibera del consiglio di condominio generava quanto al contenuto dell’assetto organizzativo della materia regolata (le opere di manutenzione straordinaria). A questo interesse sostanziale è certamente abbinato l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. per l’impugnazione della delibera, avendo l’attore prospettato una lesione individuale di rilievo patrimoniale correlata alla delibera impugnata e così rivelato l’utilità concreta che poteva ricevere dall’accoglimento della domanda.

© massimo ginesi 20 marzo 2019 

alla cessazione dell’incarico l’amministratore è obbligato alla materiale consegna della documentazione

La corte di legittimità (Cass.Civ. sez.VI-2 8 marzo 2019 n. 6760)  sottolinea un principio ovvio e pacifico, chiarendo che l’amministratore cessato dall’incarico è tenuto materialmente. restituire al condominio quanto ricevuto per l’espletamento del mandato, non essendo sufficiente che i documenti condominiali vengano messi a disposizione.

“il secondo motivo di doglianza, con il quale il C. lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, 4, 5, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., per aver la Corte territoriale erroneamente ritenuto che lo stesso, a seguito della cessazione dell’incarico di amministratore condominiale, non aveva proceduto alla consegna della documentazione condominiale, avvenuta solo dietro espresso ordine del Tribunale di Napoli, è infondato.

Il ricorrente nell’asserire di aver lui stesso consegnato spontaneamente al Condominio la documentazione contabile, fonda la sua affermazione su un assunto del tutto erroneo.

Infatti, la semplice messa a disposizione della stessa, non equivale ad una materiale consegna, cui peraltro l’amministratore è obbligato a norma dell’art. 1129 c.c., comma 8, come modificato dalla L. n. 220 del 2012, secondo cui “alla cessazione dell’incarico l’amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi”.

Del resto, anche prima della riforma, l’obbligo di restituzione, sebbene non previsto espressamente dalla legge, veniva desunto dalla giurisprudenza dai principi generali, costituendo uno dei momenti più delicati quello del “passaggio di consegne” fra vecchio e nuovo amministratore, dato che all’interesse di chi subentra nell’incarico di prendere il prima possibile possesso di tutta la documentazione inerente al condominio acquisito, può corrispondere il disinteresse dell’amministratore uscente a occuparsi di un condominio con il quale si è interrotto definitivamente il rapporto professionale.

E d’altro canto il ritardo nel passaggio di consegne può essere fonte per il condominio di rilevanti danni.

Vieppiù, secondo l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, il mancato adempimento di tale dovere rientra tra le ipotesi per cui si può richiedere legittimamente l’adozione di un provvedimento di urgenza, finanche a norma dell’art. 700 c.p.c. (Cass. n. 11472 del 1991). Nello stesso atto di ricorso, la difesa di parte ricorrente, nel riportare un estratto delle dichiarazioni rese dal C. in sede di interrogatorio formale, si legge che la documentazione che quest’ultimo procedeva a depositare nel corso del giudizio di primo grado, era stata sempre presso lo stesso. E ciò a dimostrazione che il deposito è avvenuto solo a seguito di un preciso ordine del giudice di prime cure.

Del resto la messa a disposizione della documentazione, riferita dal ricorrente, parrebbe più attinente all’obbligo di rendiconto di cui all’art. 1130 bis c.c., comma 1, u.p.. Pertanto, anche in quest’ultimo caso la Corte territoriale nel rideterminare il governo delle spese, dichiarando il ricorrente soccombente anche con riferimento all’originaria domanda afferente la consegna dei documenti, rettamente ha fondato la sua statuizione.”

© massimo ginesi 12 marzo 2019