l’arbitraria occupazione di aree comuni non necessariamente da luogo a risarcimento

Cass.Civ. sez.II ord. 10 gennaio 2019 n. 468 afferma un principio significativo: non necessariamente l’occupazione illecita di un’area comune da parte di un singolo condomino comporta risarcimento del danno in favore degli altri contitolari, ove risulti che tale condotta non ha di fatto impedito l’uso del bene.

Nel caso all’esame della corte un condomino aveva occupato una porzione del parcheggio condominiale con un ampiamento della propria unità, opera abusiva e oggetto di successiva demolizione: la Corte ha tuttavia statuito che “In materia di comunione, infatti, laddove sia provata l’utilizzazione da parte di uno dei comunisti della cosa comune in via esclusiva in modo da impedirne l’uso, anche potenziale, agli altri comproprietari, il danno deve ritenersi “in re ipsa” (Cass. n. 11486 del 2010). Nel caso di specie, la corte d’appello, con accertamento in fatto non suscettibile di sindacato in questa sede, ha ritenuto che, nel caso in esame, non vi fossero elementi per affermare che l’occupazione del suolo condominiale operata dai coniugi C. – L.P. sia stata a tal punto estesa da impedire alla R., in quanto condomina, l’uso, anche solo potenziale, dell’area comune destinata a parcheggio. Ed una volta escluso, in fatto, che l’occupazione, ancorché abusiva e protratta nel tempo, abbia effettivamente impedito alla R. l’uso della area comune, deve, per l’effetto, necessariamente escludersi la sussistenza di un danno risarcibile.

© Massimo Ginesi 14 gennaio 2019

è nulla la delibera che impone spese a colui che si distacca dall’impianto di riscaldamento

è quanto stabilito da Cass.Civ. sez.II ord. 10 gennaio 2019 n. 480 con riferimento alla delibera di un condominio ” nella parte in cui, autorizzandolo a distaccare l’appartamento di … proprietà dall’impianto di riscaldamento centralizzato, poneva a suo carico il 50% delle spese di esercizio dì detto impianto (senza nulla specificare sul suo onere di contribuzione alle spese di manutenzione, riparazione e ricostruzione)”

Osserva la Corte che “il motivo va giudicato fondato, in adesione al recente orientamento di questa Corte che – sulla premessa che le delibere dell’assemblea di condominio con le quali siano stabiliti i criteri di ripartizione delle spese in deroga a quelli dettati dall’art. 1123 c.c., oppure siano modificati i criteri fissati in precedenza in un regolamento contrattuale, richiedano l’approvazione di tutti i condomini a pena di radicale nullità (cfr. Cass. 16321/16, in motivazione, pag. 9; Cass. 19651/17, in motivazione, pag. 8) – ha chiarito, superando orientamenti precedenti (Cass. 16793/06, Cass. 7708/07), che sono da considerare nulle per impossibilità dell’oggetto, e non meramenteannullabili, e perciò impugnabili indipendentemente dall’osservanza del termine perentorio di trenta giorni ex art. 1137, comma 2, c.c., tutte le deliberazioni dell’assemblea adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese, e quindi in eccesso rispetto alle attribuzioni dell’organo collegiale, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto, ed occorrendo, piuttosto, a tal fine, un accordo unanime, espressione dell’autonomia negoziale (Cass. 6128/17, Cass. 19651/17, Cass. 22157/18, Cass. 23222/18);

ne deriva che “la nullità della delibera di assemblea condominiale è rilevabile anche di ufficio anche in appello (Cass. nn. 12582/15, 305/16, 6652/17, 22678/17); per altro verso, va evidenziato che sull’affermazione del tribunale di annullabilità – e non nullità – della delibera impugnata non può essersi formato il giudicato interno, trattandosi non di una statuizione autonoma ma di una argomentazione funzionale all’adozione della statuizione (impugnata dal soccombente) di rigetto della domanda di nullità; che neppure risulta conferente il richiamo del contro ricorrente ai principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 18477/10, giacché nel presente giudizio non si discute dell’approvazione di tabelle millesimali (ossia della determinazione dei valori della proprietà di ciascun condomino e della loro espressione in millesimi, la cui erroneità è sempre rimediabile ai sensi dell’articolo 69 disp. att. c.c.), bensì di un criterio di riparto delle spese di un servizio condominiale tra i condomini che di tale sevizio fruiscono direttamente e i condomini che di tale sevizio non fruiscono direttamente; criterio che, essendo definito da un regolamento contrattuale, non può essere modificato dalla maggioranza assembleare, come avvenuto con l’impugnata delibera (sulla corretta individuazione dei principi fissati ìn SSUU n. 18477/10, cfr. Cass. 19651/17, cit., pagg. 6 e segg.);

© Massimo Ginesi 11 gennaio 2019

regolamento di condominio e divieto di destinazione dei locali a ristorazione: una vicenda peculiare


un recente provvedimento della corte di lettimità (Cass.Civ. sez. II ord. 7 gennaio 2019 n. 129) affronta il problema di divieto di destinazione di unità immobiliari poste in condominio contenuto nel regolamento.

Nel caso specifico si trattava di un divieto limitato solo ad alcuni fondi e derivato da un accordo stipulato fra l’originario proprietario e l’acquirente di detta unità, patto poi trasfuso nel regolamento di condominio, e che stabiliva il divieto di adibire ad attività di ristorazione i fondi del piano terrà, salvo quello che si affacciava su un solo lato dell’edificio.

LA Corte di merito (e poi il giudice di legittimità) hanno ritenuto illecito – alla luce di tale divieto, il collegamento di altro fondo – contiguo ma non prospiciente su quella via e di proprietà dello stesso condomino – in quanto , ampliando la superficie destinata ad attività vietata, aggirava il divieto convenzionale.

La Corte di merito ha rilevato, con argomentazione logica e coerente, che l’art. 12 del regolamento condominiale vietava, in via generale, la destinazione di unità immobiliari ad attività di ristorazione, con la sola eccezione di quelle poste al piano terra e prospicenti la via P S.

In presenza di tale inequivoca disposizione, la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante la mancanza di porzioni evidenziate nella planimetria unita al regolamento condominiale, non potendo attribuirsi a tale mancanza l’ abrogazione o inefficacia della menzionata clausola n.12 del regolamento, in forza della quale era consentito svolgere attività di ristorazione nella sola porzione che, al momento dell’approvazione del regolamento condominiale, era prospicente a via P S., vale a dire il sub 815.

Secondo quanto ritenuto dal giudice di merito, l’art 18 del Regolamento condominiale attribuiva a Caladan la facoltà di unificare più porzioni di sua proprietà, ma non anche quella di aggirare il divieto del citato art. 12, ampliando lo spazio destinato alla ristorazione.

L’ interpretazione della corte territoriale appare dunque conforme non solo al significato letterale del Regolamento condominiale, ma anche al principio di conservazione del contratto ( art. 1367 c.c.) ed alla conformità alla natura ed oggetto del regolamento condominiale (art. 1369 c.c.), che esprimeva la comune intenzione dei contraenti di limitare l’esercizio di attività potenzialmente foriere di immissioni (di rumore, fumo etc. ) nocive , quale quella di ristorazione.”

© Massimo Ginesi 9 gennaio 2019

bar discoteca in condominio e rumore: il regolamento prevale sull’art. 844 cod.civ.


Una signora ottantanovenne lamenta che nel bar al primo piano del Condominio, nei weekend, si tengano feste danzanti che creano grave disturbo per la musica ad alto volume e il rumore.

“La ricorrente ha dedotto che, durante il fine settimana, City Bar srl adibisce il locale a discoteca, provocando “emissioni rumorose e vibrazioni intollerabili che si protraggono fino alle quattro del mattino”, che le impediscono di riposare, hanno addirittura provocato crepe nei muri dell’appartamento e le hanno cagionato danni alla salute, quali insonnia, cardiopatia, aritmia cardiaca, ansia e stress, danni aggravati dalle “intimidazioni” ricevute a seguito delle sue richieste di cessare tale condotta. Ha aggiunto che gli avventori del locale si trattengono numerosi sul marciapiede antistante il ristorante, che non può contenerli tutti, e producono schiamazzi notturni, rompono bicchieri ed altro, ostacolano il passaggio e l’accesso all’edificio.

Tale situazione l’ha costretta, nei giorni di giovedì, venerdì e sabato, a pernottare in albergo ovvero presso conoscenti ed a chiedere altresì “l’assistenza domiciliare del figlio Th. Vi.”.

Ha aggiunto che City Bar srl esercita l’attività di discoteca in assenza delle necessarie autorizzazioni comunali, che tale attività si svolge nel piano seminterrato, privo di uscite di sicurezza, e che essa “utilizza il marciapiede come cosa propria”.

Ha perciò lamentato la violazione degli artt. 844 e 2043 c.c. nonché degli articoli 5 e 6 del Regolamento dell’Edificio, che vietano “feste da ballo”, “riunioni rumorose” e “di recare disturbo” ai vicini, specie di notte; ha altresì dedotto la illiceità penale della condotta, ai sensi dell’art. 659 c.p., per la sua idoneità al disturbo del riposo e delle occupazioni di un numero indeterminato di persone.

Con specifico riguardo al proprietario, ha dedotto la sua responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1585 c.c., nonché anche quella extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2051 c.c..”

Il Giudice (Trib. Milano sez. XIII, 05/12/2018, , n.12316), accogliendo accoglie la domanda, rilevando come le previsioni del regolamento contrattuale, ove siano più restrittive, prevalgano sulla disposizione di cui all’art. 844 cod.civ., consentendo di prescindere dall’accertamento sulla normale tollerabilità previsto da detta norma.

il caso peculiare, poiché riguarda un immobile che non costituisce condominio, trattandosi di bene in comunione , ma che è comunque dotato di un regolamento interno, di cui il giudice sottolinea la differenza cogente rispetto a quello condominiale: aldilà di tale fatto specifico e particolare consente comunque al Tribunale di ribadire un principio consolidato: “In materia di rapporti condominiali, quando l’attività posta in essere da uno dei condomini di un edificio è idonea a determinare il turbamento del bene della tranquillità degli altri partecipi, tutelato espressamente da disposizioni contrattuali del regolamento condominiale, non occorre accertare, al fine di ritenere l’attività stessa illegittima, se questa costituisca o meno immissione vietata ex art. 844 c.c., in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale possono imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche maggiori di quelle stabilite dall’indicata norma generale sulla proprietà fondiaria. Ne consegue che, quando si invoca, a sostegno dell’obbligazione di non fare, il rispetto di una clausola del regolamento contrattuale che restringa poteri e facoltà dei singoli condomini sui piani o sulle porzioni di piano in proprietà esclusiva, il giudice è chiamato a valutare la legittimità o meno dell’immissione, non sotto la lente dell’art. 844 c.c., ma esclusivamente in base al tenore delle previsioni negoziali di quel regolamento, costitutive di un vincolo di natura reale assimilabile ad una servitù reciproca.trattandosi – nel caso della comunione, di fonte contrattuale che vincola i soli locatori e non anche i conduttori, che non hanno preso parte alla pattuizione”

© massimo ginesi 8 gennaio 2019

le norme in tema di riparto delle spese di riscaldamento sono inderogabili dall’assemblea

E’ quanto afferma una recente sentenza del Tribunale di Milano (Trib. Milano, sez. XIII Civile, 22 ottobre, n. 10703), in linea con consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale (Cass. 6128/2017).

“Nell’esercizio della delega legislativa per l’attuazione della direttiva del Parlamento europeo 2012/27/UE, il Governo ha emanato il D.Lgs. n. 102/2014, che ha imposto la contabilizzazione e termoregolazione del calore nei condominii con impianto di riscaldamento centralizzato e la ripartizione delle spese a consumo.
La disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 102/2014 riveste una finalità pubblicistica ed assurge quindi a norma imperativa vincolante inderogabile, in quanto posta a tutela di un interesse generale e non meramente privatistico.
Di conseguenza il nuovo criterio di ripartizione delle spese di riscaldamento ha carattere imperativo e, pertanto, non può essere derogato né da una delibera assembleare né da una norma di natura contrattuale del regolamento di condominio.
Pertanto, tutti i regolamenti contrattuali che dispongono diversamente sono, sul punto, contrari a legge.
Nel caso di specie, l’assemblea tenutasi in data 2.10.2014 approvava, con il voto favorevole degli odierni attori, la trasformazione della centrale termica da gasolio a gas metano, quindi con le delibere qui impugnate ha approvato il consuntivo 2015/2016 e il preventivo 2016/2017 e contestualmente le nuove tabelle millesimali di riparto spese riscaldamento, adeguandosi alle normative emanate in favore del contenimento dei consumi energetici, con delibere approvate con un numero di voti che rappresenta la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio, quindi valide.”

© massimo ginesi 28 dicembre 2018

il condominio committente non è obbligato in solido con l’appaltatore per le retribuzioni dei dipendenti di costui.

Lo ha stabilito il Tribunale capitolino (Tribunale Roma sez. lav., 27/11/2018, n.9213), con riferimento alla L. 220/2012  276/2003 che all’art. 29 prevede che ” in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro e’ obbligato in solido con l’appaltatore, nonche’ con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonche’ i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento.”

i giudici romani hanno osservato che “In tema di appalto di lavori condominiali, va rigettata la domanda proposta dai lavoratori della stazione appaltante nei confronti del condominio committente di condanna in solido al pagamento delle differenze retributive, invocando la responsabilità solidale del Condominio ex art. 29 del d. lgs. n. 276/2003, poiché quest’ultimo non esercita attività di impresa, a nulla rilevando che non sia formalmente una persona fisica ma un ente di gestione, peraltro sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini.

Sotto tale profilo, pertanto, un Condominio, che notoriamente non esercita attività di impresa o professionale, deve essere equiparato ad una persona fisica e quindi sottratto al regime della responsabilità solidale ex comma 3 ter  di detta disposizione.”

© massimo ginesi 20 dicembre 2018 

la mediazione non deve divenire un forca caudina: una condivisibile lettura del Tribunale di Savona

La materia condominiale è sottoposta, ex art 5 D.lgs 28/2010 a mediazione obbligatoria, sì che colui che agisce in giudizio dovrà procedere al preliminare esperimento della mediazione a condizione di improcedibilità dell’azione.

Tuttavia la materia richiede una lettura isprirata a criteri di ragionevolezza, onde non pregiudicare diritti costituzionalmente garantiti, fra i quali certamente rientra  quello di difesa.

Il Tribunale di Savona con sentenza 19 Ottobre 2018 Est. Pelosi sottolinea come non possa darsi luogo ad una applicazione rigida della discplina;  l’unico adempimento necessario al fine di evitare l’improcedibilità deve dunque riteenrsi il deposito della relativa istanza presso organismo abiliatato.

La pronuncia si pone meritoriamente in contrasto con quella giurisprudenza che addirittuva ricconnette alla mancata presenza  personale della parte l’improcedibilità dell’azione.

L’obbligatorietà della mediazione in materia condominiale è prevista dall’art. 5 del Dlgs 28/10 e dall’art. 71 quater disp. att. c.c.

Al riguardo, l’art. 5, co. 1-bis prevede: “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio … è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto …L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.

Si pone il problema di identificare qual è l’adempimento richiesto perché il procedimento di mediazione possa dirsi esperito.

Sul punto, il co. 2 bis del medesimo art. 5 precisa che “Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.

La giurisprudenza maggioritaria (si vedano, tra gli altri, Corte d’Appello di Milano, sentenza 10 maggio 2017 in Leggi d’Italia; Corte d’Appello di Ancona, sentenza 23 maggio 2018 in www.mondoadr.it; Tribunale di Pavia, sez. III, sentenza 20 gennaio 2017 e Trib. di Roma, Ord., 26 ottobre 2015, n. 100801 in Leggi d’Italia; Trib. Vasto, 9 marzo 2015, in Giur. it., 2015, 1885; Trib. Firenze, 26 novembre 2014, in Riv. dir. proc., 2015, 558; Trib. Firenze, 19 marzo 2014, in Plurisonline – Giurisprudenza di merito) ha sostenuto che, perché la mediazione possa dirsi esperita, è necessario dar vita ad un tentativo di conciliazione effettivo.

Ciò presuppone, in primis, la presenza fisica delle parti al primo incontro fissato dal mediatore. Qualora ciò non avvenga, la domanda dovrà essere dichiarata improcedibile.

Sul piano letterale, si dice, il co. 2 bis dell’art. 5 del Dlgs 28/10 richiede, perché la condizione di procedibilità possa dirsi avverata, che “il primo incontro” si concluda “senza accordo”.

Tale incontro è disciplinato dall’art. 8 che prevede, tra l’altro, che ad esso “le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”.

La condizione di procedibilità, quindi, può dirsi realizzata solo quando le parti (a ciò giuridicamente tenute) si sono materialmente incontrate davanti ad un mediatore.

Sul piano teleologico, invece, si richiama la ratio dell’istituto: se bastasse, la sola presentazione della domanda all’organismo di mediazione e non fosse necessaria la presenza delle parti medesime, la mediazione non potrebbe mai realizzare il suo fine, che consiste nel creare le condizioni perché si riattivi la comunicazione tra i litiganti, al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto. In sostanza, basterebbe adempiere solo formalmente all’obbligo della mediazione, presentando la domanda ma senza usufruire in concreto delle potenzialità dell’istituto, per svuotarlo completamente di ogni significato. Ecco allora che il legislatore, per evitare che ciò si verifichi, ha fatto ricorso ad un incentivo forte: l’improcedibilità della domanda.

Tuttavia, tale conclusione non convince, in quanto sembra fondarsi più su argomenti de jure condendo che non su argomenti de jure condito.

La tesi criticata non considera che ogni ostacolo frapposto alla piena esplicazione del diritto all’azione tutelato dalla Costituzione deve considerarsi eccezionale.

Con riferimento ad ipotesi di giurisdizione condizionata, qual è quella in esame, la giurisprudenza ha affermato il “principio, espresso anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga alla disciplina generale, devono essere interpretate in senso non estensivo” (Corte Cost. 403/07; Cass. 967/04) e, anzi, “devono essere interpretate in senso restrittivo” (Cass. 26560/2014), “dovendo limitarsene l’operatività ai soli casi nei quali il rigore estremo è davvero giustificato” (Cass. 6130/2011).

La Cassazione ha, poi, precisato che “l’improcedibilità, quale conseguenza sanzionatoria di un comportamento procedurale omissivo, derivante dal mancato compimento di un atto espressamente configurato come necessario nella sequenza procedimentale”“dev’essere espressamente prevista, non potendo procedersi ad applicazione analogica in materia sanzionatoria, attese le gravi conseguenze del rilievo dell’improcedibilità”, ragion per cui l’improcedibilità non può operare in difetto di espressa previsione legislativa (Cass. 20975/17) che, nel caso di specie, manca.

Infatti, l’ipotesi di mancata partecipazione delle parti al procedimento di mediazione è disciplinata da una norma specifica: l’art. 8, co. 4 bis, Dlgs 28/10 che prevede, come conseguenza dell’assenza delle parti, l’applicazione di una sanzione pecuniaria e la rilevanza di tale comportamento ex art. 116 c.p.c.

Nulla viene detto, invece, in ordine all’improcedibilità dell’azione. O meglio: qualcosa, sul punto, implicitamente la norma dice. Si prevede, infatti, che la mancata partecipazione al procedimento di mediazione è valutabile ex art. 116 c.p.c. Questo significa che, se la parte non partecipa alla mediazione, il processo andrà avanti e dovrà concludersi con una pronuncia di merito, nell’ambito del quale l’assenza dell’attore o del convenuto sarà valutabile come argomento di prova contro l’assente.

Non è neppure sostenibile che le sanzioni di cui all’art. 8 si cumulino con quella dell’improcedibilità.

Infatti, la norma non distingue a seconda che sia assente l’attore o il convenuto.

Questo significa che la sola assenza del convenuto (e, quindi, il mancato incontro di cui agli artt. 5, co. 2 bis ed 8) dovrebbe comportare il mancato realizzarsi della condizione di procedibilità.

Ma è impensabile che il convenuto possa, con la propria colpevole o volontaria inerzia, addirittura beneficiare delle conseguenze favorevoli di una declaratoria di improcedibilità della domanda, che paralizzerebbe la disamina nel merito delle pretese avanzate contro di sé o possa, comunque, rallentare l’andamento del processo per almeno 3 mesi.

Né può ritenersi che solo l’attore dovrebbe presenziare all’incontro di mediazione.

Tale soluzione non è sostenibile, in primo luogo, in quanto nessuna norma distingue la posizione dell’attore da quella del convenuto ai fini della mediazione, per cui sarebbe arbitrario ritenere sussistere un obbligo solo per tale parte. L’art. 8, co. 1, è chiaro nell’affermare che entrambe le parti “devono partecipare” al primo incontro, per cui non c’è alcuna ragione per sanzionare l’inosservanza dell’una o dell’altra in modo diverso. Una soluzione diversa determinerebbe, infatti, una disparità di trattamento tra la parte che ha interesse alla realizzazione della condizione di procedibilità e le sue controparti, perché sola la prima è esposta alla grave sanzione processuale ipotizzata (sul punto, Trib. Verona Ord. 11 maggio 2017, n. 1626 in www.altalex.com).

In secondo luogo, non solo non c’è alcun dato normativo a differenziare la disciplina dell’assenza dell’attore da quella del convenuto, ma non c’è neppure alcuna valida ragione perché ciò avvenga. L’attore ed il convenuto, di fronte al mediatore, perdono il loro ruolo processuale: non c’è più un soggetto che si afferma titolare di un diritto ed un convenuto indicato come gravato, invece, da un corrispondente dovere, come nel processo. Con la mediazione “scompaiono” i diritti e fanno ingresso gli interessi, originariamente confliggenti e che, per effetto della mediazione, sono destinati a divenire convergenti: entrambi i contendenti devono impegnarsi a porre fine ad una controversia tra loro esistente, collaborando, a tal fine, in modo soddisfacente e sfruttando le opportunità offerte dalla mediazione, evitando i costi economici ed umani del giudizio.

Neppure può sostenersi che l’improcedibilità è prevista dall’art. 5 del Dlgs 28/10 laddove precisa che la condizione di procedibilità è avverata quando il primo incontro si conclude senza accordo.

Infatti, il legislatore ha semplicemente descritto quello che il legislatore ha pensato poter essere lo sviluppo della procedura. Ciò che interessa al legislatore, perché si realizzi la condizione di procedibilità è che, nel primo incontro, le parti si esprimano sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione, come si evince dall’art. 8 che prevede che, nel corso di tale incontro, “il mediatore invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione”.

Accertata tale impossibilità, il processo deve andare avanti. Con l’assenza, la parte ed il suo avvocato danno una risposta chiara alla possibile prosecuzione del procedimento: la mancata partecipazione è espressione inconfutabile di mancanza di volontà di iniziare la mediazione.

Del resto, se l’ordinamento riconosce il diritto a non partecipare al processo restando contumace, senza che ciò abbia alcuna diretta conseguenza sul piano processuale, in modo analogo deve essere riconosciuto il diritto a non aderire al procedimento di mediazione, in un sistema, quale il nostro, retto dal principio dispositivo e dal diritto costituzionale all’azione in giudizio. Ciò è tanto più vero ove si consideri la contraddittorietà intrinseca nel voler costringere le parti alla mediazione ed alla conciliazione.

Non è, poi, vero quanto sostenuto dall’orientamento qui criticato, secondo cui, se l’assenza della parte non comportasse la sanzione dell’improcedibilità e fosse sufficiente solo la presentazione della domanda alla mediazione, l’istituto sarebbe svuotato di ogni sua utilità. A parte il fatto che, comunque, la presenza fisica della parte non garantisce un impegno effettivo a conciliare la lite, comunque, si osserva che il Dlgs 28/10 istituisce una gerarchia fra le varie fattispecie sanzionatorie, al cui vertice si pone l’improcedibilità dell’azione, da dichiararsi unicamente nei casi più gravi; in posizione mediana, si pongono la condanna pecuniaria ed il potere giudiziale di desumere argomenti di prova di cui all’art. 8; infine, nel caso in cui le parti abbiano partecipato alla mediazione, senza, però, sfruttare immotivatamente l’occasione offerta di una conciliazione, la conseguenza sanzionatoria è la condanna alle spese legali ex art. 13. Da tale quadro emerge che la pacifica affermazione secondo cui le parti hanno l’obbligo di presenziare all’incontro di mediazione non comporta automaticamente che l’inosservanza sia punita con l’improcedibilità.

Infatti, il legislatore ha, comunque, previsto uno stimolo per le parti a presenziare all’incontro di mediazione: l’assenza viene punita con una pena pecuniaria (il pagamento di un importo pari al contributo unificato) e con una pena processuale (applicazione dell’art. 116 c.p.c.), secondo quanto previsto dall’art. 8.

Qualora tali rimedi si rivelino non adeguati, sarà compito del legislatore porvi rimedio.

A questo, deve aggiungersi che l’art. 6 prevede che il procedimento di mediazione non possa avere una durata superiore a 3 mesi. Trascorso tale lasso di tempo, quindi, il processo può proseguire verso la definizione nel merito; in questo caso, quindi, la condizione di procedibilità può dirsi realizzata, pur in assenza dell’incontro di cui all’art. 8 del Dlgs 28/10 che, in ipotesi, potrebbe non intervenire prima della sentenza conclusiva.

Ciò che, invece, non manca mai, perché il processo possa proseguire, è la proposizione della domanda ex art. 4.

A ciò va aggiunto che tale conclusione trova supporto anche da un confronto tra l’istituto in esame e l’altro istituto “fratello”: la convenzione assistita. L’art. 3 del Dlgs 132/14, disciplinando l’invito obbligatorio alla stipula di una “convenzione di negoziazione assistita” dagli avvocati, fra le parti di una controversia rientrante nel novero di quelle assoggettate a tale (nuova) ipotesi di improcedibilità della domanda giudiziale, stabilisce, al comma 2°, che “Quando l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se l’invito non è seguito da adesione, è seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione, ovvero quando è decorso il periodo di tempo di cui all’articolo 2, comma 2, lettera a)”: eventi, tutti, innegabilmente riconducibili – espressamente o implicitamente (nel caso di mancata adesione o di infruttuoso decorso del termine) – alla mera volontà negativa delle parti in lite alla negoziazione.

L’assenza della parte, quand’anche sia attrice, all’incontro di mediazione disposto ex art. 5 Dlgs 28/10, è, quindi, sì punita dal Dlgs 28/10, ma non con l’improcedibilità, bensì con le sanzioni di cui all’art. 8.

In conclusione, deve ritenersi che l’unico adempimento richiesto ai fini della procedibilità della domanda è il deposito della domanda di mediazione presso l’organismo deputato.”

© massimo ginesi 17 dicembre 2018

un’interessante sentenza TAR LAzio sulla demolizione di ascensore condominiale

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Il TAR LAzio ( T.A.R. Roma, (Lazio) sez. II, 28/11/2018, n.11553)  si pronuncia sulla  legittimità dell’ordine comunale di demolizione di ascensore condominiale, realizzato in violazione delle norme antisismiche, ritenendo il provvedimento amministrativo illegittimo. 

“Gli interventi volti all’eliminazione delle barriere architettoniche, come la realizzazione di ascensori interni, montacarichi, servoscala e rampe, rientrano tra i lavori di edilizia libera. Conseguentemente l’ordinanza del comune per la rimozione o demolizione dell’ascensore installato nell’immobile del condominio e adottata ai sensi dell’art. 33 testo unico dell’edilizia, che prescrive la demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia eseguite in assenza del titolo abilitativo, è illegittima.”

La motivazione offre interessanti spunti di riflessione:

Nelle more del procedimento penale per l’accertamento della eventuale violazione della normativa antisismica, la legge, come si è visto, prevede la sospensione dei lavori, efficace fino alla conclusione del procedimento penale e rimette all’amministrazione regionale ogni ulteriore determinazione in ordine alla demolizione dell’impianto, qualora incompatibile con la legislazione antisismica.

La legge non riconosce una competenza specifica all’amministrazione comunale al riguardo, in ragione della competenza tecnica dell’ufficio del genio civile regionale ed in quanto ciò che viene in rilievo non è la mancanza del titolo edilizio, bensì l’accertamento della eventuale violazione della normativa antisismica, essendo stato eseguito un progetto carente della relativa autorizzazione.

Ne deriva la illegittimità del provvedimento impugnato, erroneamente fondato su una inesistente ristrutturazione edilizia abusiva, non essendo applicabile all’intervento di installazione di un ascensore interno, riconducibile all’edilizia libera, l’articolo 33 del testo unico dell’edilizia che prescrive la demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia eseguite in assenza del titolo abilitativo.

Non essendo stata eseguita una ristrutturazione edilizia, bensì un intervento per l’eliminazione delle barriere architettoniche mediante l’installazione di un ascensore interno, ma essendo, d’altra parte, carente la documentazione attestante il rispetto della normativa antisismica, l’amministrazione comunale avrebbe dovuto astenersi dall’adottare qualsiasi provvedimento ed attendere la definizione dell’eventuale processo penale ovvero le determinazioni del competente ufficio tecnico regionale.

Ne deriva la fondatezza del primo motivo di impugnazione, assorbente le ulteriori censure dedotte dalla ricorrente”

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copyright massimo ginesi 14 dicembre 2018

l’installazione di ascensore a cura e spese del singolo condomino.

Una recente ordinanza della Corte di legittimità ( Cass. civ. Sez. II 5 dicembre 2018 n. 31462, rel. Criscuolo) ripercorre con chiarezza ed accuratezza principi noti e consolidati, secondo i quali è facoltà del singolo condomino utilizzare le parti comuni dell’edificio per l’installazione a propria cura e spese di un ascensore, fatti salvi i limiti delineati dall’art. 1102 c.c.

La Corte ritiene corrette le valutazioni dei giudici di primo e secondo grado, che avevano respinto le domande dei condomini contrari all’opera,  i quali avevano assunto che l’installazione ledesse il pari uso dei beni comuni.

Il Giudice di legittimità osserva che “ l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un bene comune, deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 cod. civ. (Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012; conf. Sez. 2, Sentenza n. 10852 del 16/05/2014).

Trattasi di principio che è stato anche di recente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte che (cfr. Cass. n. 7938/2017) ha confermato la regola secondo cui in tema di eliminazione delle barriere architettoniche, la I. n. 13 del 1989 costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell’interesse generale, l’accessibilità agli edifici, sicché la sopraelevazione del preesistente impianto di ascensore ed il conseguente ampliamento della scala padronale non possono essere esclusi per una disposizione del regolamento condominiale che subordini l’esecuzione dell’opera all’autorizzazione del condominio, dovendo tributarsi ad una norma siffatta valore recessivo rispetto al compimento di lavori indispensabili per un’effettiva abitabilità dell’immobile, rendendosi, a tal fine, necessario solo verificare il rispetto dei limiti previsti dall’art. 1102 c.c., da intendersi, peraltro, alla luce del principio di solidarietà condominiale.

Negli stessi termini si veda anche Cass. n. 6129/2017, la cui massima recita che l’installazione di un ascensore su area comune, allo scopo di eliminare delle barriere architettoniche, rientra fra le opere di cui all’art. 27, comma 1, della l. n. 118 del 1971 ed all’art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 384 del 1978, e, pertanto, costituisce un’innovazione che, ex art. 2, commi 1 e 2, della l. n. 13 del 1989, va approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, commi 2 e 3, c.c., ovvero, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, che può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap, con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quanto prescritto dal comma 3 del citato art. 2; peraltro, la verifica della sussistenza di tali ultimi requisiti deve tenere conto del principio di solidarietà condominiale, che implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all’intervento innovativo, purché lo stesso sia idoneo, anche se non ad eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione.

A tali principi, come si ricava dalla sintesi della motivazione della sentenza d’appello risultano essersi conformati i giudici di seconde cure, il che consente di escludere che sussista la dedotta violazione delle norme di legge indicate nella rubrica del motivo.

Del resto, ove non debba procedersi ad una ripartizione di spesa tra tutti i condomini, per essere stata la spesa relativa alle innovazioni di cui si tratta, assunta interamente a proprio carico da un condomino, trova, comunque, applicazione la norma generale di cui all’art. 1102 cod. civ., che contempla anche le innovazioni, ed in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto, e, pertanto, può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune (Sez. 2, Sentenza n. 24006 del 27/12/2004; conf. Sez. 2, Sentenza n. 25872 del 21/12/2010), valutazione questa che è stata compiuta dal giudice di appello, che ha escluso che sussista una limitazione dell’altrui proprietà incompatibile con la realizzazione dell’opera.”

copyright massimo ginesi 12 dicembre 2018