l’apertura nel muro condominiale che consente a terzi il passaggio è illecita ed esula dalle previsione dell’art. 1102 cod.civ.

Ormai da tempo la Corte di legittimità ha chiarito come, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.,  sia  consentito un uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche per trarne utilità esclusive, e che a tale uso possa essere anche manifestarsi nell’apertura di ulteriori varchi su muri perimetrali per accedere dalla parte comune alla proprietà esclusiva, sempre fatti salvi i limiti previsti dalla norma (decoro, statica e diritti degli altri condomini).

Allo stesso modo la Cassazione afferma con costanza che ove tale apertura sia volta a mettere in comunicazione la parte comune con una unità estranea al condominio, seppur di proprietà del singolo condomino, si tratta invece di uso non consentito in quanto idoneo a creare una servitù sul bene comune a favore di un fondo terzo, sì che la fattispecie non può essere ricondotta all’art. 1102 cod.civ.

Cass.Civ. sez.II ord. 2 ottobre 2018 23858  ribadisce tale orientamento, seppur in una fattispecie particolare in cui il diritto di passo era comunque destinato ad essere fruito da terzi estranei al condominio.

Alcuni condomini si erano dunque attivati dinanzi al Tribunale di Venezia contro gli autori della nuova apertura: deducendo che costoro avevano trasformato senza il consenso di tutti i condomini una finestra esistente sul muro perimetrale dello stabile condominiale in una porta, mettendo in tal modo in comunicazione un locale destinato a bar con altro spazio esterno di proprietà dei medesimi convenuti.
Ad avviso degli attori, in tal modo era stata realizzata un’opera illegittima idonea a costituire una servitù a carico del bene comune a tutti i condomini”

Gli esiti di merito erano stati contrastanti: il Tribunale respingeva la domanda ritenendo che gli attori non avessero adeguatamente dimostrato che l’area scoperta non facesse parte dello stesso condominio.
Interponevano appello gli attori in prime cure e la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata n. 2534/2013, riformava la prima sentenza ritenendo che la trasformazione della finestra in porta alterasse la destinazione e la funzione dell’apertura e costituisse evento idoneo a costituire una nuova servitù a carico del condominio. Riteneva inoltre che l’intervento costituisse una possibile via di accesso di terzi estranei, avventori del bar, agli spazi condominiali, attraverso l’area esterna ed il bar degli appellati.”

La corte di legittimità, adita dai soccombenti in appello, ha così statuito: “Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art.1102 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché il vizio della motivazione, perché la Corte di Appello avrebbe configurato un uso abnorme del bene comune, rappresentato dal muro di cinta, sul presupposto che una delle due proprietà dei ricorrenti (in particolare, lo spazio aperto) non fosse compreso nello stesso condominio del quale faceva parte il locale ad uso commerciale, mentre avrebbe dovuto piuttosto ritenere i due beni compresi nel medesimo condominio e configurare pertanto un uso più intenso della cosa comune, ammesso dall’art. 1102 c.c.. Inoltre, i ricorrenti deducono che l’apertura da loro praticata non sarebbe idonea a costituire una nuova servitù a carico del condominio, da un lato poiché il possesso del diritto non poteva essere esercitato dal gestore del bar e dai suoi avventori, e dall’altro lato perché l’uso più intenso della cosa comune ammesso dall’art. 1102 c.c. non si riferirebbe necessariamente al solo proprietario del bene, ma riguarderebbe anche i terzi utilizzatori autorizzati dal proprietario medesimo.

Le due censure, che vanno esaminate congiuntamente poiché tra loro connesse, sono infondate.

Contrariamente a quanto ritenuto dai ricorrenti, infatti, la questione della ricomprensione o meno nel medesimo condominio delle due proprietà poste in comunicazione tra loro ha costituito oggetto del giudizio di secondo grado, come si evince dalla lettura del fatto contenuta a pag. 4 della sentenza impugnata. Anche dall’esame dell’atto di impugnazione, del resto, emerge che gli appellanti avevano lamentato proprio che gli odierni ricorrenti, mediante la trasformazione della finestra in porta, avessero creato una servitù di passaggio a favore di terzi estranei al condominio, con ciò evidentemente sottointendendo l’estraneità di una delle due proprietà poste in comunicazione dalla predetta apertura alla compagine condominiale in cui ricadeva invece l’altra.

Non essendosi formato quindi alcun giudicato interno sull’appartenenza o meno delle due proprietà di cui è causa allo stesso condominio, la Corte di Appello ha correttamente statuito sul punto, ritenendo – all’esito di un giudizio di fatto non utilmente censurabile in questa sede – che nel caso di specie una delle due predette proprietà fosse estranea al condominio e che quindi la nuova apertura praticata dagli odierni ricorrenti nel muro perimetrale dello stabile costituisse uso non consentito del bene comune, idoneo tra l’altro a costituire una nuova servitù a carico del condominio.

Né assume alcun rilievo, al riguardo, il fatto che il locale commerciale dei ricorrenti, posto certamente all’interno del condominio, sia stato concesso in locazione a terzi, giacché il titolo legittimante la detenzione in capo a costoro è soltanto idoneo ad escludere il loro diritto di possedere la servitù di passaggio ad usucapionem nei confronti degli odierni ricorrenti, proprietari del bene locato, ma non impedisce in termini assoluti la possibilità di questi ultimi di usucapire il predetto diritto di passaggio, anche per effetto del possesso mediato, nei confronti del condominio, né vale comunque a rendere lecita una condotta oggettivamente risolventesi in un uso abnorme e non autorizzato del bene comune.

Del pari irrilevante è la deduzione secondo cui l’uso più intenso della cosa comune non postula l’utilizzazione esclusiva della stessa da parte del solo condomino, ma ammette anche un uso da parte di terzi, autorizzati dal primo, posto che quel che rileva, nel caso di specie, è in ultima analisi la natura illecita dell’utilizzazione, che rende superflua qualsiasi considerazione relativa alla sua effettiva estensione, oggettiva o soggettiva.”

© massimo ginesi 4 ottobre 2018 

legittimazione passiva dell’amministrazione: la cassazione ribadisce una portata ampia.

Una interessante pronuncia della suprema corte (Cass.Civ. sez.II ord.26 settembre 2018, n. 22911) ritorna sul tema della legittimazione passiva dell’amministratore di condominio, cassando una pronuncia della corte di appello di Milano che l’aveva ritenuta insussistente.

i fatti: “La “Nimma” s.r.l. ed H.M.E. G., comproprietarie dello stabile in (omissis) , e del cortile facente parte del predetto stabile, citavano a comparire dinanzi al tribunale di Milano il condominio del confinante edificio di piazzetta (omissis) , edificio una cui facciata insisteva su uno dei lati perimetrali del cortile.
Chiedevano accertarsi e dichiararsi che era stata costituita in favore del condominio convenuto solo ed esclusivamente una servitù di passaggio pedonale, che il condominio convenuto aveva posizionato nel cortile di loro proprietà bidoni dell’immondizia e sacchi di rifiuti di vario genere, che siffatta condotta costituiva violazione del loro diritto di proprietà; chiedevano quindi condannarsi il condominio a ripristinare lo status quo ante e a rimuovere tutto quanto era stato indebitamente collocato.”

il contenuto della pronuncia di appello: “Con sentenza n. 689/2014 la corte d’appello di Milano rigettava ambedue i gravami e compensava integralmente le spese del grado.
Premetteva la corte – per quel che rileva in questa sede – che la legittimazione passiva dell’amministratore del condominio si radica in quanto oggetto di causa sia un bene annoverabile tra quelli di cui all’art. 1117 cod. civ.; che entro questi termini nessuna limitazione si prefigura alla legittimazione passiva dell’amministratore condominiale per qualsivoglia azione anche di natura reale promossa contro il condominio.
Indi su tale scorta evidenziava che viceversa nella fattispecie il bene per il quale era controversia – l’area cortilizia – non costituiva un bene condominiale, ma un bene di proprietà esclusiva delle attrici, sicché era da disconoscere la legittimazione passiva del condominio, tanto più che l’uso improprio del cortile era da ascrivere ai singoli condomini.”

il principio di diritto espresso dalla corte di legittimità: “È sufficiente il riferimento all’insegnamento di questa Corte di legittimità – insegnamento puntualmente richiamato dalle ricorrenti – a tenor del quale, in tema di controversie condominiali, la legittimazione dell’amministratore del condominio dal lato passivo ai sensi dell’art. 1131, 2 co., cod. civ. non incontra limiti e sussiste, anche in ordine all’interposizione d’ogni mezzo di gravame che si renda eventualmente necessario, in relazione ad ogni tipo d’azione, anche reale o possessoria, promossa nei confronti del condominio da terzi o da un singolo condomino (trovando ragione nell’esigenza di facilitare l’evocazione in giudizio del condominio, quale ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini) in ordine alle parti comuni dello stabile condominiale, tali dovendo estensivamente ritenersi anche quelle esterne, purché adibite all’uso comune di tutti i condomini (cfr. Cass. 4.5.2005, n. 9206).

Evidentemente l’ampia proiezione, segnatamente in ordine alla nozione “parti comuni (…) adibite all’uso di tutti i condomini”, del testé menzionato insegnamento sgombera il campo dalle perplessità prospettate dal condominio controricorrente (“davvero non pare sostenibile che la sentenza n. 9206/2005 (…) abbia affermato che vi sia legittimazione passiva di un condominio (…) anche quando la vertenza investa aree appartenenti a terzi, ove le stesse siano utilizzate, anche solo in via di fatto, dai condomini”: così memoria del controricorrente, pag. 3).

Per altro verso questo Giudice del diritto spiega che la legittimazione passiva dell’amministratore di condominio sussiste, con riguardo ad azioni negatorie e confessorie di servitù, anche nel caso in cui sia domandata la rimozione di opere comuni o la eliminazione di ostacoli che impediscano o turbino l’esercizio della servitù medesima, non rendendosi necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei condomini (cfr. Cass. 21.1.2004, n. 919).

Evidentemente l’indicazione giurisprudenziale testé riferita rileva viepiù nel caso de quo, caso nel quale è stata sollecitata la rimozione di res agevolmente amovibili.
In accoglimento e nei limiti del primo motivo di ricorso la sentenza n. 689 dei 28.1/18.2.2014 della corte d’appello di Milano va cassata con rinvio ad altra sezione della stessa corte d’appello.
All’enunciazione – in ossequio alla previsione dell’art. 384, 1 co., cod. proc. civ. – del principio di diritto – al quale ci si dovrà uniformare in sede di rinvio – può farsi luogo per relationem, nei medesimi termini espressi dalla massima desunta dagli insegnamenti di questa Corte (il riferimento è a Cass. n. 9206/2005; Cass. n. 919/2004) dapprima citati.
In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.”

© massimo ginesi 28 settembre 2018

impugnazione di delibera ed interesse ad agire

E’ noto che, ancor prima di verificare se sussistano gli elementi costitutivi della domanda, il giudice debba verificare se sussiste interesse della parte ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ovvero se sussista un interesse oggettivamente valutabile della parte ad ottenere tutela processuale con riguardo alla situazione dedotta in giudizio.

Con particolare riferimento alla impugnativa di delibere annullabili, si ritiene pacificamente che l’adozione da parte del condominio di nuova decisione sul punto controverso – dopo la proposizione della domanda  -comporti cessazione della materia del contendere, mentre è plausibile ritenere che – ove la delibera venga assunta prima che il condomino proponga impugnativa – sussista carenza di interesse ad agire nei riguardi di un atto viziato e già sanato (o sostituito da altro legittimo).

Trib. Massa 21 settembre 2018 n. 651  affronta il tema con riferimento alla impugnativa di delibera relativa alla nomina di amministratore,  assunta pacificamente con maggioranze inidonee ex art 1136 comma II c.c.

L’immotivata resistenza del condominio nella lite e la mancata adesione alla mediazione comportano condanna del convenuto per lite temerararia e al versamento di somma pari al contributo unificato in favore dell’erario.

Nella sentenza si osserva “ Risulta pacifico fra le parti che in assemblea successiva a quella oggetto di impugnativa l’amministratore sia stato ritualmente nominato, così come risulta per tabulas che all’assemblea del 30.1.2014, oggetto della odierna impugnativa, costui fosse stato nominato con una maggioranza inferiore al valore millesimale prescritto dall’art 1136 comma II c.c.

Ne consegue che quel deliberato era annullabile  ed impugnabile dai dissenzienti e dagli assenti (tra cui l’attrice) nel termine di trenta giorni ai sensi dell’art. 1137 c.c.

Se l’assemblea successiva, che legittimamente intervenga sul punto oggetto di doglianza, è certamente idonea a far cessare la materia del contendere, lasciando impregiudicato l’aspetto della c.d. soccombenza virtuale nella causa medio tempore promossa, non può non ritenersi che la stessa sia idonea ad incidere sull’interesse ad agire ex art 100 c.p.c. come sostiene parte convenuta, salvo che la delibera intervenga prima della promozione del giudizio, evenienza non riconducibile al caso in esame.

Nessun rilievo può avere, sotto tale profilo, la circostanza che la domanda sia stata proposta una volta ricevuto l’avviso di convocazione della successiva assemblea, evento che non contiene alcun elemento idoneo a far cessare la materia di contesa, ben potendo la successiva riunione non costituirsi, non deliberare legittimamente e rimanendo comunque impregiudicato il diritto e l’interesse del condomino a far accertare in sede giudiziale l’annullabilità della delibera assunta con maggioranze inferiori a quelle di legge, onde non far consolidare deliberati viziati e ciò  fino a quando tale delibera non sia sostituita da un atto legittimo di identico rilievo…

Non vi è invece alcun dubbio che costituisca interesse del condomino veder annullata la delibera viziata di nomina dell’amministratore, in quanto atto idoneo ad incidere sul suo rapporto con il Condominio (Cass. civ. sez. VI, 10/05/2013,  n. 11214).

Va osservato dunque che, al momento della sua proposizione, la domanda di parte attrice si prefigurava legittima e suscettibile di essere accolta, di talchè, secondo il principio della soccombenza virtuale, le spese devono essere poste a carico di parte convenuta; tenuto conto della sostanziale modestia del contendere, della pacificità e scarsa complessità delle questioni giuridiche affrontate e della lieve attività istruttoria svolta,  vengono liquidate secondo i valori minimi di scaglione e applicata la diminuzione del 30% per assenza di specifiche questioni di fatto e diritto, ex art. 4, comma 4 D.M. 55/2014 .

Deve ancora rilevarsi come il condominio abbia pervicacemente resistito in controversia di rilievo bagatellare ed abbia anche rifiutato di proseguire nella mediazione, come risulta dal verbale 30 luglio 2015 prodotto in atti, circostanze che – anche alla luce della pacificità dei diritti controversi secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità –  comportano condanna ex art. 96 comma III c.p.c. (che si stima equo commisurare in misura prossima alla metà delle spese liquidate)  ex art. 8, comma 4 bis, D.Lgs. n. 28/2010.”

© massimo ginesi 25 settembre 2018

mediazione concordata: il giudice deve concedere termine per darvi corso

Ove le parti abbiano inserito nel contratto una clausola che impone il preventivo esperimento di mediazione , pur trattandosi di materia in cui tale mezzo non è considerato obbligatorio dalla legge, il giudice di fronte al quale sia instaurata controversia relativa a quel contratto dovrà concedere termine per l’avveramento della condizione di procedibilità, ove la parte convenuta avanzi eccezione in tal senso.

E’ quanto stabilisce Trib. Bologna ord. 25 giugno 2018:  

La prima eccezione di improcedibilità, reiterata anche in sede di conclusioni finali, si fonda sull’art. 13, commi 1° e 2° del contratto 20 dicembre 2013, a norma del quale <> (il 3° comma prevede la <>, in caso di <>, di chiedere allo stesso organismo di mediazione <>).
L’articolo 13 del contratto inter partes va qualificato come clausola di mediazione.

Si applica dunque l’art. 5, 5° co., d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 nel testo come modificato dall’art. 84, comma 1 lettera e), d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 98) che, in sostanza, ha riprodotto il testo previgente, quale risultante dalla declaratoria di incostituzionalità pronunciata da Corte cost., 6 dicembre 2012, n. 272, e ha aggiunto le parole <>.

L’art. 5, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, rubricato <>, così dispone al comma 5°: ‘Fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, se il contratto, lo statuto ovvero l’atto costitutivo dell’ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazione e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi. La domanda è presentata davanti all’organismo indicato dalla clausola, se iscritto nel registro, ovvero, in mancanza, davanti ad un altro organismo iscritto, fermo il rispetto del criterio di cui all’articolo 4, comma 1. In ogni caso, le parti possono
concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo, l’individuazione di un diverso organismo iscritto’.

La previsione relativa alla mediazione obbligatoria per volontà delle parti non è stata oggetto diretto della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata da Corte cost., 6 dicembre 2012, n. 272 (commentata, sotto il profilo qui rilevante, in Giur. it., 2013, 894), salvo il riflesso sull’inciso iniziale <> (v. ora il testo vigente, sopra richiamato)

L’art. 5, 5° co., d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 è stato oggetto di differenti interpretazioni in dottrina e giurisprudenza, in particolare quanto agli effetti dell’omesso esperimento del procedimento di mediazione (cfr. ad es. Trib. Roma, sez. VIII, 4 novembre 2017, n. 20690, sentenza che ha dichiarato l’improcedibilità della domanda; Trib. Milano, 18 luglio 2016, secondo cui l’omesso esperimento del tentativo di conciliazione contrattualmente previsto non comporta improcedibilità della domanda; Trib. Taranto, sez. I, 22 agosto 2017; Trib. Ragusa, 1 dicembre 2017, in materia locatizia, che ha ritenuto assorbita la questione riguardante la clausola di mediazione a fronte del provvedimento del giudice che, ravvisata una ipotesi di mediazione obbligatoria, aveva assegnato il termine di quindici giorni per esperire la mediazione; in tema di mediazione obbligatoria v. invece Cass., sez. III, ord. 13 aprile 2017, n. 9557; a proposito di tentativo obbligatorio di conciliazione, con riferimento ad un caso particolare, e procedimento per decreto ingiuntivo, v. Cass., sez. III, 14 dicembre 2016, 25611 o anche Cass., sez. III, ord. 21 settembre 2017, n. 22017 che richiama il noto precedente Cass., sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24629).

Per quanto rileva in questa fase del processo, non risultando <>, ossia non essendo stato esperito il procedimento di mediazione (cfr. la simile, ma non identica, formula prevista dall’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28) e a fronte della tempestiva eccezione sollevata (e non rinunciata) dalla convenuta, va assegnato alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione, così come prescritto dall’art. 5, 5° co., d.lgs. cit.”

copyright massimo ginesi 24 settembre 2018

l’amministratore che resiste in giudizio senza informare l’assemblea può essere condannto a rimborsare al condominio le spese.

E’ quanto ha stabilito Tribunale Roma, sez. V, 21/08/2018,  n. 16596 in un’ articolata sentenza relativa ad una causa promossa dal condominio nei confronti dell’amministratore che – a fronte di infiltrazioni protratte per lungo tempo nell’appartamento di uno dei condomini – aveva resistito in giudizio con esisti infausti per il condominio,  senza informare l’assemblea e costituendosi in proprio nella sua qualità di avvocato.

Con riguardo ai danni promananti da parti comuni dell’edificio condominiale è pacificamente individuata la figura del custode in capo al condominio.

L’amministratore può rispondere non già tout court come custode ma per violazione contrattuale ove non abbia posto in essere quanto avrebbe potuto per impedire la causazione o l’aggravamento del danno.

Nel caso di specie, le infiltrazioni erano pregresse ma perduranti: posto che non risulta possibile determinare compiutamente in quali momenti esse si siano verificate, appare equo ritenere che la causazione delle stesse e l’aggravamento dei danni debbano essere poste a carico solo per 2/3 al A.M., per come liquidate nella ATP di cui alla causa F./Condominio e quindi per l’importo di euro 12.516,66.

Quanto al secondo profilo, è patente la violazione da parte dell’amministratore dell’obbligo di riferire delle lettere di diffida da parte del F., della problematica in atto relativa alla mancata ultimazione di tali lavori, della citazione ricevuta e molto grave è che lo stesso si sia costituito in giudizio senza mandato assembleare né successiva ratifica, privando l’assemblea della legittima scelta se transigere o resistere alla citazione.

Orbene, al fine di valutare la sussistenza del nesso causale tra la violazione dell’obbligo di informare il Condominio della diffida e poi dell’atto di citazione del F. e la costituzione del A.M. nella sua qualità di avvocato nella detta causa in mancanza di autorizzazione dell’assemblea, pare sottolineare come, nel diverso ambito della responsabilità dell’avvocato, si sia affermato che il professionista, nel suo rapporto con il cliente, è tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole, dimostrando l’assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio (così la recente Cass. del 19/04/2016, n. 7708).

D’altro conto la verifica della diligenza dell’avvocato (ed in questo caso dell’amministratore che decide autonomamente di costituirsi in giudizio) nell’espletamento dell’obbligazione – che è di regola di mezzi e non di risultato – va compiuta attraverso un giudizio prognostico circa l’attività astrattamente esigibile dal legale tenendo conto della adozione di quei mezzi difensivi che, al momento del conferimento dell’incarico professionale e, quindi, dell’instaurazione del giudizio, dovevano apparire funzionali alla migliore tutela dell’interesse della parte dal medesimo difesa (Cassazione civile, sez. II, 08/09/2015, n. 17758). E’, dunque, configurabile imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito “ex ante” e non “ex post”, sulla base dell’esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità – in astratto, o con riferimento al caso concreto – tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente (così la recente Cass. del 10/06/2016, n. 11906). L’affermazione della responsabilità del difensore, di conseguenza, non può essere desunta de plano dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, dal momento che il professionista non può garantire l’esito favorevole della lite.

Posto che la presenza delle infiltrazioni era circostanza nota ed aveva determinato l’aggiudicazione in ben due occasioni di lavori di rifacimento del lastrico a terrazza, che mai era stata contestata l’origine delle infiltrazioni dal bene comune, che vi era stata anche una perizia assicurativa che aveva affermato la causa delle infiltrazioni a carico del condominio, era ben difficile ipotizzare che il Condominio uscisse vittorioso da detta lite, senza peraltro validamente chiamare in giudizio le due imprese aggiudicatarie dei lavori. Non risulta, tra l’altro, che nelle more siano state rimborsate al F. le spese relative al ripristino dell’immobile danneggiato, neppure nella minor somma richiesta in data 14.07.2009 di euro 3000: pertanto, quantomeno in relazione a detto obbligo di ripristino mai attuato, il Condominio non poteva che essere condannato.

Inoltre, come giustamente osservato dal Giudice nella sentenza F./Condominio n. 14324/14 Tribunale di Roma (allegata al doc. 13 di parte attrice), non poteva sostenersi l’esonero da responsabilità del Condominio per essere la disponibilità del bene nelle mani delle due imprese, dovendosi in tal caso provare che i lavori erano stati ininterrotti e comunque rimanendo in capo al committente il controllo dello svolgimento dei lavori.

Invero, il A.M., nella sua veste di amministratore ha precluso all’assemblea di autodeterminarsi in merito all’opportunità di coltivare la lite ed ha esposto il Condominio alla certa condanna per le spese legali per l’importo di euro 3200, nonché per le spese di CTU e Ct di parte, per importo non individuato.

Pertanto, il A.M. sarà tenuto a rimborsare ai condomini odierne parti attrici, i 2/3 della quota parte corrisposta da ognuno di loro per il risarcimento del danno e dall’intero per le spese di lite.

Il A.M. restituirà a ciascuna parte, secondo il piano di riparto, i 2/3 dell’importo corrispondente al risarcimento del danno comprensivo del danno emergente e l’intera parte dell’importo corrispondente alla liquidazione delle spese di lite liquidate.”

© massimo ginesi 21 settembre 2018

Tribunale di Roma: in assenza di consenso degli aventi diritto la registrazione della assemblea di condominio non può essere utilizzata in giudizio.

Una sentenza che non brilla per chiarezza ma che affronta un tema peculiare e assai sentito in tempi di telefonini e di strumenti che consentono  con facilità la registrazione sonora o visiva di eventi e conversazioni.

Tribunale di Roma, sentenza 3 luglio 2018, n. 13692 sembrerebbe affermare che la registrazione della assemblea è comunque consentita ma che l’utilizzo di quella regsitrazione sia invece vietato in assenza del consenso di tutti gli aventi diritto (ovvero dei partecipanti).

Una condomina impugna un deliberato assembleare, dolendosi di numerose irregolarità e per fondare i propri assunti produce in giudizio la registrazione della riunione. Il tribunale osserva che  “Con atto di citazione notificato in data 17.4.2014, la signora MCN ha convenuto in giudizio il Condominio di Piazza (…), chiedendo dì voler dichiarare la nullità ovvero l’annullabilità della delibera assembleare del 5.2.2014, previa sua sospensione.
L’attrice ha fondato la domanda su:
1. pretesa irregolarità della assemblea condominiale per falso materiale nella redazione del verbale;
2. mancanza di fogli firme e non intelligibilità delle effettive presenze;
3. sistema di voto delle deliberazioni inesistente o non regolare;
4. approvazione del bilancio presentato solo parzialmente e redatto secondo criteri non conformi;
5. stesura del verbale ad opera di persona diversa dal segretario non facente parte del condominio;
6. redazione del verbale con spazi bianchi riempiti successivamente.
Con richiesta di vittoria di spese, competenze ed onorari, oltre accessori di legge.
Si è costituito in giudizio il convenuto Condomino chiedendo il rigetto delle domande attrici che contestava analiticamente, poiché destituite di fondamento.
Nel prosieguo del giudizio, il Giudice precedente assegnatario, ha dichiarato il non luogo a provvedere circa la richiesta di sospensione della delibera impugnata, per avervi rinunciato parte attrice.
Successivamente, dopo la concessione dei termini di cui all’art. 183, VI comma, c.p.c., la causa, di natura documentale, veniva rinviata all’udienza deputata alla precisazione delle conclusioni ed indi rinviata per trattazione orale ex art. 281-sexies, con termine per note conclusive.
Le domande tutte dell’attrice non possono trovare accoglimento e sono da rigettare poiché infondate e/o non provate, rimanendo valida ed efficace la delibera impugnata.
Quanto al merito, si osserva che:
1. Il primo assunto si basa su quanto registrato senza previa autorizzazione da parte attrice in sede dell’impugnata assemblea dell’assise condominiale.

Al riguardo si osserva che ogni condomino ha diritto di chiedere all’amministratore che la riunione condominiale sia registrata.
La Corte di Cassazione ha anche chiarito che, ciascun partecipante ad una conversazione, sia essa una riunione di condominio o un colloquio tra amici, accetta il rischio di essere registrato (Cass. 18908/2011).

Inoltre, non si verifica la lesione alla privacy dei partecipanti, in quanto la registrazione non dà luogo alla «compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso solo da chi palesemente vi partecipa o assiste» (Cass. S.U. 36747/2003).

È importante sottolineare però che nonostante ogni partecipante all’assemblea abbia il diritto di registrare durante l’assemblea, egli è tenuto a non divulgare il contenuto a terzi non presenti durante l’assemblea.

In questo caso si verificherebbe un reato (art. 167 D.Lgs. 196/2003), salvo il caso in cui si sia ottenuto il consenso alla divulgazione da parte di tutti i partecipanti all’adunanza o che la diffusione si renda necessaria per tutelare un proprio diritto.

Le norme giuridiche in merito a ciò sanciscono che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione telefonica può costituire fonte di prova, a norma dell’art. 2712 cod. civile – colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta e che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, sempre che non si tratti di conversazione svoltasi tra soggetti estranei alla lite (Cass. 8219/1996; Cass. 122016/1993).

Ed infine va sottolineato che l‘autorità garante per la protezione dei dati personali nel vademecum “il condominio e la privacy”, a tal proposito, ha chiarito che l’assemblea condominiale può essere registrata, ma solo con il consenso informato di tutti i partecipanti.
Ipotesi diversa dal caso che ci occupa, ove la proponente non è stata autorizzata.
Ciò premesso e considerato non sembra raggiunto l’onere della prova che compete a parte attrice.”

VA rilevato che la pronuncia appare travisare il dictum dell’autorità garante, che vieta la sola videoregistrazione in assenza del consenso e si discosta da altre pronunce di merito che hanno invece ritenuto consentita la registrazione, previa rischiesta al presidente della assembela:  ” “… in assenza di puntuali disposizioni del regolamento contrattuale/condominiale, il presidente dell’assemblea non può discrezionalmente negare la registrazione fonografica, stante il diritto del singolo condomino di controllare il procedimento di formazione della volontà assembleare, al punto che il rifiuto del presidente può essere impugnato ex articolo 1137 del Codice civile, per vizio del procedimento assembleare»   Tribunale di Foggia 11.6.2009  e Tribunale di Bologna 25 marzo 1999, n. 596”.

© massimo ginesi 19 settembre 2018

parcheggi vincolati: le modalità di calcolo della integrazione del prezzo che compete al venditore.

Cass.Civ. sez.VI-2 ord. 12 settembre 2018 n. 22514 rel. Scarpa  chiarisce le modalità di calcolo della integrazione del prezzo che compete al costruttore che abbia trasferito l’immobile privo dell’area obbligatoriamente destinata a parcheggio.

E’ noto che la disciplina vincolistica stabilisce una integrazione ex lege della volontà delle parti, con riguardo alle aree che devono essere obbligatoriamente essere destinate a parcheggio negli edifici di  abitazione residenziale. Ove il costruttore ometta di trasferire detta area, riservandosene la proprietà, la volontà delle parti viene sopravanzata dal dettato normativo, sì che tale bene viene comunque trasferito in capo all’acquirente dell’unità abitativa. Tuttavia, a seguito di tale trasferimento ex lege, sorge in capo all’acquirente l’obbligo di versare il corrispettivo del bene inizialmente pretermesso: la corte, nell’ordinanza  in commento, indica le modalità di calcolo con cui deve essere individuato il prezzo dovuto.

Secondo consolidato orientamento di questa Corte, ribadito altresì nella sentenza rescindente Cass. 1 agosto 2008, n. 21003, la sostituzione automatica della clausola che riservi al venditore la proprietà esclusiva dell’area destinata a parcheggio ai sensi dell’art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942, come introdotto dall’art. 18 della l. n. 765 del 1967, con la norma imperativa che sancisce il proporzionale trasferimento del diritto d’uso a favore dell’acquirente di unità immobiliari comprese nell’edificio, attribuisce al venditore, ad integrazione dell’originario prezzo della compravendita, il diritto al corrispettivo del diritto d’uso sull’area medesima, il quale ha la funzione di riequilibrare il sinallagma funzionale del contratto e, in difetto di pattuizione tra le parti, va determinato in base al prezzo di mercato, presumendosene la coincidenza con il prezzo normalmente praticato dall’alienante, cui occorre in tal caso riferirsi ex art. 1474, comma 1, c.c..

Nel determinare il prezzo normalmente praticato dall’alienante, al quale ci si deve rapportare ai sensi dell’art. 1474, comma 1, c.c., corrispondente, appunto, a quello di mercato, occorre far riferimento al tempo della conclusione del contratto (nella specie, 21 gennaio 1971).

Il prezzo determinato ai sensi dell’art. 1474, comma 1, c.c. ha natura di debito di valuta, con conseguente applicabilità della disciplina dettata dall’art. 1277 c.c. e, in caso di ritardo nell’adempimento, della disciplina ex art. 1224, comma 2, c.c., per cui, al contrario di quanto compiuto dalla Corte d’Appello di Lecce, il liquidato corrispettivo del diritto d’uso sull’area non può essere suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta, né vanno accordati interessi con funzione compensativa sulla somma dovuta aumentata gradualmente nell’intervallo di tempo trascorso fra la conclusione del contratto e la liquidazione operata in sentenza (cfr. Cass. Sez. 2, 04/07/2017, n. 16411; Cass. Sez. 3, 06/09/2007, n. 18691; Cass. Sez. 2, 10/03/2006, n. 5160; Cass. Sez. 2, 01/08/2001, n. 10459; Cass. Sez. 2, 14/11/2000, n. 14731; Cass. Sez. U, 05/11/1996, n. 9631).”

© massimo ginesi 18 settembre 2018

la prova del possesso ai fini della usucapione.

“La prova rigorosa dell’inizio del possesso, dell’esercizio dello stesso e del decorso del tempo idoneo ad usucapire è preciso onere di chi intende far valere la fattispecie acquisitiva originaria e non potrà essere assolto ricorrendo a semplici deduzioni, supposizioni o presunzioni.”

Una aspra vicenda familiare consente al Tribunale apuano (Tribunale Massa 17 luglio 2018 n. 525) di affrontare l’onere probatorio che incombe a colui che rivendica l’acquisto per usucapione di un bene immobile: specie laddove – in ambito familiare – il godimento del bene inizi come mera detenzione, è onere di colui che ritiene di aver usucapito dare prova netta della avvenuta interversione e dell’inizio del potere di fatto sulla cosa che – unitamente al decorso del tempo – costituisce elemento cardine della fattispecie acquisitiva.

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© massimo ginesi 11 settembre 2018

il termine concesso dal giudice per l’esperimento della mediazione non è reiterabile

Ove il giudice, rilevato che si tratta di materia sottoposta a procedimento obbligatorio di mediazione, abbia concesso alle parti termine per darvi corso, non potrà reiterarsi tale  facoltà ove le parti siano rimaste colpevolmente  inerti.

Si tratta di principio pacifico in giurisprudenza, riaffermato in recente sentenza del Tribunale di Massa 20 luglio 2018 n. 546.

Tribunale_massa_20luglio2018

copyright massimo ginesi 10 settembre 2018 

azione di responsabilità verso l’amministratore e danno di immagine al condominio.

Una recente sentenza del tribunale apuano (Trib. Massa 20 agosto 2018 n. 1048) affronta una peculiare controversia proposta dal condominio verso l’amministratore uscente, reo di non aver comunicato al Condominio l’esistenza di decreti ingiuntivi, di aver prelevato – poco prima della cessazione dall’incarico –  dal conto condominiale  somme destinate a rimborsare asserite spese da lui sostenute in favore del condominio e, infine, di aver danneggiato con la propria condotta l’immagine del condominio.

Se le vicende relative alla responsabilità gestionale rientrano fra le normali dinamiche processuali, che trovano soluzione in costanti orientamenti di legittimità, più curiosa appare la domanda relativa alla lesione del “diritto di immagine” del condominio, che presuppone una disamina sulla  sussistenza di tale posizione soggettiva in capo all’ente condominiale.

Il Tribunale osserva che: “Senza addentrarsi in questa sede nella problematica della natura giuridica del condominio, appare plausibile (Cassazione civile, sez. un., 18/09/2014,  n. 19663) che al condominio, in quanto tale, debba riconoscersi una soggettività autonoma, seppur imperfetta ed attenuata, rispetto ai suoi componenti e che lo stesso persegua scopi che non sono del tutto coincidenti con quelli dei singoli che lo compongono; tuttavia, allo stesso non pare potersi riconoscere una propria soggettività perfetta né tantomeno una individualità soggettiva, distinta dai singoli che lo compongono, ai fini della tutela della reputazione dell’ente condominio; riprendendo quanto esposto dalle sezioni unite -sopra richiamate in tema di reputazione dell’ente collettivo – appare evidente come si tratti di concetti che, condivisibili laddove attengano ad un soggetto giuridico che ha autonomi presidi soggettivamente e giuridicamente rilevanti (si pensi al marchio, alla reputazione commerciale, ai brevetti che possono far capo ad un imprenditore che esercita l’attività in forma di società), non si vede come le medesime istanze possano riferirsi ad una collettività soggettivamente  imperfetta che, pur nella incertezza della elaborazione giurisprudenziale, sembrerebbe sussistere e rilevare unicamente per la gestione delle obbligazioni relative alla manutenzione delle parti comuni. 

Tantomeno pare poter sussistere un danno di immagine nei termini che pretenderebbe parte attrice; già appare assai singolare la tesi – avanzata dall’attore – che sussista un danno da reputazione consistente nel “forte danno al nome, all’identità e all’immagine del condominio sia come persone singole che associate“… “considerato il gran numero di soggetti che sono al corrente che il Condominio Margherita può essere facilmente fregato dai fornitori”: laddove si intendesse far valere un danno alla reputazione dei singoli, quali persone ritenute poco accorte, si tratta di istanza che dovrebbero avanzare i condomini in proprio e non certo il condominio, mentre per quanto riguarda l’attività gestoria dell’amministratore, è evidente che le conseguenze dannose – anche in termini di immagine – della stessa paiono idonee a ricadere su colui che le ha poste in essere, specie laddove si profilino extra ed ultra mandato.”

Se la domanda sul risarcimento del danno è stata respinta, sono state accolte tutte le altre doglianze del Condominio, accertando l’irritualità della condotta dell’amministratore riguardo alla gestione delle liti e all’arbitrario rimborso degli asseriti esborsi.

Parimenti irrituale, sotto il profilo processuale, è stata ritenuta la condotta della difesa del condominio che ha prodotto i verbali del procedimento di mediazione, nel tentativo di fornire supporto alle propri tesi.

Per tali aspetti si rimanda alla lettura della sentenza, che si riporta per esteso.

tribunale_massa_17agosto2018

© massimo ginesi 7 settembre 2018