il condomino che ha anticipato spese non urgenti non ha mai diritto a rimborso.

Laddove il giudice ritenga che la spesa effettuata dal singolo condomino per un intervento non urgente su parti comuni non sia riconducibile alla fattispecie prevista dall’art. 1134 cod.civ., il relativo onore rimarrà in capo a chi ha effettuato l’esborso né costui potrà giovarsi di altri rimedi quali l’arricchimento senza causa.

Il principio (condivisibile) è affermato da Cass.Civ. sez.III ord. 28 giugno 2018 n. 17027 che sottolinea come, altrimenti, riconoscere un diritto alla ripetizione delle somme significherebbe in qualche modo legittimare l’iniziativa del condomino, in contrasto  con l’art. 1134 cod.civ.

il carattere di sussidiarietà dell’azione di arricchimento senza causa postula che l’attore ex ante non abbia a disposizione altra azione per farsi indennizzare dal pregiudizio subito.

Tanto non si è verificato nel caso di specie, nel quale, ex ante ed in astratto, il condomino che abbia affrontato spese urgenti, al fine di ottenere il rimborso delle spese sostenute, può avvalersi del rimedio di cui all’art. 1134 c.c.. E dall’intervenuto rigetto della domanda di rimborso, in concreto avanzata dal Ro. ai sensi di detto articolo, non può evincersi ex post l’inesperibilità di un’azione specifica e, quindi, l’esperibilità da parte del Ro. dell’azione sussidiaria di arricchimento senza causa.

D’altronde, per principio generale, l’azione di arricchimento senza causa non può rappresentare uno strumento per aggirare divieti di rimborsi o di indennizzi posti dalla legge; mentre, nel caso di specie (nel quale le opere sono state ritenute non urgenti), opinando diversamente, si finirebbe con l’ammettere l’iniziativa non autorizzata del singolo condomino nell’amministrazione del Condominio.

In definitiva, va ribadita la giurisprudenza di legittimità (cfr., di recente, Sez. 2, sent. n. 20528 del 30/08/2017, Rv. 645234-01) secondo la quale al condomino – al quale non sia riconosciuto il diritto al rimborso delle spese sostenute per la gestione delle parti comuni, per essere carente il presupposto dell’urgenza (richiesto dall’art. 1134 c.c.) – non spetta neppure il rimedio sussidiario dell’azione di arricchimento senza causa: sia perché detta azione non può essere esperita in presenza di un divieto legale di esercitare azioni tipiche in assenza dei relativi presupposti sia perché – nel caso in cui la spesa, per quanto non urgente, sia necessaria – il condomino interessato ha facoltà di agire perché sia sostenuta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1133cc (con ricorso all’assemblea) e 1137 e 1105 (con ricorso all’autorità giudiziaria), con conseguente inesperibilità dell’azione ex art. 2041 c.c. per difetto del carattere della sussidiarietà.”

© massimo ginesi 2 luglio 2018

la gestione separata del servizio di riscaldamento non da luogo ad autonomo condominio

Accade con frequenza che all’interno di complessi immobiliari si dia luogo ad una separata gestione di alcuni servizi, fra i quali il riscaldamento, affidandone la cura a diverso  amministratore e – in taluni casi – fornendo quella gestione di autonomo e separato codice fiscale rispetto al complesso cui si riferisce.

Tale soluzione può essere legittima sotto il profilo gestionale ma non da luogo, in punto di diritto, ad un nuovo condominio, ragione per cui la legittimazione processuale e sostanziale per le vicende relative a tale soggetto coincide con quella dell’intero condominio a cui si riferisce.

il tema è affrontato da Cass.Civ.  sez. VI-2 21 giugno 2018 n. 16385 rel. Scarpa con ordinanza di rigetto: ” La Corte d’Appello di Roma, uniformandosi agli insegnamenti sul punto di questa Corte, ha apprezzato in fatto che, pur sussistendo beni e servizi comuni in uso a più edifici condominiali compresi nel complesso di via G., Roma, non fosse ravvisabile l’esistenza di un “ente di gestione autonomo”, ovvero di un “condominio autonomo” inerente alla sola Gestione Riscaldamento e Parti Comuni.

D’altro canto, la situazione di fatto che viene a verificarsi nei condomini complessi, in ordine a determinati beni o servizi appartenenti soltanto ad alcuni edifici, o ai separati rapporti gestori interni alla collettività dei partecipanti (sempre in base alla disciplina antecedente a quella posta dall’ora vigente comma 3 dell’art. 67 disp. att. c.c., qui non applicabile ratione temporis), non comporta l’attribuzione di autonome legittimazioni processuali in sostituzione dell’intero condominio in ordine all’impugnazione delle relative deliberazioni assembleari (arg. da Cass. Sez. 2, 04/05/1993, n. 5160; Cass. Sez. 2, 16/02/1996, n. 1206; Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez. 2, 17/02/2012, n. 2363).

Nella memoria presentata ai sensi dell’art. 380 bis, comma 2, c.p.c. i ricorrenti ribadiscono che il Condominio di via G, Roma, “non esiste” e che, a seguito dell’assemblea del 12 novembre 2007, sarebbe stato individuato il nuovo “ente di gestione del servizio di riscaldamento e delle parti comuni” denominato Condominio Gestione Riscaldamento e Parti Comuni Edifici A-B-N-0, con un proprio codice fiscale, evento poi confermato dalla documentazione contabile ed amministrativa prodotta.

Queste considerazioni non tengono conto della consolidata interpretazione giurisprudenziale secondo cui la costituzione di condomini separati in luogo dell’originario unico condominio costituito da un edificio o da un gruppo di edifici è regolata dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., e suppone che l’immobile o gli immobili oggetto dell’iniziale condominio possano dividersi in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, quand’anche restino in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall’art 1117 c.c.

Tale disciplina esclude di per sé che il risultato della separazione si concreti in una autonomia meramente amministrativa o fiscale, giacché la costituzione di più condomini postula, piuttosto, la divisione del complesso immobiliare in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale (che va apprezzata in fatto dai giudici del merito), indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere gestorio o contabile (arg. da Cass. Sez. 2, 18/04/2005, n. 8066; Cass. Sez. 2, 05/01/1980, n. 65; Cass. Sez. 2, 18/07/1963, n. 1964).

La disposizione di cui all’art. 61 disp. att. c.c., prevedendo la possibilità di scissione, in base a deliberazione assembleare adottata a maggioranza, di un unico condominio originario in più condomini, ha, del resto, natura eccezionale, in quanto deroga al principio secondo il quale la divisione può essere attuata solo per atto di un’autonomia privata, ovvero con il consenso unanime dei partecipanti alla comunione (così Cass. Sez. 2, 28/10/1995, n. 11276).”

© massimo ginesi 29 giugno 2018

solo il delegante può far valere i vizi della delega (e della assemblea a cui si riferisce).

E’ quanto rileva Cass.Civ. sez.VI-2 25 giugno 2018 n. 16673 rel. Scarpa,  con ordinanza di rigetto in cui si sottolinea come sia facoltà unicamente del condomino delegante impugnare la delibera che assume viziata per essere stato  falsamente rappresentato in assemblea e come sia suo onere fornire  prova dell’utilizzo illecito della delega.

i fatti:S.A. impugnò la deliberazione dell’assemblea 16 settembre 2006 del convenuto Condominio (omissis) , assumendo di aver conferito delega per quell’adunanza all’amministratrice B.M.L. e di essere stato invece rappresentato da S.V. , con conseguente invalidità della delibera per difetto dei quorum. Avendo il Condominio prodotto delega sottoscritta da S.A. per la partecipazione a quella assemblea, diversa da quella invece esibita dall’attore, il S. all’udienza del 26 ottobre 2001 riconobbe la sua firma, ma replicò che la stessa delega allegata dal Condominio convenuto fosse stata in realtà da lui rilasciata in bianco e per un’assemblea diversa da quella del 15/16 settembre 2006. Venne così revocata l’ordinanza di ammissione di ctu grafologica (rectius: calligrafica) e il Tribunale di Civitavecchia, con sentenza del 23 maggio 2012, rigettò la domanda.
Proposto appello da S.A. , lo stesso venne respinto dalla Corte d’Appello di Roma, affermando che doveva essere l’appellante a dimostrare l’illecita compilazione della delega prodotta da Condominio, la cui sottoscrizione era stata riconosciuta dal S. . Inoltre, i giudici di appello motivarono la superfluità dell’espletamento della ctu calligrafica, come anche di quella comparativa con precedenti deleghe condominiali.”

il principio di diritto: “Ove un condomino impugni una deliberazione dell’assemblea, assumendo che la stessa sia stata adottata in forza del voto di un proprio “falso” (o “infedele”) delegato, voto che abbia inciso sulla regolare costituzione dell’assemblea, o sul raggiungimento della maggioranza deliberativa prescritta dalla legge o dal regolamento (non trovando nella specie applicazione, ratione temporis, quanto ora stabilito dall’art. 67, commi 1 e 5, disp. att. c.c., in seguito alle modifiche introdotte dalla legge n. 220 del 2012), occorre considerare come i rapporti tra il rappresentante intervenuto in assemblea ed il condomino rappresentato vadano disciplinati in base alle regole sul mandato.

Solo, dunque, il condomino delegante e quello che si ritenga falsamente rappresentato sono legittimati a far valere gli eventuali vizi della delega o la carenza del potere di rappresentanza, e non anche gli altri condomini, perché estranei a tale rapporto (Cass., Sez. 2, 30/01/2013, n. 2218; Cass. Sez. 2, 07/07/2004, n. 12466).

In forza dell’originaria formulazione dell’art. 67, comma 1, c.c. (avendo soltanto la Riforma del 2012 imposto la forma scritta della delega), era del resto consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il potere rappresentativo conferito dal condomino ad un altro soggetto per la partecipazione all’assemblea condominiale potesse essere attribuito anche verbalmente; pertanto la prova dell’esistenza, dell’oggetto e dei limiti del mandato poteva essere acquisita con ogni mezzo, anche con presunzioni (Cass. Sez. 2, 14/07/1972, n. 2416; Cass. Sez. 2, 28/06/1979, n. 3634).

Nel caso in esame, il Condominio (omissis) , convenuto da S.A. , che chiedeva di invalidare la deliberazione dell’assemblea 16 settembre 2006, assumendo di aver conferito delega per partecipare alla stessa all’amministratrice B.M.L. e non a S.V. , produsse una delega sottoscritta dal S. che ne avrebbe comprovato il valido conferimento di rappresentanza proprio a chi risultava essere suo delegato in quella adunanza.

A questo punto, S.A. , pur riconoscendo la sottoscrizione (dal che discende la totale irrilevanza della CTU calligrafica), dedusse che tale delega era stata rilasciata in bianco e per un’assemblea diversa da quella del 15/16 settembre 2006.

In sostanza, l’attore, poi appellante, ora ricorrente, ha effettuato una denunzia di abusivo riempimento da parte di un terzo (nella specie, il delegato) di un foglio firmato in bianco, esponendo che il riempimento fosse avvenuto “contra pacta”.

A nulla valeva, quindi, il disconoscimento, giacché esso non costituisce mezzo processuale idoneo a dimostrare l’abusivo riempimento del foglio in bianco, sia che si tratti di riempimento “absque pactis”, sia che si tratti (come appunto qui dedotto dal ricorrente) di riempimento “contra pacta”, dovendo, nel secondo caso, in particolare, essere fornita la prova di un accordo dal contenuto diverso da quello del foglio sottoscritto (Cass. Sez. 3, 16/12/2010, n. 25445; Cass. Sez. 2, 12/06/2000, n. 7975).

Il S. , allora, non ha dato prova di quale diverso contenuto dovesse avere la delega esibita dal Condominio proprio relativamente all’assemblea del 16 settembre 2006. Non rivela, invece, alcuna decisività soffermare le censure di legittimità sulla diversa delega che il ricorrente sostiene di aver prodotto in giudizio, avendo la Corte d’Appello giustamente fondato la propria decisione sulla delega scritta che il Condominio aveva conservato agli atti e poi esibito al momento della sua costituzione, per dimostrare la valida partecipazione dei condomini che si erano fatti rappresentare nell’assemblea del 16 settembre 2006.

Il ricorso va perciò rigettato e il ricorrente va condannato a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di cassazione.”

© massimo ginesi 28 giugno 2018

asilo in condominio: quando il regolamento contrattuale lo vieta.

E’ il tema affrontato da Cass.Civ. sez. VI-2 21 giugno 2018 n. 16384 rel. Scarpa.

L’ordinanza resa dalla corte, con cui è stato rigettato il ricorso del condomino che gestiva un micro nido nel condominio ove il regolamento recava divieto di adibire ad asilo nido le unità, riprende principi noti sia in tema di interpretazione delle clausole regolamentari sia in tema di censurabili in cassazione della loro interpretazione parte del giudice di merito, pervenendo a ritenere non sindacabile  la qualificazione della attività effettuata dalla Corte di Appello di Milano.

Il ricorrente lamenta l’errore della Corte d’Appello perché la stessa, ritenendo operante il divieto regolamentare di destinazione delle unità immobiliari ad “asili di infanzia” pure per i “micro-nidi”, non avrebbe tenuto conto che questi ultimi non arrecano i “pericoli di disturbo” propri degli asili.

Si richiamano anche i principi di cui agli artt. 3, 29, 31 e 37 Costituzione, nonché l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e si evidenzia il ruolo svolto dai cosiddetti “micro-nidi”, istituiti dalla legge 28  dicembre 2001, n. 448, e poi regolati da apposite delibere della Giunta Regionale Lombardia.

E’ invece da ribadire come l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi, è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso  esame  di  fatto  storico  ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393).

Nella specie, l’interpretazione dell’art. 4 del regolamento contrattuale Condominio di via P. , Como, prescelta dalla Corte d’Appello di Milano, non rivela le denunciate violazioni dei canoni di ermeneutica.

In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente il divieto di destinare gli appartamenti, tra l’altro ad “asili di infanzia”, come preclusiva altresì dell’attività di micro-nido (la quale effettivamente si differenzia da quella dell’asilo soltanto per le dimensioni strutturali di recettività, e non invece per il comune carattere assistenziale ed educativo dei suoi  servizi  resi  a  minori di tenerissima età) non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione  comune  dei condomini ricostruita dai giudici  del  merito,    contraria  a logica o incongrua, rimanendo comunque  sottratta  al sindacato di legittimità l’interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a lamentare che  quella  prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica  possibile,    la migliore in astratto.

Il ricorso va perciò rigettato e il ricorrente va condannato a rimborsare al Condominio controricorrente le spese  del giudizio  di cassazione.”

© massimo ginesi 27 giugno 2018 

opposizione a decreto ingiuntivo: il giudice può rilevare d’ufficio la nullità della delibera.

E’ principio pacifico in giurisprudenza che l’opponente al decreto ingiuntivo non possa, in quella sede, far valere vizi attinenti alla annullabilità della delibera, che dovranno invece essere dedotti in separato giudizio, tempestivamente introdotto e che non minano l’esistenza e l’efficacia della delibera (salvo che il giudice della impugnazione non disponga in tal senso).

A tale lettura sfuggono invece i vizi da ricondurre ad ipotesi di nullità del deliberato in forza del quale è stato ottenuto il provvedimento monitorio, posto che si tratta di vizio che il giudice può rilevare d’ufficio e che attiene all’esistenza stessa della delibera.

E’ quanto ribadisce, con motivazione cristallina, la recente ordinanza resa da  Cass.Civ. sez.VI-2 21 giugno 2018 n. 16389 rel. Scarpa.

E’ certamente da ribadire che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. Sez. 2, 29 agosto 1994, n. 7569).

Nello stesso giudizio di opposizione, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla annullabilità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione.

Tale delibera costituisce, infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è, dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629; da ultimo, Cass. Sez. 2 , 23/02/2017, n. 4672).

Il giudice deve quindi accogliere l’opposizione solo qualora la delibera condominiale abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137, comma 2, c.c., o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la deliberazione (Cass. Sez. 2, 14/11/2012, n. 19938; Cass. Sez. 6 – 2, 24/03/2017, n. 7741).

 Questa Corte ha però anche chiarito, con orientamento che va ribadito e che depone per la correttezza della decisione del Tribunale di  Castrovillari,  come  nel  procedimento  di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, il limite alla rilevabilità, anche d’ufficio, dell’invalidità delle sottostanti delibere  non  opera  allorché  si tratti  di  vizi  implicanti  la  loro  nullità,  trattandosi dell’applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda (Cass.  Sez.  2,  12/01/2016,  n.  305).

La nullità di una deliberazione dell’assemblea condominiale, del resto, comporta che la stessa, a differenza delle ipotesi di annullabilità, non implichi la necessità di  tempestiva impugnazione  nel  termine  di  trenta  giorni  previsto  dall’art. 1137 cod.civ.

Una deliberazione nulla, secondo i principi  generali degli organi collegiali, non può, pertanto, finché (o perché) non impugnata nel termine di legge, ritenersi valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al  condominio,  come  si  afferma per le deliberazioni soltanto annullabili.

Alle deliberazioni prese dall’assemblea condominiale si applica,  perciò,  il  principio dettato in materia di contratti dall’art. 1421 cod.civ. , secondo cui è comunque attribuito al giudice, anche d’appello, il potere di rilevarne pure d’ufficio la nullità, ogni qual volta la validità (o l’invalidità) dell’atto collegiale rientri, appunto, tra gli elementi costitutivi della domanda su cui egli debba decidere  (Cass. Sez. 2, 17/06/2015, n. 12582; Cass. Sez. 6 -2, 15/03/2017, n.6652).

Ora, una deliberazione adottata a maggioranza di ripartizione in parti uguali (ovvero con regime “capitario”) degli oneri derivanti dalla manutenzione di parti comuni, in deroga  ai criteri di proporzionalità fissati dall’art. 1123 cod.civ., proprio come avvenuto nella delibera del 16 settembre 2005, va certamente ritenuta nulla, occorrendo semmai a tal fine una convenzione approvata all’unanimità, che sia espressione dell’autonomia contrattuale (Cass. Sez. 2, 16/02/2001, n. 2301; Cass. Sez. 2, 04/12/2013, n. 27233; Cass. Sez. 2, 04/08/2017, n. 19651).

La nullità di una  siffatta  delibera  può,  quindi,  essere  fatta valere anche nel procedimento di opposizione a  decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei discendenti contributi condominiali, trattandosi di vizio che inficia la stessa esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa (esistenza che il giudice dell’opposizione deve comunque verificare) e che rimane sottratto al termine perentorio di impugnativa di cui all’art. 1137 cod.civ. 

Il ricorso va perciò rigettato e il ricorrente Condominio va condannato a rimborsare al controricorrente  le  spese  del giudizio di cassazione.”

© massimo ginesi 25 giugno 2018 

 

supercondominio e legittimazione passiva del suo amministratore.

Una sentenza di legittimità  ribadisce principi pacifici e consolidati: ove un complesso immobiliare dia luogo a supercondominio, se il danno alla proprietà individuale deriva da beni appartenenti al singolo edificio  vi è legittimazione passiva solo di quel singolo condominio, che dovrà essere citato in giudizio in persona del suo amministratore anche ove – per ipotesi – costui rivesta la carica di amministratore anche del supercondominio  in cui è collocata l’unità immobiliare danneggiata.

 

Cass. civ. sez. VI-2  ord. 22 giugno 2018 n. 15262 coglie tuttavia l’occasione per delineare i confini normativi ed interpretativi del c.d. supercondominio:  “Questa Suprema Corte di Cassazione, con orientamento recepito dalla legge n. 220 del 2012, in vigore dal 18 giugno 2013, ha identificato il cc.dd. supercondominio ed, in particolare, ha affermato che per l’esistenza del supercondominio è sufficiente che i singoli edifici abbiano, materialmente, in comune alcuni impianti o servizi, ricompresi nell’ambito di applicazione dell’articolo 1117 del Codice civile (ad esempio, il viale d’ingresso, i locali per la portineria, l’alloggio del portiere, i parcheggi, l’impianto centrale per il riscaldamento), collegati da un vincolo di accessorietà necessaria a ciascuno dei fabbricati.

Ora, spetta a ciascuno dei condomini dei singoli fabbricati la titolarità “pro quota” su tali parti comuni e l’obbligo di corrispondere gli oneri condominiali relativi alla loro manutenzione.

Con l’ulteriore specificazione che, laddove esiste un supercondominio, devono esistere due tabelle millesimali: la prima riguarda i millesimi supercondominiali e stabilisce la ripartizione della spesa tra i singoli condomini per la conservazione e il godimento delle parti comuni a tutti gli edifici; la seconda tabella è, invece, quella normale interna ad ogni edificio.

Applicabile al supercondominio, quale norma compatibile è, senz’altro, l’articolo 1129 del Codice civile: nel caso in cui facenti parte del supercondominio siano oltre 8 partecipanti, occorrerà la nomina dell’amministratore con tutte le implicazioni conseguenti.

E, nel caso in cui anche gli altri edifici siano composti da oltre 8 partecipanti, anche questi ulteriori condomini dovranno nominare il proprio amministratore.

È ipotesi che la legge non esclude, e può ritenersi frequente, che l’amministratore sia lo stesso per il supercondominio che per i singoli condomini, tuttavia, i due condomini (il supercondominio e il singolo condominio) hanno una piena autonomia gestionale (autonomia di registri e di conti correnti), nonostante l’amministratore sia uguale.

Va chiarito, comunque, che nell’ipotesi in cui l’amministratore sia unico lo stesso è legittimato attivo e passivo, ma nella qualità di amministratore del supercondominio o del condominio singolo a seconda se l’atto di amministrazione riguarda il condominio singolo o il supercondominio.

Ora, nel caso in esame, i sigg. B. , pur avendo riconosciuto che la questione oggetto del giudizio riguardava la ripartizione delle spese relative alla manutenzione di un bene appartenete al singolo condomino (condominio relativo al fabbricato Ninfea) hanno convocato in giudizio l’amministratore del supercondominio, (omissis) , ancorchè l’amministratore del supercondominio e del singolo condomino fosse la stessa persona.

Correttamente, dunque, nonostante per ragione non perfettamente coincidente  con quella qui indicata, il Tribunale ha ritenuto che il supercondominio (omissis) fosse carente di legittimazione passiva.”

Resta tuttavia una perplessità di fondo, che la pronuncia non risolve espressamente: nell’esaminare il motivo di ricorso si fa riferimento ad un regolamento condominiale che non si specifica se abbia o meno natura contrattuale e che pare antecedente alla novella del 2012: “ il Tribunale di Catanzaro, nell’accogliere l’eccezione di difetto di legittimazione passiva, sarebbe incorso in un errore interpretativo del regolamento condominiale. Il regolamento condominiale, secondo i ricorrenti, preso atto che il condominio (omissis) è articolato al suo interno in diversi corpi di fabbrica ciascuno dei quali sviluppato in verticale e comprensivo a sua volta di diverse unità abitative, disciplina l’uso delle parti comuni e l’uso delle parti assegnate in proprietà ad ogni singolo condomino compresa la ripartizione delle spese. Tanto è vero, specificano i ricorrenti, che sono state predisposte tabelle millesimali distinte per i condomini di ciascun fabbricato e tabelle millesimali riguardanti l’intero complesso. Risulterebbe, pertanto, chiara ed evidente la volontà condominiale nel concepire l’unicità del condominio cui affidare la ripartizione delle spese sia delle parti in comune che in proprietà individuali. A sua volta l’organo chiamato a disciplinare la ripartizione delle spese è l’amministratore del condominio cui andrebbe riconosciuta la legittimazione processuale anche in ragione dell’espressa menzione posta dall’art. 13 del regolamento.”

L’art. 67 disp.att.c.c. è norma comunque inderogabile, sì che sarebbe intangibile anche da regolamento contrattuale e – nel caso di specie – sembrerebbe leggersi fra le righe che anche la norma pattizia debba cedere il passo a norma di legge inderogabile sopravvenuta.

copyright massimo ginesi 18 giugno 2018

 

impugnazione delibera e mediazione obbligatoria: la domanda va comunicata a cura della parte entro il termine previsto dall’art. 1137 c.c.

E’ quanto stabilito in una recentissima sentenza dalla Corte di Appello di Genova (13 giugno 2018 n. 946), che ha confermato l’orientamento già espresso dal Tribunale della Spezia.

Ai sensi dell’art.5 co.6 D.Lgs.28/2010 la domanda di mediazione dal momento della sua comunicazione alle altre parti impedisce la decadenza.

Nella fattispecie – come ha osservato il Tribunale – la domanda di mediazione è stata depositata dagli attori in data 10.04.15, ma è stata comunicata dall’organismo di mediazione dopo il 29.04.15, quando il termine di trenta giorni di cui all’art.1137 C.C. era già ampiamente decorso.

Per la difesa degli appellanti l’effetto di impedire la decadenza dovrebbe collegarsi non già alla comunicazione, ma alla presentazione della domanda di mediazione. La presentazione della domanda – infatti – dipende dall’iniziativa del soggetto interessato ad impedire la decadenza, mentre la sua comunicazione al convenuto è demandata all’organismo di mediazione, che deve fissare la data del primo incontro, ed è sottratta pertanto all’ingerenza dell’istante.

L’assunto pur distaccandosi dal dato letterale sarebbe conforme ad una interpretazione costituzionalmente orientata della norma in esame ed al principio enunciato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della stessa Corte Costituzionale, per cui l’effetto di impedire una decadenza si collega, di regola, al compimento da parte del soggetto interessato dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione alla controparte, non potendo farsi dipendere il rispetto del termine di decadenza dal compimento di attività indipendenti dall’iniziativa dell’istante. 

L’appello è infondato. Il Tribunale ha osservato giustamente che l’istante avrebbe potuto anche di propria iniziativa comunicare la domanda alla controparte in tempo utile ad evitare la decadenza.

Lo prevede l’art.8 del D.Lgs.28/10 per il quale la comunicazione della domanda di mediazione alla controparte può avvenire anche a cura della parte istante, e non necessariamente del mediatore: sicché la parte che intenda giovarsi degli effetti della domanda può rendersi attiva e diligente per effettuare nei termini la comunicazione.

La facoltà della parte istante di provvedere direttamente alla comunicazione della domanda – prevista espressamente dalla legge – salvaguarda l’interpretazione letterale della norma, secondo la quale gli effetti impeditivi della decadenza sono collegati alla comunicazione della domanda di mediazione, non già al suo deposito presso l’organismo prescelto. 

La difesa dell’appellante ha osservato in comparsa conclusionale che la decadenza in questione, di natura sostanziale, non essendo stata eccepita dalla controparte, non poteva essere rilevata d’ufficio dal giudice. Il rilievo è tardivo. Non essendo stato proposto tempestivamente come motivo di appello non può essere preso in considerazione per la decisione della causa. “

© massimo ginesi 14 giugno 2018 

la portata del giudicato del provvedimento di sfratto

Una recente pronuncia del Tribunale apuano (Trib. Massa 19.4.2018 n. 292) ripercorre gli orientamenti di legittimità nell’ipotesi in cui lo sfratto sia stato convalidato e si discuta in un successivo giudizio delle somme dovute dal conduttore moroso.

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© massimo ginesi 13 giugno 2018

il diritto alla riduzione in pristino non si prescrive.

E’ quanto sottolinea Cass.Civ. sez. VI ord. 6 giugno 2018 n. 14622 rel. Scarpa, evidenziando come si tratti di facoltà connessa al diritto di proprietà e che – come tale – non subisce effetti pregiudizievoli dal mero decorso del tempo (salvo il sorgere di eventuali altri diritti per usucapione).

I fatti ed il processo: “B.A. aveva convenuto davanti al Tribunale di Roma il Condominio di via (omissis) , e L.m.P. , per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla propria unità immobiliare, con chiamata in garanzia operata dal Condominio nei confronti di C.G. e V.B. in forza di “clausola di manleva” contenuta nella scrittura del 14 ottobre 1986. In tale scrittura C.G. , la quale aveva eseguito opere di rimozione del tetto, si prendeva carico di tutte le riparazioni dovute al piano sottostante per eventuali cause di infiltrazioni. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 25334/2009, preso atto che erano state eseguite in corso di causa le opere necessarie a far cessare le infiltrazioni, dichiarò cessata la materia del contendere tra l’attrice B.A. , il Condominio e L.m.P. , mentre rigettò le domande di manleva proposta dal Condominio nei confronti di L.P. , C.G. e V.B.”

la corte di legittimità osserva che “La Corte d’Appello di Roma ha respinto la domanda di rimessione in pristino osservando che il decorso di vent’anni dalla dichiarazione di manleva dimostrasse “l’atteggiamento di tolleranza del Condominio che, evidentemente, ha fatto acquiescenza al mutamento dello stato dei luoghi contro l’assunzione di ogni possibile conseguenza negativa da parte degli esecutori dei lavori”.

Questo ragionamento contravviene al consolidato principio giurisprudenziale per cui l’azione, con la quale il condominio di un edificio chiede la rimozione di opere che un condominio abbia effettuato sulla cosa comune, oppure nella propria unità immobiliare, con danno alle parti comuni, in violazione degli artt. 1102, 1120 e 1122 c.c., ha natura reale, e, pertanto, giacché estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà, non è suscettibile di prescrizione, in applicazione del principio per cui “in facultativis non datur praescriptio”.

L’imprescrittibilità, piuttosto, può essere superata dalla prova della usucapione del diritto a mantenere la situazione lesiva (arg. da Cass. Sez. 2, 07/06/2000, n. 7727; Cass. Sez. 2, 29/02/2012, n. 3123; Cass. Sez. 2, 16/03/1981, n. 1455; Cass. Sez. 2, 13/08/1985, n. 4427).

Vanno quindi accolti il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, mentre viene rigettato il primo e viene dichiarato assorbito il terzo motivo del ricorso principale. La sentenza impugnata va cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, che deciderà la causa uniformandosi ai richiamati principi e tenendo conto dei rilievi svolti, e regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.”

© massimo ginesi 12 giugno 2018