regolamento locale e principio della prevenzione in tema di distanze.

Ove il regolamento locale preveda una distanza minima dal confine non si applica il principio della prevenzione, anche laddove sul fondo vicino non esistono ancora fabbricati.

E’ quanto afferma Cass.Civ. sez.II 4 giugno 2018, n. 14294 in una ordinanza  che analizza una complessa situazione fra confinanti e che può essere utile leggere per esteso.

Cass_14294_18

“Questa Corte ha affermato che “le disposizioni dell’art. 41-quinquies della legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150 (nel testo fissato dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967 n. 765), nonché dell’art. 9 del decreto del ministro dei lavori pubblici del 2 aprile 1968 n. 1444, nella parte in cui, per fabbricati ubicati in zone territoriali omogenee, pongono inderogabili distanze minime dal confine (in modo vincolante anche per i Comuni, in sede di formazione degli strumenti urbanistici), hanno carattere integrativo delle norme del codice civile sulle distanze legali, ai sensi ed agli effetti dell’art. 872 cod. civ., e rendono inapplicabile il principio della prevenzione di cui all’art. 875 cod. civ., non invocabile rispetto a distacchi assoluti, fissati con riferimento al confine” (Cass. n. 145 del 2006; cfr. Cass. sez. un. n. 10318 del 2016, secondo cui, nel caso opposto, un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni, né prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli artt. 874, 875 e 877 cod. civ.).”

© massimo ginesi 5 giugno 2018 

 

risponde di appropriazione indebita aggravata l’amministratore che scappa con la cassa.

 

Cass. pen. sez. II 11/05/2018,  n. 21011 ripercorre i profili di rilevanza penale della condotta dell’amministratore che si appropria di somme dei condomini.

Oggetto di ricorso è la sentenza con la quale “  la Corte di Appello di Milano il 3/4/2017 ha confermato il giudizio di penale responsabilità espresso dal Tribunale di Monza il 22/6/2016, all’esito di giudizio abbreviato, nei confronti dello stesso C. in ordine a dodici ipotesi di appropriazioni indebite continuate ed aggravate commesse ai danni di condomini dei quali era amministratore, con la conseguente condanna alla pena di anni due e mesi sei di reclusione ed Euro 1100,00 di multa, oltre al risarcimento dei danni ed alla rifusione delle spese processuali in favore delle costituite parti civili.”

sul momento di consumazione del reato e la relativa prescrizione: “il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Sez. 2, n. 17901 del 10/04/2014, Rv. 259715; Sez. 5, n. 1670 del 08/07/2014, Rv. 261731).

Alla luce di tali principi, ancor prima che il C. si rendesse irreperibile, deve ritenersi evidente che lo stesso si è appropriato delle somme dei diversi condomini amministrati ogni anno, quando era tenuto a rendere il conto della gestione ed a restituire le somme detenute per conto di ogni condominio, ed ometteva invece tale restituzione con la volontà di far proprie le somme dovute.

Conseguentemente, giacchè in virtù dei diversi atti interruttivi deve considerarsi il termine massimo della prescrizione, determinato in anni sette e mesi sei di reclusione dal combinato disposto degli artt. 157 e 161 c.p.p., va riconosciuta l’estinzione per prescrizione dei fatti di appropriazione indebita antecedenti al 6/8/2010.”

quanto alla gravità della condotta: “La sentenza impugnata, infatti, ha adeguatamente valorizzato, sia per negare le invocate attenuanti generiche che, più in generale, per la determinazione del trattamento sanzionatorio, significativi indici di gravità dei fatti, sotto il profilo soggettivo che oggettivo,n trattandosi di fatti commessi arrecando danni, in molti casi anche rilevanti, ad una pluralità di Condomini ed abusando dell’attività professionale in favore degli stessi.

La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata, pertanto, da motivazione esente da manifesta illogicità, che è conseguentemente insindacabile in cassazione (Cass., Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419), anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Rv. 248244), così come è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Rv. 259142).”

va rilevato infine che l’art. 10  D.Lgs. 10 aprile 2018 n. 36 ha abrogato il terzo comma dell’art. 646 cod.pen., di talchè oggi l’appropriazione indebita diviene reato perseguibile a querela anche nelle forme aggravate.

© massimo ginesi 5 giugno 2018

 

rifacimento lastrico solare: la custodia durante i lavori e la responsabilità del condominio.

 

La Cassazione (Cass.Civ. sez.II ord. 14/05/2018 n. 11671) ribadisce un principio più volte affermato: l’esecuzione di un appalto che ha ad oggetto interventi su parti comuni – salvo che all’appaltatore non sia stata affidata la custodia esclusiva del cantiere – non elimina la concorrente responsabilità ex art. 2051 cod.civ. del condominio.

I fatti: “P., R., PA. e M.S. nonchè C.R., quali proprietari, il primo in via esclusiva, dell’immobile sito in …, e tutti, in comunione tra loro, dell’immobile sito nel medesimo stabile, int. , a seguito di infiltrazioni di acqua nei predetti cespiti provenienti dal lastrico di copertura, convennero in giudizio, innanzi al Tribunale di Genova, il CONDOMINIO… nonchè l’IMPRESA E., in persona del legale rappresentante p.t, quale appaltatrice dei lavori di manutenzione del lastrico, al fine di sentirli condannare, in solido tra loro, al ristoro dei danni in conseguenza patiti”

Il Tribunale di Genova condanna al risarcimento il solo appaltatore, sentenza riformata dalla Corte d’appello ligure, che individua quale tenuto al risarcimento – in via solidale – anche il condominio.

La corte di legittimità, nell’esaminare il ricorso del condominio osserva che “la Corte di appello ha ampiamente e congruamente motivato (cfr. pp. 5-7) in ordine alla (cor)responsabilità del CONDOMINIO per l’omessa adozione, nel periodo oggetto di valutazione (4.8.2000-4.12.2000), di concrete misure di precauzione – concettualmente diverse dal semplice sollecito alla appaltatrice di procedere alla ripresa dei lavori – atte ad evitare il (ri)prodursi dei fenomeni infiltrativi per cui è causa e, tanto, nonostante la pacifica conoscenza, ad opera dell’assemblea (proprio per tale ragione riunitasi in più occasioni), “della grave situazione di degrado degli immobili degli appellanti e della saltuarietà degli interventi dell’impresa E.”;

Tale motivazione vale a richiamare un principio consolidato in tema di appalto: “la Corte territoriale si è attenuta ai pacifici principi applicabili in tema di appalto, per cui, se è vero che  l’autonomia dell’appaltatore comporta che, di regola, egli deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione dell’opera, potendo configurarsi una corresponsabilità del committente soltanto in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 c.c., ovvero nell’ipotesi di riferibilità dell’evento al committente stesso per culpa in eligendo (per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea) ovvero quando l’appaltatore, in base a patti contrattuali, sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente, agendo quale nudus minister dello stesso (Cass., Sez. 2, 25.1.2016, n. 1234, Rv. 638645-01), cionondimeno: a) il committente può essere chiamato a rispondere dei danni derivanti dalla condizione della cosa di sua proprietà laddove, per sopravvenute circostanze di cui sia venuto a conoscenza – come, ad es., nel caso di abbandono del cantiere o di sospensione dei lavori da parte dell’appaltatore – sorga a carico del medesimo il dovere di apprestare quelle precauzioni che il proprietario della cosa deve adottare per evitare che dal bene derivino pregiudizi a terzi (Cass., Sez. 2, 15.6.2010, n. 14443, in motivazione); b) ove l’appalto non implichi il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata, non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. che, essendo di natura oggettiva, sorge in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l’evento lesivo (Cass., Sez. 3, 18.7.2011, n. 15734, Rv. 619067-01);

che, a tale ultimo riguardo ed in aggiunta a quanto in precedenza esposto, va comunque osservato che, già in linea astratta, il lastrico svolge, indipendentemente dal regime proprietario ovvero da una sua fruizione diretta, una ineludibile funzione primaria di copertura e protezione delle sottostanti strutture (arg. da Cass., Sez. 6-2, 9.8.2017, n. 19779, Rv. 645340-01 e da Cass., Sez. U., 10.5.2016, n. 9449, Rv. 639821-01): sicchè, quantomeno sotto tale profilo ed indipendentemente dall’avvenuta “consegna” – quale area di cantiere – all’appaltatore, per l’esecuzione di lavori volti alla relativa manutenzione o ristrutturazione, il lastrico deve considerarsi nella persistente disponibilità del condominio, con conseguente permanenza, in capo a quest’ultimo, delle obbligazioni connesse alla sua custodia e delle connesse responsabilità per il relativo inadempimento (arg. Da Cass., Sez. 3, 18.7.2011, n. 15734, Rv. 619067-01, cit.).”

© massimo ginesi 4 giugno 2018

 

l’inadeguata insonorizzazione integra il grave difetto costruttivo ex art 1669 c.c.

Una monumentale sentenza del Tribunale di Savona 6 aprile 2018 n. 358 affronta  il complesso tema della insonorizzazione dell’immobile, riconducendo  il vizio a quelli disciplinati dall’art. 1669 cod.civ. e ascrivendone la responsabilità a venditore, costruttore e progettista/direttore lavori.

La normativa sottesa non è di semplice disamina e la sentenza compie un utile ed interessante excursus fra le norme che si sono succedute nel tempo.

L’esito è favorevole all’acquirente, che si vede valutare significativamente la diminuzione di valore del bene in conseguenza di un vizio destinato ad incidere in maniera significativa sul suo godimento.

L’ampiezza della argomentazione e dei riferimenti normativi e giurisprudenziali consigliano lettura integrale della pronuncia.

insonorizzazione

© massimo ginesi 31 maggio 2018 

 

 

 

 

 

riparazioni urgenti: l’art. 1134 cod.civ. si applica anche al condominio minimo, purché l’intervento non sia dovuto a condotta colposa di chi lo esegue.

Cass.Civ. sez. VI-2 28 maggio 2018 n. 13293 rel. Scarpa  affronta un caso davvero peculiare: un condomino ricorre in cassazione avverso una sentenza della corte di appello di Brescia “che, riformando la decisione di primo grado resa dal Tribunale di Bergamo in data 25 maggio 2012, ha rigettato la domanda proposta dallo stesso R. D. nei confronti della B. A. & c. s.a.s., volta al rimborso della somma di €  8.549,07, anticipata per il rifacimento del tetto e della facciata del complesso immobiliare sito in S., composto da unità immobiliari di proprietà del D. e della società convenuta.”

In realtà le ragioni per cui il giudice bresciano ha respinto la domanda attengono alla responsabilità nella causazione  dell’evento; non potrà invocare l’art. 1134 cod.civ. colui che provveda ad opere sulle parti comuni svolte per porre rimedio a danni cagionati da una sua condotta colposa: “La Corte d’Appello di Brescia ha escluso che potesse essere invocata dal D. l’applicazione dell’art. 1134 c.c., in quanto l’urgenza dell’intervento di manutenzione delle parti comuni dell’edificio condominiale era stata determinata da un incendio sviluppatosi nella notte tra il 28 ed il 29 febbraio 2008 conseguente al surriscaldamento della canna fumaria posta all’interno di appartamento di proprietà dello stesso R. D.. Tale surriscaldamento della canna fumaria, per quanto accertato già dal Tribunale di Bergamo, era stato provocato da un non adeguato utilizzo di una stufa a legna. Essendo la responsabilità dell’incendio attribuibile al D., a carico dello stesso devono porsi, per la Corte di Brescia, tutte le conseguenze patrimoniali della sua condotta, visto che l’intervento di rifacimento del tetto e della facciata risultava a sua volta da attribuire causalmente (anche per le risultanze del verbale dei Vigili del Fuoco intervenuti sul luogo) all’incendio stesso, che aveva intaccato le travi di legno della copertura, rendendola pericolante.”

I motivi, inammissibili, svolti dal ricorrente attengono unicamente ad una diversa valutazione in concreto del nesso causale fra l’evento dannoso (l’incendio) e la sua condotta, giudizio di merito che non può essere rimesso al giudice di legittimità che, tuttavia, coglie l’occasione per evidenziare che “ l’infondatezza del primo motivo discende radicalmente da altra considerazione.

Il presente giudizio non ha ad oggetto l’individuazione dei danni che R. D. debba risarcire alla B A. & c. s.a.s., quando la sussistenza di un diritto del condomino D. ad essere rimborsato di spese fatte per le cose comuni di sua iniziativa.

Ora, anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti (quale risulta quello per cui è causa), la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile soltanto nel caso in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c. (testo previgente alla modifica operata con la legge n. 220/2012).

Ai fini dell’applicabilità dell’art 1134 c.c., va dunque considerata ‘urgente’ non solo la spesa che sia giustificata dall’esigenza di manutenzione, quanto la spesa la cui erogazione non possa essere differita, senza danno o pericolo, fino a quando l’amministratore o l’assemblea dei condomini possano utilmente provvedere.

Ciò vale anche per i condomini composti da due soli partecipanti, la cui assemblea si costituisce validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all’unanimità decida validamente. Se non si raggiunge l’unanimità e non si decide, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, diventa necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, come previsto dagli artt. 1139 e 1105 c.c. (Cass. Sez. 2, 12/10/2011, n. 21015; Cass. Sez. U, 31/01/2006, n. 2046).

Peraltro, l’obbligo del singolo condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare  alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni dell’edificio trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio.

Ove l’esigenza di manutenzione e riparazione delle parti comuni dell’edificio derivi, invece, dalla specifica condotta illecita attribuibile ad un condomino (come nella specie accertato in fatto dalla Corte di Brescia), tale condotta fa sorgere soltanto a carico di quest’ultimo l’obbligo di risarcire il danno complessivamente prodotto ex art. 2043 c.c., e non anche l’obbligo degli altri partecipanti di contribuire alle spese ai sensi degli artt. 1123 e ss. c.c. (Cass. Sez. 3, 08/11/2007, n. 23308; Cass. Sez. 2, 12/04/1999, n. 3568).

Ne consegue che non può comunque spettare al condomino alcun diritto al rimborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, ai sensi dell’art. 1134 c.c., ove l’esigenza di manutenzione e riparazione della stessa abbia trovato la sua causa in una specifica condotta illecita a lui attribuibile, e le opere fatte eseguire dal singolo abbiano perciò dato luogo ad una forma di risarcimento del danno in forma specifica.”

© massimo ginesi 29 maggio 2018

due importanti sentenze di cassazione in tema di notificazioni.

La corte di legittimità affronta un  tema complesso e ricco di sfumature con due sentenze del 25 maggio 2018.

La prima (Cass.Civ. sez. III 25 maggio 2018 n. 13070), dal contenuto monumentale, afferma che anche la notifica n alla di un atto di citazione è idoneo ad interrompere la prescrizione.

l’ampiezza delle argomentazioni consiglia la lettura integrale della pronuncia

notifica_prescrizione

la seconda (Cass.Civ. sez.VI lav. 25 maggio 2018 n.13224)  ribadisce la nullità della notifica effettuata ad indirizzo pec diverso da quello risultante da pubblici registri, anche se si tratti dell’indirizzo indicato dalla parte nella propria comparsa di costituzione (obbligo eliminato dalla L. 114/2014 proprio per la ragione che tale indirizzo può e deve essere desunto dal Reginde),

© massimo ginesi 28 maggio 2018

canone e tassa per occupazione di suolo pubblico: due istituti differenti che possono riguardare anche il condominio.

una chiara sentenza della Cassazione (Cassazione civile, sez. II, 04/05/2018,  n. 10733) traccia il discrimine fra il canone per l’occupazione di suolo pubblico, dovuto qualora al privato sia concesso in godimento un bene appartenente alla PA, dalla tassa di occupazione, che attiene invece alla situazione particolare e contingente in cui un bene pubblico sia sottratto alla sua normale destinazione e funzione per soddisfare un interesse privato.

Il canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, istituito dall’art. 63 del d.lg. n. 446 del 1997, come modificato dall’art. 31 della legge n. 448 del 1998, è stato concepito dal legislatore come un quid ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dalla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche.

Esso è, infatti, configurato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici ed è dovuto non in base alla limitazione o sottrazione all’uso normale o collettivo di parte del suolo, ma in relazione all’utilizzazione particolare (o eccezionale) che ne trae il singolo.

Ne deriva che è obbligato al pagamento del canone il condominio che abbia sostituito con griglie una parte del piano di calpestio di un’area gravata da servitù pubblica di passaggio, al fine di migliorare il godimento dei locali sottostanti al suolo, e ciò in quanto esso gode di un’utilizzazione particolare dell’area medesima.

© massimo ginesi 25 maggio 2018

Pony in condominio? secondo il Tar è animale da compagnia

 

 

E’ noto che la riforma del 2012 ha introdotto all’art. 1138 cod.civ. il divieto per i regolamenti di condominio di porre limiti alla detenzione di animali da compagnia da parte dei condomini.

Disposizione che molto ha fatto discutere con riguardo alla valenza e alla sopravvivenza di quei regolamenti, antecedenti alla riforma, che invece contenevano tale divieto.

In realtà uno dei problemi principali posti dalla norma è identificare il genus “animale da compagnia, in assenza di specifiche indicazioni sul punto da parte della legislazione italiana.

Con riguardo agli aspetti amministrativi relativi alla detenzione di animali, non può non far sorridere – alla luce delle implicazioni condominiali che tale lettura potrebbe avere – una recente decisione dei giudici amministrativi (Tar Lecce 6 marzo 2018 n. 388) che ha ritenuto il pony riconducibile alla categoria degli animali da compagnia. 

La pronuncia, per una volta, sembra finalmente tenere conto anche del dato emozionale sotteso alla vicenda e consente di ripristinare una situazione affettiva fra uomo e animale troppo spesso sottovalutata: il pony abitava con un anziano per il quale era fonte di grande sostegno psicologico ed era stato allontanato dall’autorità comunale su istanza di alcuni vicini.

Il Tar, su istanza dei parenti dell’anziano, ha annullato il provvedimento amministrativo, ritenendo sussistente  una carenza di motivazione; a tal fine ha osservato che  ““il mero richiamo al fatto che allo stato non vi sono riferimenti legislativi di ambito nazionale tali da equiparare l’equide ad un animale da compagnia, come peraltro avvalorato da parere ministeriale ivi allegato non era sufficiente a soddisfare l’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 della legge 241/90”.

Ed ancora che “la Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia approvata a Strasburgo il 13 novembre 1987, definisce animale da compagnia ogni animale tenuto o destinato a essere tenuto dall’uomo, in particolare presso il suo alloggio domestico, per diletto e compagnia”.

copyright   massimo ginesi 22 maggio 2018 

 

se l’assemblea nomina altro amministratore, quello uscente non ha diritto a compenso per le attività svolte in prorogatio.

Lo chiarisce Cass.Civ. sez. II ord. 17 maggio 2018 n. 12120, a fronte di vicenda che si colloca anteriormente alla riforma del 2012 (che all’art. 1129 comma VIII ha espressamente disciplinato gli obblighi ed i diritti dell’amministratore uscente)

I fatti: “Il Condominio “(omissis) ” ha proposto appello, avverso la sentenza n.473 del 2011 con la quale il Giudice di Pace di Montecchio Emilia aveva accolto la domanda di pagamento dell’ex amministratore, N.U.U. , per l’importo di Euro 1.338,12, asseritamente dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta fino all’11.03.2010.
Il Giudice di prime cure, secondo l’appellante, avrebbe errato nel riconoscere tale importo a favore del N. , stante la documentata cessazione del medesimo dall’incarico di amministratore del Condominio (omissis) fin dal 27.11.09, con contestuale nomina del nuovo attuale amministratore.
Si è costituito N.U.U. per ottenere il rigetto del gravame e la conferma della sentenza gravata, atteso che la nomina di Home Service S.r.l. era effettivamente avvenuta soltanto il 01.02.2010, data fino alla quale si era protratta la propria amministrazione condominiale.
Il Tribunale di Reggio Emilia con sentenza n. 828 del 2014 accoglieva l’appello e in riforma della sentenza del GdP revocava il decreto ingiuntivo condannando N. a restituire tutte le somme pagate dal predetto Condominio in esecuzione della sentenza impugnata, condannava lo stesso al pagamento delle spese del giudizio. Secondo il Tribunale di Reggio Emilia risultando dal verbale di assemblea dei condomini del 27 novembre 2009 la delibera all’unanimità della nomina di un nuovo amministratore e l’autorizzazione all’amministratore uscente a prelevare dal conto corrente del condominio la somma di Euro 461,12 a saldo delle sue competenze nonché la fissazione del termine per il passaggio di consegne dal vecchio al muovo amministratore. Pertanto, essendo la volontà dei condomini di porre fine fin dal 27 novembre 2009 al rapporto professionale instaurato con N. lo stesso non ha diritto al compenso richiesto.”

i principi espressi dalla Corte di Cassazione a fronte del ricorso proposto dall’amministratore soccombente:  “il giudice di appello nell’escludere una perpetuatio di poteri in capo all’amministratore uscente, si è uniformato, alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale ha avuto modo di precisare che la perpetuatio di poteri in capo all’amministratore uscente, dopo la cessazione della carica per scadenza del termine di cui all’art. 1129 c.c. o per dimissioni, fondandosi su una presunzione di conformità di una siffatta perpetuatio all’interesse ed alla volontà dei condomini, non trova applicazione quando risulti, viceversa, (come nel caso in esame) una volontà di questi ultimi, espressa con delibera dell’assemblea condominiale, contraria alla conservazione dei poteri di gestione da parte dell’amministratore, cessato dall’incarico.

La decisione censurata è coerente con i principi espressi da questa Corte in materia di prorogatio della carica di amministratore. Infatti come ha avuto modo di chiarire il Giudice di appello “(…..) nel caso in esame osta al riconoscimento in favore di N.U.U. della somma portata dal decreto ingiuntivo, già opposto dal condominio, odierno appellante risultando dal verbale di assemblea di condomini del 27 novembre 2009 la delibera all’unanimità della nomina di nuovo amministratore nella Home Service S.r.l. e l’autorizzazione all’amministratore uscente a prelevare, dal conto corrente del condominio, la somma di Euro 461,12 a saldo delle sue competenze (…) tale verbale, dunque, contiene manifesta ed inequivoca volontà dei condomini tutti di porre fine, fin dal 27 novembre 2009 al rapporto professionale in essere con il N. e di iniziare analogo rapporto con diverso soggetto (...)”.

A fronte ti tale accertamento appare del tutto irrilevante, comunque, non provata, e non proponibile per la prima volta in questa sede, l’affermazione del ricorrente secondo cui “(….) l’assemblea dei condomini nella seduta del 27 novembre 2009 aveva autorizzato il sig. N. a compiere tutte le attività di gestione e di amministrazione dovute e necessarie fino al passaggio di consegne (….)”. D’altra parte, è nell’ordine delle cose che l’amministratore uscente predisponga tutto il necessario per favorire il subingresso del nuovo amministratore.”

ed ancora: “il Tribunale non ha omesso di esaminare anche il dato cui fa riferimento il ricorrente. Come chiarisce il Tribunale “(….) Non vi sono in atti elementi di prova rivelatori di una modificata volontà dei condomini orientata al recupero del rapporto fiduciario con il N. .

Tale non è senz’altro la convocazione assembleare del gennaio 2010, in quanto effettuata dall’appellato in epoca antecedente alla sostituzione nella carica (la lettera di convocazione porta la data del 28.10.2009 e dunque attiene ad attività amministrativa imputabile all’anno 2009 già saldata dal Condominio); peraltro, neppure, risulta dagli atti che le assemblee del 27-28 gennaio 2010 si siano effettivamente tenute.

Al contrario, la chiara intenzione dei condomini di dare seguito alla sostituzione dell’amministratore, deliberata all’unanimità, risulta dai diversi solleciti inviati a N.U.U. e finalizzati ad ottenere il passaggio di consegne alla Home Service S.r.l., nonché dalla reiterata volontà di sostituzione espressa dall’assemblea in data 01.02.2010, avente ad oggetto, ancora una volta, la richiesta all’amministratore uscente di consegnare tutta la documentazione del condominio e l’espresso richiamo alla volontà già espressa “all’ultima assemblea”, quella del 27.11.2009 appunto, nel senso di sostituire a N. la società sopra nominata, come ben noto all’odierno appellato, il quale nella propria missiva del 30 novembre 2009 scriveva che contrariamente a quanto stabilito con deliberato condominiale del 27 novembre 2009 il sottoscritto si è trovato nella impossibilità di eseguire il passaggio di consegne posto che il soggetto che doveva subentrare nella carica di nuovo amministratore non ha comunicato l’accettazione dell’incarico” e su tale impossibilità sebbene consapevole di non essere più legittimato dall’assemblea condominiale prorogava unilateralmente un’amministrazione priva di consenso del mandate (….)”.
Appare evidente dunque che il Tribunale ha avuto cura di ricostruire la volontà del Condominio “(OMISSIS) ” tenendo conto sia del verbale del 27 novembre 2009 e sia dell’assemblea del 1 febbraio 2010.”

© massimo ginesi 21 maggio 2018

casa di riposo in condominio: non è consentita se il regolamento vieta usi diversi dalla civile abitazione.

Il termine civile abitazione contenuto nei regolamenti condominiali di natura contrattuale, con ogni evidenza volto a impedire quelle attività che possano recare disturbo alla quiete dell’edificio, è inteso in senso decisamente ampio dalla giurisprudenza.

E’ noto l’orientamento in tema di bed&breakfast, oggi la Suprema Corte (Cass.Civ. sez.VI-2 14 maggio 2018 n. 11609 rel. Scarpa) si occupa invece di casa di ricovero  per anziani, con una sentenza che – pur ribadendo l’esclusiva competenza del giudice di merito nella interpretazione delle clausole regolamentari – apre interessanti spiragli sulla accezione “civile abitazione ” e sulla sua compatibilità con le destinazioni delle unità poste in condominio.

“Il Tribunale di Catania, sezione distaccata di Giarre, accolse la domanda del Condominio di via T…. 9, Giarre, contenuta nelle citazioni del 2 e del 13 settembre 2011 e volta alla cessazione dell’attività di comunità alloggio per anziani svolta da P. P. e dalla Cooperativa A. nelle rispettive unità immobiliari site nell’edificio condominiale, perché contrastante con la clausola n. 32 del regolamento di condominio. Tale clausola contempla, fra l’altro, l’obbligo di destinare gli appartamenti ad uso di civile abitazione o di studi o uffici professionali privati, nonché il divieto di adibire gli stessi a stanze ammobiliate d’affitto, pensioni e locande.

La Corte d’Appello ha così ritenuto non consentita l’attività di accoglienza per anziani esercitata da P. P. e dalla Cooperativa A., trattandosi di struttura ricettiva socio assistenziale qualificabile come di tipo residenziale (e non di civile abitazione), ovvero di un “pensionato”

 

Osserva in proposito la corte di legittimità, cui hanno fatto ricorso gli esercenti la casa di riposo:“Le medesime ricorrenti lamentano l’errore della Corte d’Appello di Catania, avendo la stessa operato un’interpretazione analogica, o estensiva, dell’art. 32 del regolamento condominiale, finendo per vietare l’attività di comunità alloggio per anziani espressamente prevista dalla normativa regionale siciliana. E’ tuttavia da ribadire come l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi, è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393).

Nella specie, l’interpretazione dell’art. 32 del regolamento del Condominio di via T….9, Giarre, non rivela le denunciate violazioni dei canoni di ermeneutica.

In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente la prescrizione di adibire gli appartamenti ad uso di civile abitazione o di studi o uffici professionali privati, nonché il divieto di destinare gli stessi a stanze ammobiliate d’affitto, pensioni e locande, come intesa a consentire le sole abitazioni private, e non anche l’uso ad abitazioni collettive di carattere stabile, ivi comprese le residenze assistenziali rivolte agli anziani, in forma di case di riposo, case famiglia o anche comunità alloggio, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’intepretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica possibile, né la migliore in astratto.

Il dato che le comunità alloggio per anziani debbano possedere i requisiti edilizi previsti proprio per gli alloggi destinati a civile abitazione non contrasta con la diversa considerazione che le medesime comunità alloggio si connotano come strutture a ciclo residenziale, le quali prestano servizi socioassistenziali ed erogano prestazioni di carattere alberghiero.”

© massimo ginesi 14 maggio 2018