costruzione del singolo su suolo comune e principio dell’accessione: una monumentale sentenza delle sezioni unite sull’art. 934 cod.civ.

Qualora un soggetto (nella fattispecie il costruttore-condomino) edifichi corpi di fabbrica sul suolo comune è applicabile il principio della accessione, in forza del quale il proprietario del suolo diviene titolare anche della costruzione ivi edificata?

Al quesito da soluzione il Supremo Collegio (Cass.Civ. sez. un. 16 febbraio 2018 n. 3873), con una articolata e approfondita disamina di una fattispecie peculiare del nostro ordinamento e pervenendo ad una soluzione che dirime un contrasto giurisprudenziale manifestatosi negli ultimi anni.

Il giudice di legittimità afferma i seguenti principi  di diritto:

– “La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam”;
– “Il consenso alla costruzione manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro diritto reale, vale a precludergli l’esercizio dello ius tollendi”;
– “Ove lo ius tollendi non venga o non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera”.

La pronuncia, tuttavia, per ampio ventaglio ricostruttivo e interpretativo, merita lettura integrale

Cass.SS.UU.3873_2018

© massimo ginesi 28 febbraio 2018

ripartizione spese di lite: mai in parti uguali ed escluso il condomino vittorioso.

Lo ha stabilito la corte di legittimità (Cass.Civ. sez.VI-2 21 febbraio 2018 n. 4259 rel. Scarpa), con una pronuncia  che riprende temi consolidati.

I fatti – “A. C. impugnò la deliberazione assembleare del 2 aprile 2013 approvata dal Condominio di Largo L. A., la quale aveva ripartito in parti uguali (€ 14,00 per ogni condomino), e non secondo millesimi, le spese dovute dal medesimo Condominio per effetto della soccombenza maturata con riguardo al decreto ingiuntivo n. 1780/2013 del Giudice di Pace di Roma, pronunciato su domanda del medesimo avvocato C. per l’attività di difensore svolta in favore del Condominio.

Il Giudice di Pace aveva dichiarato improcedibile l’impugnazione di delibera giacchè proposta con ricorso e non con citazione.

Il Tribunale di Roma ha invece ritenuto legittima la ripartizione in quote paritarie delle spese di soccombenza derivanti dal decreto ingiuntivo n. 1780/2013 non opposto dal condominio, non esistendo tabelle millesimali e non essendo applicabile l’art. 1132 c.c. proprio perché quest’ultimo non aveva deliberato di resistere alla pretesa monitoria”. 

IMPUGNATIVA MEDIANTE RICORSO – Osserva la corte che già il giudice di appello ha riformato la sentenza di primo grado, ritenendo ammissibile la domanda anche se proposta con ricorso: “Se è vero che il Tribunale non ha espressamente statuito sul motivo d’appello relativo alla declaratoria di improcedibilità della domanda (la quale effettivamente contrastava con l’interpretazione fornita da Cass. Sez. Un. 14/04/2011, n. 8491, trovando nella specie applicazione l’art. 1137 c.c. nel testo antecedente alle modifiche introdotte con legge n. 220/2012, e dovendosi perciò ritenere comunque valida l’impugnazione delle delibere dell’assemblea proposta impropriamente con ricorso, purchè l’atto risultasse depositato in cancelleria entro il termine stabilito dall’art. 1137 citato), è pur vero che la sentenza impugnata ha esaminato il merito della pretesa dell’attore appellante, con ciò implicitamente superando la questione di improcedibilità sollevata erroneamente dal Giudice di pace.”

LA RIPARTIZIONE DELLE SPESE – “Ove, come nel caso in esame, vi sia stata una condanna giudiziale definitiva del condominio, in persona dell’amministratore (nella specie, a seguito di decreto ingiuntivo non opposto), al pagamento di una somma di denaro in favore di un creditore della gestione condominiale (nella specie, dello stesso condomino avvocato C. a titolo di compenso per prestazioni professionali), la ripartizione tra i condomini degli oneri derivanti dalla condanna del condominio va comunque fatta alla stregua dei criteri dettati dall’art. 1123 c.c., salvo diversa convenzione (arg. da Cass. Sez. 2, 12/02/2001, n. 1959).

Né ha rilievo in senso contrario alla necessaria ripartizione interna dell’importo oggetto di condanna la mera mancanza formale delle tabelle millesimali (come considerato dal Tribunale di Roma), spettando semmai al giudice di stabilire l’entità del contributo dovuto dal singolo condomino conformemente ai criteri di ripartizione derivanti dai valori delle singole quote di proprietà (Cass. Sez. 2, 26/04/2013, n. 10081; Cass. Sez. 2, 30/07/1992, n. 9107).

La deliberazione adottata a maggioranza di ripartizione in parti uguali degli oneri derivanti dalla condanna del condominio, in deroga all’art. 1123 c.c., proprio come avvenuto nell’impugnata delibera del 2 aprile 2013, va peraltro certamente ritenuta nulla (Cass. Sez. 2, 16/02/2001, n. 2301; Cass. Sez. 2, 04/12/2013, n. 27233)

L’IMPUTAZIONE DELLE SPESE – “Il Tribunale di Roma ha affermato che l’avvocato C., in quanto condomino, doveva egli stesso partecipare al pagamento delle spese legali in suo favore consacrate nel decreto ingiuntivo n. 1780/2013 non opposto dal condominio, richiamando la giurisprudenza sul necessario concorso del condomino danneggiato al risarcimento del danno da lui subito per effetto della mancata custodia o manutenzione di un bene comune.

Questa Corte ha invece già sancito l’invalidità della deliberazione dell’assemblea che, all’esito di un giudizio che abbia visto contrapposti il condominio ed un singolo condomino, disponga anche a carico di quest’ultimo, “pro quota”, il pagamento delle spese sostenute dallo stesso condominio per il compenso del difensore nominato in tale processo, non trovando applicazione nella relativa ipotesi, nemmeno in via analogica, gli artt. 1132 e 1101 c.c. (Cass Sez. 2, 18/06/2014, n. 13885; Cass. Sez. 2, 25/03/1970, n. 801).”

© massimo ginesi 26 febbraio 2018 

parcheggi vincolati: se non sono attribuiti in proprietà esclusiva sono comuni ex art. 1117 cod.civ.

E’ quanto afferma una recente sentenza della Suprema Corte (Cass.Civ. sez.VI-2 21 febbraio 2018 n. 4255 rel. Scarpa).

La disciplina vincolistica in tema di parcheggi  pertinenziali ha visto una rilevante evoluzione legislativa e interpretativa e rappresenta una materia di non sempre semplice inquadramento.

Le aree esterne vincolate a parcheggio

La Suprema Corte rileva come  la vigente  normativa imponga  il vincolo di destinazione ma non obblighi al trasferimento della proprietà della stessa area vincolata, sicché ove tali beni non siano stati oggetto di atti traslativi specifici fra il costruttore e i singoli condomini, vanno ascritti ai beni comuni.

“la Corte d’Appello di Palermo, negando la legittimazione ad agire dell’amministratore con riguardo allo scantinato gravato dal vincolo di destinazione a parcheggio, non si è uniformata alla consolidata interpretazione di questa Corte, secondo cui la speciale normativa urbanistica, dettata dall’art. 41 sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della legge n. 765 del 1967, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio, senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione.

Pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso qualsiasi riferimento, al riguardo, nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, le aree in questione, globalmente considerate, devono essere ritenute parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c., con conseguente legittimazione dell’amministratore di condominio ad esperire, riguardo ad esse, le azioni contro i singoli condomini o contro terzi dirette ad ottenere il ripristinodei luoghi ed il risarcimento dei danni, giacché rientranti nel novero degli “atti conservativi”, al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130, n. 4, c.c. (Cass. Sez. 6 – 2, 08/03/2017, n. 5831; Cass. Sez. 2, 16/01/2008, n. 730; Cass. Sez. 2, 18/07/2003, n. 11261).”

© massimo ginesi 23 febbraio 2018 

 

realizzazione terrazza a tasca e trasformazione tetto: va preservata la funzione del bene e la facoltà di pari uso.

La Suprema Corte ( Cass.Civ. sez. VI-2 21 febbraio 2018 n. 4256 rel. Scarpa) ribadisce un concetto ormai consolidato: non è astrattamente  vietato al singolo condomino, proprietario dell’unità sottostante il manto di copertura, realizzare una terrazza a tasca a proprio uso esclusivo o comunque compiere attività di trasformazione del bene comune volte ad un uso più intenso, deve tuttavia essere preservata la funzione del tetto, con riguardo alla sua funzione di copertura e coibentazione dell’edificio e deve essere rispettata la facoltà di uso degli altri condomini.

Il Tribunale di Sondrio e poi la corte di Appello di Milano hanno  ” ritenuto illegittima, in difetto di apposito titolo contrattuale, la modificazione del tetto comune in terrazzo ad uso esclusivo delle signore M. e M, non interessando la trasformazione una limitata porzione, in quanto la terrazza sovrasta l’appartamento delle attuali ricorrenti ed occupa una rilevante quota dell’area di copertura dell’edificio”

LA Corte di legittimità conferma l ‘interpretazione resa dai giudici di merito: “Il precedente giurisprudenziale, che la ricorrente invoca e che viene citato nella stessa sentenza impugnata, ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, ma sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14107; si veda anche Cass. Sez. 6 – 2, 04/02/2013, n. 2500).

E’ evidente come l’accertamento circa la non significatività del taglio del tetto praticato per innestarvi la terrazza di uso esclusivo e circa l’adeguatezza delle opere eseguite per salvaguardare le utilità di interesse comune dapprima svolte dal tetto (non significatività e permanente adeguatezza, nella specie, del tutto negate dalla Corte di Milano, la quale ha piuttosto accertato come fosse stata realizzata una terrazza che sovrasta l’appartamento delle ricorrenti ed occupa una porzione consistente della sua parte piana, unica fruibile per le funzioni accessorie, diverse da quella di copertura) è riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.c.

Con riferimento all’utilizzazione della cosa comune da parte di un singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, il riscontro dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c. è frutto di un’indagine di fatto, mediata dalla valutazione delle risultanze probatorie, che non può essere sollecitata ulteriormente tramite il ricorso per cassazione, come se esso introducesse un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata.”

© massimo ginesi 22 febbraio 2018

 

bar rumoroso in condominio: dei danni risponde solo il conduttore.

Accade con grande frequenza che locali pubblici (bar, ristoranti, pub, discoteche, piano bar) posti al piano terra del condominio provochino immissioni rumorose intollerabili per coloro che occupano le unità immobiliari soprastanti.

La problematica  è giunta all’esame della Corte di legittimità che, con sentenza di pochi giorni fa, ha statuito in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità (Cass.Civ.  sez.III 5 febbraio 2018 n. 2668).

Il Tribunale di Vigevano, sezione distaccata  di Abbiategrasso – imprimo grado – aveva ritenuto sussistenti immissioni rumorose intollerabili e aveva riconosciuto il conseguente  il danno biologico lamentato dagli attori (proprietari di una unità posta sopra al bar incriminato).

La Corte di Appello di Milano era stata di diverso avviso, sia in ordine alla sussistenza del danno biologico nella misura valutata dal giudice di prime cure sia, soprattutto, in ordine alla sua imputabilità: “il giudice di secondo grado ha escluso la sussistenza di un danno biologico, non risultandone provato, in base alla documentazione in atti, l’an e non essendo stato adeguatamente motivata la decisione in ordine al quantum.

La Corte meneghina ha tuttavia riconosciuto l’esistenza di un danno ricollegabile alla salubrità ambientale – derivante da immissioni sonore protrattasi per un periodo prolungato e con modalità tali da aver indubitabilmente arrecato una alterazione ai normali ritmi di vita – liquidato in via equitativa nella misura di Euro 10.000 per la S. e di Euro 3.000 per la minore.

La Corte territoriale ha poi ritenuto che il suddetto risarcimento vada posto a carico esclusivamente della conduttrice, non potendo essere ascritta ai proprietari nessuna corresponsabilità per la propagazione delle immissioni sonore.

Infatti, secondo la Corte, “non esiste un principio di diritto, aldilà delle specifiche pattuizioni delle parti, secondo il quale il proprietario di un immobile che concede in locazione il bene sia gravato dall’obbligo di eseguire delle modifiche sullo stesso per il fatto che sia destinato ad una particolare utilizzazione o destinazione commerciale, tali da richiedere che esso sia dotato di determinate caratteristiche”.

Al fine di far sorgere l’obbligo del locatore di eseguire le adeguate modificazioni e trasformazioni, occorre che “le stesse siano state poste espressamente a suo carico dal contratto di locazione”.

Di conseguenza, la semplice indicazione del documento negoziale della destinazione dei locali non potrebbe far sorgere automaticamente tale obbligazione in capo al locatore nè la responsabilità di questi per i danni da anni da immissioni sonore.”

La tesi del giudice di appello resiste al giudizio di Cassazione. Osserva infatti il giudice di legittimità che il motivo di ricorso relativo alla responsabilità dei proprietari del locale è del tutto infondato: “La motivazione appare immune da vizi logico-giuridici, essendo coerente con l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’azione volta ad ottenere il risarcimento del pregiudizio di natura personale cagionato dalle immissioni va proposta secondo i principi della responsabilità aquiliana e cioè nei confronti del soggetto individuato dal criterio di imputazione della responsabilità; quindi nei confronti dell’autore del fatto illecito (materiale o morale), allorchè il criterio di imputazione è sia la colpa o il dolo (art. 2043) e nei confronti del custode della cosa (nella specie l’immobile) allorchè il criterio di imputazione è risulti il rapporto di custodia ex art. 2051 c.c. (Cass. civ. Sez. 3, 28-05-2015, n. 11125; Cass. civ. Sez. 3, 1 aprile 2010, n. 8006).

In particolare, questa Corte ha osservato che la domanda risarcitoria potrebbe essere proposta nei confronti dei proprietari “solo se essi avessero concorso alla realizzazione del fatto dannoso, quale autori o coautori dello stesso, mentre il solo fatto di essere proprietari, ancorchè consapevoli, ma senza alcun apporto causale al fatto dannoso, non è idoneo, neppure in astratto, a realizzare una loro responsabilità o corresponsabilità aquiliana” (Cass. civ. Sez. 3, 28-05-2015, n. 11125).”

© massimo ginesi 20 febbraio 2018 

quando l’appello rimedia a una stortura di primo grado: un caso emblematico in tema di legittimazione processuale dell’amministratore

Accade con frequenza di trovarsi di fronte a sentenze che lasciano stupiti per la stranezza e la palese  infondatezza della posizione espressa dal giudice.

Taluno sosteneva che il diritto è scienza espressa con le parole e non con i numeri e quindi non da mai un risultato esatto, ma un conto sono le possibili diverse interpretazioni della norma ed un conto sono pronunce che non trovano fondamento alcuno nelle norme vigenti nè nella giurisprudenza di legittimità e sono pure sorrette da una motivazione claudicante o poco pertinente.

Accade che un condominio citi dinanzi al Giudice di Pace (a cagione del basso valore del contendere)  l’impresa che ha eseguito lavori straordinari nel fabbricato, appaltatore che  ha preso atto con ua scrittura privata della sussistenza di alcuni vizi e si è impegnato a porvi rimedio.

L’impresa rimane contumace, ma il giudice di primo grado emette una sentenza con cui ha dichiaro  inammissibile la domanda di parte attrice, ritenendo il difetto di legittimazione attiva del Condominio  per essersi l’Amministratore costituito in giudizio senza avere prodotto la delibera assembleare che lo autorizzava ad iniziare la causa.

Il condominio propone appello e il Tribunale di Massa con sentenza 29 gennaio 2018 n. 81 riforma radicalmente la sentenza di primo grado, accogliendo la domanda del condominio ed osservando che – ove il Giudice ritenga che si tratti di causa che esula dalle competenze di cui all’art. 1130 cod.civ. e richieda autorizzazione assembleare – deve concedere termine al condominio per la produzione della delibera, aldilà di qualunque termine processuale.

Secondo il costante orientamento della Suprema Corte, il Giudice che reputi di decidere la lite  in base ad una questione o ad un fatto rilevati ex officio, e non formalmente sollevati dalle parti, deve astenersi dal decidere, segnalando la questione alle parti al fine di provocare la discussione e le consequenziali attività assertive e probatorie (Cass, Sez. II, 11/12/2013, n. 27631).

Pertanto – nel caso in esame – avendo il giudice di pace dichiarato inammissibile la domanda formulata dal CONDOMINIO per mancata produzione in giudizio della delibera condominiale autorizzativa alla proposizione della lite, seppur richiamata nella procura alle liti depositata agli atti, sollevando la questione d’ufficio, direttamente in sede di decisione, non ha posto all’attenzione della parte attrice la questione posta a fondamento della sua decisione e non ha consentito sulla stessa l’esplicarsi del contraddittorio.

Ne è conseguita la violazione del principio del contraddittorio, che di contro può dirsi rispettato se gli interessati in giudizio sono posti nelle condizioni di conoscere le eccezioni e le deduzioni dell’altra parte o sollevati d’ufficio e di esporre le proprie difese, con la conseguenza che il giudice che ritenga, dopo l’udienza di trattazione, di sollevare una questione rilevabile d’ufficio e non considerata dalle parti, deve sottoporla ad esse al fine di provocare il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle opportune difese, dando spazio alle consequenziali attività. Doveva, dunque, essere concesso alle parti un termine al fine di provocare il contraddittorio.

Ulteriormente, in tema di difetto di legittimazione, deve essere ancora rammentato che secondo le Sezioni unite (Cass. 9217/10), già in controversia instaurata prima della novella n. 69 del 2009, l’art. 182, comma 2, c.p.c., secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione “può” assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, dev’essere interpretato, anche alla luce della modifica apportata dall’art. 46, comma secondo, della legge n. 69 del 2009, nel senso che il giudice “deve” promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti “ex tunc”, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali.

La opzione interpretativa avviata nel 2010 (riconosciuta anche più di recente cfr. Cass.11898 del 28/05/2014), che è intesa a favorire la celebrazione del processo al fine di giungere a una stabile soluzione di merito, è sicuramente nel senso che si può desumere dal disposto vecchio e nuovo dell’art. 182 c.p.c..

Esso mira, oggi più esplicitamente, a consentire che sia posto rimedio alla nullità rilevante (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4248 del 2016). Orbene, nel caso sottoposto a questo Tribunale, diversamente da quanto statuito dal giudice di prime cure, deve ritenersi la sussistenza della legittimazione processuale attiva del CONDOMINIO L. in persona dell’Amministratore pro tempore, come da delibera condominiale autorizzativa alla proposizione della lite di primo grado nei confronti della impresa edile B. & F. S.N.C., benché prodotta solo in sede di gravame (doc. 4 appellante). Dunque, la questione deve ritenersi superata stante l’avvenuta produzione in giudizio della delibera stessa”

Il Tribunale conferma anche un consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di obbligazioni derivanti dal contratto di appalto e della natura novativa della dichiarazione dell’appaltatore che si impegni ad eseguire opere di eliminazione dei vizi: “In tema di appalto o di contratto d’opera, l’impegno ad eliminare i vizi della cosa o dell’opera, assunto dall’appaltatore o dal prestatore, alla stregua di principi generali non dipendenti dalla natura del singolo contratto, costituisce fonte di un’autonoma obbligazione di “facere”, la quale rimane pertanto, soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale fissato per l’inadempimento contrattuale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 13613 del 30/05/2013 (Rv. 626504 – 01)”

© massimo ginesi 14 febbraio 2018 

quando il condomino confonde solidarietà da soccombenza e parziarietà dell’obbligazione condominiale..

La pronuncia in commento (Cass.Civ. sez. II ord. 2 febbraio 2018 n. 2576)  mette in luce una vicenda davvero onirica…

La questione processuale è assai semplice: in una controversia promossa fra un singolo e il condominio (rimasto contumace), intervengono ex art 105 c.p.c.  due condomini a sostenere le ragioni comuni, che all’esito della lite risultano soccombenti insieme al condominio.

La condanna alle spese – atteso il comune interesse dei soccombenti – avviene in solido ai sensi dell’art. 97 c.p.c.

La vicenda giunge in sede di legittimità, su istanza dei condannati alle spese, che spiegano il seguente motivo di ricorso “Essendo stati condannati in solido il condominio contumace e i tre condomini interventori, stante la natura intrinsecamente parziaria delle obbligazioni condominiali affermata da questa corte a sezioni unite, gli intervenuti, secondo il ricorrente, «rispondono dell’obbligazione in favore [della controparte del precedente giudizio] solo nei limiti della loro quota e senza duplicazioni rispetto al condominio rimasto contumace».

Par di vedere quasi lo sgomento degli ermellini nello stendere la motivazione con cui respingono il ricorso: “Il tribunale, all’esito della lite che ha visto contrapposto il condominio contumace e l’attrice T.C., ha condannato in solido (cfr. art. 97 cod. proc. civ.) alle spese il condominio contumace e i tre condomini interventori.

Rettamente, dunque, confrontandosi con precedente giudicato affermativo del sussistere di un’obbligazione solidale, il tribunale di Paola, accogliendo motivo di appello, ha fatto applicazione anzitutto dell’art. 1298 cod. civ., secondo la quale norma nei rapporti interni tra i condebitori dell’obbligazione solidale ex art. 97 cod. proc. civ. la stessa si divide, non risultando nei soli interessi del condominio (cfr. art. 97 cit. per cui la statuizione giudiziale presuppone l’interesse “comune”), e ciò in parti uguali, se non risulta diversamente; indi, calcolate le parti (su cui non vi è questione in questa sede) il tribunale ha applicato l’art. 1299 cod. civ. che consente il regresso solo per la parte di ciascun condebitore.

Ciò posto, è appena il caso di chiarire che, discutendosi di obbligazione solidale nascentedall’art. 97 cod. proc. civ., è improprio il riferimento operato dal ricorrente alle obbligazioni condominiali (affermate, ratione temporis, parziarie, almeno antecedentemente alla riforma dell’art. 63 secondo comma disp. att. cod. civ. ex art. 18, primo comma, I. 11 dicembre 2012, n. 220, in vigore dal 17 giugno 2013), nozione questa che riguarda le obbligazioni del condominio e non un caso quale quello di specie, riferito a una condanna alle spese in una lite, nel quale il condomino era intervenuto personalmente, con piena responsabilità degli oneri processuali.

© massimo ginesi 12 febbraio 2018 

art. 1102 cod.civ. e aiuole condominiali: una sentenza floreale…

 

Una vicenda che arriva dalla Sardegna, per approdare in cassazione, e che riguarda un uso poetico e inusuale del bene comune e delle facoltà concesse al singolo ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.

Un condomino utilizza le aiuole condominiali per piantarvi fiori e piante ornamentali, l’assemblea, evidentemente sorda ad ogni richiamo di bellezza e leggerezza, delibera  che tale uso non è gradito né consentito e procede alla loro rimozione e distruzione.

Delibera  quanto mai improvvida, poiché Cass.Civ.  sez. II 7 febbraio 2018 n. 2957 ha confermato la sentenza del Tribunale di Cagliari che – in riforma della sentenza di primo grado del Giudice di Pace della stessa città – aveva ritenuto lecita ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.  l’attività di floricoltura compiuta dal singolo e condannato il condominio a pagare 849 euro per le piante rimosse e ben 3.000 euro per lite temeraria.

In realtà la controversia nasce  come impugnazione di delibera, con particolare riguardo a quelle che avevano disposto il divieto di utilizzo delle aiuole da parte dei singoli e la corte di legittimità si limita a statuire che – in astratto – l’uso delle fioriere da parte dei singoli è compatibile con l’art. 1102 cod.civ., mentre la delibera che tout court ne disponga il divieto (che invece ben potrebbe avere natura convenzionale) deve ritenersi illegittima.

Quanto poi l’attività del singolo ed i suoi fiori rispettino il pari diritto d’uso degli altri condomini, che comunque la norma impone, è apprezzamento di merito che rimane confinato al giudizio di merito.

La sentenza, aldilà del caso di costume (più interessante, in realtà, del pacifico principio di diritto affermato) riveste interesse anche per la preliminare questione di competenza che risolve, riguardo alle cause condominiali attribuite alla competenza per materia del giudice di pace (e per tale motivo si riporta in forma integrale qui sotto)

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© massimo ginesi 8 febbraio 2018

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l’assemblea non può imputare responsabilità e spese a singoli condomini

Si tratta di principio consolidato e pacifico, ribadito da Cass.Civ.  sez. II ord. 31 gennaio 2018 n. 2415.

Nel condominio si da corso alla rimozione di due canne fumarie in eternit, l’assemblea ritenuto che le stesse fossero al servizio di un solo condomino imputa a costui l’intera spesa, che ricorre al giudice per far valere la nullità della delibera.

Il Tribunale di Terni da ragione al condomino, ritenendo nulla la delibera, la Corte di Appello di Perugia riforma la sentenza, riconoscendo dirimente la circostanza che le canne fossero di proprietà esclusiva ed accogliendo pertanto l’impugnazione promossa dal condominio.

Il singolo ricorre in cassazione: “con il primo motivo viene allegata la violazione degli artt. 1137 e 1135, cod. civ., … la delibera assembleare aveva travalicato dai poteri che le erano propri, avendo inciso sulla sfera giuridica soggettiva del ricorrente, addebitandogli responsabilità aquiliana, così impingendo in radicale nullità;

… la doglianza è fondata, in quanto: a) all’assemblea condominiale, siccome correttamente evidenziato dal Tribunale (sul punto non consta presa di posizione della Corte d’appello), non è consentito accertare fattispecie di responsabilità in capo al singolo condomino, vertendosi al di fuori delle attribuzioni legali assegnate al meccanismo deliberativo in parola; b) questa Corte ha già avuto modo di condivisamente chiarire che è affetta da nullità (la quale può essere fatta valere dallo stesso condomino che abbia partecipato all’assemblea ed ancorché abbia espresso voto favorevole, e risulta sottratta al termine di impugnazione previsto dall’art. 1137 cod. civ.) la delibera dell’assemblea condominiale con la quale, senza il consenso di tutti i condomini, si modifichino i criteri legali (art. 1123 cod. civ.) o di regolamento contrattuale di riparto delle spese necessarie per la prestazione di servizi nell’interesse comune; ciò, perché eventuali deroghe, venendo a incidere sui diritti individuali del singolo condomino attraverso un mutamento del valore della parte di edificio di sua esclusiva proprietà, possono conseguire soltanto da una convenzione cui egli aderisca (Sez. 2, n. 17101, 27/7/2006, Rv. 592302; conforme Sez. 2, n. 16793, 21/72006, Rv. 591434); c) l’esposto principio è strettamente correlato alla natura del condominio, che assegna al potere deliberativo dell’assemblea le decisioni che non incidono sulle regole del riparto (salvo l’unanimità) e che non consente allo stesso di avvalersi degli strumenti di autotutela speciali, ad esso assegnati dalla legge al solo scopo di consentire il recupero dei contributi dei singoli condomini, determinati in base alle tabelle regolarmente approvate;”

Interessante anche la riflessione della corte sul conflitto di interesse:

“considerato che il secondo motivo, con il quale viene denunziata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2373, cod. civ., poiché la delibera era stata presa in situazione di conflitto d’interesse, in quanto gli altri condomini avevano l’interesse ad addebitare lo speso in via esclusiva al C. (a non voler considerare che la censura non risulta essere stata ritualmente riproposta in appello), non ha comunque alcun fondamento, stante che la situazione di conflitto d’interesse presa in considerazione dalla legge non coincide, al contrario di quel che assume il ricorrente, con il sussistere di un interesse di fatto del singolo votante ad una decisione piuttosto che ad un’altra, che importerebbe la paralisi dell’organo deliberativo, bensì nello specifico ed elettivo interesse, diverse da quello generico e fattuale, portato da uno dei votanti, in ragione delle sua precipua posizione; che in tal senso si è già più volte espressa questa Corte, la quale ha chiarito che sussiste il conflitto d’interessi ove sia dedotta e dimostrata in concreto una sicura divergenza tra specifiche ragioni personali di determinati singoli condomini, il cui voto abbia concorso a determinare la necessaria maggioranza ed un parimenti specifico contrario interesse istituzionale del condominio. (principio affermato dalla S.C. con riguardo alla delibera di sistemazione del tetto e ripulitura del canale di gronda, motivatamente apprezzati nella sentenza impugnata come attività inquadrabili nella manutenzione ordinaria del fabbricato e non coinvolgenti la responsabilità del costruttore – anche condomino votante -, per presunti vizi dell’edificio, tra l’altro in assenza di specifica contestazione di difetti costruttivi) – Sez. 2, n. 10754, 16/5/2011, Rv. 617841″

© massimo ginesi 7  febbraio 2018