la notifica del decreto ingiuntivo alla madre non convivente del destinatario è nulla.

Lo ha ribadito la Suprema Corte (Cass.Civ. sez. VI 25 ottobre 2017 n. 25391) ribadendo un orientamento consolidato “Come ha già detto questa Corte in altre occasioni, in tema di notifica effettuata a mani di un familiare del destinatario, la presunzione di convivenza non meramente occasionale non opera nel caso in cui questa sia stata eseguita nella residenza propria del familiare, diversa da quella del destinatario dell’atto, con conseguente nullità della notifica stessa, non sanata dalla conoscenza “aliunde” della notificazione dell’atto di citazione, non accompagnata dalla costituzione del convenuto. (Ordinanza n. 7750 del 05/04/2011).

In termini analoghi Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6817 del 02/07/1999: “In tema di notifica effettuata a mani di un familiare del destinatario, la presunzione di convivenza non meramente occasionale non opera nel caso in cui la notificazione sia stata eseguita nella residenza propria del familiare, diversa da quella del destinatario dell’atto, in tal caso non potendosi ritenere avverato il presupposto della frequentazione quotidiana, sul quale si basa l’ipotesi normativa della presumibile consegna”.

Pertanto, correttamente, la Corte di Appello di Bologna ha rilevato che “(….) il fatto che la raccomandata sia stata ritirata dalla madre dell’appellante non sana il vizio della notifica, né rileva il precedente ritiro da parte della madre dell’appellante di corrispondenza indirizzata sempre a (omissis) trattandosi di una raccomandata specifica il 4 ottobre 1997 prima che l’appellante trasferisse la propria residenza e d’altro lato, nessun valore può rivestire dopo la cancellazione del registro delle imprese avvenuta nel marzo del 1999 (….) La cessazione di ogni collegamento tra l’appellante ed il luogo ove è avvenuta la notifica del decreto ingiuntivo è ulteriormente confermata dall’esito negativo del tentativo di notifica, presso lo stesso indirizzo, del ricorso per dichiarazione di fallimento.”

© massimo ginesi 30 ottobre 2017

l’amministratore non può dar luogo a rimozione coattiva dell’auto dal cortile

Lo afferma, incidentalmente, una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass.Civ. VI  26 ottobre 2017 n. 25527 rel. Scarpa), che tuttavia cassa la sentenza di merito per una vizio di motivazione.

 L’assemblea delibera circa l’illegittimità della sosta nelle auto nel cortile condominiale e l’amministratore, con piglio decisamente energico, fa rimuovere l’autovettura di una condomina che viene materialmente spostata e abbandonata sulla via pubblica, ove subisce danni ad opera di ignoti. Per tale ragione la condomina propone azione contro il condominio per vedersi risarcita.

Il tribunale di Latina rigettava la domanda e così  Corte di Appello di Roma che, tuttavia, riteneva che la condotta dell’amministratore fosse comunque illegittima, poiché  il condominio non può agire in tale ipotesi in  via di autotutela spostando l’auto, ma l’attore non aveva dato sufficiente prova del nesso causale fra la condotta dell’amministratore e il danno lamentato.

“la Corte d’Appello di Roma, dopo aver osservato che la delibera del 12 luglio 2005 non era stata impugnata ex art. 1137 c.c. dalla P., affermava che l’amministratore non avrebbe comunque potuto, in via di autotutela, procedere personalmente alla rimozione coattiva dell’autovettura.

Tuttavia, pur dichiarata illegittima la condotta dell’amministratore T., la Corte d’Appello ha sostenuto che non fosse stata data prova del danno patrimoniale subito dalla P., né comunque “descritti danni che possano essere casualmente e direttamente riconducibili alla condotta posta inessere dalla parte appellata”.

 

il Condomino danneggiato ricorre per cassazione, lamentando il difetto di motivazione da parte del giudice di secondo grado.

Viene criticata dalla ricorrente anche la mancata motivazione sull’esistenza del nesso causale tra la condotta illecita dell’amministratore Telese, che aveva rimosso ed abbandonato l’auto sulla strada pubblica, ed il danneggiamento subito dalla stessa ed accertato il giorno successivo, danneggiamento che non si sarebbe verificato se il veicolo fosse rimasto all’interno dell’area privata condominiale”.

Motivo che fa centro: il giudice di legittimità,  sottolineando l’illiceità della condotta dell’amministratore, cassa con rinvio ad altra sezione della stessa Corte  di appello poiché la motivazione deve ritenersi solo apparente ” perché la Corte di merito ha così pretermesso del tutto l’indicazione degli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, rendendo impossibile ogni controllo in questa sede sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento, quanto al diniego della sussistenza di un nesso di causalità, materiale e giuridica, che leghi storicamente l’accertata condotta illecita del T. e i danni che si pretendono conseguenti a questa nella prospettiva dell’azionata obbligazione risarcitoria aquiliana (ferma la valutazione del giudice del merito in ordine all’eventuale eccessività delle spese occorrenti per la riparazione della vettura rispetto ai valori di mercato); dovendosi tuttavia a tal fine indicare le ragioni per cui la serie causale oggetto di lite appaia del tutto inverosimile, alla stregua dell’art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c. (cfr. Cass. Sez. 3, 31/05/2005, n. 11609).

© massimo ginesi 27 ottobre 2017 

acqua e riscaldamento sono servizi indispensabili per la salute e non possono essere sospesi.

Il condomino che non versi i contributi per un semestre, ed incorra dunque in una significativa morosità, può vedersi sospesi i servizi condominiali dei quali sia suscettibile un utilizzo separato, ai sensi dell’art. 63 comma III disp.att. cod.civ.

Anche laddove sia dunque possibile interromperei il servizio al solo moroso, senza arrecare disagio agli altri condomini, l’amministratore non potrà procedere in tal senso quando la sospensione finirebbe per incidere negativamente su un bene essenziale, costituzionalmente tutelato, come la salute.

Lo ha stabilito il Tribunale di Bologna 15 settembre 2017 , rigettando un ricorso ex art 700 cod.proc.civ. con cui col condominio chiedeva di essere autorizzato ad interrompere i servizi di riscaldamento e acqua, oltre a quello di antenna centralizzata, nei confronti di una condomina morosa da lunghissimo tempo, contro la quale  era stato ottenuto decreto ingiuntivo e iniziata esecuzione immobiliare, che si profilava comunque infruttuosa per l’intervento di un creditore fondiario che vantava un privilegio per somme decisamente superiori al valore stesso dell’immobile oggetto di espropriazione  forzata.

Il giudice osserva tuttavia che, pendendo già l’espropriazione forzata, il condominio può comunque ottenere tutela chiedendo al giudice dell’esecuzione la sostituzione del condomino moroso nominato custode.

il Tribunal osserva che “Documentalmente pacifica la durata ultrasemestrale della morosità riferibile alla condomina S ed altrettanto incontestabile la possibilità di godimento separato dei servizi comuni di riscaldamento e acqua, sussistono senz’altro astrattamente i presupposti applicativi dell’art. 63, 3° comma, Disp. Att. c.c., in forza del quale, per l’appunto, “in caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l’amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato”.

Senonché da tempo dottrina e giurisprudenza – con risultati, peraltro, divergenti – si sono interrogati sulla necessità o meno di distinguere – a fronte dell’interesse meramente economico del Condominio – fra servizi “essenziali” e non essenziali in funzione della preminente tutela del diritto alla salute, costituzionalmente tutelato (art. 32 Cost.).

Proprio con riferimento al servizio di riscaldamento ed acqua si sono così confrontati gli orientamenti negativi alla sospensiva in parola per i diritti primari costituzionalizzati (Trib. Brescia 29.9.2014; Trib. Milano 24.10.2013) e quelli positivi (Trib. Roma 27.6.2014; Trib. Alessandria 17.7.2015; Trib. Brescia 17.2.2014 e 21.5.2014), tutti valorizzanti l’aspetto assimilativo della fattispecie al rapporto diretto fra ente erogatore ed utente.

Questo Giudice ritiene di aderire al primo orientamento, non senza sottolineare che dei servizi “essenziali” ha tenuto conto anche la legislazione statale, che, per quanto riguarda il servizio acqua, con il D.P.C.M. 29.8.2016 (Disposizioni in materia di contenimento della morosità nel servizio idrico integrato) ha comunque stabilito che ai soggetti indigenti, seppur morosi, va comunque garantita una fornitura di 50 litri al giorno pro capite.

Ovviamente non è servizio essenziale l’utilizzo dell’antenna televisiva centralizzata, salvo ad osservare che parte ricorrente non ha allegato alcuno specifico costo ordinario in ordine alla stessa.

Quanto in premessa è senz’altro dirimente, apparendo comunque opportuno considerare, sotto altro profilo, che – quanto meno per i servizi comuni principali sopra indicati – l’istituto qui in discussione va in ogni caso riguardato come extrema ratio e che tale situazione non sembra ravvisabile allorché – come nella specie – il Condominio abbia attivato, con il pignoramento, una procedura esecutiva immobiliare nei confronti del condomino moroso, con due conseguenti effetti: a) la possibilità di chiedere al G.E. la sostituzione immediata del custode del bene pignorato in vece del debitore esecutato, con conseguente acquisizione dei frutti derivanti dalla locazione dello stesso oltre che il pagamento delle spese condominiali relative; b) l’attivazione del nuovo custode in ordine alla liberazione dell’immobile, fra l’altro, in caso di inadempienza ai predetti obblighi.”

 © massimo ginesi 25 ottobre 2017

diligenza dell’amministratore: una sentenza anacronistica…

Accade con frequenza che, dati i tempi della giustizia italiana, alcune pronunce di legittimità che affermano principi peculiari riguardino situazioni che, sotto il profilo normativo, non sono più attuali.

E’ ovviamente compito dell’interprete qualificare correttamente la fattispecie e rendersi conto della effettiva portata e residua attualità della sentenza, in forza del principio tempus  regit actum, di tal chè ciò che i giudici di legittimità hanno affermato  per una causa sorta quindici anni fa potrebbe essere principio di diritto non più attuale.

In materia condominiale tale fenomeno è reso ancor più evidente dall’entrata in vigore della L. 220/2012, che radicalmente mutato la disciplina di alcuni istituti, primo fra tutti la figura dell’amministratore di condominio.

Appare allora singolare leggere – nel web e su diverse  pubblicazioni – autori che, a fronte di Cass.Civ.  sez. VI Civile 20 ottobre, n. 24920, affermano che l’amministratore è tenuto ad osservare la diligenza del buon padre di famiglia e non ha l’obbligo ma solo la facoltà di richiedere decreto ingiuntivo.

La sentenza afferma effettivamente tali principi:”l’amministratore ha, nei riguardi dei partecipanti al condominio, una rappresentanza volontaria, in mancanza di un ente giuridico con una rappresentanza organica, talché i poteri di lui sono quelli di un comune mandatario, conferitigli, come stabilito dall’art. 1131 c.c., sia dal regolamento di condominio sia dalla assemblea condominiale (Cass. 9 aprile 2014, n. 8339; Cass. 4 luglio 2011, n. 14589). Nell’esercizio delle funzioni assume le veste del mandatario e pertanto è gravato dall’obbligo di eseguire il mandato conferitogli con la diligenza del buon padre di famiglia a norma dell’art. 1710 c.c.. 

Nel caso di specie la Corte d’appello ha accertato, con apprezzamento in fatto, che l’amministratore nel periodo 2005/2006 aveva più volte sollecitato, anche per iscritto, i condomini morosi al versamento delle quote condominiali, avendo egli la facoltà e non l’obbligo di ricorrere all’emissione di un decreto ingiuntivo nei riguardi dei condomini morosi.
La deduzione appare corretta perché l’art. 63 disp. att. cc. non prevede un obbligo, ma solo una facoltà di agire in via monitoria contro i condomini morosi (“può ottenere decreto di ingiunzione…”) e pertanto non merita censura la decisione impugnata laddove ha escluso la violazione dell’obbligo di diligenza da parte dell’A. per essersi comunque attivato nella raccolta dei fondi, avendo comunque messo in mora gli inadempienti (e l’indagine circa l’osservanza o meno da parte del mandatario degli obblighi di diligenza del buon padre di famiglia che lo stesso è tenuto ad osservare ex articoli 1708 e 1710 c.c. – anche in relazione agli atti preparatori, strumentali e successivi all’esecuzione del mandato – è affidata al giudice del merito, con riferimento al caso concreto ed alla stregua degli elementi forniti dalle parti, il cui risultato, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, è insindacabile in sede di legittimità: v. tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 13513 del 16/09/2002 in motivazione).”

Si tratta tuttavia di pronuncia che giudica l’operato di un amministratore che aveva avuto la prima sentenza di merito  nel 2009 e che, quindi, chiaramente agiva sotto la vigenza di norme affatto diverse.

Oggi gli arti. 1129 e 1130 cod.civ. prevedono obblighi ben precisi in ordine alle modalità obbligatorie di attivazione per la richiesta di decreto ingiuntivo (sulla cui richiesta solo l’assemblea può decidere proroghe ex art 11291 comma IX cod.civ. ) e l’art. 71 bis disp.att. cod.civ., (unitamente al dm 140/2014) prevede una figura di amministratore ancorata a parametri di professionalità, dati che difficilmente consentono – dal 18 giugno 2013 – di ritenere l’amministratore un mero mandatario e non un professionista tenuto a rispondere secondo le regole dell’arte, così come commentare  oggi che la richiesta di decreto ingiuntivo costituisca una facoltà e non un obbligo rappresenta mera disinformazione.

© massimo ginesi 24 ottobre 2017 

registrazione contratto di locazione, nullità e sanatoria: le Sezioni Unite si pronunciano.

Le Sezioni unite civile della Cassazione, con sentenza 9 ottobre 2017 n. 23601 affrontano il complesso e tormentato tema della mancata registrazione del contratto di locazione quale causa di nullità.

A breve una disamina completa della pronuncia.

23601SSUUlocazione

© massimo ginesi 23 ottobre 2017 

mansarde e vincolo pertinenziale

Il regime delle pertinenze è affrontato dalla corte di legittimità ( Cass.civ. sez. VI-2 ord. 17 ottobre 2017 n. 24432 rel. Scarpa)  in una vicenda assai singolare: un soggetto acquista all’asta giudiziale un appartamento e agisce poi contro i proprietari della sovrastante mansarda per accertare che tale bene deve ritenersi pertinenziale all’unità immobiliare di cui è divenuto proprietario.

G S ha domandato che venisse dichiarato inefficace il contratto di compravendita del 9 febbraio 2009 intercorso tra i compratori TT e M C ed il venditore G C, in quanto avente ad oggetto una mansarda sovrastante l’appartamento acquistato dall’attore in una procedura di vendita giudiziaria, deducendo il legame di pertinenzialità tra i due beni agli effetti degli artt. 817-818 c.c.”

Il giudice di primo grado respinge la domanda, mentre l’appello viene dichiarato inammissibile in quanto prima facie infondato (art. 348bis c.p.c.): “Il Tribunale negava quindi che emergesse dagli atti di proprietà la destinazione della mansarda a servizio dell’appartamento poi acquistato in sede giudiziale da GS, così come escludeva il rilievo del fatto che sussistessero una scala interna di collegamento tra i due immobili, nonché condutture comuni, dati fattuali che potevano incidere sul possesso ai fini di un non dedotto acquisto per usucapione. Ancora, la sentenza del Tribunale di Sassari escludeva la valenza decisiva del regolamento condominiale, ed evidenziava come il pignoramento della procedura esecutiva immobiliare avesse riguardato il solo appartamento aggiudicato a G S.”

Nonostante la debacle nei due giudizi di merito, l’attore non si da per vinto r ricorre in cassazione; la Corte di legittimità tuttavia respinge il ricorso osservando che “Il ricorso è infondato perché parte dall’errato presupposto che possa ravvisarsi il vincolo di subordinazione tra l’accessorium (nella specie, la mansarda) e il principale (nella specie, l’appartamento), richiesto dall’art. 817 c.c., e perciò affermata la natura pertinenziale del primo bene, in base alla sola relazione materiale esistente tra le due cose (nella specie, il nesso strutturale fra la mansarda e l’appartamento ad esso collegato da una scala e da un impianto idrico comune).

E’ invece consolidata l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui per la costituzione del vincolo pertinenziale è necessario non soltanto l’elemento oggettivo, consistente nella materiale destinazione del bene accessorio ad una relazione di complementarietà con quello principale, ma anche l’elemento soggettivo, consistente nella effettiva volontà del titolare del diritto di proprietà, o di altro diritto reale di godimento, sui beni collegati, giacchè soltanto chi abbia la piena disponibilità giuridica di entrambi i beni può utilmente attuare la destinazione della “res” al servizio o all’ornamento del bene principale, occorrendo altrimenti un rapporto obbligatorio costituito tra i rispettivi proprietari (Cass. Sez. 2, 20/01/2015, n. 869; Cass. Sez. 2, 10/06/2011, n. 12855; Cass. Sez. 2, 28/04/2006, n. 9911; Cass. Sez. 2, 02/03/2006, n. 459 Cass. Sez. 2, 29/04/2003, n. 6656; Cass. Sez. 2, 30/07/1990, n. 7655).

Grava sul compratore del bene principale, che rivendichi la proprietà del bene secondario, l’onere di provare la sussistenza di un rapporto pertinenziale (Cass. Sez. 3, 27/01/1997, n. 808), e quindi anche la destinazione a pertinenza attuata dall’unico proprietario del bene principale e di quello accessorio (sicchè, solo una volta che si abbia per accertato anche l’elemento soggettivo correlato alla volontà destinatoria del comune proprietario dei beni collegati, sarebbe irrilevante, agli effetti dell’art. 2912 c.c., l’omessa menzione della pertinenza, ad esempio, nel decreto di trasferimento emesso a seguito procedimento espropriativo: Cass. Sez. 2, 20/01/2015, n. 869).

L’accertamento in ordine alla sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano il rapporto pertinenziale fra due immobili, come anche della cessazione del vincolo pertinenziale ai sensi dell’art. 818 c.c., comportano, in ogni modo, un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che, come tale, è incensurabile in sede di legittimità se espresso con motivazione adeguata ed immune da vizi logici (Cass. Sez. 2, 02/03/2006, n. 4599; Cass. Sez. 2, 10/05/2000, n. 6009).

Il Tribunale di Sassari ha accertato che l’unico comune proprietario originario dell’appartamento e della mansarda (la I CA s.r.I.) avesse separatamente venduto quest’ultima con atto pubblico del 22 novembre 1995 a M F, il quale poi ne aveva disposto per testamento in favore di G C, dante causa di T T e M C. Per effetto di tale atto volontario di disposizione separato della mansarda, anteriore alla vendita della cosa principale, era quindi in ogni caso venuto meno ogni vincolo pertinenziale tra la mansarda stessa e l’appartamento acquistato dal S, atteso che, agli effetti dell’art. 818 c.c., pur ove si sia costituito un rapporto pertinenziale tra beni a seguito della destinazione operata dal proprietario della cosa principale che ha la piena disponibilità anche della cosa accessoria, il compimento di un atto di disposizione avente ad oggetto la sola pertinenza determina comunque la cessazione della destinazione dapprima impressa (Cass. Sez. 2, 26/05/2004, n. 10147).”

© massimo ginesi 19 ottobre 2017 

 

il criterio della prevenzione non si applica alle costruzioni in aderenza

Lo ha stabilito Cassazione, sez. II Civile, ord. 12 ottobre 2017, n. 23986, cassando un pronuncia della corte di appello di Firenze che condannava un soggetto alla demolizione di una scala costruita in aderenza al fabbricato del vicino, edificato sul confine e costruito preventivamente.

Osserva la Corte di legittimità che “tale statuizione è giuridicamente errata laddove pretende di applicare alla costruzione in aderenza un principio elaborato da questa Corte in materia di costruzione in prevenzione;
che, infatti, il precedente di legittimità invocato a pag. 7 della sentenza gravata (Cass. 6926/01, secondo la quale il diritto di prevenzione riconosciuto a chi per primo edifica si esaurisce con il completamento della costruzione e non può, quindi, giovare automaticamente per un successivo manufatto, ancorché accessorio al primo) riguarda, appunto, l’edificazione in prevenzione a distanza dal confine inferiore alla metà della distanza di tre metri prevista tra costruzioni dall’873 c.c. e non si occupa dell’edificazione in aderenza;
che, per contro, non vi sono ragioni per negare la possibilità di costruire un manufatto in aderenza ad un fabbricato realizzato dal vicino sul confine per il solo fatto che tale manufatto costituisca addizione di un fabbricato preesistente (non importa se realizzato prima o dopo quello del vicino: per l’affermazione della possibilità di mutare in ogni tempo la soluzione costruttiva – a distanza legale, in aderenza o in appoggio – purché la situazione lo consenta e la soluzione originaria sia legittima, cfr. Cass. 11488/15)”

© massimo ginesi 16 ottobre 2017

appalto: recesso unilaterale e risoluzione per inadempimento.

Il recesso è facoltà prevista dall’art. 1671 cod.civ. “Il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”.

La risoluzione è invece prevista dall’art. 1453 cod.civ.: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.
La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione.
Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione.”

La Suprema Corte in una recente pronuncia (Cass.civ. sez. II Ord. 9 ottobre 2017, n. 23558) ne delinea i risvolti  applicativi: ” il recesso ad nutum non presuppone necessariamente uno stato di regolare svolgimento del rapporto ma al contrario, stante l’ampiezza di formulazione della norma di cui all’art. 1671 c.c., può essere esercitato per qualsiasi ragione che induca il committente a porre fine al rapporto, da un canto non essendo configurabile un diritto dell’appaltatore a proseguire nell’esecuzione dell’opera (avendo egli diritto solo all’indennizzo previsto dalla norma) e, d’altro canto, rispondendo il compimento dell’opera esclusivamente all’interesse del committente.”

La Corte distingue chiaramente l’ipotesi del mero recesso unilaterale con la risoluzione dovuta ad una adempimento dell’appaltatore ex art. 1453 cod.civ.

!Ne consegue che il recesso può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti d’inadempimento e, poichè il contratto si scioglie esclusivamente per effetto dell’unilaterale iniziativa del recedente, non è necessaria alcuna indagine sull’importanza dell’inadempimento, viceversa dovuta quando il committente richiede anche il risarcimento del danno per inadempimento già verificatosi al momento del recesso (Cass. n. 2130/17, Cass. n. 11642/03, Cass. 10400/08, 17294/06 ex multis).

Essendo il recesso espressione dell’esercizio del diritto potestativo del committente, logico corollario è che l’obbligo di pagamento all’appaltatore dell’indennizzo ex art. 1671 c.c., costituisce effetto automatico della decisione di scioglimento dal vincolo adottata unilateralmente dal convenuto.

Se l’appaltatore è inadempiente, la sua eventuale condanna al risarcimento del danno può vanificare il suo diritto all’indennizzo ma, nel caso in esame, tale diritto al risarcimento del danno è stato escluso con pronunzia non impugnata sul punto per cui il diritto all’indennizzo ex art. 1671 c.c. non può essere messo in discussione.”

© massimo ginesi 13 ottobre 2017

 

art. 1134 cod.civ., costituzione del condominio e condominio minimo.

La Suprema Corte (Cass.Civ. VI sez. ord. 10 ottobre 2017, n. 23740 rel. Scarpa)  torna sul tema delle spese anticipate dal singolo, rilevando come debba applicarsi l’art. 1134 cod.civ.  laddove sussista una realtà edilizia che vede la coesistenza di almeno due condomini, a prescindere da qualunque atto formale di costituzione del condominio.

La  vicenda prende le mosse da una sentenza del Tribunale di Roma in veste di giudice di appello: “Il Tribunale di Roma, in riforma della decisione di primo grado resa dal Giudice di Pace di Roma in data 21 maggio 2014, ha rigettato la domanda avanzata dalla stessa Cassa di Previdenza Aziendale per il Personale del Monte dei Paschi di Siena nei confronti di U.C. , volta al pagamento della somma di Euro 3.000,00, oltre accessori, a titolo di ripetizione della quota di partecipazione agli oneri condominiali dell’edificio di via (omissis) .

Il Tribunale ha evidenziato come la Cassa di Previdenza avesse dedotto di agire non quale amministratore del condominio, né in base a delibera dell’assemblea, quanto piuttosto in base ad un contratto che la chiamava ad anticipare le spese occorrenti per la conservazione delle parti comuni prima della costituzione degli organi di gestione.

Tuttavia, afferma la sentenza impugnata, alcuna clausola di tale contenuto esisteva né nel contratto di vendita né nel regolamento di condominio prodotti; e neppure, prosegue il Tribunale, sussistevano le condizioni di urgenza di cui all’art. 1134 c.c. Per di più, la Cassa di Previdenza non avrebbe neppure documentato le spese indicate come anticipate.”

Il ricorso in cassazione vede un unico motivo di doglianza: “La ricorrente assume che il Tribunale avrebbe sbagliato a ritenere applicabile l’art. 1134 c.c., essendo piuttosto applicabile nella specie l’art. 1110 c.c., in quanto ancora nessun condominio si era concretamente formato nell’edificio di via (omissis) , e non era perciò applicabile la disciplina condominiale. Quanto all’art. 1110 c.c., a dire della ricorrente emergerebbero i requisiti della necessità delle spese e della trascuranza degli altri proprietari.”

La corte di legittimità respinge il ricorso attenendosi ad elementi di interpretazione  consolidati:

il provvedimento impugnato ha deciso la questione di diritto in ordine all’applicabilità dell’art. 1134 c.c. in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte, e l’esame del motivo non offre elementi per mutare l’orientamento della stessa, con conseguente inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1), c.p.c. (Cass. Sez. U, 21/03/2017, n. 7155).
La censura propende per l’applicazione, nel caso di specie, dell’art. 1110 c.c., piuttosto che dell’art. 1134 c.c., non essendosi ancora “concretamente formato” alcun condominio nell’edificio di via (omissis) . Questa Corte ha però costantemente spiegato come non occorra, ai fini della costituzione del condominio, una manifestazione di volontà dei partecipanti diretta a produrre l’effetto dell’applicazione degli artt. 1117 e seguenti del codice civile.

La situazione di condominio edilizio si ha per costituita nel momento stesso in cui l’originario unico proprietario opera il frazionamento della proprietà di un edificio, trasferendo una o alcune unità immobiliari ad altri soggetti, e così determinando la presunzione legale di cui all’art. 1117 c.c. con riguardo alle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 2, 18/12/2014, n. 26766).

Costituitosi, pertanto, da tale momento ex facto il condominio, si applica la relativa disciplina codicistica, ivi compreso l’art. 1134 c.c. il quale, a differenza dell’art. 1110 c.c., che opera in materia di comunione ordinaria, regola il rimborso delle spese di gestione delle parti comuni sostenute dal partecipante non alla mera trascuranza degli altri comunisti, quanto al diverso e più stringente presupposto dell’urgenza, intendendo la legge trattare nel condominio con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nell’amministrazione dei beni in comproprietà.

Ne discende che, instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, situazione che si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c. (così Cass. Sez. U, 31/01/2006, n. 2046; Cass. Sez. 2, 12/10/2011, n. 21015).

Tale requisito dell’urgenza (neppure prospettato dalla ricorrente a sostegno della sua pretesa) condiziona il diritto al rimborso del condomino gestore, e si spiega come dimostrazione che le spese anticipate dal singolo fossero indispensabili per evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, e dovessero essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini (da ultimo, Cass. Sez. 6 2, 08/06/2017, n. 14326).”

© massimo ginesi 12 ottobre 2017