art. 1134 cod.civ.: rimborso solo per spese urgenti e non per trascuratezza degli altri condomini.

 

La Suprema Corte conferma un orientamento consolidato: il condomino che agisca per vedersi rimborsare dagli altri partecipanti al condominio le somme anticipate nell’interesse comune deve dimostrare l’urgenza e indifferibilità dell’intervento, non essendo sufficiente a giustificare il suo agire la semplice trascuratezza del condominio nella gestione delle parti comuni.

Ove non adempia a tale prova, non avrà diritto ad alcun rimborso.

Lo ha affermato Cass.civ. sez. II 5 ottobre 2017, n. 23244: in conformità a quanto questa Corte ha già statuito, in cause sovrapponibili alla presente (cfr. Cass. 20151/2013, nonché più di recente Cass. 9177/2017).
Il Tribunale ha sì ritenuto che, trattandosi di un condominio, il rimborso delle spese per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni, anticipate da uno dei condomini, trova la sua disciplina nell’art. 1134 c.c., in base al quale il diritto è riconosciuto soltanto per le spese urgenti e non in base al mero dato della trascuratezza degli altri comunisti, ma ha poi – con falsa applicazione di legge che si riflette nella contraddittorietà della motivazione – ravvisato l’urgenza in una situazione di fatto in cui tale urgenza delle spese (intesa, secondo lo stesso Tribunale che si richiama alla pronuncia delle sezioni unite n. 2046/2006, come l’erogazione che non può essere differita senza danno o pericolo) non è ravvisabile (il Tribunale richiama infatti la diffusa inerzia degli altri titolari di immobili compressi nel complesso e la “difficoltà di procurarsi tempestivamente il consenso e la necessaria cooperazione degli altri condomini”, in relazione all’”adeguamento di tutti gli impianti e servizi comuni alle normative di igiene e sicurezza pubblica disciplinanti l’attività alberghiera” e, comunque, al mantenimento degli spazi comuni”

© massimo ginesi 11 ottobre 2017 

 

Invio avviso di convocazione e giacenza: la Cassazione fuga i dubbi e distingue dall’invio del verbale.

Il problema relativo al momento in cui deve ritenersi perfezionato l’avviso previsto dall’art. 66 disp.att. cod.civ. sembra non trovare soluzione stabile nella giurisprudenza della Suprema Corte.

Per molti anni si è ritenuto che, ove l’invio avvenisse a mezzo posta e il destinatario fosse assente, la consegna dovesse ritenersi perfezionata mediante la consegna dell’avviso di giacenza, atto idoneo a far ritenere che la convocazione fosse pervenuta nella sfera di disponibilità del destinatario; affermava  Cass.civ. sez. II 21 gennaio 2014 n. 1188   “l’idoneità, ai fini della decorrenza del termine in questione, del rilascio dell’avviso di giacenza in data 4 aprile 2013 in coerenza con l’orientamento di questa S.C., secondo il quale le lettere raccomandate si presumono conosciute, nel caso di mancata consegna per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale (Cass. 24 aprile 2003 n. 6527; Cass. 1 aprile 1997 n. 2847), nella specie effettuato il 4 aprile 2003”.

Di recente la Suprema Corte sembrava aver invertito la tendenza, poiché nel dicembre 2016 aveva affermato principio del tutto diverso, seppur con riguardo all’aio del verbale di assemblea agli assenti, adempimento che tuttavia tocca il tema della difesa dei diritti, afferendo alla possibilità di proporre impugnazione ex art 1137 cod.civ. nel termine di 3 giorni dalla ricezione: in tal caso era stata affermato che la comunicazione doveva intendersi perfezionata decorsi dieci  giorni di giacenza.

Oggi invece Cass.civ. sez. II  6 ottobre 2017 n. 23396 ritorna  a proporre la lettura tradizionale riguardo all’invio dell’avviso di convocazione: “in tema di condominio, con riguardo all’avviso di convocazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 66 disp. Att. Cod. civ. posto che detto avviso deve qualificarsi quale atto di natura privata […] al fine di ritenere fornita la prova della decorrenza del termine dilatorio di cinque giorni antecedenti l’adunanza di prima convocazione, condizionante la validità delle deliberazioni, è sufficiente e necessario che il condominio (sottoposto al relativo onere) in applicazione della presunzione dell’art. 1335 cod. civ. richiamato, dimostri la data di pervenimento dell’avviso all’indirizzo del destinatario, salva la possibilità per questi di provare di essere stato senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”.

Il procuratore generale Alberto Celeste – raffinato studioso del diritto condominiale – aveva motivatamente richiesto l’invio alle Sezioni Unite, poiché astrattamente la pronuncia pare porsi in contrasto con la lettura resa a dicembre 2016; la Corte tuttavia ritiene che non sussista identità di ratio fra l’invio dell’avviso e quello del verbale, con una pronuncia articolata che merita lettura integrale e che – seppur condivisibile sotto il profilo di tutela del diritto di difesa  – non fuga del tutto le perplessità sotto il profilo formale, posto che sia l’avviso di convocazione che il verbale di assemblea rimangono comunque atti privati, a quali il sistema normativo sulla comunicazione degli atti ricettivi dovrebbe trovare  applicazione  in maniera uniforme.

avvisoconvocazione23396

© massimo ginesi 9 ottobre 2017

una interessante pronuncia sul divieto di adibire immobili ad uso turistico contenuto nel regolamento.

Il regolamento condominiale, che non abbia natura contrattuale ma venga approvato a  maggioranza ai sensi dell’art. 1138 cod.civ. non può contenere – per un ormai granitico orientamento giurisprudenziale – clausole che incidano sul diritto dominicale dei singoli condomini.

Uno dei classici divieti, che cadono sotto la censura giudiziaria, è quello che impedisce di destinare le abitazioni ad uso turistico-alberghiero.

Cass.Civ. II sez. 28 settembre 2017 n. 22711 affronta un caso davvero peculiare: il Tribunale di Messina e poi la Corte di appello di Messina respingevano la domanda di alcuni condomini, lamentavano che il Tribunale con latra e precedente sentenza avesse dichiarato nulla la clausola regolamentare introdotta con delibera nel regolamento condominiale con il quale “era stato introdotto il divieto di destinare i locali di proprietà dei singoli condomini ad uso diverso da quello abitativo, di darli in affitto o subaffitto sotto forma di pensione o albergo.”

Ebbene questi condomini lamentavano che fra la data di adozione della delibera e la pronuncia del Tribunale con cui tale divieto era stato dichiarato illegittimo erano stati danneggiati economicamente per non aver potuto utilizzare i propri immobili per gli affitti stagionali a causa del divieto introdotto dal condominio e pertanto chiedevano al condominio risarcimento in tal senso.

Le corti di merito hanno ritenuto che non fosse provato tale danno, poiché “la disposizione regolarmente annullata introduceva il divieto di destinare il locale ad uso diverso dalla privata abitazione, attesa la destinazione degli immobili al luogo di riposo e di villeggiatura e, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, detto disposizione, benché annullata dal Tribunale di Messina perché lesiva delle prerogative dei singoli condomini ed illegittimamente invasiva delle facoltà connessi al diritto di proprietà individuale, tuttavia, non precludeva la possibilità di locare i vani ad uso abitativo anche per brevissimi periodi.

Il divieto riguardava esclusivamente l’affitto degli immobili sotto forma di pensione o albergo, mentre erano consentite tutte quelle utilizzazioni compatibili con la natura del luogo, ivi comprese le locazione ad uso abitativo anche per brevi periodi.

Tali locazioni rappresentavano la forma usuale di sfruttamento degli immobili degli appellanti, come emerso dalle disposizioni dei testi e dalle stesse dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio, dalle quali risultava che gli immobili in questione, fino all’approvazione del regolamento condominiale, erano affittati per brevi periodi dai clienti dello stabilimento balneare gestito dagli stessi A.”

Secondo i giudici di merito la clausola che vieta la destinazione alberghiera è dunque nulla, ma non perla due l’utilizzo delle brevi locazioni stagionali (ad esempio bed&breakfast) che vanno ricondotte all’utilizzo abitativo. 

La vicenda approda in cassazione, su ricorso dei condomini che si ritengono danneggiati, impugnazione che viene respinta, con un interessante motivazione sulla rilevanza del giudicato portato dalla sentenza che ha dichiarato nulla la clausola regolamentare.

Osservano i giudici di legittimità che: “secondo la giurisprudenza di questa Corte cui questo collegio intende dare continuità, “La violazione della cosa giudicata, in quanto importa disapplicazione dell’art. 2909 cod. civ., è denunziabile in cassazione, ma il controllo di legittimità deve limitarsi all’accertamento degli estremi legali per la efficienza del giudicato esterno nel processo in corso, senza potersi sindacare l’interpretazione che del giudicato stesso abbia dato il giudice di merito, perché essa rientra nella sfera del libero apprezzamento di quest’ultimo e, quindi, è incensurabile in sede di legittimità, quando l’interpretazione stessa sia immune da errori giuridici o da vizi di logica” Sez. L., Sentenza n. 14297 del 08/06/2017.

Nella specie l’interpretazione del giudicato è congruamente motivata con riferimento al tenore complessivo della clausola annullata – pretermesso nell’esposizione del motivo in esame ma ricavabile dalla lettura della sentenza qui impugnata (fol. 5) – che faceva divieto di “destinare i locali ad uso diverso di privata civile abitazione, attesa la destinazione dell’immobile a luogo di riposo e di villeggiatura e pertanto è fatto divieto di darli in affitto o subaffitto sotto forma di pensione o di albergo”, con ciò mettendosi in relazione il diverso uso intensivo dei locali allorché fossero stati destinati a pensione o albergo rispetto all’uso non abitativo in generale.

Sicché la motivazione della sentenza risulta effettivamente immune da errori giuridici e vizi di logica, essendosi limitata a ritenere che la clausola del regolamento condominiale annullata non si riferisse ad un divieto assoluto di adibire i singoli vani dell’immobile ad uso diverso da quello di privata abitazione, e che, pertanto, fosse consentita la locazione per brevi periodi, come dimostrato anche dal tenore letterale del regolamento condominiale e dal fatto che in istruttoria si era accertato che la clausola era stata modificata proprio per chiarire tale aspetto, e che gli stessi appellanti avevano ammesso che la previsione regolamentare consentiva gli affitti saltuari, cui avevano dovuto ricorrere, conseguendo minori guadagni rispetto a quelli derivanti dall’esercizio della preclusa attività alberghiera.

D’altra parte, deve anche evidenziarsi che il significato dell’espressione utilizzata nella sentenza del tribunale di Messina passata in giudicato di cui il ricorrente lamenta la violazione non è affatto univoco. In tale sentenza si legge, secondo quanto riportato nel ricorso, che l’assemblea del condominio non poteva vietare la destinazione dei locali di proprietà esclusiva ad uso diverso di privata abitazione e, tanto meno, vietare di darli in affitto o subaffitto sotto forma di pensione o di albergo. Ben poteva, pertanto, la Corte d’Appello interpretare tale espressione, come poi effettivamente ha fatto, nel senso che, se in astratto è illegittimo un regolamento condominiale che vieti una particolare destinazione agli immobili di proprietà esclusiva, in concreto tale illegittimità certamente ricomprende quella di vietare l’affitto sotto forma di pensione o di albergo.
Alla luce di ciò deve allora ritenersi coperta da giudicato l’illegittimità della clausola ma non le argomentazioni svolte nella sentenza di annullamento in merito agli altri usi che sarebbero stati comunque consentiti, non costituendo, tale svolgimento logico, un presupposto ineliminabile per sostenere la illegittimità della delibera.

© massimo ginesi 6 ottobre 2017 

la lavascale che vive nel condominio non può rivendicare la retribuzione del portiere.

Lo ha stabilito la Suprema Corte (Cass. sez. lav.  ord. 3 ottobre 2017 n. 23049) a fronte delle richieste di un soggetto che, avendo prestato attività lavorativa come lava scale per molti anni in favore del Condominio, rivendicava il riconoscimento del contratto di portierato e la corresponsione delle relative retribuzioni.

 La donna fondava la propria richiesta sulla circostanza che, nel corso degli anni, era stata presente in condominio in orari diversi da quelli destinati alla pulizia delle scale.

Il Tribunale di Lecco in funzione di giudice del lavoro, e poi la Corte di appello di Milano avevano ritenuto insufficienti tali presupposti, poiché non risultava dimostrato lo svolgimento di funzioni diverse rispetto a quelle indicate nelle lettere di assunzione come lava scale,  mentre la presenza della donna nell’edificio condominiale in orari diversi da quelli lavorativi era assolutamente compatibile con il fatto che il Condominio le aveva concesso di vivere in un appartamento comune, con esonero dalle spese, circostanza che i giudici hanno considerato come manifestazione di disponibilità e vantaggio reciproco ma inidonea – in assenza di prova specifica – a dimostrare, da sola, l’esistenza di un rapporto di portierato.

© massimo ginesi 5 ottobre 2017 

ristorante in condominio: le molestie olfattive sono reato.

Anche se l’impianto di scarico dei fumi a sevizio di un ristorante risulta essere a norma, ove nel cortile condominiale (o in altre parti comuni) si diffondano odori sgradevoli, la condotta può ritenersi penalmente illecita  ove superi  soglie di stretta tollerabilità.

Lo ha stabilito di recente la Suprema Corte (Cass.pen. VII sez. 26 settembre 2017 n. 44257)    che ha ritenuto legittima la condanna di un ristoratore per getto pericoloso di cose, ai sensi dell’art. 674 cod.pen.

Nel 2016 il tribunale di Roma aveva condannato il ristoratore alla pena di 500 euro di ammenda, ritenendolo colpevole del reato contravvenzione previsto dall’art. 674 cod.pen., “per aver provocato l’emissione di fumi e vapori  maleodoranti nel cortile condominiale, atti a molestare i soggetti di cui al capo di imputazione”

Osserva la Corte di legittimità che

il criterio fondante è quello della stretta tollerabilità“nel caso in esame trovano applicazione i seguenti principi, enunciati dalla giurisprudenza sopra richiamata:

a) l’evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità;

b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l’intensità delle emissioni, il giudizio sull’esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti”

© massimo ginesi 4 ottobre 2017

 

la parziarietà dell’obbligazione condominiale: titolo, precetto ed esecuzione contro il singolo.

Il creditore che vanta un credito nei confronti del condominio può richiedere ed ottenere  titolo contro il condominio, cui potrà ritualmente intimare anche il precetto per l’intera obbligazione.

Ove non riesca a soddisfare il proprio credito nei confronti del Condominio (ad esempio mediante pignoramento del conto condominiale), dovrà procedere ad esecuzione contro i singoli condomini.

In tal caso l’obbligazione di ciascun condomino è retta dal principio della parziarietà   ma il titolo ottenuto contro il condominio è direttamente azionabile nei confronti  del singolo condomino, cui dovrà essere notificato unitamente a precetto per la sua quota.

Non è onere del creditore provare la quota millesimale di ciascun condomino, ma la stessa dovrà ritenersi identificata dalla somma precettata e sarà, eventualmente, onere del singolo proporre opposizione al precetto al fine di contestarla.

Sono i principi, in linea con la linea interpretativa delineata negli ultimi anni dalla Suprema Corte, espressi da Cass. civ. III sez. 29 settembre 2017 n. 22856.

Osserva in particolare la Corte che

La pronuncia, per l’ampia e motivata disamina delle modalità esecutive da adottare nei confronti del singolo, merita integrale lettura

esecuzionesingolo22856

© massimo ginesi 3 ottobre 2017 

il viadotto costruito vicino al condominio non è necessariamente fonte di danno

La costruzione da parte della Pubblica Amministrazione di opere infrastrutturali in vicinanza di edifici privati non provoca ipso iure danno, ma la diminuzione del valore dell’immobile e l’eventuale danno biologico subito dagli occupanti  sono soggetti agli ordinari regimi di prova.

Lo ha stabilito Cass.civ. VI sez. 12 settembre 2017, n. 21150.

Gli attori “deducendo di essere proprietari di un appartamento sito in (OMISSIS), convenivano il Ministero delle Infrastrutture al fine di ottenere il risarcimento dei danni prodotti alla propria abitazione che a causa dei lavori di completamento della variante (OMISSIS) e del viadotto della sopraelevata avrebbe subito una considerevole svalutazione stante la struttura e l’inquinamento acustico e atmosferico derivante dalla circolazione dei veicoli.
Gli attori precisavano, nelle successive memorie ex articolo 183 c.p.c., comma 6, n. 1, due ordini di danno: l’uno da svalutazione dell’edificio in dipendenza sia dell’enorme struttura stradale realizzata sia dell’inquinamento acustico e atmosferico compromettente la qualita’ della vita e la salubrita’ dei luoghi; l’altro danno, biologico ed esistenziale ex articoli 844 e 2043 c.c., per le immissioni rumorose e di gas di scarico degli autoveicoli.”

Il Tribunale di Ancona sulla base delle risultanze probatorie acquisite in giudizio con sentenza n. 745/2011 respingeva la domanda risarcitoria avanzata dagli attori non ritenendo debitamente provati i lamentati danni.

La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza n. 701 dell’8 giugno 2016, rigettava l’appello non ritenendo sufficienti le prove dei danni effettivamente subiti a causa dei lavori pubblici cosi’ come allegate dagli attori a suffragio delle pretese risarcitorie avanzate.

La Cassazione ritiene il ricorso inammissibile, rilevando che costituisce indebita riprosizone di questioni di merito: “I ricorrenti non colgono la ratio decidendi della sentenza. Il giudice di merito ha affermato che il nuovo orientamento giurisprudenziale introdotto da Cass. 3 luglio 2013 n. 16619 consente al giudice di valutare il danno da svalutazione in termini di amenita’ e panoramicita’ dell’immobile, ma che nel caso di specie sotto tale profilo la domanda non sia stata provata.

Sostiene il giudice che gli odierni ricorrenti non hanno mai allegato il fatto della ridotta luminosita’ panoramicita’ e godibilita’ dell’immobile, ne’ sono mai state avanzate richieste istruttorie finalizzate a provare la limitazioni delle predette utilita’. Ha anche analizzato sotto tale aspetto la consulenza espletata.

Ed e’ principio consolidato di questa Corte che con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non puo’ rimettere in discussione, contrapponendone uno diffoime, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in se’ coerente.

L’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, e’ sottratto al sindacato di legittimita’, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non e’ conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilita’ e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 7921/2011). Come appunto nel caso di specie”

  massimo ginesi 27 settembre 2017

 

il condomino che cede la propria unità non può escludere dal trasferimento le parti comuni.

Lo ha stabilito la Cassazione (Cass.civ. sez. II 21/08/2017,  n. 20216), esaminando una ipotesi in cui alcuni condomini avevano venduto la propria unità immobiliare, inserendo nell’atto la clausola che escludeva il cortile condominiale dal trasferimento.

Secondo la Corte di Appello di Firenze “ posto che il cortile in questione era pacificamente di proprietà del Condominio (OMISSIS), doveva ritenersi nulla e inopponibile agli altri condomini la clausola di riserva con cui essi, nel trasferire la proprietà di un appartamento a terzi, si erano riservati la comproprietà del cortile sia perchè gli altri condomini non avevano partecipato all’atto sia perchè le proprietà comuni non sono scindibili dalle proprietà condominiali cui accedono. Non avendo dunque gli attori appellanti provato l’esistenza di un valido titolo di comproprietà del resede, la loro pretesa, secondo la Corte di merito, non meritava accoglimento.”

La Corte di legittimità conferma la lettura del giudice di merito: Non è nuova la questione di diritto che il Collegio è chiamato ad affrontare (validità, negli atti di trasferimento di singole unità immobiliari facenti parte di un condominio, della clausola di esclusione dalla vendita di alcune parti comuni dell’edificio condominiale).

La Corte, infatti, si è già espressa sulla questione pervenendo alla conclusione che la clausola, contenuta nel contratto di vendita di un’unità immobiliare di un condominio, con la quale viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni, è nulla, poichè con essa si intende attuare la rinuncia di un condomino alle predette parti, vietata dal capoverso dell’art. 1118 cod. civ. (v. tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 1680 del 29/01/2015 Rv. 634967; Sez. 2, Sentenza n. 6036 del 29/05/1995 Rv. 492556; Sez. 2, Sentenza n. 3309 del 25/07/1977 Rv. 386857). Si è aggiunto in proposito che se si considerasse valida la vendita che escluda un diritto condominiale, si inciderebbe sulle quote millesimali, in violazione dell’art. 1118 c.c., comma 1. (Sez. 2, Sentenza n. 1680/2015 in motivazione).”

© massimo ginesi 26 settembre 2017

l’accessione ex art. 936 cod.civ. non si applica ai beni comuni.

La Corte di Appello di Napoli perviene ad una conclusione assai singolare, in una vicenda relativa alla canna fumaria in eternit installata da un condomino sul muro comune ed a servizio della propria unità: condanna il condominio alla sua rimozione sull’assunto che “la canna fumaria, priva di una sua autonomia, trovandosi incorporata nel bene comune ex art. 936 cod.civ. , andava rimossa a cura del condominio, quale custode del bene”.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  22 settembre 2017 n. 22203) ritiene la tesi del tutto infondata e cassa la sentenza:

Assai singolarmente, tuttavia,  la pronuncia  richiama il termine innovazione e l’art. 1120 cod.civ. , mentre l’opera realizzata dal singolo va piuttosto ricondotta alla previsione dell’art. 1102 cod.civ.

Le stesse pronunce richiamate dalla Corte, peraltro, fanno riferimento alla comunione e all’uso del bene comune da parte del singolo e non già alle innovazioni, ad esempio Cass.civ. sez. II  27 marzo 2007 n. 7523: “come è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, la disciplina dell’accessione, contenuta nell’art. 934 c.c., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui: essa, pertanto, non trova applicazione nelle ipotesi di costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su suolo comune, cui si applica, invece, la normativa in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità di detta disciplina, cioè con il rispetto delle norme sui limiti all’uso da parte del comproprietario delle cose comuni: pertanto, le opere abusivamente create non possono considerarsi beni condominiali per accessione ma vanno considerati appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica ( tra le tante, sentenze 19/11/2004 n. 21901; 22/3/2001 n. 4120; 18/4/1996 n. 3675 ).”

© massimo ginesi 25 settembre 2017 

 

 

l’amministratore risponde di omicidio colposo per l’incidente all’appaltatore.

Durante l’esecuzione di lavori in condominio un soggetto cade da circa dieci metri e muore. L’amministratore viene condannata per omicidio colposo dai giudici di appello e ricorre in cassazione, articolando diversi motivi, fra tutti quelli del difetto dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità fra la sua condotta e l’evento.

Cass. pen. Iv sez. 21 settembre 2017 n. 43452 respinge il ricorso con una motivazione che lascia ben poco margine alla posizione dell’amministratore che, per il solo fatto di essere il committente, risponde  del fatto rivestendo in tali ipotesi una posizione di garanzia, anche  se non si è ingerito nella esecuzione dei lavori.

Il fatto e l’imputazione

gli elementi di responsabilità

l’assunto difensivo principale dell’amministratore ruota intorno al fatto che non avrebbe commissionato lui i lavori

I giudici di legittimità rilevano che la corte di appello ha in effetti verificato che fu l’amministratore a conferire l’incarico al soggetto deceduto di effettuare i lavori sulla terrazza in quota, “non verificò in alcun modo la formazione, le competenze e l’idoneità tecnico professionale dell’operaio e che non adottò, nonostante si trattasse di lavori sostanzialmente in quota, alcuna precauzione”

A fronte di tali elementi la conclusione in diritto è senza scampo:

© massimo ginesi 22 settembre 2017