opposizione a decreto ingiuntivo: quando l’acconto non basta ad evitare le spese di lite

Accade con frequenza che – nelle more della richiesta di decreto ingiuntivo da parte del creditore- il debitore versi alcuni acconti.

A fronte di tali pagamenti si discute  se siano dovute le spese del decreto, se sia legittima l’opposizione, se il decreto possa ancora essere usato come titolo e chi debba pagare le spese della eventuale fase di opposizione.

Nel caso di specie, affrontato dal Tribunale di Massa con sentenza 23.2.2017,   il Condominio – eseguiti in suo favore lavori straordinari in appalto – non aveva provveduto al saldo del prezzo dovuto, limitandosi a versare un modesto acconto di mille euro a fronte di circa  dodicimila ancora pretesi dall’appaltatore.

Il pagamento era avvenuto dopo l’emissione ma prima della notifica del decreto, il Condominio ha proposto opposizione al solo scopo di non far divenire esecutivo un titolo per somme supeirori a quelle effettivamente ancora dovute.

Osserva il Tribunale che “L’opposizione promossa risultata infondata e come tale deve esser rigettata, seppure il decreto – per i fatti parzialmente estintivi successivamente intervenuti – debba comunque essere revocato (Cass. SS.UU. 7448/1993).
Va osservato che le somme dovute dal Condominio alla opposta erano effettivamente quelle richieste in via monitoria, e ciò sia al momento del deposito del ricorso (16.5.2016) che al momento della emissione del provvedimento di ingiunzione (17.5.2016), essendo intervenuto il versamento del primo acconto solo in data 26.5.2016.”

Il Giudice di merito richiama una consolidata giurisprudenza della Cassazionela fondatezza (o meno) dei motivi dell’opposizione al decreto ingiuntivo deve essere valutata con riferimento non alla data di proposizione del ricorso, ma a quelle della emissione del decreto medesimo: e che è poi, anche, la data rispetto alla quale deve valutarsi la fondatezza in fatto ed in diritto della decisione giudiziale adottata. E ciò in aderenza a principi di diritto enunciati più volte in “subiecta materia” dalla giurisprudenza (uniforme, costante e consolidata) di questa Corte (cfr. ad es. tra le più recenti: Cass. 18.10.1983 n. 6121; Cass. 8.6.1985 n. 3482) …” Cassazione civile, sez. lav., 11/04/1990,  n. 3054

Ai fini dunque delle spese “Ne consegue che ove il pagamento avvenga in data successiva alla emissione del decreto, come nel caso di specie, la necessità della opposizione ai fini di non far divenire esecutivo il titolo non è affatto necessaria, ben potendosi eventualmente far valere gli intervenuti e successivi pagamenti in sede esecutiva, ove il creditore si determinasse ad azionare il titolo senza tenerne conto: “D’altronde è noto che il decreto ingiuntivo deve essere necessariamente revocato nel giudizio di opposizione esclusivamente quando risulti la fondatezza anche solo parziale dell’opposizione stessa con riferimento alla data di emissione del decreto. Quando invece il debito si estingua per un adempimento successivo alla suddetta data e debba quindi escludersi l’indicata fondatezza, anche se il provvedimento viene ugualmente revocato, devono comunque porsi a carico dell’ingiunto le spese del procedimento. Ove in quest’altra seconda ipotesi il decreto ingiuntivo non venga revocato, ovviamente resta salva l’opponibilità dell’avvenuto pagamento se il creditore, ancorché soddisfatto, si avvalga del provvedimento non revocato come titolo esecutivo (Cass. 7526/2007).”

Il debitore dunque che, con troppa solerzia, promuova opposizione a fronte di un modesto pagamento – avvenuto dopo l’emissione del decreto – rischia di vedersi condannato anche alle spese di detta fase.

Non sono dovuti, come invece aveva richiesto l’appaltatore, gli interessi di mora previsti dal D. lgs 231/ 2002: “infondata si rivela la richiesta di parte opposta di riconoscimento degli interessi moratori ex d.lgs 231/2002, trattandosi di disposizione che a mente dell’art. 2 di tale testo normativo si applica unicamente ai rapporti fra imprenditori (o liberi professionisti) e fra costoro e la pubblica amministrazione, mentre è inapplicabile al Condominio, che va ascritto al genus del consumatore (Trib. Roma 19 settembre 2011 n. 17887); non risulta invece che l’opposto abbia dedotto la sussistenza di patti relativi a interessi in misura superiore a quella legale o abbia dimostrato l’esistenza del danno ex art. 1224 II comma cod.civ.”

© massimo ginesi 27 febbraio 2017

per l’azione di nullità del regolamento contrattuale non vi è legittimazione passiva dell’amministratore

Il regolamento di natura contrattuale è una convenzione intercorsa fra più soggetti, nei cui unici confronti – e non dell’amministratore del condominio – va introdotta l’azione per farne dichiarare la nullità.

Quel tipo di regolamento, proprio per la sua natura contrattuale, è idoneo anche ad identificare le parti comuni ai partecipanti al condominio, anche in deroga all’art. 1117 cod.civ., sicché anche un corpo di fabbrica esterno al condominio – che abbia in comune con questo solo un cortile – ben potrà essere soggetto alle spese per la manutenzione delle parti comuni, anche ove quelle non siano strumentali all’uso di quella unità, se così  sia previsto da quel tipo di regolamento.

Sono i due principi espressi da Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 n. 4432 rel. Scarpa: un regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12850 del 21/05/2008).”

“la costituzione di un condominio, che comprenda eventualmente anche soggetti i quali non fossero già comproprietari dei beni che lo stesso art. 1117 c.c. attribuisce automaticamente per la loro accessorietà alle proprietà esclusive, è comunque possibile per effetto del consenso unanime di quelli, ovvero quale conseguenza dell’espressione di autonomia privata, che determini ex contractu l’insorgenza del diritto di comproprietà, e quindi anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlate. Perciò, con il regolamento di condominio di fonte e contenuto contrattuale ben può essere attribuita la comproprietà delle cose, incluse tra quelle elencate nell’art. 1117 cod. civ., a coloro cui appartengono alcune determinate unità immobiliari, indipendentemente dalla sussistenza di fatto del rapporto di strumentalità che determina la costituzione ex lege del condominio edilizio (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1366 del 10/02/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15794 del 11/11/2002)”.

© massimo ginesi 24 febbraio 2017 

art. 1122 cod.civ. : l’azione è imprescrittibile e va proposta nei confronti di tutti i comproprietari

Un condomino costruisce delle pensiline sul proprio terrazzo, propone un’azione di impugnativa di una delibera e il Condominio, in via riconvenzionale, richiede al Tribunale che ordini la rimozione delle pensiline che assume essere lesive del decoro del fabbricato.

La domanda in via riconvenzionale ha successo (non l’impugnativa proposta in via principale) e il Tribunale di Trani, sez. dist. di Andria, nel lontano 2005, ordina la rimozione delle pensiline ritenute pregiudizievoli per il decoro e lesive dell’art. 7 del regolamento e dell’art. 1120 cod.civ.

La Corte di Appello di Bari, nel 2012, rigetta l’impugnativa proposta dal condomino, che ricorre in cassazione lamentando – fra i vari motivi – un difetto di integrità del contraddittorio.

Il motivo di natura processuale risulta  fondato, tuttavia  la motivazione del Giudice di legittimità ( Cass.civ. sez. II  17 febbraio 2017 n. 4193, rel. Scarpa) appare puntuale e di grande interesse anche sotto i profili sostanziali.

Sono occorsi 13 anni di giudizio per arrivare al giudizio di cassazione ove, rilevato un vizio nella rituale costituzione del contraddittorio, viene disposto  rinvio al giudice di primo grado.

1 “L’azione a tutela del decoro architettonico dell’edificio in condominio, nella specie riconducibile, per quanto emerge dagli atti, all’articolo 1122 codice civile, trattandosi di opere realizzate da un condomino nella porzione di proprietà esclusiva (e non, quindi, all’articolo 1120 codice civile, che attiene all’innovazione delle parti comuni) ha natura reale, costituendo estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà, ed è perciò imprescrittibile, in applicazione del principio per cui “in facultativis non datur praescriptio (cfr Cass. II sez. 7727/ 2000, CAss. II sez. 1455/1981).

Quando, tuttavia, l’azione diretta alla riduzione in pristino ex articolo 1122 codice civile riguarda un immobile comune a più persone, sussiste causa inscindibile per ragioni sostanziali, comportante litisconsorzio necessario tra tutti comproprietari medesimi, incidendo la condanna sull’abbattimento sull’esistenza dell’oggetto della comproprietà spettante a persone estranee al processo (CAss. II sez  5333/2000).

La mancata citazione di uno dei litisconsorti  necessari costituisce vizio rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, e perciò anche nel giudizio di legittimità, se risultante dagli atti e non preclusa dal giudicato sulla questione. Avendo, peraltro, il ricorrente eccepito la non integrità del contraddittorio per la prima volta in cassazione (mediante denuncia di vizio che, costituendo error in procedendo, il quale importa per legge la nullità della sentenza il procedimento, si traduce motivo di ricorso a norma del numero 4 dell’articolo 36o c.p.c., come fatto con la prima censura) lo stesso ha indicato in AL la comproprietaria che doveva partecipare al giudizio quale litisconsorte  necessaria, ed ha altresì adempiuto all’onere di individuare gli atti del processo di merito dai quali può trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione.”

La corte dunque cassa con rinvio al giudice di primo grado affinché venga nuovamente celebrato il processo con il contraddittorio integro.

massimo ginesi © 17 febbraio 2017 

il vincolo pertinenziale è un legame funzionale e non fisico

La Cassazione (Cass. Civ. II sez. 15 febbraio 2017 n. 3991) riafferma un principio consolidato in tema di beni accessori: il vincolo pertinenziale non presuppone necessariamente contiguità fisica ma funzionale.

LA vicenda nasce a Massa, ove un soggetto che ha acquistato un unità immobiliare chiede di vedersi riconosciuto anche la proprietà di un ripostiglio posizionato nel cortile retrostante – ove era posizionato l’impianto di condizionamento dell’aria a servizio del bene acquistato – e il diritto di passaggio nel cortile retrostante l’immobile per accedere al piccolo ripostiglio, assumendo che lo stesso costituisse pertinenza dell’immobile acquistato o – in via subordinata – per usucapione.

In primo grado il Tribunale di Massa riconosce la proprietà del ripostiglio per intervenuta usucapione mentre la Corte di appello di Genova rigettava l’impugnazione proposta dal venditore, ritenendo che l’immobile costituisse pertinenza dell’immobile compravenduto.

La causa arriva all’esame del giudice di legittimità che conferma la lettura di secondo grado.

Il ricorrente proporne un secco motivo di ricorso, sostenendo che o si deve ritenere che il ripostiglio sia pertinenza e allora dovrebbe costituire un tutt’uno con il corpo principale ovvero ad esso si può accedere solo attraverso il cortile, ed allora non si avrebbe alcuna pertinenza.

Afferma la Corte “Tali affermazioni sono accomunate dal medesimo errore di supporre, senza alcuna base negli artt. 817 e ss cod.civ., che la pertinenza sia tale solo se congiunta materialmente e strutturalmente alla res principalis e raggiungibile unicamente da questa. Al contrario, è noto che il collegamento tra i due beni, quello principale e quello pertinenziale, non è di tipo materiale ma di natura economico-funzionale /cfr. Cass. n. 2278 del 1990, n. 2280 del 1982 e n. 974 del 1975), come del resto dimostra il caso degli instrumenta fundi, vero e proprio archetipo della categoria (v. Cass. n. 1807 del 1965).”

© massimo ginesi 16 febbraio 2017 

lastrico solare e danni: primi bagliori applicativi delle Sezioni Unite del 2016

Una recente sentenza (Corte di Cassazione, sez. II Civile 7 febbraio 2017, n. 3239) riprende i principi dettati da Cass. SS.UU  10/05/2016 n. 9449 e, correttamente, rileva che se  il danno agli immobili sottostanti sia imputabile ad una condotta ascrivibile unicamente al proprietario o usuario esclusivo del lastrico,   costui ne risponderà integralmente, per i noti  principi in tema di imputabilità e causalità, che precludono ogni riferimento al criterio dettato dall’art. 1126 cod.civ.

Osserva la Corte: “in materia di ripartizione delle spese di manutenzione di lastrici solari e terrazze a livello che provocano danni da infiltrazioni agli immobili sottostanti, le sezioni unite hanno di recente affermato che in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull’assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n.4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria;

il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all’art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio (v. Sez. U, Sentenza n. 9449 del 10/05/2016 Rv. 639821).
Il principio citato, affermato – come si è detto – in materia di riparto delle spese di riparazione per evitare danni da infiltrazioni negli appartamenti, vale logicamente anche nel caso di specie, in cui si discute pur sempre di danni da omessa manutenzione (ma anzi, forieri di ben più gravi conseguenze, rappresentate addirittura dal crollo della terrazza a livello).
Ebbene, nel caso in esame, la Corte d’Appello di Catanzaro ha applicato seccamente la regola dell’art. 1126 cc ma non si è posta il preliminare problema di verificare, sulla scorta degli accertamenti peritali e delle altre risultanze processuali, l’imputabilità soggettiva del danno, e cioè di stabilire se le cause del crollo fossero ascrivibili ad un concorso di responsabilità dei due proprietari interessati oppure a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso esclusivo della terrazza stessa che, come pure precisato dalle sezioni unite, ne è anche il custode, con tutti i doveri di cui all’art. 2051 cc.
L’indagine era assolutamente decisiva perché solo in caso di risposta positiva al primo quesito si sarebbe rivelata giuridicamente corretta la conclusione di applicare la regola del riparto di cui all’art. 1126 cod.civ..”

© massimo ginesi 8 febbraio 2017 

il cortile condominiale è area aperta al pubblico: l’accumulo di rifiuti può costituire reato

Le condotte emulative dei condomini, che spesso per ripicche personali fanno un uso disinvolto delle parti comuni, possono condurre a comportamenti penalmente rilevanti.

Lo ha stabilito la Cassazione (Corte di Cassazione, sez. I Penale,20 gennaio 2017, n. 2754), che ha ritenuto non sussistente il reato ove la condotta venga posta in essere in un’area privata e non aperta al transito indeterminato di persone o alla collettività condominiale.

Uno dei requisiti che caratterizza il reato di molestia (art. 660 c.p.) è che la condotta delittuosa venga posta in essere in luogo pubblioco o aperto al pubblico.

Il Tribunale di Como aveva condannato gli imputati : “ Il fatto imputato consisteva nell’avere recato disturbo e molestia al S. per petulanza e biasimevoli motivi, mediante un accumulo di materiale ferroso e legnoso all’interno del cortile comune e a ridosso del muro della finestra dell’abitazione del predetto.
A ragione della decisione il Tribunale osservava che la prova dei comportamenti molesti tenuti dagli imputati, consistiti nell’accumulo di legna, in quantità superiore al fabbisogno di una famiglia, e di una mole di materiale vario proprio in prossimità delle finestre del S., emergeva dalle dichiarazioni di quest’ultimo e dalla documentazione fotografica acquisita agli atti che ritraeva le condizioni di estrema sporcizia e disordine a ridosso del muro dell’appartamento della parte lesa.”

Gli imputati prpongono appello alla Corte di Milano che, per ragioni meramente processuali, lo trasmette al giudice di legittimità. I ricorrenti  ” Lamentano inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 660 cod. pen., deducendo che il teatro della condotta era un cortile nella loro esclusiva disponibilità, così difettando il requisito della fattispecie penale che prevede che la molestia sia arrecata in luogo pubblico o aperto al pubblico; contestano l’affermazione secondo la quale il muro del S. risultava aggredito dall’umidità e dagli insetti e che l’accumulo di legna ostruiva la visuale delle finestre aggettanti sul cortile, siccome smentita proprio dalla documentazione fotografica da essa richiamata; deducono l’insussistenza del requisito della petulanza o di altro biasimevole motivo, essendo le condotte contestate nient’altro che mal tollerate esplicazioni del pieno godimento di un bene di proprietà”

La Corte accoglie il ricorso, sul rilievo che il luogo ove sono avenuti i fatti non può essere inteso come luogo pubblico o aperto al pubblico e dunque difetta uno degli elementi tipizzanti la fattispecie penale.

E’ tuttavia assai interessante la motivazione, che fornisce – a contrario – l’indicazione che il cortile condominiale, ove aperto alla collettività dei condomini, costituisce indubitabilmente luogo aperto al pubblico.

Questa Corte, con specifico riferimento alla contravvenzione in esame, ha fissato il principio di diritto secondo il quale “si intende aperto al pubblico il luogo cui ciascuno può accedere in determinati momenti ovvero il luogo al quale può accedere una categoria di persone che abbia determinati requisiti. Devono, pertanto, essere considerati luoghi aperti al pubblico l’androne di un palazzo e la scala comune a più abitazioni (Sez. 6 n. 9888 del 6 giugno 1975, T., rv. n. 131021; adde: Sez. 1 n. 28853 del 16/06/2009, L., Rv. 244301).
Giova ribadire anche l’ulteriore principio di diritto secondo il quale per integrare il requisito della pubblicità del luogo di commissione del reato è sufficiente che, indifferentemente, il soggetto attivo ovvero quello passivo si trovino – almeno uno di essi – in luogo pubblico o aperto al pubblico (Cass., Sez. 1, 24 aprile 1986, n. 11524, F., Rv. 174068: “Ai fini del reato di cui all’art. 660 c.p., il requisito della pubblicità del luogo sussiste tanto nel caso in cui l’agente si trovi in luogo pubblico o aperto al pubblico ed il soggetto passivo in luogo privato, tanto nell’ipotesi in cui la molestia venga arrecata da un luogo privato, tanto nell’ipotesi in cui la molestia venga arrecata da un luogo privato nei confronti di chi si trovi in un luogo pubblico o aperto al pubblico”). 

Tanto premesso, e benché richiami proprio gli anzidetti principi, mostrando di conoscerli, la decisione impugnata prescinde dalla base fattuale a cui andava ancorata l’affermazione che il cortile ove si svolsero i fatti era luogo aperto al pubblico. E’ la stessa sentenza, infatti, a dare atto, nella parte motiva, che comproprietari del cortile erano soltanto i P. e le condomine M. e B., le quali hanno precisato di non vivere da anni nell’edificio ed hanno confermato l’uso esclusivo del cortile da parte degli imputati.
Se così è, e il Tribunale dà atto di tale evidenza, non contestata nemmeno dalla parte lesa che ha riconosciuto il carattere privato del cortile e il suo utilizzo pieno ed esclusivo da parte del P., padre e figlia, con i quali aveva avuto anche un contenzioso civile nell’anno 2007, deve ritenersi del tutto pacifico e fuori discussione che la condotta dei ricorrenti si è sviluppata in luogo privato e che in luogo privato si trovava il destinatario delle ritenute molestie.
Tanto esclude, all’evidenza, la rilevanza penale dei lamentati disturbi, difettando un requisito oggettivo della fattispecie.”

Giova infine osservare che l’accertata assenza di rilevanza penale dei fatti non preclude una la disamina della loro illiceità sotto il profilo civilistico da parte del Giudice a ciò deputato, poichè anche la condotta penalmente irrilevante può ben essere fonte di danno.

© massimo ginesi 7 febbraio 2017

 

Sciascia e la Francia …

“Se i disgustati … se ne andranno, rimarranno solo i disgustosi”

E’ una frase pronunciata nei giorni scorsi in Francia da Louis Comte, a proposito della situazione esistente nel suo partito, per spiegare le ragioni che lo avevano indotto a rimanere all’interno del gruppo, nonostante anni di gestione non felice.

Ed è una frase che si attaglia a molte delle realtà collettive che a chiunque, nel corso della vita, capita di frequentare.

Vi è però un momento e – soprattutto – vi sono alcune realtà che superano la sottile linea rossa del malumore costruttivo, fisiologico in ogni rapporto umano critico e dialettico, ossia quel limite – oltre il quale non si torna indietro – in cui si percepisce che il gruppo  è talmente  compromesso che rimanere farà transitare anche i disgustati nella detestabile categoria dei disgustosi.

Trovo la riflessione francese straordinariamente vicina alla celeberrima catalogazione che Leonardo Sciascia tratteggia ne “il giorno della civetta”.

“……… e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. “

© massimo ginesi 4 febbraio 2017

i lavori straordinari non urgenti ordinati dall’amministratore non sono riferibili al condominio.

Una ditta che ha eseguito opere di manutenzione straordinaria al fabbricato condominiale non è stata saldata e ottiene decreto ingiuntivo nei confronti del condominio, il Condominio propone opposizione e chiede di chiamare a garanzia il precedente amministratore, che aveva ordinato quei lavori in assenza di alcuna delibera assembleare.

La Cassazione riafferma un principio importante in tema di responsabilità patrimoniale del condominio e dell’amministratore nei confronti dell’appaltatore, già espresso nel 2010: ove difetti il requisito dell’urgenza, le opere straordinarie ordinate dall’amministratore senza supporto assembleare rimarranno un contratto unicamente a lui riferibile e del quale è chiamato a rispondere in via diretta ed esclusiva sotto il profilo patrimoniale, non sussistendo alcun rapporto di garanzia nei confronti del condominio ma esclusivamente una responsabilità personale dell’amministratore,  che ha assunto l’obbligazione eccedendo i limiti del mandato.

Cass. civ. II sez. 2 febbraio 2017 n. 2807“In materia di lavori straordinaria amministrazione disposti dell’amministratore di condominio, in assenza di previa delibera assembleare, non è … configurabile alcun diritto di rivalsa o di regresso del condominio, atteso che i rispettivi poteri dell’amministratore dell’assemblea sono delineati con precisione dalle disposizioni del codice civile (articoli 1130 e 1135), che limitano l’attribuzione dell’amministratore all’ordinaria amministrazione e riservano all’assemblea di condominio le decisioni in materia di amministrazione straordinaria, con la sola eccezione dei lavori di carattere urgente. (Cass. n. 4332/1987)

Di conseguenza, nel caso in cui l’amministratore, avvalendosi dei poteri di cui all’articolo 1135 comma due cod. civ., abbia assunto l’iniziativa di compiere opere di manutenzione straordinaria caratterizzata dall’urgenza, ove questa effettivamente ricorra ed egli abbia speso, nei confronti dei terzi, il nome del condominio, quest’ultimo deve ritenersi validamente rappresentato e l’obbligazione è direttamente riferibile al condominio; laddove invece i lavori eseguiti da terzi su disposizione dell’amministratore non posseggano i requisiti dell’urgenza, il relativo rapporto obbligatorio non è riferibile al condominio, trattandosi di atto posto in essere dall’amministratore al di fuori delle sue attribuzioni, attesa la rilevanza esterna delle disposizioni di cui agli articoli 1130 e 1135 comma due cod. civ. (cass. 6557/1987).”

© massimo ginesi 3 febbraio 2017 

innovazione o no? quando il commentatore è più realista del re…

La Cassazione, con sentenza 24960/2016, ha statuito che modificare la destinazione d’uso di una piccola parte del giardino condominiale per destinarlo a parcheggio costituisce innovazione, che tuttavia non deve ritenersi vietata ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1120 cod.civ. laddove non sottragga una parte significativa di verde al godimento collettivo e lasci sostanzialmente immutata la destinazione primaria del bene.

Questo il testo della pronuncia.

 

Nel web tuttavia si  trova anche  chi  riesce a commentare la notizia  leggendo nella pronuncia il contrario di quanto vi è scritto,  ovvero che si tratterebbe di intervento non innovativo (piuttosto che di innovazione lecita).

Il diritto  è una materia complessa e può accadere che navigare per il web a volte  complichi le idee più che chiarirle …

Attenzione che  il fatto che la notizia venga resa da un qualche centro studi non sempre è sinonimo di attendibilità.

per chi volesse approfondire il tema, la pronuncia ha invece trovato un chiaro e approfondito commento sul sole24ore, con diversi utili riferimenti giurisprudenziali.

© massimo ginesi 19 gennaio 2017