le tabelle millesimali si modificano a maggioranza solo in caso di errore o variazioni dell’edificio

La Cassazione (Cass. civ. 14 dicembre 2016 n. 25790)  esprime un principio ovvio e del tutto lineare in tema di tabelle millesimali.

La pronuncia è  riferita al testo previgente dell’art. 69 disp.att. cod.civ., può tuttavia essere di indubbio interesse anche per comprendere  la portata di detta norma dopo la riforma del 2012.

Il caso origina  dalla impugnativa di una delibera con cui il Condominio aveva approvato nuove tabelle rispetto a quelle sino a quel momento vigenti.

Alcuni condomini si dolgono che non fossero stati dedotti errori o variazioni significative e che pertanto l’adozione di quelle tabelle, a maggioranza, fosse del tutto arbitraria e non consentita.

Assai singolarmente il Tribunale di Messina, e poi la Corte d’Appello della stessa città,  avevano dato ragione al Condominio, osservando

– che le doglianze degli appellanti risultavano sfornite di prova perché non era stata dimostrata la violazione dell’art. 69 disp. att. cc nel testo previgente (applicabile alla fattispecie ratione temporis) e l’avvenuta approvazione delle nuove previsioni in assenza delle condizioni di legge;
– che parimenti la dedotta erroneità delle nuove tabelle non risultava supportata a alcun elemento di prova perché le censure risultavano generiche per mancata indicazione dei parametri da applicare e per mancanza di precisazioni sulla dedotta arbitrarietà e discrezionalità dei coefficienti utilizzati dal tecnico;
– che la censura sulla omessa misurazione delle unità immobiliari trovava smentita nei chiarimenti resi dal tecnico sulla determinazione dei valori effettuata sulla scorta delle planimetrie catastali previa verifica della correttezza delle misure direttamente sui luoghi.”

La Corte di legittimità, assai opportunamente, cassa la sentenza di secondo grado  con rinvio ad altra sezione della corte di merito, stabilendo un ovvio principe sostanziale e processuale:

L’articolo 69 delle norme di attuazione del codice civile, nella versione vigente ratione temporis, stabilisce che “i valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti o modificati, anche nell’interesse di un solo condomino, nei seguenti casi:
1) quando risulta che sono conseguenza di un errore;
2) quando, per le mutate condizioni di una parte dell’edificio, in conseguenza della sopraelevazione di nuovi piani, di espropriazione parziale o di innovazioni di vasta
portata, è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano”.
La chiara formulazione della disposizione sta a significare che il diritto di chiedere la revisione delle tabelle millesimali è condizionato dall’esistenza di uno o di entrambi i presupposti indicati (1- errore; 2- alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano).
Logico corollario è che, in base alla regola generale dell’onere probatorio (art. 2697 cc), la prova della sussistenza delle condizioni che legittimano la modifica incombe su chi intende modificare le tabelle, quanto meno con riferimento agli errori oggettivamente verificabili (v. Sez. 2, Sentenza n. 21950 del 25/09/2013 Rv. 629207).
La Corte d’Appello di Messina si è però discostata da tale principio perché – esonerando del tutto il Condominio (che aveva deliberato la revisione) – ha addossato ai condomini la prova di fatti negativi (e cioè mancanza di errori nelle precedenti tabelle o assenza di alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano) mentre invece, a fronte della contestazione sulla legittimità della revisione, avrebbe dovuto fare onere al Condominio che aveva deliberato la revisione di dimostrare la sussistenza delle condizioni che la giustificavano. “

Ne deriva che, anche alla luce della attuale disciplina, appaia confermata l’ipotesi di possibile revisione e modifica a maggioranza solo in presenza di errori o variazioni qualificanti (essendo invece sempre consentita all’unanimità).

© massimo ginesi 15 dicembre 2016

locazione: il contratto non registrato è nullo e non produce alcun effetto

Una severissima sentenza in materia di locazioni, depositata ieri dalla Suprema Corte (Cass. civ. III sez. 13 dicembre 2016 n. 25503).

Due i principi di diritto affermati:  a) Il contratto di locazione non registrato è nullo ai sensi dell’articolo 1 uno comma 346 della legge  30/12/2004 n. 311 b) la prestazione compiuta in esecuzione di un contratto nullo costituisce un indebito oggettivo, regolato dall’articolo 2033 cod.civ. e non dall’articolo 1458 cod.civ.; l’ eventuale irripetibilità di quella prestazione potrà attribuire al solvens, ricorrendone i presupposti, diritto a risarcimento del danno ex articolo 2043 cod.civ.  o al pagamento dell’ingiustificato arricchimento ex art.  2041 cod.civ. 

Ne consegue che dal contratto nullo non potrà scaturire alcun effetto ed  il Giudice non potrà statuire sull’indennità di occupazione senza titolo, commisurandola  al canone pattuito dalle parti, in assenza di specifica domanda in tal senso e della relativa prova fornita dalla parte. La sentenza merita lettura integrale per l’importanza delle questioni affrontate e la rigidissima prospettiva che sottende.

© massimo ginesi 14 dicembre 2016

se il regolamento vieta l’esercizio rumoroso…

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Una clausola del regolamento condominiale contrattuale vieta di destinare gli appartamenti ad attività rumorose:  il condominio adotta una delibera con cui viene fatto divieto ad uno dei condomini di destinare una delle unità ad asilo nido e costui ricorre al giudice per sentirne dichiarare l’illegittimità.

In primo grado viene espletata CTU che rileva come la rumorosità proveniente dall’asilo nido, quantomeno per due delle altre unità del condominio, risulti superiore alla normale tollerabilità, tenuto conto anche dei parametri normativi in materia.

L’attività di asilo nido viene dunque ritenuta contraria alla clausola regolamentare, non già per definizione ma accertata la sua concreta rumorosità.

Sia in primo grado che in appello la pronuncia è favorevole al Condominio.

L. vicenda giunge in Cassazione che, nel pronunciarsi sul ricorso, detta  alcuni importanti principi, anche e soprattutto sui limiti del giudizio di legittimità, troppo spesso dimenticati.

Cass. Civ. II sezione 6 dicembre 2016 n. 24958 ricorda preliminarmente “L’insegnamento secondo cui l’interpretazione del  contratto e degli atti di autonomia privata – e, dunque, pur, siccome nel caso di specie, di un regolamento condominiale contrattuale -costituisce un’attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità  soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione

 “Si rappresenta in particolare che la corte di merito ha correttamente, ovvero in pieno ossequio al canone esegetico letterale, ancorato il riscontro cui poi ha concretamente atteso, alla previsione del regolamento ove, aldilà delle attività oggetto di esplicita e puntuale menzione, è tout court,  senza, ben vero, precisazione alcuna, fatto divieto di destinare  gli appartamenti ad esercizi    rumorosi (l’art. 3 del regolamento recita che è fatto divieto di destinare gli appartamenti ad uso di qualsiasi industria esercizi rumorosi, sì che il concetto di rumoroso va delineando in relazione al suo concreto  espletamento).”…

Sottolinea la Corte che “Nè la censura ex n. 3)  né la censura ex n. 5)  del primo comma dell’articolo 360 c.p.c.  possono risolversi una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera  contrapposizione di una differente interpretazione”

Non può così essere più censurata in cassazione l’interpretazione che della clausola regolamentare hanno dato i giudici di merito, ritenendo vietata l’attività ove rechi disturbo solo ad alcuni condomini e non all’intero fabbricato: “L’assunto della ricorrente secondo cui la corte distrettuale  avrebbe omesso di considerare il chiaro dettato letterale dell’articolo 3 del regolamento condominiale, nella parte in cui individua nella tranquillità dell’intero fabbricato il limite superato il quale le attività non tipizzate (qual è quella di asilo nido) possono ritenersi vietate poiché (nel caso di specie) rumorose, non puoi in alcun  modo essere recepito”

“Si rappresenta conseguentemente che il  preteso vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente  dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia,  prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, ovvero quando esiste insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione. Nei termini teste enunciati l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed  esaustivo sul piano logico formale”

Insomma l’asilo faceva un rumore concretamente superiore alla normale tollerabilità, accertato mediante CTU e non solo in base alla valutazione astratta della attività, il giudice di primo e quello di secondo grado hanno ampiamente e correttamente motivato la loro decisione, l’interpretazione della clausola regolamentare espressa dal giudice di merito non deve essere la migliore ma solo una di quelle astrattamente possibili e – soprattutto – ove sussistano tutti questi parametri, il ricorso in cassazione avrà con ogni probabilità esito infausto.

© massimo ginesi 8 dicembre 2016

le norme sui requisiti dell’amministratore sono di ordine pubblico?

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Da molti si sostiene che la disciplina di cui all’art. 71 bis disp.att. cod.civ. , in tema di requisiti dell’amministratore, costituisca disciplina sottratta alla disponibilità delle parti poichè volta a garantire  interessi diffusi o, per alcuni , di ordine pubblico. Sarebbero infatti destinati ad assicurare  la rispondenza dell’amministratore a determinati parametri di affidabilità e professionalità, esigenza riconducibile alla collettività che il legislatore riterrebbe prioritaria rispetto alla autonomia privata.

La Cassazione, con una recentissima pronuncia, che per verità ha ad oggetto un caso sorto sotto la vigenza  della disciplina ante L. 220/2012, quindi quando l’art. 71 bis disp.att. cod.civ. non era ancora in vigore, afferma che rientra nella libera determinazione delle parti stabilire i requisiti richiesti all’amministratore, cosicché è lecita la clausola di un regolamento condominiale di natura contrattuale che detti specifici requisiti per la figura dell’amministratore.

Cass. civ. II sez. 30 novembre 2016 n. 24432 ha deciso su un motivo di ricorso così formulato: ” si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1129-1105-1138 cod. civ., 3-41-42 Cost. e 85 Trattato istitutivo CEE, per avere la Corte di Appello ritenuto che il regolamento del condominio — nel prevedere all’art. 27, comma 4, che “l’amministratore dovrà essere un libero professionista iscritto al rispettivo albo elo associazione, ordine o collegio di appartenenza” — potesse derogare alle norme di legge che regolano la nomina dell’amministratore, vietando che tale nomina fosse conferita ad una società di persone; si lamenta anche che la Corte territoriale abbia interpretato il regolamento condominiale nel senso che vietasse la nomina ad amministratore di una società di persone e che comunque — ferma tale interpretazione — non abbia ritenuto nullo il regolamento condominiale sul punto”

Ed ha affermato Le censure sono infondate. Non sussiste alcuna violazione di legge nella previsione del regolamento condominiale che stabilisca le caratteristiche, i requisiti e i titoli che deve avere l’amministratore del condominio. Invero, in tema di condominio negli edifici, l’art. 1138 quarto comma cod. civ., pur dichiarando espressamente non derogabile dal regolamento (tra le altre) la disposizione dell’art. 1129 cod. civ., la quale attribuisce all’assemblea la nomina dell’amministratore e stabilisce la durata dell’incarico (Sez. 2, Sentenza n. 13011 del 24/05/2013, Rv. 626458), non preclude però che il regolamento condominiale possa stabilire che la scelta dell’assemblea debba cadere su soggetti (persone fisiche o persone giuridiche) che presentino determinare caratteristiche, requisiti o titoli professionali.

La pronuncia attiene a caso sorto sotto la vigenza della legge precedente e quindi non può essere letto che in quell’ottica, è tuttavia singolare che la corte si limiti ad affermare unicamente il principio della autonomia privata senza fare minima menzione della sopravvenuta normativa che si assumerebbe di ordine pubblico e, come tale, inderogabile.

Potrebbe trattarsi di estrema sintesi del giudice di legittimità, di mera svista oppure potrebbe trattarsi di indicazione interpretativa assai importante anche per la lettura delle norme sopravvenute.

© massimo ginesi 2 dicembre 2016 

INTERVENTO SULLE PARTI COMUNI E DIRITTI DEI SINGOLI – L’AMPIEZZA DEL PASSAGGIO.

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La Suprema Corte, (Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 7 luglio – 23 novembre 2016, n. 23889 Presidente Bianchini – Relatore Oricchio) affronta un tema ricorrente e strettamente contiguo ad altra pronuncia commentata ieri in tema di installazione di ascensore, ove l’innovazione rechi pregiudizio ai singoli.

Se la pronuncia sulla installazione dell’ascensore attiene alla lettura ed applicazione dell’art. 1120 cod.civ., la sentenza oggi in commento riguarda invece l’altra norma fondamentale sulntema, ovvero l’art. 1102 cod.civ.

La norma, dettata in tema di comunione e pacificamente applicabile al condominio in virtù del richiamo dell’art. 1139 cod.civ. e della costante giurisprudenza sul punto, disciplina i limiti delle facoltà di intervento del singolo sulle parti comuni (mentre l’art. 1120 cod.civ. disciplina i limiti degli interventi deliberati dalla assemblea).

I fatti: un condomino cita in giudizio, dinanzi al al Tribunale di Bolzano altro condomino: “L’attrice chiedeva la condanna della convenuta alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi relativamente alle parti comuni che erano state inglobate dalla stessa, senza autorizzazione dei condomini, in occasione dei lavori di ristrutturazione del di lei alloggio”.

Domanda accolta sia dal Tribunale e confermata dalla Corte di Appello di Trento. La cassazione cassava la sentenza e rinviava per altro giudizio, che le perviene nuovamente a seguito di nuova decisone della Corte di secondo grado.

Questo il principio di diritto affermato, con  un interessante inciso – anche in questo caso – sulla ampiezza minima del passaggio: “In ogni caso il nucleo della svolta censura attiene alla pretesa erroneità della gravata decisione in punto di indagine sulla “esistenza o meno di pregiudizio…. in relazione all’esercizio del diritto di transito sulle cose comuni”, anche alla stregua di quanto statuito da questa Corte con la precedete sentenza n. 28025/2011 e di quanto risultante dalle risultanze peritali.
La censura, quanto a tale precipuo punto, non può essere accolta. La citata pregressa decisione di questa Corte non aveva escluso in toto il pregiudizio conseguente alle opere realizzate dalla parte odierna parte ricorrente, ma si era limitata al rinvio alla Corte territoriale al fine dell’accertamento del carattere pregiudizievole delle stesse.
Legittimamente e correttamente la decisione oggi gravata innanzi a questa Corte ha svolto adeguata valutazione del detto carattere pregiudizievole.
Tanto a mezzo della propria valutazione delle risultanze di causa, costituenti elemento proprio del giudizio di merito, nonché considerando anche la normativa in materia di abbattimento delle barriere architettoniche.
Invero appare corretto, quanto alla inammissibile e comunque infondata la svolta censura che attinge al merito, in considerazione dei due già accennati elementi e profili.
Innanzitutto il restringimento (attraverso l’utilizzo di una parte del bene comune) ha comportato una impossibilità di uso del ballatoio secondo la naturale destinazione dello stesso.
In secondo luogo (ed anche in senso contrario alla relazione peritale) il restringimento ad 80 cm. della larghezza dell’accesso al detto ballatoio sarebbe comunque inferiore a quanto normativamente previsto e quindi inidoneo per il passaggio di persone diversamente abili (DD.LL.PP. 16 giugno 1989, n. 236).

© massimo ginesi 1 dicembre 2016

l’amministratore può agire in giudizio a tutela della parti comuni senza autorizzazione assembleare

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La Corte di Cassazione, sez. II Civile con sentenza  sentenza 7 luglio – 23 novembre 2016, n. 23890 conferma un consolidato orientamento giurisprudenziale.

L’amministratore agisce in giudizio contro un condomino per ottenere nei suoi confronti condanna ala rimozione di alcune opere da costui realizzate nel cavedio condominiale.

Si tratta di azione volta pacificamente alla tutela di beni comuni, competenza prevista espressamente dall’art. 1130 cod.civ. in capo all’amministratore, e che non comporta alcuna domanda di accertamento sulla titolarità dei diritti. La nuova formulazione dell’art. 1131 cod.civ. (introdotta dalla L. 220/2012, ma già interpretata in tal senso dalla giurisprudenza a far data da Cass. SS.UU. 1833172010)  prevede espressamente che l’amministratore debba essere autorizzato dalla assemblea solo per le cause che esulano dalle sue attribuzioni così come delineate dall’art. 1130 cod.civ.

Eppure la Corte di Appello di Trieste, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto insussistente la legittimazione dell’amministratore in assenza di espressa delibera assembleare di autorizzazione alla promozione della lite.

Il giudice di legittimità cassa la sentenza di secondo grado chiarendo che : “A tanto è pervenuta la Corte territoriale, rifacendosi impropriamente a precedenti decisioni di questa Corte (n.ri 3044/2009, 24764/2005 e 12557/1992) e valutando l’azione posta in essere come azione (reale) non rientrante nel novero delle azioni proponibili direttamente dall’organo rappresentativo condominale.
Senonchè, nella concreta ipotesi per cui è giudizio, l’amministratore del condominio ricorrente …  ha chiesto solo la rimozione della struttura di parte controricorrente, limitante la corretta usufruizione del comune cavedio.
La previa delibera autorizzativa ad litem da parte dell’assemblea condominale non era, pertanto, necessaria. Al riguardo, anche in continuità con il condiviso e consolidato orientamento di questa Corte ( Cass. 1 ° ottobre 2008; n. 24391 e 17 giugno 2010, n. 14626) non può che riaffermarsi il principio – attagliantesi invero alla. fattispecie – secondo cui, ai sensi dell’art. 1130, comma 1, n. 4 e 1131 c.c. l’amministratore del condominio è legittimato, senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare, ad instaurare un giudizio per la rimozione di opere in quanto tale atto è diretto alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio”.

© massimo ginesi 25 settembre 2016

è nulla la delibera con cui si assegnano ai condomini posti auto nel cortile comune

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Lo ha stabilito Cass. Civ. II sez. 21 novembre 2016 n. 23660, confermando la decisione del giudice di appello.

La corte territoriale, con ragionamento che il giudice di legittimità ritiene fondato, aveva osservato che: “il senso logico della delibera è chiaramente indirizzato a ripartire i posti auto nel cortile assegnandoli individualmente in uso esclusivo a ciascun condomino ed autorizzandolo ad allestire mia propria tettoia-gazebo a copertura del proprio posto auto, col solo vincolo di uniformare tra loro la natura dei manufatti”. Osserva la Corte locale che “non a caso, vi è perfetta coincidenza tra il numero di appartamenti ed il numero di posti auto e, del resto, il significato sostanzialmente divisionale della decisione appare insito dalla stessa formulazione dell’ordine del giorno, che recita assegnazione posti auto nel cortile condominiale, andando ben oltre la mera disciplina dell’utilizzo”. Rileva ancora la Corte locale che “al punto n. 6 del verbale si dice apertamente che ci sono 24 posti auto uno per ogni appartamento, il che sottende l’intenzione di frazionare la superficie comune per farne pertinenze di ogni appartamento”. Di qui e in coerenza con tale prospettazione, la Corte locale osserva che “al punto n. 7 si propone che venga realizzata la tettoia per chi la vuole pagando ognuno la sua: questo però presuppone una preventiva assegnazione dei posti auto ad ogni appartamento.”

Identificato in  tal modo il contenuto della delibera, ne viene ritenuta la radicale nullità affermando che: “naturalmente, la delibera resta priva di ogni efficacia costitutiva, giacché per attuare davvero un frazionamento sarebbe stata necessaria la stipulazione di un atto notarile”, rilevando pero che “nondimeno, come paventa la difesa appellante, la volontà inespressa crea i presupposti affinché il realizzatore del singolo posto auto coperto possa esercitarvi il possesso e far valere un domani usucapione per sé e per i propri aventi causa”. La Corte locale così conclude il suo ragionamento: “in tal senso, non v’è dubbio che la delibera miri illecitamente a trasformare un’area di uso comune indiviso in porzioni di uso esclusivo, ponendosi in contrasto col disposto dell’art. 1120 comma 2 cod. civ.”. Con l’ulteriore conseguenza che “in accoglimento del gravame, non può che essere dichiarata la nullità della delibera medesima.”

© massimo ginesi 23 novembre 2016

La Cassazione ritorna su parcheggi e prescrizione

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La Suprema Corte ritorna su un tema dalle mille sfaccettature e su cui, negli ultimi giorni, già si era pronunciata.

Cass. Civ. II sez. 21 novembre 2016 n. 23669 afferma un interessante principio, suscettibile di  significative conseguenze sul piano applicativo: il diritto di parcheggio, ove non usato per oltre venti anni si prescrive, sotto il profilo civilistico, in capo all’originario beneficiario, pur permanendo il vincolo di destinazione che ha invece rilievo pubblico ed è imprescrittibile.

Afferma la Corte “Ai sensi dell’articolo 41 sexies  della legge urbanistica nel testo vigente all’epoca di introduzione della lite le nuove costruzioni ed anche nelle aree di  pertinenza delle costruzioni stesse devono essere riservati spazi per parcheggi in misura non inferiore ad 1 m² per ogni 10 m³ di costruzione. Tale disposizione, come è noto,  è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che il diritto attribuito ex lege ai proprietari delle singole unità immobiliari sugli spazi di parcheggio, dei quali il venditore sì si è riservato la proprietà, è di natura reale e può estinguersi per non uso soltanto con il decorso di 20 anni in base al combinato disposto degli articoli 1014 n.1  e 1026 codice civile, fermo restando in ogni caso il vincolo di destinazione che ha carattere pubblicistico permanente.

Orbene la permanenza del vincolo pubblicistico di destinazione trae punto che questo possa esplicarsi solo a favore dei proprietari delle res principales (cioè, nella specie, dei condomini), ben potendo essere attuata anche dai terzi proprietari dell’area, ad esempio locando i relativi spazi a terzi…

Tale interesse pubblico,…, non giustifica però l’imprescrittibiltà del diritto d’uso del proprietario dell’appartamento ai sensi dell’articolo 2934 cpv codice civile… Vi osta la duplice ragione che  detta norma nel riferirsi ai diritti indisponibili intende cosiddetti iura status,  vale a dire i diritti relativi allo stato la capacità delle persone, il diritto di proprietà nel senso della imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione e delle facoltà che formano il contenuto di un diritto soggettivo e che proprio il carattere pubblico e permanente del vincolo di destinazione pone quest’ultimo al riparo dalle vicende private, essendo indifferente ai fini del corretto assetto urbanistico  del territorio se la area di parcheggio sia goduta dei proprietari di quei medesimi appartamenti in relazione ai quali essa è stata calcolata, ovvero da terzi.”

L’area destinata a parcheggio – in attuazione di norme di carattere pubblicistico – dovrà continuare ad assolvere la propria funzione, e  non potrà quindi vedere mutata la sua destinazione, ma per lo Stato rimane indifferente chi sia il soggetto che in concreto ne fruirà, essendo invece tali rapporti soggetti a principi privatistici.

© massimo ginesi 22 novembre 2016 

la convocazione si perfeziona con l’avviso di giacenza.

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Cassazione civile, sez. II, 03/11/2016, n. 22311: “Per ritenere sussistente, secondo l’art. 1335 c.c., la presunzione di conoscenza, da parte del destinatario, dalla dichiarazione a questo diretta, occorre la prova, il cui onere incombe al dichiarante, che la dichiarazione sia pervenuta all’indirizzo del destinatario, e tale momento, nel caso in cui la dichiarazione sia stata inviata mediante lettera raccomandata non consegnata per l’assenza del destinatario (o di altra persona abilitata a riceverla), coincide con il rilascio del relativo avviso di giacenza del plico presso l’ufficio postale, e non già con il momento in cui la missiva fu consegnata (Cass. 27 luglio 1998, n. 7370; Cass. 1 aprile 1997, n. 2847; Cass. 23 settembre 1996, n. 8399; Cass. 13 agosto 1981, n. 4909; Cass. 11 febbraio 1978, n. 628; più di recente, per l’applicazione del principio in materia di contestazione degli addebiti del licenziamento individuale: Cass. 15 dicembre 2009, n. 6527; Cass. 24 aprile 2003, n. 6527; il principio è richiamato anche da sentenze non massimate, o non massimate nei termini che qui interessano: cfr. da ultimo Cass. 4 agosto 2016, n. 16330).
Pertanto, in applicazione della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., la raccomandata, nel caso di momentanea assenza del destinatario (e di altra persona abilitata a riceverla), deve ritenersi entrata nella sfera di conoscibilità del destinatario nel momento in cui viene rilasciato l’avviso di giacenza del plico presso l’ufficio postale. presunzione di conoscenza da parte del destinatario ex art. 1335 c.c. della convocazione di assemblea inviata per posta raccomandata a.r. – e non recapitata per sua assenza (o di altri abilitato a riceverla) – si ha con l’avviso di giacenza del plico presso l’ufficio postale. È dunque da tale momento – e non dalla consegna al destinatario – che decorrono i cinque giorni prescritti dalla legge per la regolare convocazione assembleare.”

Attenzione, dunque, nell’effettuare le convocazioni, a calcolare il termine di cui all’art. 66 III comma disp.att. cod.civ. prevedendo qualche giorno in più per  la possibile giacenza nei confronti dei destinatari cui l’avviso viene inviato a mezzo posta.

Il termine di giacenza delle raccomandate ordinarie è di trenta giorni, ma va chiarito che quello è il periodo in cui la lettera rimane a disposizione presso l’ufficio per il ritiro da parte dell’interessato.

In realtà la comunicazione  si perfeziona, secondo la lettura della Cassazione, non appena l’ufficio   rilascia l’avviso di giacenza al destinatario assente (ossia in genere il giorno stesso o pochi giorni dopo la tentata consegna).

© massimo ginesi 15 novembre 2016