maggio 2016 -DANNI DA LASTRICO SOLARE ESCLUSIVO: Le Sezioni unite risolvono il dilemma fra gli artt. 1123 e 1126 cod.civ.?

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In tema di condominio negli edifici, allorquando l’uso del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni che derivino da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario o l’usuario esclusivo del lastrico solare (o della terrazza a livello), in quanto custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio, in quanto la funzione di copertura dell’intero edificio, o di parte di esso, propria del lastrico solare (o della terrazza a livello), ancorché di proprietà esclusiva o in uso esclusivo, impone all’amministratore l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni (art. 1130, primo comma, n. 4, c.c.) e all’assemblea dei condomini di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria (art. 1135, primo comma, n. 4, c.c.). Il concorso di tali responsabilità, salva la rigorosa prova contraria della riferibilità del danno all’uno o all’altro, va di regola stabilito secondo il criterio di imputazione previsto dall’art. 1126 cod. civ., il quale pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 28 aprile – 10 maggio 2016, n. 9449
Presidente Rovelli – Relatore Petitti

Un contrasto giurisprudenziale sul quale, da molti mesi, si attendeva una pronuncia che lo appianasse. Sul punto le Sezioni Unite si erano già pronunciate nell’ormai lontano 1997, con sentenza n. 2672, ove si affermava: “poiché il lastrico solare dell’edificio (soggetto al regime del condominio) svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all’obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo. Pertanto, dei danni cagionati all’appartamento sottostante per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dal citato art. 1126, vale a dire, i condomini ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi, e il titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo, in ragione delle altre utilità, nella misura del terzo residuo”.
Per molti anni gli operatori del diritto e gli amministratori si erano attenuti a tale indirizzo, anche se la giurisprudenza e la dottrina degli anni successivi, aveva individuato comunque soluzioni contrastanti: “La sentenza ora richiamata non ha uniformato la giurisprudenza successiva, essendosi registrate decisioni (Cass. n. 6376 del 2006; Cass. n. 642 del 2003; Cass. n. 15131 del 2001; Cass. n. 7727 del 2000) che hanno ricondotto la vicenda in esame all’ambito di applicazione dell’art. 2051 cod. civ.. Si è, infatti, sostenuto che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, essendo obbligato ad adottare tutte la misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, risponde, in base al disposto dell’art. 2051 cod. civ., dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini. Secondo questo indirizzo, dunque, la legittimazione passiva del condominio sussiste anche per quanto riguarda i danni subiti dai singoli condomini (Cass. n. 6849 del 2001; Cass. n. 643 del 2003), in quanto, a tal fine, i criteri di ripartizione delle spese necessarie (ex art. 1126 cod. civ.) non incidono sulla legittimazione del condominio nella sua interezza e del suo amministratore, comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1130 cod. civ. (Cass. n. 3676 del 2006; Cass. n. 5848 del 2007; Cass. n. 4596 del 2012).”
La Seconda Sezione civile della Corte, con la ordinanza interlocutoria n. 13526 del 2014, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, sollevando diverse perplessità e in particolare: “Il Collegio ha condiviso gli orientamenti critici della dottrina e della giurisprudenza discordante e ha ritenuto condivisibile la tesi che sostiene la responsabilità ex art. 2051 cod. civ., sottolineando, in particolare, l’indebita applicazione degli artt. 1123 e 1126 cod. civ., che vengono interpretati dalla sentenza del 1997, non più come norme che disciplinano la ripartizione delle spese interne, ma come fonti da cui scaturiscono le obbligazioni propter rem. Nell’ordinanza interlocutoria vengono individuati i seguenti passaggi qualificanti dell’orientamento criticato delle S.U. del 1997: 1. l’esclusione, in via di principio, che la responsabilità per danni prodotti nell’appartamento sottostante dalle infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico solare per difetto di manutenzione si ricolleghi al disposto dell’art. 2051 cod. civ.; 2. l’affermazione che “dall’art. 1123 e dall’art. 1126 cod. civ. discendono obbligazioni poste dalla legge a carico ed a favore dei condomini dell’edificio, da qualificare come obbligazioni propter rem di cui i partecipanti al condominio sono ad un tempo soggetti attivi e soggetti passivi”; 3. la deduzione da tali premesse che “le obbligazioni reali di conservazione riguarderebbero tutti i rapporti reali inerenti, con la conseguenza che la susseguente responsabilità per inadempimento concerne i danni arrecati ai beni costituenti il fabbricato”; 4. l’assimilazione delle “condizioni materiali di dissesto e di degrado del lastrico” come species dell’unico concetto tecnico “di difetto di manutenzione” e quale coincidente conseguenza “dell’inadempimento delle obbligazioni propter rem”; 5. la conclusione per cui la responsabilità e il risarcimento dei danni sono regolati secondo gli stessi criteri di imputazione e di ripartizione, cioè quelli prescritti dall’art. 1126 cod. civ.”

Nel provvedimento di remissione si osserva che “il fatto costitutivo dell’illecito risale alla condotta omissiva o commissiva dei condomini, che fonda una responsabilità aquiliana, la quale deve essere scrutinata secondo le rispettive colpe dei condomini e, in caso di responsabilità condominiale, secondo i criteri millesimali, senza utilizzare la normativa coniata ad altro fine”.
In sostanza, afferma la sezione che ha sollevato il contrasto, se vi è stata omessa manutenzione del lastrico dal quale deriva danno, tale omessa manutenzione deve essere ricondotta all’obbligo di custodia che grava su tutti i condomini ex art. 2051 cod.civ., le conseguenze che ne derivano devono essere ascritte alla categoria del fatto illecito relativo ad una parte comune e di tale illecito dovranno rispondere tutti i condomini che ne sono responsabili per i propri millesimi, prescindendo dalla minore o maggior utilità che il bene possa arrecare nello specifico, atteso che – secondo tale giudice – la norma specifica di cui all’art. 1126 cod.civ. non è volta a disciplinare la responsabilità dei condomini ma unicamente a determinare il loro contributo alla spesa.

Le Sezioni Unite non mutano orientamento rispetto al 1997 quanto alla soluzione finale, cui tuttavia pervengono con un articolato logico del tutto differente. Allora la Corte aveva fondato la responsabilità dei condomini sullo schema delle obbligazioni propter rem ritenendo che “la responsabilità per danni prodotti all’appartamento sottostante dalle infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico solare (lastrico condominiale o in proprietà o uso esclusivo), per difetto di manutenzione, si ricollegasse, piuttosto che al disposto dell’art. 2051 cod. civ., ed al generale principio del neminem laedere, direttamente alla titolarità del diritto reale e, perciò, dovesse considerarsi come conseguenza dell’inadempimento delle obbligazioni di conservare le parti comuni, poste a carico dei condomini (art. 1123, primo comma, cod. civ.) e del titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo (art. 1126 cod. civ.).” Quella particolare obbligazione – secondo la pronuncia degli anni 90 – era declinata secondo le regole previste dagli artt. 1123 e 1126 cod. civ., con la conseguenza che al risarcimento dei danni cagionati all’appartamento sottostante per difetto di manutenzione dovrebbero essere tenuti gli obbligati inadempienti.

Le Sezioni Unite attuali virano di 90 gradi rispetto a tale lettura ed affermano principio del tutto diverso: “Tuttavia, la configurabilità di un siffatto rapporto obbligatorio non sembra tenere conto che il proprietario dell’appartamento danneggiato dalla cosa comune, anche se in uso esclusivo, è un terzo che subisce un danno per l’inadempimento dell’obbligo di conservazione della cosa comune (in tal senso, v., di recente, Cass. n. 1674 del 2015); il che implica la chiara natura extracontrattuale della responsabilità da porre in capo al titolare dell’uso esclusivo del lastrico e, per la natura comune del bene, dello stesso condominio. Nell’ambito di tale tipo di responsabilità, poi, deve ritenersi che le fattispecie più adeguate di imputazione del danno siano quella di cui all’art. 2051 cod. civ., per il rapporto intercorrente tra soggetto responsabile e cosa che ha dato luogo all’evento, ovvero quella di cui all’art. 2043 cod. civ., per il comportamento inerte di chi comunque fosse tenuto alla manutenzione del lastrico. In tal senso deve quindi escludersi la natura obbligatoria, sia pure nella specifica qualificazione di obbligazione propter rem, del danno cagionato dalle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare o dalla terrazza a livello, e deve affermarsi la riconducibilità della detta responsabilità nell’ambito dell’illecito aquiliano”

Afferma la Suprema Corte quindi che “In quest’ambito, come detto, non può essere posta in discussione la specificità del lastrico solare, quando questo sia anche solo in parte in uso esclusivo. Esso, invero, per la parte apparente, e quindi per la superficie, costituisce oggetto dell’uso esclusivo di chi abbia il relativo diritto; per altra parte, e segnatamente per la parte strutturale sottostante, costituisce cosa comune, in quanto contribuisce ad assicurare la copertura dell’edificio o di parte di esso. Risultano allora chiare le diverse posizioni del titolare dell’uso esclusivo e del condominio: il primo è tenuto agli obblighi di custodia, ex art. 2051 cod. civ., in quanto si trova in rapporto diretto con il bene potenzialmente dannoso, ove non sia sottoposto alla necessaria manutenzione; il secondo è tenuto, ex artt. 1130, primo comma, n. 4, e 1135, primo comma, n. 4, cod. civ. (nei rispettivi testi originari), a compiere gli atti conservativi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti comuni dell’edificio”

Non più dunque obbligazione propter rem ma responsabilità extracontrattuale, per il cui riparto – per la specifica natura del bene destinato a diverse funzioni – si dovrà comunque mutuare un criterio tratto dall’art. 1126 cod.civ. : “La naturale interconnessione esistente tra la superficie del lastrico e della terrazza a livello, sulla quale si esercita la custodia del titolare del diritto di uso in via esclusiva, e la struttura immediatamente sottostante, che costituisce cosa comune – sulla quale la custodia non può esercitarsi nelle medesime forme ipotizzabili per la copertura esterna e in relazione alla quale è invece operante il dovere di controllo in capo all’amministratore del condominio ai sensi del richiamato art. 1130, primo comma n. 4, cod. civ. induce tuttavia ad individuare una regola di ripartizione della responsabilità mutuata dall’art. 1126 cod. civ. … il criterio di riparto previsto per le spese di riparazione o ricostruzione dalla citata disposizione costituisce un parametro legale rappresentativo di una situazione di fatto, correlata all’uso e alla custodia della cosa nei termini in essa delineati, valevole anche ai fini della ripartizione del danno cagionato dalla cosa comune che, nella sua parte superficiale, sia in uso esclusivo ovvero sia di proprietà esclusiva, è comunque destinata a svolgere una funzione anche nell’interesse dell’intero edificio o della parte di questo ad essa sottostante”
L’aver ricondotto la fattispecie alla ipotesi della responsabilità extracontrattuale, e non più ad una ipotesi di obbligazione di altra natura, comporta rilevanti conseguenze applicative che la Corte sottolinea e a cui anche l’operatore sul campo dovrà prestare adeguata attenzione: “Dalla attrazione del danno da infiltrazioni nell’ambito della responsabilità civile discendono conseguenze di sicuro rilievo. Trovano, infatti, applicazione tutte le disposizioni che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, prime fra tutte quelle relative alla prescrizione e alla imputazione della responsabilità, dovendosi affermare che del danno provocato dalle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare o dalla terrazza a livello risponde il proprietario o il titolare di diritto di uso esclusivo su detti beni al momento del verificarsi del danno. Una volta esclusa la applicabilità della disciplina delle obbligazioni, deve infatti escludersi che l’acquirente di una porzione condominiale possa essere ritenuto gravato degli obblighi risarcitori sorti in conseguenza di un fatto dannoso verificatosi prima dell’acquisto, dovendo quindi dei detti danni rispondere il proprietario della unità immobiliare al momento del fatto. Trova applicazione altresì la disposizione di cui all’art. 2055 cod. civ., ben potendo il danneggiato agire nei confronti del singolo condomino, sia pure nei limiti della quota imputabile al condominio. In tal senso, del resto, si è già affermato che “il risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale soggiace alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, primo comma, cod. civ., norma che opera un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota, anche quando il danneggiato sia un condomino, equiparato a tali effetti ad un terzo, sicché devono individuarsi nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili, poiché la custodia, presupposta dalla struttura della responsabilità per danni prevista dall’art. 2051 cod. civ., non può essere imputata né al condominio, quale ente di sola gestione di beni comuni, né al suo amministratore, quale mandatario dei condomini” (Cass. n. 1674 del 2015). Trova, infine, applicazione l’intera disciplina dell’art. 2051 cod. civ., anche per i limiti alla esclusione della responsabilità del soggetto che ha la custodia del bene da cui è stato provocato il danno.”

Una sentenza lunga e complessa, di grande rilievo interpretativo e di sicura incidenza pratica, di cui è apparso utile riportare ampi stralci ma che non sarà inopportuno che il soggetto che opera professionalmente nel campo del diritto condominiale legga per esteso.

Una sentenza, infine, che contribuisce a dare una ulteriore spallata alla categoria delle obbligazioni propter rem, che la migliore dottrina dell’ultimo decennio e parte della giurisprudenza – con sempre maggior vigore – ritengono avere scarsa cittadinanza nell’edificio in condominio, ove più spesso prevalgono obblighi legati a parametri che prescindono dalla mera titolarità del bene e sono correlati unicamente alla funzione o utilità che lo stesso bene rende ai condomini.

© massimo ginesi maggio  2016

pubblicato su “amministrare immobile” maggio  2016

qui la sentenza per esteso

qui le prime considerazioni

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la nullità della delibera può essere fatta valere anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo

E’ nota la posizione ormai consolidata della giurisprudenza sulla proprietà esclusiva dei balconi aggettanti, da riconoscere in capo ai titolari delle unità cui servono,  laddove gli stessi non abbiano caratteristiche decorative e architettoniche che consentano di qualificarli come elementi costituenti il prospetto architettonico dell’edificio. (Cass. 1156/2015)

Ove i balconi siano di proprietà esclusiva, la decisione in ordine al loro ripristino e alle relative spese è materia che esorbita dalla competenza della assemblea di condominio e da luogo a nullità della delibera. In tal senso si è espressa anche di recente la Suprema Corte  (  Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 1 dicembre 2015 – 12 gennaio 2016, n. 305), la quale ha rilevato che, in tal caso, il vizio radicale può essere fatto valere da chi vi abbia interesse anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo.

Non altrettanto può dirsi del vizio che dia luogo a semplice annullabilità della delibera (tardiva o omessa convocazione, maggioranza insufficiente), di cui il giudice della opposizione non può essere investito e che deve essere fatto tempestivamente valere dall’interessato in autonomo giudizio. (Cassazione civile, sez. II, 12/11/2012, ud. 12/07/2012, n. 19605

Sui rapporti fra giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e vizi delle delibere e sullo spinosissimo tema del c.d. supercondominio e della sua gestione secondo le modalità delineate dall’art. 67 disp.att. cod.civ. si è svolto ieri a Roma un interessante convegno cui hanno partecipato come relatori il dr. Claudio Tedeschi, Giudice presso il Tribunale di Roma, e il dr. Alberto Celeste, noto studioso del diritto condominiale e sostituto procuratore presso la Corte di Cassazione.

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il ricorso in cassazione in tema di accertamento di diritti reali richiede delibera assembleare

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Lo afferma la Cassazione con una pronuncia (Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza interlocutoria 14 aprile – 6 giugno 2016, n. 11566 Presidente Mazzacane – Relatore Falabella) che non si discosta da orientamenti già espressi dalle lezioni unite del 2010.

Osserva la corte che “In via preliminare va esaminata una questione sollevata dai controricorrenti. Essa ha ad oggetto la mancata autorizzazione dell’assemblea condominiale alla proposizione del ricorso per cassazione da parte dell’amministratore del condominio.
L’impugnazione proposta nella presente sede investe la statuizione della corte di merito con cui è stato accertato l’acquisto per usucapione del diritto di proprietà sulla strada privata denominata via (OMISSIS) da parte dei controricorrenti: statuizione resa con riferimento a una domanda dagli stessi proposta nei confronti del Condominio.
Rispetto a tale domanda l’odierno ricorrente ha affermato, nel corso del giudizio, che la strada fosse di sua proprietà: locuzione, questa, che va intesa nel senso dell’appartenenza di essa al novero dei beni comuni oggetto della proprietà indivisa dei condomini.
Va allora fatta applicazione del principio, espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131 2 e 3 co. c.c., può costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione (Cass. S.U. 6 agosto 2010, n. 18331).
Consegue da ciò che va assegnato un termine al Condominio per il deposito dell’atto di ratifica dell’operato dell’amministratore, ovvero della delibera, non presente agli atti, che abbia preventivamente autorizzato la proposizione del ricorso.”

© massimo ginesi 7 luglio 2016 

il mancato esperimento della mediazione travolge anche il decreto ingiuntivo

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Lo afferma il Tribunale di Grosseto con una sentenza recentissima (7 giugno 2016).

Il Tribunale toscano osserva che il D.lgs. 28/2010 prevede che il procedimento monitorio, anche per le materie in cui l’esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità, sia  svincolato dall’obbligo iniziale di integrare detta condizione.

In ambito condominiale, le esigenze di celerità e di corretta amministrazione che costituiscono la ratio dell’art. 63 disp.att. cod.civ., consentono di ottenere decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo (e così l’ingiunto potrà proporre opposizione) senza alcun obbligo preventivo di mediazione, almeno sino alla fase di decisione cautelare sulla sospensione o meno della provvisoria esecutorietà.

Esaurita la fase preliminare ed emanati in sede di opposizione i provvedimenti sulla eventuale sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, la controversia assume una naturale connotazione di procedimento di merito sulla pretesa creditoria avanzata dal condominio che, pur assumendo nel giudizio di opposizione  veste formale di convenuto, rimane l’attore sostanziale del procedimento (ovvero colui che aziona la pretesa creditoria).

L’opponente potrebbe a sua volta, in quella sede, avanzare domande ulteriori che assumono natura riconvenzionale, pur avendo a sua volta veste formale di attore (in opposizione).

L’onere di proporre la mediazione, esaurite le fasi preliminari, incombe dunque all’attore sostanziale e, laddove abbia proposto domanda riconvenzionale, anche all’ingiunto che propone opposizione.

Ove nessuno dei due si attivi, afferma il Tribunale toscano, il giudice dovrà dichiarare l’improcedibilità della domanda (statuizione che chiude il procedimento, ma non incide sull’azione che può essere successivamente  proposta con nuova domanda) e tale sanzione dovrà travolgere sia il giudizio di opposizione che il provvedimento monitorio.

La tesi non è pacifica in giurisprudenza e ha visto, anche di recente, orientamenti opposti ( Tribunale Vasto )

© massimo ginesi 7 luglio 2016 

 

la canna fumaria è manufatto nocivo e pericoloso per presunzione

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Lo afferma la Corte di Cassazione, sez. II Civile (sentenza 10 maggio – 30 giugno 2016, n. 13449
Presidente Bianchini – Relatore Falabella) che rileva che per la costruzione di  condotti di scarico deve osservarsi la distanza prevista negli strumenti urbanistici e che – ove gli stessi nulla dispongano  al riguardo – deve essere adottato ogni accorgimento utile ad evitare di arrecare danno, ivi compreso l’arretramento  a distanza di sicurezza.

Affrontate e risolte numerose questioni processuali, sul punto concreto la Corte afferma  che:

“Quanto alla violazione dell’articolo 890 c.c., esso dispone: “Chi presso il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio, vuole fabbricare forni, camini, magazzini di sale, stalle e simili, o vuol collocare materie umide o esplodenti o in altro modo nocive, ovvero impiantare macchinari, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza”.
La corte territoriale ha evidenziato che, nella specie, non era prevista, dai vigenti strumenti urbanistici, una distanza orizzontale minima tra le canne fumarie e le proprietà aliene.
La costante giurisprudenza di legittimità afferma che il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’articolo 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna fumaria, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima, mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha una presunzione di pericolosità relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che, mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino (per tutte: Cass. 22 ottobre 2009, n. 22389; Cass. 6 marzo 2002, n. 3199).
La corte di merito ha correttamente accertato, quindi, che, alla luce della lacuna contenuta nel regolamento edilizio locale, dovesse essere imposto un arretramento della canna fumaria per scongiurare ogni pericolo per il fondo confinante (la cui concreta esistenza era stata acclarata), assumendo, altresì, che l’installazione di accorgimenti con funzione di separazione risultava del tutto inidonea. A tal fine ha evidenziato che l’installazione di un siffatto dispositivo non poteva considerarsi risolutivo visto che l’art. 890 c.c. presume la pericolosità dei camini anche se tra questi ed il fondo del vicino vi sia un muro divisorio. Proposizione, questa, senz’altro congrua, come tale incensurabile in questa sede.”

© massimo ginesi 6 luglio 2016

se la discoteca nel condominio fa un rumore intollerabile il danno è in re ipsa

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La Cassazione (Cass. Civ. III sezione, 27.6.2016 n. 13208) , con una stringatissima pronuncia, sottolinea un principio di rilievo.

Al primo piano del condominio era posta una discoteca che, per carenza degli accorgimenti insonorizzanti, è risultata superare ampiamente il limite della tollerabilità previsto dall’art. 844 cod.civ. a proposito di immissioni.

Diversi condomini avevano agito in giudizio per vedersi riconosciuto il danno derivante dalla esposizione ai rumori molesti. La Corte di Appello di Milano, accertata la intollerabilità delle immissioni, aveva condannato la società che gestiva la discoteca a risarcire ciascun condomino per l’importo di diecimila euro.

La causa approda in Cassazione, su ricorso della società condannata, che afferma che l’aver accertato l’esistenza di immissioni intollerabili non significa necessariamente aver anche acquisito  la prova del danno conseguente.

LA Suprema corte rigetta il ricorso, affermando che – anche a non voler considerare che i danneggiati  avevano prodotto certificazione medica a sostegno della propria domanda –  il danno da superamento della soglia di tollerabilità delle immissioni può essere presunto e in ciò il Giudice di merito può avvalersi di regole  di comune esperienza, secondo le quali l’esposizione ripetuta e prolungata a rumore e fonti sonore intollerabili è idonea a compromettere l’equilibrio psicofisico del soggetto interessato.

© massimo ginesi 6 luglio 2016 

 

l’appropriazione indebita si perfeziona al passaggio delle consegne

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Se l’amministratore si appropria di somme del condominio può commettere il reato previsto dall’art. 646 cod.pen. Tuttavia il momento consumativo di tale fattispecie non si verifica, in caso di più atti di appropriazione (nel caso concreto l’amministratore si bonificava periodicamente somme dal conto del condominio al proprio conto personale), in occasione di ogni singola condotta ma quando quella condotta diviene irreversibile, manifestando l’agente un atto di signoria sul bene idoneo a far ritenere il provento  acquisito al patrimonio dell’agente.

La Cassazione penale , con una recente sentenza, ha chiarito che è solo al passaggio delle consegne al nuovo amministratore che si cristallizza la volontà dell’agente di non restituire quanto indebitamente trattenuto, a quel momento dunque si deve  intendere perfezionato il reato con ogni conseguenza anche in termine di prescrizione .

Sino a quel momento, invece, i flussi di denaro (seppur sconsigliati alla luce di quanto previsto dall’art. 1129 XII comma n. 4 cod.civ. ) possono trovare ragion d’essere anche in motivi di rilievo non penale, legati alla gestione del condominio: la condotta illecita  si perfeziona “nel momento in cui l’agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato “uti dominus” rispetto alla “res”. Analogamente deve pertanto ritenersi che l’utilizzo delle somme versate nel conto corrente da parte dell’amministratore durante il mandato non profila l’interversione nel possesso che si manifesta e consuma soltanto quando terminato il mandato le giacenze di cassa non vengano trasferite al nuovo amministratore con le dovute conseguenze in tema di decorrenza dei termini di prescrizione. E difatti avendo l’amministratore la detenzione nomine alieno delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera attraverso operazioni in conto corrente, solo al momento della cessazione della carica si può profilare il momento consumativo dell’appropriazione indebita poiché in questo momento rispetto alle somme distratte si profila l’interversione nel possesso”

© massimo ginesi 5 luglio 2016 

DM 140/2014, interrogazione parlamentare sulla formazione degli amministratori

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Le  norme sulla formazione degli amministratori di condominio (introdotte dalla L. 220/2012 che ha aggiunto alle disposizioni di attuazione l’art. 71 bis disp.att. cod.civ. e integrate con  la successiva emanazione del Dm 140/2014 che ha definito i contenuti di  una norma attuativa assolutamente generica)  hanno destato più di una perplessità e molte critiche fra gli operatori del settore.

Di recente, a tal proposito, è stata posta interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia:

“Atto n. 4-05984

Pubblicato il 21 giugno 2016, nella seduta n. 641

BOTTICI , BERTOROTTA , PUGLIA , DONNO , MANGILI , CAPPELLETTI , GIARRUSSO , MORONESE , LEZZI , PAGLINI , SANTANGELO , MONTEVECCHI , TAVERNA – Al Ministro della giustizia. –
Premesso che:
la legge n. 220 del 2012, recante “Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici”, cosiddetta ” riforma del condominio”, ha previsto che gli amministratori, che non siano scelti tra gli stessi condòmini, debbano frequentare annualmente dei corsi di aggiornamento;
il decreto-legge n. 145 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9, ha rimandato per la concreta applicazione della citata previsione all’adozione da parte del Ministero della giustizia di un apposito regolamento;
tale regolamento è stato adottato tramite decreto ministeriale n. 140 del 13 agosto 2014, entrato in vigore il 9 ottobre 2014;
a giudizio degli interroganti, le norme contenute nel suddetto decreto ministeriale appaiono eccessivamente generiche e rispetto ad esse il Ministero della giustizia, ad intermittenza, decide se rispondere o meno alle questioni interpretative sottoposte alla sua attenzione;
considerato che, risulta agli interroganti:
il Dicastero della giustizia avrebbe risposto ad alcuni chiarimenti richiesti da Confedilizia, mentre avrebbe declinato a mezzo Pec (posta elettronica certificata) le richieste pervenute dall’Aduc (Associazione per i diritti degli utenti e consumatori) affermando, a giudizio degli interroganti incredibilmente, che esso non rilascia alcun chiarimento applicativo sul tema in questione;
come avrebbe denunciato la citata associazione dei consumatori, alcuni operatori del settore della formazione professionale degli amministratori condominiali, sfruttando malamente la nota ministeriale, svolgerebbero corsi di formazione contrari ai dettami impartiti dal decreto ministeriale n. 140 del 2014, consentendo di sostenere gli esami in modalità telematica, cosa questa assolutamente vietata dal predetto regolamento, in virtù dell’art. 5 del decreto stesso;
inoltre, a giudizio degli interroganti, l’assenza di controlli e sanzioni rende difficile il rispetto delle norme, nonché la conseguente sanzione da applicare nei confronti di pratiche scorrette e comunque illegittime,
si chiede di sapere se, alla luce dei fatti esposti in premessa, il Ministro in indirizzo intenda intervenire con l’emanazione di linee guida, che chiariscano i principali aspetti problematici derivanti dall’applicazione del decreto ministeriale n. 140 del 2014 o se intenda prevedere modifiche allo stesso, al fine di emendare le lacune e le incertezze contenute e generate dal decreto stesso”.

E’ davvero  è un paese ben strano quello in cui si emana una norma di legge attuativa  che richiede un regolamento ministeriale per essere compresa che, sua volta, richiede delle linee  guida per essere interpretato…

© massimo ginesi 5 luglio 2014

parcheggi condominiali, valgono titolo e legge vigente all’epoca della costruzione

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Gli spazi destinati a parcheggio sono fra i temi di maggior constrasto nella vita condominiale, sia per ciò che attiene alla loro regolamentazione ed utilizzo che per la complessa legislazione che si è succeduta nel tempo, con  riflessi diversi anche sulla loro circolazione quali beni autonomi: Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 27 aprile – 30 giugno 2016, n. 13445 Presidente Migliucci – Relatore Bianchini.

I fatti: “L.E. citò innanzi al Tribunale di Bari la spa N.G.I., dalla quale aveva acquistato un appartamento e le relative parti comuni, nello stabile sito in (omissis) , perché fosse accertato il suo diritto all’utilizzo di uno spazio a parcheggio – alternativamente: a titolo di proprietà; di comproprietà condominiale; quale esplicazione di un diritto di servitù o come diritto reale d’uso di cui all’art. 18 delle legge 765/1967- sito nel seminterrato dell’edificio condominiale; chiese inoltre di esser risarcita dei danni subiti, atteso che la privazione dell’esercizio del diritto a parcheggio l’avrebbe costretta a prendere in affitto apposito spazio. La società convenuta si oppose all’accoglimento della domanda con l’osservare che nella vendita dell’appartamento non veniva fatta menzione del trasferimento di un qualsiasi diritto sullo spazio in questione. “

Le pronunce di merito: “il Tribunale riconobbe in favore della L. il solo diritto reale d’uso richiesto in via subordinata, liquidando anche il danno per la mancata disponibilità dell’area; respinse inoltre la domanda riconvenzionale subordinata, volta al riconoscimento alla venditrice di una integrazione del prezzo. La Corte di Appello di Bari, adita in via principale dalla N.G.I. ed in via incidentale dalla L., statuì non esservi stata una pronuncia ultra petita – in ragione del fatto che il primo giudice aveva riconosciuto in favore dell’attrice un diritto di uso oneroso e non già, come richiesto, a titolo gratuito- richiamando la interpretazione di legittimità sui diritti autodeterminati e sulla conseguente non vincolatività per l’interprete del titolo posto a base della domanda; negò che potesse applicarsi la sopravvenuta legge 246/2005 che stabiliva che gli spazi a parcheggio potessero essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle unità abitative; riconobbe in favore dell’appellante principale il diritto all’integrazione del prezzo di vendita, espressamente richiamando l’esigenza di ristabilire -se del caso, anche d’ufficio- il sinallagma contrattuale; aumentò altresì la stima del valore dello spazio a parcheggio, rispetto a quella formulata dal consulente di ufficio; riformò infine anche il capo di decisione relativo alla quantificazione del danno liquidato L. in quanto ritenne che il riconoscimento del danno emergente – commisurato al canone per la locazione di un parcheggio – non potesse essere aggiunto a quello per il lucro cessante, atteso che la originaria attrice, se avesse avuto tempestivamente la disponibilità del parcheggio, o non avrebbe sopportato le anzidette spese o avrebbe goduto di un reddito per la locazione a terzi dello spazio in questione, non potendo invece trovare realizzazione contemporanea le due ipotesi risarcitorie. Quanto all’appello incidentale – per quello che conserva di interesse in sede di legittimità – la Corte di Appello ritenne applicabile alla fattispecie il regime dettato dall’art. 2 della legge n. 122 del 1989 che stabiliva la inalienabilità degli spazi a parcheggio in modo autonomo rispetto all’unità abitativa alla quale appartenevano, in ciò distinguendosi dalla precedente disciplina – art. 18 della legge 765 del 1967 – così dunque escludendo, tra l’altro, la possibilità che gli spazi in questione potessero rientrare nella previsione di afferenza condominiale secondo quanto disposto dall’art. 1117 cod. civ. – nella formulazione all’epoca vigente – o che, come pure richiesto dall’appellata, potesse alla stessa riconoscersi la piena proprietà o comproprietà sugli stessi spazi.”

La Corte di legittimità cassa con rinvio ad altra sezione della corte di appello osservando che: ” Il primo motivo è fondato, atteso che la legge n. 122/1989 disciplina gli atti di disposizione relativi a spazi a parcheggio realizzati dopo la sua entrata in vigore, mentre nella fattispecie in esame è rimasto accertato che l’edificio in cui era stato ricavato il parcheggio era stato costruito nel 1968 e l’appartamento alienato alla ricorrente aveva formato oggetto di vendita del 7 agosto 1998; la contestata interpretazione avrebbe dunque comportato l’attribuzione di una efficacia retroattiva alla legge – così contravvenendosi al disposto dell’ars 11 delle c.d. preleggi – altresì violando le norme che stabiliscono un nesso pertinenziale tra bene principale e spazio a parcheggio (artt. 26, comma V della legge 47/1985). L’erronea individuazione del referente normativo, in luogo dell’art. 18 della legge n. 765/1967, lascia dunque aperta la possibilità, per il giudice del rinvio, cassata in parte qua la gravata decisione, di una divergente delibazione dell’atto di trasferimento dell’appartamento alla L. , al fine di verificare se la inesistenza di una riserva di proprietà in capo al venditore degli spazi a parcheggio, unita alla considerazione della locazione a terzi dell’intero piano seminterrato, da epoca precedente alla compravendita (per come riportato a fol. 37 del controricorso ed a fol. 5 delle memorie ex art. 378 cpc), consentano il riconoscimento del più ampio diritto di comproprietà ex art. 1117 cod. civ. (v. ex militis Cass. Sez. II n. 11261/2003; Cass. Sez. TI n 730/2008; Cass. Sez. II n. 1214/2012).”

© massimo ginesi 4 luglio 2016

 

art. 1117 cod.civ., per stabilire se il bene è condominiale vale il titolo originario

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Principio consolidato, che la Suprema Corte ( Cass. Civ. II sez.  Sentenza 30 giugno 2016 n. 13450, relatore Scarpa)  declina con grande chiarezza e alcune interessanti precisazioni.

Il nucleo centrale della decisione ha richiardo ad un corridoio conteso dai condomini, in ordine al quale alcuni rivendicano la titolarità esclusiva ed altri ne affermano la condominialità.

Osserva la Corte che “Ora, ai sensi dell’art. 1117, n. 1, cod.civ. , rientrano tra le parti comuni spettanti ai proprietari delle singole unità site nell’edificio condominiale, tra l’altro, le scale, i vestiboli, gli anditi, ovvero comunque tutte le parti necessarie all’uso comune ed essenziali alla funzionalità del fabbricato, e quindi anche gli annessi pianerottoli, passetti, corridoi, pur se posti in concreto al servizio di singole proprietà. Per sottrarre tali beni alla comproprietà dei condomini e dimostrarne l’appartenenza esclusiva al titolare di una porzione esclusiva, è necessario un titolo contrario, contenuto non già nella compravendita o nella donazione delle singole unità immobiliari (come suppone il ricorrente, menzionando gli atti d i cui alle pagine 16 e seguenti di ricorso), bensì nell’atto costitutivo del condominio. Titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità ex art 1117 e.e., infatti, è non l’atto di acquisto del singolo appartamento condominiale, quanto ilnegozio posto in essere da colui o da coloro che hanno costituito il condominio dell’edificio, in quanto tale
negozio, rappresentando la fonte comune dei diritti dei condomini, ne determina l’estensione e le limitazioni reciproche. Pertanto, per accertare se ilcorridoio di accesso ai singoli appartamenti delle parti in lite fosse escluso dalla comunione e riservato in proprietà esclusiva di alcuno o altro dei condomini titolari di essi, ilricorrente avrebbe dovuto decisivamente indicare, piuttosto, quale fosse stato l’atto costitutivo del condominio di via M., di Locorotondo, spettando certamente al proprietario, che rivendichi la proprietà esclusiva di un bene presuntivamente attribuito al condominio, l’onere di dare la prova del proprio diritto individuale sulla res.”

quanto alla pbiettiva destinazione del bene e alla sua attitudine a rendere una utilità comune, è giudizio di fatto rimesso al Giudice di merito: “Costituisce, peraltro, apprezzamento di fatto dei giudici di merito incensurabile in sede di legittimità – ove, come nel caso in esame, risulti pure compiutamente motivato – l’accertamento, in base ad elementi obiettivamente rilevati, che il corridoio serva, per sue caratteristiche strutturali e funzionali, ali’uso comune di più appartamenti, e non sia, piuttosto, destinato, al godimento di una parte soltanto dell’edificio avente accesso da esso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3159 del 14/02/2006; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1498 del 12/02/1998; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1776 del 23/02/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2070 del 22/03/1985; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 673 del 09/03/1972).”

Peraltro tale giudizio di fatto dovrà arrestarsi a fronte di una statuizione del titolo, posto che i criteri previsti dall’art. 1117 cod.civ. – così come espressamente previsto dalla norma – hanno natura sussidiaria e secondaria rispetto al titolo” la presunzione di comunione, tra i condomini di un edificio condominiale, di un bene rientrante tra quelli indicati dall’art. 1117 e.e., può, invero, esser superata se il contrario risulta dal titolo, e non già se la situazione di fatto deponga per la possibilità di ottenere le medesime utilità fornite da quel bene attraverso il godimento di altre parti comuni, comunque strumentali alla medesima porzione esclusiva (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3409 del 22/03/2000). Né parimenti rivelano significato i richiami operati in ricorso all’espletata prova testimoniale sul transito operato in  passato dalla famiglia O. attraverso la porta dell’androne, in quanto l’esclusione, quale titolo contrario ex art. 1117 cod.civ., dal novero delle parti in condominio di alcune che, per presunzione di legge, sono di proprietà comune, incidendo sulla costituzione o modificazione di un diritto reale immobiliare, deve risultare necessariamente da atto scritto.

© massimo ginesi 4 luglio 2016