In assenza di adeguate tabelle millesimali, spetta al Giudice stabilire i criteri di ripartizione delle spese condominiali

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 9 dicembre 2015 – 27 gennaio 2016, n. 1548

Una sentenza non dell’ultima ora, ma che contiene alcuni principi interessanti e vale la pena commentare.

I fatti: il Condominio richiede ed ottiene decreto ingiuntivo sulla scorta di una delibera che approva un rendiconto e l’attribuzione dello stesso per quote ai condomini, pur in assenza di una tabella millesimale legittimamente approvata. A tale decreto propone opposizione il condomino ingiunto, sostenendone  l’illegittima emissione.

La Suprema corte detta alcuni principi essenziali, legati alla prioritaria esigenza di funzionamento della compagine condominiale, all’obbligo di ciascuno di contribuire in forza dei parametri stabiliti dalla legge anche una senza di tabelle, al potere del giudice di stabilire anche d’ufficio e con riferimento alle norme di cui agli artt. 1123 e s.s. cod.civ. l’onere per ciascuno e alla idoneità della sola delibera a consentire l’emissione del provvedimento monitorio.

La motivazione è stringata ma efficace: “Tanto attesa la particolarità della vicenda in esame contrassegnata dalla pacifica assenza di una valida ed approvata tabella millesimale di ripartizione delle spese deliberate dall’assemblea condominiale. Nell’ipotesi la delibera alla cui stregua venivano ripartite le spese (idonea di per sé alla valida emissione dell’opposto D.I.) ben poteva ritenersi non adeguatamente idonea a comprovare nel giudizio di opposizione la pretesa creditoria del Condominio. Tanto in dipendenza dell’accennata inesistenza di valide tabelle eccepita dall’opponente.
In tal caso, tuttavia (e anche al fine di evitare comunque una sorta di esenzione generalizzata del pagamento a carico del debitore) incombeva comunque al Giudice un onere. E tutto ciò alla stregua, anche per effetto del principio di seguito affermato, di una corretta applicazione delle norme invocate con il primo motivo del ricorso in esame.
In particolare vi era un obbligo di verifica dell’esistenza, validità ed efficacia della delibera in conformità del valore delle singole posizioni condominiali anche in assenza tabelle regolari.
Ed, ancora, se la pretesa del Condominio era o meno conforme a criteri di ripartizione. Giova, specificamente e con precipuo riferimento al secondo motivo del ricorso, raffermare il principio già affermato da questa Corte, secondo cui “in tema di riparto di spese condominiali, qualora non possa farsi riferimento ad una tabella millesimale approvata da tutti i condomini, il condomino non può sottrarsi al pagamento della quota, spettando al giudice di stabilire se la pretesa del condominio nei confronti del singolo condomino sia conforme ai criteri di ripartizione che, con riguardo ai valori delle singole quote di proprietà sono stabiliti dalla legge in “subiecta materia”, determinando egli stesso in via incidentale, anche in assenza di specifica richiesta al riguardo, i valori di piano o di porzioni di piano espressi in millesimi” (Cass. civ., Sez. Seconda, Sent. 30 luglio 1992, n. 9107).
L’esposto, condiviso e qui ribadito principio rinviene la sua evidente ratio nella necessità di assicurare comunque le condizioni di corretta continuità gestionale dell’ente condominiale, atteso che – in assenza di una valida approvata tabella ed al cospetto dell’opposizione di un condominio- non potrebbe comunque crearsi e legittimarsi una situazione di totale sottrazione all’obbligo di contribuire alle spese comuni e, quindi, di paralisi del condominio stesso.”

© massimo ginesi giugno 2016

per il mancato godimento da infiltrazioni danno pari al canone di locazione

Lo ha affermato la Cassazione in un recente sentenza   Cass. 10870/2016.

Ove l’uso del bene risulti impossibile a causa delle infiltrazioni, il Condominio potrebbe essere chiamato a rispondere del danno conseguente che il giudice, in applicazione di normali principi interpretativi e di giustizia, può commisurare anche al canone di locazione medio per immobile di analoghe caratteristiche, atteso che fra le modalità di godimento del bene rientra anche quella mediata di concederlo in locazione a terzi.

In tal senso non sussiste preciso e vincolante  onere della prova da parte dell’attore, atteso che rientra fra le facoltà del Giudice effettuare tale valutazione a fronte di un proprietario che non si sia palesemente disinteressato delle sorti del proprio bene.

Nel caso di specie per il danno è poi stata ravvisata una responsabilità  dell’appaltatore, ritenuta sussistente la  garanzia relativa alle  opere da cui era emerso il vizio che provocava le infiltrazioni, a fronte della domanda in tal senso  avanzata dal Condominio.

La Corte ha rimesso ad altra sezione della corte d’appello affinché provveda a statuire nei conforti di tutte le parti in ordine all’entità del dovuto risarcimento.

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ART. 1117 COD.CIV. , l’elisione del bene dal novero delle parti comuni deve risultare dal titolo

Interessante pronuncia della Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 26 gennaio – 22 giugno 2016, n. 12980 ), sulla mai abbastanza chiarita questione della presunzione di condominialità e sulle condotte idonee al suo superamento.

L’originario unico proprietario dell’edificio ben potrà destinare  determinati beni (nella fattispecie alcuni locali destinati a stireria e lavanderia) a svolgere una funzione autonoma e non strumentale all’utilizzo delle altre porzione del fabbricato.

Se tuttavia si vorrà che tale destinazione, che contrasta con la usuale destinazione di tali beni ad una funzione comune, sia opponibile ai condomini una volta che l’edificio – per la cessione a terzi delle unità esclusive – sia divenuto un condominio, tale circostanza dovrà risultare negli atti di acquisto, che rappresentano l’unico titolo idoneo a superare le presunzioni dettate dall’art. 1117 cod.civ. ove già non risulti dalle caratteristiche intrinseche al bene.

Al medesimo risultato non potrà invece pervenire una delibera succesiva, atteso che si tratta di atto dispositivo che ha natura negoziale e che è dunque sottratto al meccanismo deliberativo a maggioranza.

 

Osserva la Corte “In sintesi, la ricorrente deduce l’erroneità dell’accertamento svolto dal giudice d’appello, il quale, pur avendo correttamente indicato l’art. 1117 c. c. quale fonte di una presunzione iuris tantum della destinazione condominiale dei beni indicati al secondo comma della medesima norma, avrebbe indebitamente escluso dal novero degli “atti contrari” idonei a superare tale presunzione l’atto di destinazione unilaterale posto in essere dal proprietario esclusivo di un immobile indiviso, ritenendo invece necessario che tale volontà sia esplicitata nell’ambito del titolo costitutivo del condominio, ossia nel primo negozio di trasferimento delle portoni dell’immobile”.

“La questione riguarda dunque l’idoneità della deliberazione del 9 dicembre 1977 a escludere i locali occupati alla ricorrente dall’insieme dei beni condominiali, dovendosi altrimenti presumere, in virtù dell’aut. 1117, secondo comma, c c. – fondato sul rilievo esperienziale secondo cui determinati beni risultano normalmente connessi da un vincolo di destinatone strumentale alle porzioni di proprietà esclusiva dei singoli condomini – la natura comune degli stessi.”

“Di certo, appare evidente che non può disconoscersi la facoltà dell’unico proprietario dell’immobile di destinare, nell’ambito dell’uso esclusivo dell’edificio, singole frazioni dello stesso a un fine particolare, ma perché tale volontà unilaterale possa imporsi agli eventuali acquirenti delle portoni dello stabile, ossia ai futuri condomini, è necessario che l’elisione del nesso pertinenziale tra la res principale e la res secondaria, laddove non esplicitato in forma chiara nell’atto pubblico di trasferimento, costitutivo del condominio, emerga quantomeno sul piano oggettivo, alla luce dei connotati strutturali o della particolare collocazione del singolo bene la cui natura è controversa.

“Tale principio, frutto di un approccio ermeneutico attento sia alle prerogative del proprietario sia alle esigenze di tutela degli acquirenti delle porzioni condominiali, trova conferma in numerosi precedenti di questa Corte, atti a tracciare un orientamento giurisprudenziale oggi dominante, in base al quale, laddove la genesi di un condominio avvenga mediante il successivo smembramento di una precedente proprietà individuale, la volontà dei contraenti di attribuire in via esclusiva la proprietà di un bene che, per sua struttura e ubicazione, dovrebbe considerarsi comune ai condomini, deve emergere in maniera chiara e trasparente dall’atto bilaterale di trasferimento delle singole frazioni condominiali.

Del resto, in assenza di un esplicita manifestazione della volontà delle parti, all’atto meramente unilaterale dell’originario proprietario non potrebbe riconoscersi alcuna efficacia costitutiva o probatoria, potendosi al più rilevare l’esistenza di circostanze oggettive tali da escludere ragionevolmente la natura condominiale del bene, qualora i connotati strutturali o la collocazione dello stesso rendano evidente, al momento della compravendita, la destinazione nell’interesse esclusivo del proprietario originario o di un numero limitato di condomini (in tal senso, Cass., nn. 26766 del 2014; 3257 del 2004; 16292 del 2002; 11877 del 2002; 2670 del 2001; 5442 del 1999; 9221 del 1994; 9062 del 1994; 6103 del 1993; 3679 del 1987; 1806 dei 1984). Pertanto, guardando alle peculiarità del caso di specie, appare doveroso riconoscere che il giudice di secondo grado ha fatto buona applicazione dei suddetti principi rilevando che le caratteristiche strutturali dei locali contestati ne evidenziano l’obiettiva destinazione condominiale, atteso che il lavatoio e lo stenditoio non appaiono strutturalmente separati dalle altre superfici condominiali, costituendo, peraltro, ricovero per il serbatoio comune dell’acqua e per la comune caldaia. Ne è derivata, pertanto, l’esclusione de/l’assenta proprietà esclusiva della ricorrente, non potendosi la stessa dedurre né dal tenore degli atti di trasferimento succedutisi nel tempo, i quali operano una distinzione ristretta ai soli locali destinati al servizio di portineria, né dalla delibera richiamata, il cui contenuto non ha trovato eco nei negozi traslativi delle singole frazioni condominiali (v. pag. 5 della sentenza impugnata).”

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il creditore pignorante anticipa le spese di condominio straordinarie

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un importante principio espresso da una recentissima sentenza della Suprema Corte (Cass.civ. III sez. 22 giugno 2016 n. 18277)

 “le spese necessarie alla conservazione stessa dell’immobile pignorato e cioè le spese indissolubilmente finalizzate al mantenimento in fisica e giuridica esistenza dell’immobile pignorato (con esclusione quindi delle spese che non abbiano un’immediata funzione conservativa dell’integrità del bene, quali le spese dirette alla manutenzione ordinaria o straordinaria o gli oneri di gestione condominiale) in quanto strumentali al perseguimento del risultato fisiologico della procedura di espropriazione forzata essendo intese a evitarne la chiusura anticipata, sono comprese tra le spese per gli atti necessari al possesso che ai sensi dell’articolo 8 del Dpr 30 maggio 2002 n. 115, il giudice dell’esecuzione può porre in via di anticipazione a carico del creditore procedente. Tali spese dovranno essere rimborsate come spese privilegiate ex articolo 2770 cc al creditore che le abbia corrisposte in via di anticipazione, ottemperando al provvedimento del giudice dell’esecuzione che ne abbia disposto l’onere a suo carico”

Non certo una buona notizia per quei condominii che, avviata l’azione esecutiva contro il condomino inadempiente, si vedranno costretti a gravarsi delle spese in corso di procedura.

E’ pur vero che per le spese straordinarie dovrebbe essere costituito il fondo speciale previsto dall’art. 1135 cod.civ.; è tuttavia  noto che le vicende di tale fondo, a fronte della inopponibilità della sua destinazione a terzi e della pacifica pignorabilità del conto riconosciuta da molti giudici della esecuzione, non sempre e non con matematica certezza garantiscono il condominio da amare sorprese.

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sicurezza ascensori, prosegue l’iter legislativo con qualche stralcio

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REGOLAMENTO SUGLI ASCENSORI E I SUOI COMPONENTI

Regolamento per l’attuazione della direttiva europea sugli ascensori e sui componenti di sicurezza degli stessi (decreto del Presidente della Repubblica – esame preliminare)

Il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Matteo Renzi, del Ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali Giuliano Poletti e del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione Maria Anna Madia, ha deliberato l’approvazione in esame preliminare di un regolamento, da adottarsi con decreto del Presidente della Repubblica, concernente modifiche al decreto del Presidente della Repubblica del 30 aprile 1999, n. 162, per l’attuazione della direttiva 2014/33/Ue relativa agli ascensori e ai componenti di sicurezza degli ascensori, nonché per l’esercizio degli ascensori.

Nello specifico, il provvedimento tiene conto delle innovazioni in materia di accreditamento degli organismi di valutazione della conformità, di vigilanza e controllo del mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti, di principi generali della marcatura CE e di stato compatibile. L’ambito di applicazione della direttiva si estende agli ascensori intesi come prodotti finiti e installati in modo permanente in edifici o costruzioni e ai componenti di sicurezza per ascensori nuovi prodotti da un fabbricante nell’Unione oppure componenti di sicurezza nuovi o usati importati da un paese terzo. La direttiva 2014/33 responsabilizza gli operatori economici per la conformità degli ascensori e dei componenti di sicurezza per ascensori ai requisiti in essa previsti, in modo da garantire un elevato livello di protezione della salute e della sicurezza delle persone e dei beni, nonché una concorrenza leale sul mercato dell’Unione. Nell’interesse della competitività, è quindi fondamentale che gli organismi notificati applichino le procedure di valutazione della conformità senza creare oneri superflui per gli operatori economici.

fonte  presidenza consiglio dei ministri

la responsabilità del direttore dei lavori per vizi di costruzione

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Il Condominio lamenta danni da infiltrazioni e promuove azione nei confronti della ditta costruttrice, la quale costituendosi in giudizio si difende sostenendo che “i danni, ove sussistenti, erano ascrivibili alla esclusiva responsabilità del progettista-direttore dei lavori” e chiedendo di essere autorizzata a chiamarlo in causa.

In primo grado costruttore e direttore vengono ritenuti  solidalmente responsabili e condannati dal Tribunale di Mantova  a risarcire il Condominio per oltre 80.000 euro.

La Corte d’Appello di Brescia ribalta il verdetto, rigettando tutte le domande e  “osservando – per quanto ancora interessa – che il diritto al risarcimento danni nei confronti dell’impresa si era prescritto e che l’assenza di responsabilità (di natura extracontrattuale) del progettista/direttore dei lavori nominato dall’impresa poteva ritenersi sufficientemente accertata in giudizio”

La vicenda approda alla Corte di Cassazione, II sezione civile,  che decide con sentenza 03/05/2016, (ud. 02/03/2016, dep.03/05/2016), n. 8700

La Corte di legittimità censura la decisione di secondo grado, ritenendo che sussista agli atti prova scritta di reiterate interruzioni della prescrizione relativa all’anno previsto dall’art. 1669 per la proposizione dell’azione dopo la denunzia dei vizi, cosicché da quegli atti di interruzione è decorso nuovo periodo annuale a favore del committente che ha poi promosso nei termini il giudizio.

Interessante è  il rilievo circa la responsabilità del soggetto – che nel caso di specie rivestiva la duplice qualifica di progettista e direttore dei lavori –  figure cui non è sempre chiaro quale coinvolgimento estendere nelle liti che riguardano Condominio e appaltatore.

 

Afferma la Corte che il Condominio, nel ricorso in cassazione, “Richiamati i principi di diritto che disciplinano la responsabilità del direttore dei lavori, rileva che dagli accertamenti compiuti dal consulente tecnico erano emersi difetti (mancanza di manto impermeabilizzante sul solaio di copertura, cattiva esecuzione dei pozzetti esterni, intonaco non realizzato con stabilitura di calce aerea, unicità dello strato di tinteggiatura, porosità del calcestruzzo utilizzato per la trave di fondazione, rigonfiamenti dell’intonaco) che non avrebbero potuto sfuggire al direttore dei lavori e che pertanto ne avrebbero giustificato la affermazione di responsabilità per i danni conseguenti.”

Viene riaffermato un consolidato orientamento che qualifica la natura extracontrattuale della  responsabilità ex art. 1669 cod.civ. “Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, configurando l’art. 1669 c.c. una sorta di responsabilità extracontrattuale, analoga a quella aquiliana, nella stessa possono incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore – costruttore del fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, anche tutti quei soggetti, che prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell’opera, abbiano comunque contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o direttore dei lavori), alla determinazione dell’evento dannoso, costituito dall’insorgenza dei vizi in questione (v., tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 17874 del 23/07/2013 Rv. 627344;, Cass. nn. 19868/09, 3406/06, 13158/02, 4900/93).”

Nel caso di specie la Suprema Corte rileva che dagli accertamenti tecnici svolti nei giudizi di merito non è emersa responsabilità per le scelte progettuali e quindi il professionista può andare esente da colpa sotto tale profilo, mentre lo stesso non può dirsi per la sua qualifica di Direttore Lavori: “E’ stato affermato in giurisprudenza che la natura della responsabilità del direttore dei lavori nominato dal committente o dell’appaltatore – da valutare alla stregua della diligentia quam in concreto in relazione alla competenza professionale dallo stesso esigibile – per un fatto dannoso cagionato ad un terzo dall’esecuzione di essi, è di natura extracontrattuale e perciò può concorrere con quella di costoro se le rispettive azioni o omissioni, costituenti autonomi fatti illeciti, hanno contribuito causalmente a produrlo. In relazione poi al direttore dei lavori dell’appaltatore egli risponde del danno derivato al terzo se ha omesso di impartire le opportune direttive per evitarlo e di assicurarsi della loro osservanza, ovvero di manifestare il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle cautele disposte (v. Sez. 3, Sentenza n. 15789 del 22/10/2003 Rv. 567581; Sez. 2, Sentenza n. 11359 del 29/08/2000 Rv. 539873).
Per quanto attiene in particolare al direttore dei lavori dell’appaltatore (ed è il caso che qui interessa) è’ stato altresì precisato che egli risponde del fatto dannoso verificatosi sia se non si è accorto del pericolo, percepibile in base alle norme di perizia e capacità tecnica esigibili nel caso concreto, che sarebbe potuto derivare dall’esecuzione delle opere, sia se ha omesso di impartire le opportune direttive al riguardo nonchè di controllarne l’ottemperanza, al contempo manifestando il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi ed astenendosi dal continuare la propria opera di direttore se non venissero adottate le cautele disposte (v. Sentenza n. 15789/2003 cit. in motivazione)”.

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solo l’esatta ricostruzione esonera dalle norme sulle distanze

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Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 12527/16; depositata il 17 giugno, una sentenza che  ribadisce un principio consolidato. La Corte richiama “il reale insegnamento della giurisprudenza di legittimità, per cui si ha mera ricostruzione, ovvero l’esonero dalle norme vigenti in punto di distanze, “solo se l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro”, altrimenti versandosi nell’ipotesi di nuova costruzione, assoggettata alla normativa vigente”.

La Corte di Appello di Trento aveva ritenuto che il principio dovesse applicarsi solo ad eventuali ampliamenti che interessassero il lato  dell’edificio che prospetta su altri fabbricati, pervenendo ad una interpretazione che il Giudice di legittimità ritiene insostenibile; il giudice di secondo grado si era infatti spinto in una valutazione comparativa: la corte d’appello “ritiene imprescindibile la “disamina della ragion d’essere dei limiti posti dal legislatore alla proprietà in tema di rispetto delle distanze legali”; e quindi asserisce che sarebbe indiscusso che la ratio dell’articolo 873 c.c. “debba esser individuata nell’esigenza non certo della tutela della riservatezza, bensì della salubrità e sicurezza”; ma “se è così” si deve “verificare se rispetto al passato vi sia stata una modifica della sagoma dell’edificio confinante in larghezza ed in altezza, non già alla costruzione confinante astrattamente considerata nella sua unitaria realizzazione, ma solo alla parte di essa che concretamente fronteggia il fabbricato vicino”. E dunque, se l’edificio è stato ricostruito “alla medesima distanza senza ampliamenti della sagoma o dell’altezza rispetto al fabbricato prospiciente del vicino, va ritenuto irrilevante l’eventuale ampliamento e rifacimento realizzato su diversi fronti” come si sarebbe espressa questa Suprema Corte in un risalente arresto (n. 14543/2004). E poiché sia nella c.t.u. di primo grado che in quella d’appello si è “accertato che rispetto al confine ed alla casa degli attori non vi è stato alcun ampliamento della sagoma dell’edificio”, “la sentenza gravata deve essere confermata”.

Il giudizio di legittimità censura tale lettura in modo netto. Qualunque ampliamento dell’edificio comporta che si sia in presenza di nuova costruzione e non di mera ristrutturazione: “A parte che non è logicamente comprensibile come possa definirsi espletata “astrattamente” la considerazione dell’edificio nelle sue globali dimensioni, quel che rileva è, ovviamente, trattandosi di questioni di diritto, non il percorso motivazionale in sé (che suscita una certa perplessità anche laddove afferma di individuare la esclusiva ratio dell’articolo 873 c.c.), bensì il principio applicato. E la giurisprudenza di questa Suprema Corte, come già più sopra osservato, è ormai inequivoca nel senso che la ricostruzione dell’immobile non deve arrecare alcun novum esterno per consentirne l’edificazione ad una distanza difforme da quella stabilita dalla normativa vigente, avendo le stesse Sezioni Unite (nell’ordinanza n. 21578 del 19 ottobre 2011) affermato che, anche alla luce dell’articolo 31, primo comma, lettera d),l. 5 agosto 1978 n. 457, si ha “ristrutturazione” nel caso in cui gli interventi, poiché comportanti modifiche esclusivamente interne, abbiano lasciato inalterati i componenti essenziali dell’edificio, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali e la copertura; e si ha “ricostruzione” quando tali componenti essenziali dell’edificio preesistente siano venuti meno per evento naturale o volontaria demolizione e l’intervento consista nel loro esatto ripristino, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e in particolare senza aumenti della volumetria; ma nel caso in cui tali aumenti sussistano, trattasi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla normativa in tema di distanze vigente al momento dell’edificazione, così ribadendosi quanto insegnato da un ampio orientamento (Cass. sez.2, 26 ottobre 2000 n. 14128; Cass. sez.2, 6 ottobre 2005 n. 19469; Cass. sez.2, 27 aprile 2006 n. 9637; Cass. sez.2, 11 febbraio 2009 n. 3391; Cass. sez.2, 27 ottobre 2009 n. 22688) e anche da ultimo rimarcato (Cass. sez.2, 20 agosto 2015 n. 17043).
Non è pertanto sostenibile, in quanto confliggente con il suddetto insegnamento – contro il quale, d’altronde, la corte territoriale non adduce alcuna valida argomentazione ermeneutica se in grado inficiarlo -, che nel caso di specie, nel quale è indiscutibile, per quanto emerge dalle consulenze, che sia stato effettuato un ampliamento volumetrico, l’edificio sia svincolato dalla normativa vigente sulle distanze, non potendosi qualificarlo né ristrutturazione né ricostruzione, bensì nuova costruzione.”

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il committente che non verifica l’idoneità dell’appaltatore risponde di omicidio colposo

E’ obbligo del committente accertarsi che l’impresa scelta per i lavori abbia i requisiti di idoneità richiesti per lo svolgimento dell’opera che gli viene affidata e che in cantiere vengano rispettate le norme minime di sicurezza, poiché ove così non sia e accada un infortunio mortale di tale evento sarà chiamato a risponderà anche chi ha commissionato l’opera.

Lo ha ribadito la Cassazione penale, con una lunga ed articolata disamina, nella sentenza 263/2016 della quarta sezione penale depositata in data 1.6.2016.

La pronuncia compie una accurata disamina degli obblighi del committente, con riferimento al principio della culpa in eligendo e della cupola in vigilando e merita attenta lettura anche da parte dell’amministratore di Condominio che, con frequenza, può trovarsi ad impersonare quel ruolo che implica ben precise responsabilità  anche sotto il profilo penale.

Osserva in particolare  la corte che, ai fini della responsabilità,   “rilevanti devono considerarsi i criteri seguiti dal committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera (quale soggetto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge e della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa); fondamentale è poi l’accertamento di situazioni di pericolo così evidenti e macroscopiche da non poter essere ignorate da un committente sovente presente in cantiere”.

Il giudice di legittimità sottolinea che “Sul punto, deve rilevarsi che l’art. 3, co. 1, d. lgs. 495/96 richiama il committente a d attenersi ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’art. 3 del d. lgs. 6 26/ 94 e che, parallelamente, il comma 9 lett. a) dell’art. 90 citato prevede, in a dempimento dell’obbligo di verifica da parte del committente, la presentazione, da parte del datore di lavoro, del certificato d’iscrizione alla Ca mera di commercio, industria e artigia nato e del documento unico di regolarità contributiva, corredato però dalla autocertificazione sul possesso degli altri requisiti di cui all’allegato X VII.
Il citato allegato riguarda, per l’appunto, l’idoneità tecnico professiona le dell’impresa e contiene un espresso richiamo alla documenta zione minima che il datore di lavoro deve esibire al committente o al responsabile dei lavori, ove nominato. Vi figurano, oltre alla iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, anche il il documento di valutazione dei rischi (lett. b), la specifica documentazione attesta nte la conformità alle disposizioni di cui al decreto dispositivi di protezione individuali forniti ai lavora tori (lett. d), la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e delle altre figure preposte alla prevenzione dei rischi nel cantiere ( lett. e), gli attestati inerenti la formazione (lett. g), oltre all’elenco dei lavora tori e al documento unico di regolarità contributiva (lett. h e i).”

Anche in presenza di opere che non comportano l’obbligo di nomina di soggetti responsabili per la sicurezza, al committente rimane un obbligo di vigilanza sia in sede di scelta dell’impresa che durante l’esecuzione delle opere: la responsabilità va individuata “sia con riferimento alla scelta della ditta appaltatrice, tenuto conto degli obblighi di verifica imposti dall’art. 3 co. 8 del d lgs. 494/96, che sulla scorta dell’omesso controllo dell’adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro, nel caso di specie totalmente omesse. Tali misure non devono essere approntate dal committente, rientrando certamente nel novero degli obblighi propri del datore di lavoro, ma la loro concreta adozione da parte di costui deve essere verificata e, in caso di accertata omissione, pretesa dal committente.”

Importante il passaggio in cui la Corte sottolinea la rilevanza causale della condotta del committente nella verificazione dell’evento: “La riscontrata inadeguatezza dimensionale dell’impresa con impiego di lavoratori \ irregolari, a fronte della entità e tipologia dell’opera in esecuzione, in uno con le macroscopiche irregolarità del cantiere, palesemente ed immediatamente evidenti, ) imponevano l’esercizio dei poteri di inibizione propri del committente, la cui attivazione avrebbe pertanto scongiurato l’evento verificatosi proprio a causa di tali inadeguatezze ed inadempienze. “

Suona strano sottolinearlo nell’anno 2016, ma nel caso di specie si trattava di lavori edili eseguiti in maniera  del tutto garibaldina da parte di un appaltatore che utilizzava lavoratori “in nero” e senza alcuna protezione in lavorazioni in quota, circostanza che – da sola – è idonea ad evidenziare profili in cui l’amministratore professionista non dovrebbe mai trovarsi, senza necessità dell’analisi giurisprudenziale.

Tuttavia i principi generali espressi dalla Corte si rivelano di grande interesse al fine di  comprendere con chiarezza gli obblighi e le responsabilità connesse ad un ruolo di grande delicatezza.

© massimo ginesi giugno 2013

se l’amministratore non indica il compenso, la delibera di nomina è nulla

Lo ha stabilito, seppure solo in sede di delibazione  sommaria legata alla sospensione cautelare della efficacia della delibera, il Tribunale di Roma con    ordinanza 15 giugno 2016 .

Il Giudice ha applicato in maniera  rigorosa quanto disposto dall’art. 1129 XIV comma cod.civ. che, a seguito della novella introdotta dalla L. 220/2012, ha previsto la radicale nullità della nomina ove il compenso non venga specificamente dettagliato.

Il Tribunale, chiamato a decidere sulla impugnativa  di una delibera di nomina dell’amministratore con la quale l’assemblea  aveva provveduto ad affidare l’incarico al professionista senza che fosse indicato il compenso, ha ritenuto sin da tutto principio di disporne  la sospensione della efficacia,   osservando  che – seppure ai limitati fini del provvedimento cautelare – sussistesse il fumus dell’azione, non rilevando che fosse noto il compenso dell’anno precedente, atteso che lo stesso può variare e la sua mancata indicazione è espressamente sanzionata con la nullità dalla norma.

© massimo ginesi giugno 2016

nel giudizio di divisione spetta al giudice stabilire cosa tocca a ciascuno

Una articolata sentenza della Suprema Corte (CAss. civ. Sez. II 12482/2016) fa il punto sulla divisione giudiziale di un compendio immobiliare e ribadisce il potere del Giudice di stabilire, con adeguata motivazione, le modalità di formazione dei lotti – che possono anche avere natura disomogenea – onde soddisfare al meglio il diritto di ciascun condividente.

La vicenda origina in terra ligure (Sestri Levante) sino ad arrivare al Palazzaccio.

Afferma la Suprema Corte che “il contenuto del diritto dei condividendi ad una porzione di beni immobili comuni, qualitativamente omogenea all’intero, consiste nella proporzionale divisione degli immobili considerati nel genere e non in un frazionamento quotistico delle singole entità immobiliari (fabbricati, terreni, ecc.) comprese nella massa da dividere, sicchè non è sindacabile in sede di legittimità la decisione con cui il giudice di merito abbia ritenuto che taluni dei beni immobili oggetto di comunione possano essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sebbene aventi caratteristiche diverse, invece ad altra quota, stimando comunque omogenee tra loro le quote stesse quanto al valore dei singoli cespiti, come attestato dall’esiguità dei conguagli, in relazione al valore dell’intero asse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27405 del 06/12/2013). Pertanto, nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, spetta al giudice del merito accertare se il diritto del condividente ad una porzione in natura dei beni in comunione sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio”

© massimo ginesi giugno 2016 

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