La materia condominiale è sottoposta, ex art 5 D.lgs 28/2010 a mediazione obbligatoria, sì che colui che agisce in giudizio dovrà procedere al preliminare esperimento della mediazione a condizione di improcedibilità dell’azione.
Tuttavia la materia richiede una lettura isprirata a criteri di ragionevolezza, onde non pregiudicare diritti costituzionalmente garantiti, fra i quali certamente rientra quello di difesa.
Il Tribunale di Savona con sentenza 19 Ottobre 2018 Est. Pelosi sottolinea come non possa darsi luogo ad una applicazione rigida della discplina; l’unico adempimento necessario al fine di evitare l’improcedibilità deve dunque riteenrsi il deposito della relativa istanza presso organismo abiliatato.
La pronuncia si pone meritoriamente in contrasto con quella giurisprudenza che addirittuva ricconnette alla mancata presenza personale della parte l’improcedibilità dell’azione.
“L’obbligatorietà della mediazione in materia condominiale è prevista dall’art. 5 del Dlgs 28/10 e dall’art. 71 quater disp. att. c.c.
Al riguardo, l’art. 5, co. 1-bis prevede: “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio … è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto …L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.
Si pone il problema di identificare qual è l’adempimento richiesto perché il procedimento di mediazione possa dirsi esperito.
Sul punto, il co. 2 bis del medesimo art. 5 precisa che “Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.
La giurisprudenza maggioritaria (si vedano, tra gli altri, Corte d’Appello di Milano, sentenza 10 maggio 2017 in Leggi d’Italia; Corte d’Appello di Ancona, sentenza 23 maggio 2018 in www.mondoadr.it; Tribunale di Pavia, sez. III, sentenza 20 gennaio 2017 e Trib. di Roma, Ord., 26 ottobre 2015, n. 100801 in Leggi d’Italia; Trib. Vasto, 9 marzo 2015, in Giur. it., 2015, 1885; Trib. Firenze, 26 novembre 2014, in Riv. dir. proc., 2015, 558; Trib. Firenze, 19 marzo 2014, in Plurisonline – Giurisprudenza di merito) ha sostenuto che, perché la mediazione possa dirsi esperita, è necessario dar vita ad un tentativo di conciliazione effettivo.
Ciò presuppone, in primis, la presenza fisica delle parti al primo incontro fissato dal mediatore. Qualora ciò non avvenga, la domanda dovrà essere dichiarata improcedibile.
Sul piano letterale, si dice, il co. 2 bis dell’art. 5 del Dlgs 28/10 richiede, perché la condizione di procedibilità possa dirsi avverata, che “il primo incontro” si concluda “senza accordo”.
Tale incontro è disciplinato dall’art. 8 che prevede, tra l’altro, che ad esso “le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”.
La condizione di procedibilità, quindi, può dirsi realizzata solo quando le parti (a ciò giuridicamente tenute) si sono materialmente incontrate davanti ad un mediatore.
Sul piano teleologico, invece, si richiama la ratio dell’istituto: se bastasse, la sola presentazione della domanda all’organismo di mediazione e non fosse necessaria la presenza delle parti medesime, la mediazione non potrebbe mai realizzare il suo fine, che consiste nel creare le condizioni perché si riattivi la comunicazione tra i litiganti, al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto. In sostanza, basterebbe adempiere solo formalmente all’obbligo della mediazione, presentando la domanda ma senza usufruire in concreto delle potenzialità dell’istituto, per svuotarlo completamente di ogni significato. Ecco allora che il legislatore, per evitare che ciò si verifichi, ha fatto ricorso ad un incentivo forte: l’improcedibilità della domanda.
Tuttavia, tale conclusione non convince, in quanto sembra fondarsi più su argomenti de jure condendo che non su argomenti de jure condito.
La tesi criticata non considera che ogni ostacolo frapposto alla piena esplicazione del diritto all’azione tutelato dalla Costituzione deve considerarsi eccezionale.
Con riferimento ad ipotesi di giurisdizione condizionata, qual è quella in esame, la giurisprudenza ha affermato il “principio, espresso anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga alla disciplina generale, devono essere interpretate in senso non estensivo” (Corte Cost. 403/07; Cass. 967/04) e, anzi, “devono essere interpretate in senso restrittivo” (Cass. 26560/2014), “dovendo limitarsene l’operatività ai soli casi nei quali il rigore estremo è davvero giustificato” (Cass. 6130/2011).
La Cassazione ha, poi, precisato che “l’improcedibilità, quale conseguenza sanzionatoria di un comportamento procedurale omissivo, derivante dal mancato compimento di un atto espressamente configurato come necessario nella sequenza procedimentale”“dev’essere espressamente prevista, non potendo procedersi ad applicazione analogica in materia sanzionatoria, attese le gravi conseguenze del rilievo dell’improcedibilità”, ragion per cui l’improcedibilità non può operare in difetto di espressa previsione legislativa (Cass. 20975/17) che, nel caso di specie, manca.
Infatti, l’ipotesi di mancata partecipazione delle parti al procedimento di mediazione è disciplinata da una norma specifica: l’art. 8, co. 4 bis, Dlgs 28/10 che prevede, come conseguenza dell’assenza delle parti, l’applicazione di una sanzione pecuniaria e la rilevanza di tale comportamento ex art. 116 c.p.c.
Nulla viene detto, invece, in ordine all’improcedibilità dell’azione. O meglio: qualcosa, sul punto, implicitamente la norma dice. Si prevede, infatti, che la mancata partecipazione al procedimento di mediazione è valutabile ex art. 116 c.p.c. Questo significa che, se la parte non partecipa alla mediazione, il processo andrà avanti e dovrà concludersi con una pronuncia di merito, nell’ambito del quale l’assenza dell’attore o del convenuto sarà valutabile come argomento di prova contro l’assente.
Non è neppure sostenibile che le sanzioni di cui all’art. 8 si cumulino con quella dell’improcedibilità.
Infatti, la norma non distingue a seconda che sia assente l’attore o il convenuto.
Questo significa che la sola assenza del convenuto (e, quindi, il mancato incontro di cui agli artt. 5, co. 2 bis ed 8) dovrebbe comportare il mancato realizzarsi della condizione di procedibilità.
Ma è impensabile che il convenuto possa, con la propria colpevole o volontaria inerzia, addirittura beneficiare delle conseguenze favorevoli di una declaratoria di improcedibilità della domanda, che paralizzerebbe la disamina nel merito delle pretese avanzate contro di sé o possa, comunque, rallentare l’andamento del processo per almeno 3 mesi.
Né può ritenersi che solo l’attore dovrebbe presenziare all’incontro di mediazione.
Tale soluzione non è sostenibile, in primo luogo, in quanto nessuna norma distingue la posizione dell’attore da quella del convenuto ai fini della mediazione, per cui sarebbe arbitrario ritenere sussistere un obbligo solo per tale parte. L’art. 8, co. 1, è chiaro nell’affermare che entrambe le parti “devono partecipare” al primo incontro, per cui non c’è alcuna ragione per sanzionare l’inosservanza dell’una o dell’altra in modo diverso. Una soluzione diversa determinerebbe, infatti, una disparità di trattamento tra la parte che ha interesse alla realizzazione della condizione di procedibilità e le sue controparti, perché sola la prima è esposta alla grave sanzione processuale ipotizzata (sul punto, Trib. Verona Ord. 11 maggio 2017, n. 1626 in www.altalex.com).
In secondo luogo, non solo non c’è alcun dato normativo a differenziare la disciplina dell’assenza dell’attore da quella del convenuto, ma non c’è neppure alcuna valida ragione perché ciò avvenga. L’attore ed il convenuto, di fronte al mediatore, perdono il loro ruolo processuale: non c’è più un soggetto che si afferma titolare di un diritto ed un convenuto indicato come gravato, invece, da un corrispondente dovere, come nel processo. Con la mediazione “scompaiono” i diritti e fanno ingresso gli interessi, originariamente confliggenti e che, per effetto della mediazione, sono destinati a divenire convergenti: entrambi i contendenti devono impegnarsi a porre fine ad una controversia tra loro esistente, collaborando, a tal fine, in modo soddisfacente e sfruttando le opportunità offerte dalla mediazione, evitando i costi economici ed umani del giudizio.
Neppure può sostenersi che l’improcedibilità è prevista dall’art. 5 del Dlgs 28/10 laddove precisa che la condizione di procedibilità è avverata quando il primo incontro si conclude senza accordo.
Infatti, il legislatore ha semplicemente descritto quello che il legislatore ha pensato poter essere lo sviluppo della procedura. Ciò che interessa al legislatore, perché si realizzi la condizione di procedibilità è che, nel primo incontro, le parti si esprimano sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione, come si evince dall’art. 8 che prevede che, nel corso di tale incontro, “il mediatore invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione”.
Accertata tale impossibilità, il processo deve andare avanti. Con l’assenza, la parte ed il suo avvocato danno una risposta chiara alla possibile prosecuzione del procedimento: la mancata partecipazione è espressione inconfutabile di mancanza di volontà di iniziare la mediazione.
Del resto, se l’ordinamento riconosce il diritto a non partecipare al processo restando contumace, senza che ciò abbia alcuna diretta conseguenza sul piano processuale, in modo analogo deve essere riconosciuto il diritto a non aderire al procedimento di mediazione, in un sistema, quale il nostro, retto dal principio dispositivo e dal diritto costituzionale all’azione in giudizio. Ciò è tanto più vero ove si consideri la contraddittorietà intrinseca nel voler costringere le parti alla mediazione ed alla conciliazione.
Non è, poi, vero quanto sostenuto dall’orientamento qui criticato, secondo cui, se l’assenza della parte non comportasse la sanzione dell’improcedibilità e fosse sufficiente solo la presentazione della domanda alla mediazione, l’istituto sarebbe svuotato di ogni sua utilità. A parte il fatto che, comunque, la presenza fisica della parte non garantisce un impegno effettivo a conciliare la lite, comunque, si osserva che il Dlgs 28/10 istituisce una gerarchia fra le varie fattispecie sanzionatorie, al cui vertice si pone l’improcedibilità dell’azione, da dichiararsi unicamente nei casi più gravi; in posizione mediana, si pongono la condanna pecuniaria ed il potere giudiziale di desumere argomenti di prova di cui all’art. 8; infine, nel caso in cui le parti abbiano partecipato alla mediazione, senza, però, sfruttare immotivatamente l’occasione offerta di una conciliazione, la conseguenza sanzionatoria è la condanna alle spese legali ex art. 13. Da tale quadro emerge che la pacifica affermazione secondo cui le parti hanno l’obbligo di presenziare all’incontro di mediazione non comporta automaticamente che l’inosservanza sia punita con l’improcedibilità.
Infatti, il legislatore ha, comunque, previsto uno stimolo per le parti a presenziare all’incontro di mediazione: l’assenza viene punita con una pena pecuniaria (il pagamento di un importo pari al contributo unificato) e con una pena processuale (applicazione dell’art. 116 c.p.c.), secondo quanto previsto dall’art. 8.
Qualora tali rimedi si rivelino non adeguati, sarà compito del legislatore porvi rimedio.
A questo, deve aggiungersi che l’art. 6 prevede che il procedimento di mediazione non possa avere una durata superiore a 3 mesi. Trascorso tale lasso di tempo, quindi, il processo può proseguire verso la definizione nel merito; in questo caso, quindi, la condizione di procedibilità può dirsi realizzata, pur in assenza dell’incontro di cui all’art. 8 del Dlgs 28/10 che, in ipotesi, potrebbe non intervenire prima della sentenza conclusiva.
Ciò che, invece, non manca mai, perché il processo possa proseguire, è la proposizione della domanda ex art. 4.
A ciò va aggiunto che tale conclusione trova supporto anche da un confronto tra l’istituto in esame e l’altro istituto “fratello”: la convenzione assistita. L’art. 3 del Dlgs 132/14, disciplinando l’invito obbligatorio alla stipula di una “convenzione di negoziazione assistita” dagli avvocati, fra le parti di una controversia rientrante nel novero di quelle assoggettate a tale (nuova) ipotesi di improcedibilità della domanda giudiziale, stabilisce, al comma 2°, che “Quando l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se l’invito non è seguito da adesione, è seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione, ovvero quando è decorso il periodo di tempo di cui all’articolo 2, comma 2, lettera a)”: eventi, tutti, innegabilmente riconducibili – espressamente o implicitamente (nel caso di mancata adesione o di infruttuoso decorso del termine) – alla mera volontà negativa delle parti in lite alla negoziazione.
L’assenza della parte, quand’anche sia attrice, all’incontro di mediazione disposto ex art. 5 Dlgs 28/10, è, quindi, sì punita dal Dlgs 28/10, ma non con l’improcedibilità, bensì con le sanzioni di cui all’art. 8.
In conclusione, deve ritenersi che l’unico adempimento richiesto ai fini della procedibilità della domanda è il deposito della domanda di mediazione presso l’organismo deputato.”
© massimo ginesi 17 dicembre 2018