canna fumaria in facciata: la cassazione ribadisce principi ormai consolidati

Cass.Civ. sez.II ord. 23 novembre 2018 n. 30462  ribadisce alcuni dati ormai acquisiti in tema di decoro architettonico e di pari utilizzo del bene comune ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. : “La Corte distrettuale ha ordinato la rimozione della canna fumaria, ritenendo che essa costituisse costruzione ai sensi della normativa sulle distanze legali (e segnatamente dell’art. 907 c.c.) e che ledesse il decoro architettonico dell’edificio, poiché, per i materiali da cui era composta, per le sue dimensioni e per la sua innegabile evidenza, non si inseriva nell’aspetto armonico della facciata, producendo un “risultato esteticamente sgradevole” (cfr. sentenza pag. 10 e 11).

Pur considerando che l’opera era stata impiantata su un prospetto secondario del fabbricato, ha però stabilito che ne alterava la sagoma modificando l’aspetto del muro condominiale in violazione dell’art. 1120 c.c., essendo inoltre in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico locale, che vietava l’apposizione di canne fumarie esterne alle murature.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale sostanzia una modifica della cosa comune conforme alla sua destinazione, che ciascun condomino – pertanto – può apportare a sue cure e spese, ma a condizione che non impedisca l’uso paritario delle parti comuni, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico, ipotesi – quest’ultima – che si verifica non già quando si mutano le originali linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme dell’aspetto armonico dello stabile (Cass. 17072/2015; Cass. 18350/2013; Cass. 6341/2000).

Non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano pregiudicate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità (Cass. 10350/2011; Cass. 14455/2009; Cass. 8830/2008; Cass. 27551/2005; Cass. 6496/1995).

Non esclude l’illegittimità dell’opera il fatto che essa sia stata apposta su una parete retrostante o in modo non visibile dalla strada principale, venendo in rilievo la violazione oggettiva dell’estetica del fabbricato data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile e gli imprimono una determinata fisionomia ed una specifica identità, mentre il rilievo da attribuire al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell’edificio, muta da caso a caso, e non esclude di per sé la violazione, configurabile anche riguardo ad opere interne al fabbricato, fermo che il relativo apprezzamento è rimesso al giudice di merito ed è sindacabile solo per vizi di motivazione (Cass. 1718/2016; Cass. 851/2007; Cass. 10350/2011).

Infine, la circostanza che l’opera fosse stata autorizzata dall’amministrazione comunale non ne impediva la demolizione, poiché la regolarità dell’opera da punto di vista urbanistico non poteva incidere negativamente sui diritti degli altri condomini (Cass. 20985/2014; Cass. 1936/1977).

Non sussistendo quindi la denunciata violazione di legge e risultando l’opera comunque illegittima riguardo alla lesione del decoro architettonico, è superfluo stabilire se potesse operare in ambito condominiale la disciplina di cui all’artt. 907 c.c., così come ritenuto dalla decisione impugnata, non potendone comunque conseguire la cassazione di detta pronuncia.”

© Massimo Ginesi 28 novembre 2018 

una discutibile pronuncia di legittimità sul pari uso della cosa comune

Un’ordinanza  con cui la corte di cassazione (Cass.Civ. sez.II 5 novembre 2018 n. 28111), respingendo in rito un ricorso poiché illecitamente volta la riesame nel merito delle statuizioni di secondo grado,  induce ad  una poco condivisibile lettura dell’art. 1102 cod.civ.

Un condomino installa un serbatoio dell’acqua in un ripostiglio  condominiale, iniziativa che di fatto impedisce agli altri condomini un utilizzo analogo del bene comune: tuttavia tale condotta  viene ritenuta legittima, sull’assunto che il diritto al pari uso degli altri condomini debba ritenersi  tale in concreto e non in senso potenziale.

una simile lettura finisce per legittimare una sorta di criterio della prevenzione nell’utilizzo dei beni comuni,  che rischia di essere poco compatibile con un sereno svolgimento della vita comune e che finisce per estendere il contenuto dell’art. 1102 cod.civ. ad utilizzi sino a pochi anni fa ritenuti illeciti se non adottati con il consenso di tutti gli aventi diritto (ad esempio in tema di terrazze a tasca)

 

Osserva la corte che

“a) l’uso paritetico della cosa comune, che va tutelato, deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell’utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa, e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta essi ne potrebbero fare (ex multis, Sez. 2, n. 4617, 27/2/2007, Rv. 597449);
b) fermo restando che l’uso condominiale del piccolo locale, destinato a ripostiglio, sulla base di quanto accertato in sentenza, non era stato in alcun modo inciso dalla collocazione sospesa del serbatoio, è rimasto del pari accertato che la ricorrente, come, peraltro, gli altri condomini, non avevano alcuna attuale necessità di collocare un proprio serbatoio, impedito dalla installazione del D. , di talché gli apprezzamenti tecnici in ordine alla possibilità o meno di far luogo alla collocazione di altri serbatoi non assume rilievo;
c) più in generale, il ricorso non coglie la ratio decidendi: l’uso paritetico deve essere valutato in concreto e non in astratto e da una tale analisi emergeva che né la ricorrente, né, peraltro, altri condomini presentavano una tale esigenza”

© massimo ginesi 7 novembre 2018

l’apertura nel muro condominiale che consente a terzi il passaggio è illecita ed esula dalle previsione dell’art. 1102 cod.civ.

Ormai da tempo la Corte di legittimità ha chiarito come, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.,  sia  consentito un uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche per trarne utilità esclusive, e che a tale uso possa essere anche manifestarsi nell’apertura di ulteriori varchi su muri perimetrali per accedere dalla parte comune alla proprietà esclusiva, sempre fatti salvi i limiti previsti dalla norma (decoro, statica e diritti degli altri condomini).

Allo stesso modo la Cassazione afferma con costanza che ove tale apertura sia volta a mettere in comunicazione la parte comune con una unità estranea al condominio, seppur di proprietà del singolo condomino, si tratta invece di uso non consentito in quanto idoneo a creare una servitù sul bene comune a favore di un fondo terzo, sì che la fattispecie non può essere ricondotta all’art. 1102 cod.civ.

Cass.Civ. sez.II ord. 2 ottobre 2018 23858  ribadisce tale orientamento, seppur in una fattispecie particolare in cui il diritto di passo era comunque destinato ad essere fruito da terzi estranei al condominio.

Alcuni condomini si erano dunque attivati dinanzi al Tribunale di Venezia contro gli autori della nuova apertura: deducendo che costoro avevano trasformato senza il consenso di tutti i condomini una finestra esistente sul muro perimetrale dello stabile condominiale in una porta, mettendo in tal modo in comunicazione un locale destinato a bar con altro spazio esterno di proprietà dei medesimi convenuti.
Ad avviso degli attori, in tal modo era stata realizzata un’opera illegittima idonea a costituire una servitù a carico del bene comune a tutti i condomini”

Gli esiti di merito erano stati contrastanti: il Tribunale respingeva la domanda ritenendo che gli attori non avessero adeguatamente dimostrato che l’area scoperta non facesse parte dello stesso condominio.
Interponevano appello gli attori in prime cure e la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata n. 2534/2013, riformava la prima sentenza ritenendo che la trasformazione della finestra in porta alterasse la destinazione e la funzione dell’apertura e costituisse evento idoneo a costituire una nuova servitù a carico del condominio. Riteneva inoltre che l’intervento costituisse una possibile via di accesso di terzi estranei, avventori del bar, agli spazi condominiali, attraverso l’area esterna ed il bar degli appellati.”

La corte di legittimità, adita dai soccombenti in appello, ha così statuito: “Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art.1102 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché il vizio della motivazione, perché la Corte di Appello avrebbe configurato un uso abnorme del bene comune, rappresentato dal muro di cinta, sul presupposto che una delle due proprietà dei ricorrenti (in particolare, lo spazio aperto) non fosse compreso nello stesso condominio del quale faceva parte il locale ad uso commerciale, mentre avrebbe dovuto piuttosto ritenere i due beni compresi nel medesimo condominio e configurare pertanto un uso più intenso della cosa comune, ammesso dall’art. 1102 c.c.. Inoltre, i ricorrenti deducono che l’apertura da loro praticata non sarebbe idonea a costituire una nuova servitù a carico del condominio, da un lato poiché il possesso del diritto non poteva essere esercitato dal gestore del bar e dai suoi avventori, e dall’altro lato perché l’uso più intenso della cosa comune ammesso dall’art. 1102 c.c. non si riferirebbe necessariamente al solo proprietario del bene, ma riguarderebbe anche i terzi utilizzatori autorizzati dal proprietario medesimo.

Le due censure, che vanno esaminate congiuntamente poiché tra loro connesse, sono infondate.

Contrariamente a quanto ritenuto dai ricorrenti, infatti, la questione della ricomprensione o meno nel medesimo condominio delle due proprietà poste in comunicazione tra loro ha costituito oggetto del giudizio di secondo grado, come si evince dalla lettura del fatto contenuta a pag. 4 della sentenza impugnata. Anche dall’esame dell’atto di impugnazione, del resto, emerge che gli appellanti avevano lamentato proprio che gli odierni ricorrenti, mediante la trasformazione della finestra in porta, avessero creato una servitù di passaggio a favore di terzi estranei al condominio, con ciò evidentemente sottointendendo l’estraneità di una delle due proprietà poste in comunicazione dalla predetta apertura alla compagine condominiale in cui ricadeva invece l’altra.

Non essendosi formato quindi alcun giudicato interno sull’appartenenza o meno delle due proprietà di cui è causa allo stesso condominio, la Corte di Appello ha correttamente statuito sul punto, ritenendo – all’esito di un giudizio di fatto non utilmente censurabile in questa sede – che nel caso di specie una delle due predette proprietà fosse estranea al condominio e che quindi la nuova apertura praticata dagli odierni ricorrenti nel muro perimetrale dello stabile costituisse uso non consentito del bene comune, idoneo tra l’altro a costituire una nuova servitù a carico del condominio.

Né assume alcun rilievo, al riguardo, il fatto che il locale commerciale dei ricorrenti, posto certamente all’interno del condominio, sia stato concesso in locazione a terzi, giacché il titolo legittimante la detenzione in capo a costoro è soltanto idoneo ad escludere il loro diritto di possedere la servitù di passaggio ad usucapionem nei confronti degli odierni ricorrenti, proprietari del bene locato, ma non impedisce in termini assoluti la possibilità di questi ultimi di usucapire il predetto diritto di passaggio, anche per effetto del possesso mediato, nei confronti del condominio, né vale comunque a rendere lecita una condotta oggettivamente risolventesi in un uso abnorme e non autorizzato del bene comune.

Del pari irrilevante è la deduzione secondo cui l’uso più intenso della cosa comune non postula l’utilizzazione esclusiva della stessa da parte del solo condomino, ma ammette anche un uso da parte di terzi, autorizzati dal primo, posto che quel che rileva, nel caso di specie, è in ultima analisi la natura illecita dell’utilizzazione, che rende superflua qualsiasi considerazione relativa alla sua effettiva estensione, oggettiva o soggettiva.”

© massimo ginesi 4 ottobre 2018 

cortile comune: l’utilizzo per il transito verso beni individuali è espressione di (com)proprietà e non di servitù.

Una nitida ordinanza di legittimità (Cass.Civ. sez.II 24 luglio 2018 n. 19550 rel. Scarpa)  richiama i principi cardine in tema di (com)proprietà e uso del bene comune, al fine di valutare la correttezza del provvedimento di merito con cui è stata riconosciuta la liceità della condotta di alcuni condomini, che utilizzavano il cortile comune per accedere con autovetture alla propria proprietà esclusiva.

“La Corte d’Appello di Brescia, tenuto conto che G.C ed A. C. B. avevano rinunciato alle loro domande riconvenzionali di confessoria e negatoria servitutis, ha limitato il proprio esame della fattispecie al disposto dell’art. 1102 c.c., per concludere che l’utilizzo del cortile comune a scopo di transito da parte dei medesimi appellanti C. e B. fosse compatibile con l’uso di fatto dello spazio a piazzola di parcheggio degli autoveicoli dei condomini accertato dal CTU.”

Il principio espresso dal giudice di legittimità delinea con  chiarezza il quadro normativo cui deve farsi riferimento nella individuazione dei diritti esercitati da ciascun comproprietario, che in nessun caso possono essere ricondotti allo schema della servitù ove si discuta di utilizzo – anche più intenso e a fini individuali – del bene comune: essendo inclusa nel termine “cortile”, ex art. 1117, n. 1, c.c., ogni area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ivi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate del fabbricato, quali, appunto, gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi (così Cass. Sez. 2, 09/06/2000, n. 7889).

Una volta ritenuto il nesso di condominialità corrente tra l’unità immobiliare di proprietà esclusiva dei signori C. e B. e l’area compresa nel mappale 1…, l’uso di tale bene da parte dei medesimi convenuti ed attuali controricorrenti deve trovare regolamentazione nella disciplina del condominio di edifici, la quale è costruita sulla base di un insieme di diritti e obblighi, armonicamente coordinati, contrassegnati dal carattere della reciprocità, che escludono la possibilità di fare ricorso alla disciplina in tema di servitù, presupponente, invece, fondi appartenenti a proprietari diversi, nettamente separati, uno al servizio dell’altro.

Né può quindi astrattamente ipotizzarsi, come fatto a fondamento del secondo e del terzo motivo di ricorso, un’azione negatoria ex art. 949 c.c. per la cessazione delle molestie attribuite ai controricorrenti C. e B., i quali transitano con automezzi nel cortile, in quanto la qualità di condomini riconosciuta in capo a quest’ultimi deve, appunto, essere regolata, come fatto dalla Corte d’Appello di Brescia, sulla base dell’art. 1102 c.c., norma avente per oggetto l’uso legittimo delle cose comuni (cfr. di recente Cass. Sez. 2, 16/01/2018, n. 884).

Ai sensi dell’art. 1102, comma 1, c.c. l’uso della cosa comune da parte del singolo partecipante al condominio è consentito in conformità alla destinazione della cosa stessa, considerata non già in astratto, con esclusivo riguardo alla sua consistenza, bensì con riguardo alla complessiva entità delle singole proprietà individuali cui la cosa comune è funzionalizzata.

Ciascun condomino ha, così, diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest’ultimi.

In particolare, per stabilire se l’uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell’art. 1102 c.c., non deve aversi riguardo all’uso concreto fatto della cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; l’uso deve ritenersi in ogni caso consentito, se l’utilità aggiuntiva, tratta dal singolo comproprietario dall’uso del bene comune, non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene.”

Tale valutazione di fatto, che compete dal giudice di merito, nel caso di specie ha avuto esito positivo e congruamente motivato: ” la Corte d’Appello, in conformità a tali principi, ha  accertato che l’utilizzo dell’area comune a scopo di transito veicolare da parte dei condomini C. e B. fosse compatibile con l’uso ad essa impresso, come risultante dalla CTU, di parcheggio di autoveicoli, esistendo, del resto, l’accesso carrabile dalla proprietà C.-B. sin dal momento di costruzione delcomplesso immobiliare (cfr. Cass. Sez. 2, 01/08/2001, n. 10453; Cass. Sez. 2, 06/06/1988, n. 3819)”.

© massimo ginesi 26 luglio 2018

uso illecito del bene comune e danno.

L’uso illecito del bene comune da parte di un singolo in violazione dell’art. 1102 cod.civ., nella fattispecie parcheggiando per oltre un anno la propria auto in una zona comune del garage impedendo agli altri di farne pari uso, da luogo certamente ad un danno patrimoniale risarcibile, mentre incombe al danneggiato provare che da tale condotta sia derivato anche  danno non patrimoniale .

Lo afferma Cass.Civ. sez.VI-2 4 luglio 2018 n. 17460 rel. Scarpa, richiamando un pacifico orientamento giurisprudenziale di legittimità.

© massimo ginesi 10 luglio 2018 

canna fumaria e decoro architettonico

Cass.Civ.  sez.II 28 giugno 2018 n. 17102 ribadisce un principio consolidato: è consentito al singolo utilizzare i beni comuni (nella fattispecie la facciata) per utilità individuali, purché ciò non alteri statica, decoro e pari uso degli altri aventi diritto; a tal fine il decoro è rappresentato dalla complessiva armonia dell’edificio, quale che sia la sua rilevanza estetica ed architettonica, essendo suscettibili di essere lese anche le linee costruttive  complessive di un edificio non di pregio.

“Costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio. La relativa valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove non presenti vizi di motivazione (fattispecie relativa alla realizzazione di una canna fumaria).”

© massimo ginesi 6 luglio 2018 

luci e vedute sul cortile comune: non si applicano le norme sulle distanze

La giurisprudenza di legittimità ( Cass.Civ. sez.II ord. 27 giugno 2018 n. 17002)  conferma l’applicabilità relativa delle norme in tema di distanze all’interno del condominio e, in particolare, la specialità dell’art. 1102 cod.civ. rispetto a tali precetti,  laddove si intendano aprire vedute dalla proprietà esclusiva su aree condominiali o comuni.

i fatti e il processo di merito: “con atto di citazione notificato in data 11 marzo 2005 L.A. conveniva in giudizio, avanti al Tribunale di Sondrio, P.M. e A. chiedendo che le opere da questi eseguite sul fabbricato sito nel Comune di (…) (f. (…), mapp. (…)) contiguo alla propria casa (f. (…), mapp. (…) ora (…)) e alla corte comune (f. (…) mapp. (…)), realizzate in sopraelevazione dell’edificio in violazione delle vigenti N.T.A. e del P.R.G., con apertura di vedute, luci e balconi sulla corte comune senza il rispetto delle relative distanze o senza i requisiti di legge, venissero demolite o riportate nei limiti della legalità…

il Tribunale di Sondrio, respinta ogni altra domanda ed eccezione, condannava i convenuti alla eliminazione delle nuove vedute dirette e dei balconi realizzati sulla corte comune, mapp. (…), nonché alla regolarizzazione delle luci aperte sulla medesima corte, sulla scorta del dettato di cui gli artt. 901 e 902 c.c…con sentenza depositata il 15 maggio 2013, la Corte d’appello di Milano rigettava entrambi gli appelli e confermava la sentenza del Tribunale di Sondrio”

il principio di diritto: “secondo la prevalente e più recente giurisprudenza di questa Corte, la regolamentazione generale sulle distanze è applicabile quando lo spazio su cui si apre la veduta sia comune, in quanto in comproprietà tra le parti in causa o in condominio, soltanto se compatibile con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, dovendo prevalere in caso di contrasto la fondamentale regola di cui all’art. 1102 c.c., in ragione della sua specialità, a termini della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, senza alterarne la destinazione o impedire agli altri partecipanti di farne pari uso (Cass. 19 dicembre 2017, n. 30528; Cass. 9 giugno 2010, n. 13874; Cass. 19 ottobre 2005, n. 20200, risultando superato l’orientamento risalente a Cass. 21 maggio 2008, n. 12989, secondo cui la qualità comune del bene su cui ricade 13 veduta non esclude il rispetto delle distanze predette);

che sulla base del principio nemini res sua servit e della considerazione che i cortili condominiali o, comunque, comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono ben fruibili a tale scopo, dai proprietari del bene comune o dai condomini, tenuti solo al rispetto dell’art. 1102 c.c. (Cass. n. 20200/2005);

che, pertanto, nell’ambito delle facoltà riconosciute rientra anche quella di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte dagli artt. 901-907 c.c. a garanzia della libertà dei fondi confinanti di proprietà esclusiva, della riservatezza e sicurezza dei rispettivi titolari, considerato che tali modalità di fruizione del bene comune ordinariamente non comportano ostacoli al godimento dello stesso da parte dei compartecipi, né pregiudizi agli immobili di proprietà esclusiva;

che, pertanto, erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che la deroga alla normativa sulle vedute, sui balconi e sulle luci riguardi soltanto i fabbricati condominiali, ovvero i casi in cui già sussisteva un’analoga servitù di veduta, trovando applicazione i principi richiamati anche nell’ipotesi di proprietà comune di un cortile non condominiale, essendo l’art. 1102 c.c. dettato per regolare il godimento del bene in comunione“.

© massimo ginesi 3 luglio 2018 

abbattimento barriere architettoniche e tutela del diritto di proprietà

L’abbattimento delle barriere architettoniche è attività favorita dalla legge anche in condominio, dapprima con a L. 13/1989 e poi con una lettura giurisprudenziale che ha a lungo sottolineato come tali iniziative siano volte ad attuare la funzione sociale della proprietà prevista dall’art. 42 Cost.

In realtà tale favore (che il legislatore del 2012 nel novellare l’art. 1120 cod.civ. ha ridotto, aumentando i relativi quorum deliberativi) va contemperato con la tutela del diritto dei proprietari (ergo, dei condomini), che hanno comunque diritto di precludere l’installazione ove la stessa violi il disposto dell’art. 1120 u.c. cod.civ.

Ne deriva che se da un lato il diritto di proprietà  potrà subire una compressione  a fronte di uno scopo nobile come l’abbattimento delle barriere architettoniche, non sussiste affatto un diritto assoluto del disabile all’installazione di strumenti atti a migliorare la sua mobilità, sì che il giudice è tenuto a contemperare le due esigenze contrapposte con una lettura costituzionalmente orientata

E’ quanto emerge da un recente provvedimento Trib. Massa 6 giugno 2018 reso a conclusione di un procedimento ex art 702 bis c.p.c.

A scioglimento della riserva assunta all’udienza del 27 marzo 2018

Ritenuto che, con riguardo al petitum principale di cui al ricorso introduttivo, sia cessata la materia di contesa per ammissione della stessa attrice, posto che il condominio ha deliberato – in data successiva alla introduzione della causa – di non frapporre ostacoli all’installazione dell’ascensore.

Ritenuto tuttavia che debbano essere respinte le altre domande avanzate da parte attrice, per le ragioni che seguono.

Quanto alla richiesta di risarcimento del danno ex art 2043 e 2059 c.c., essa appare del tutto nuova ed avanzata solo all’udienza del 27 marzo 2018, come tale tardiva e inammissibile, posto che la sommarietà del rito non vale a mutare i principi generali delineati dall’art. 163 c.p.c., espressamente richiamato dall’art. 702 bis c.p.c.,di talchè si dovrà comunque ritenere vietata la mutatio libelli; a tal proposito il combinato disposto dagli artt. 702 bis e 702 ter c.p.c. indica un iter procedurale che non prevede momenti ulteriori, rispetto alla introduzione della domanda, in cui si possano o debbano precisare le conclusioni, posto che per la natura del rito e l’assenza di necessità istruttorie, la causa va in decisione (salvo la sussistenza di domande riconvenzionali e chiamateincausa)sugliassuntiinizialidelleparti;l’informalità individuata dall’art. 703 comma V c.p.c., che appare riferirsi unicamente al rito e alle attività istruttorie, appare inidonea a superare i parametri preclusivi che valgono nel rito ordinario circa l’integrazione e la modifica delle domande.

Allo stesso modo appare del tutto inammissibile la richiesta di condanna ex art 96 I comma c.p.c. poiché non è dato ravvisare alcuna posizione processuale ostativa o temeraria in colui che non si è costituito in giudizio, mentre – in forza di quanto si esporrà di seguito – non paiono ravvisabili neanche i presupposti per irrogare la condanna (ascrivibile ai c.d. indennizzi punitivi) ex art 96 III comma c.p.c.

Cessata la materia del contendere sulla installazione dell’ascensore, la ricorrente chiede di valutare la soccombenza virtuale del convenuto, onde ottenere condanna dello stesso alla refusione delle spese di questo giudizio, sull’assunto di una condotta ostativa del condominio che avrebbe gravemente violato e compromesso diritti costituzionalmente garantiti.

Tuttavia tale raffigurazione non può essere condivisa, così come non può ritenersi – dalla disamina delle delibere condominiali prodotte dalla stessa ricorrente – che la condotta del condominio abbia assunto valenza meramente ostruzionistica e defatigatoria.

Va infatti rilevato che, se da un lato i principi costituzionali espressi dagli artt. 32 e42 della carta fondamentale tutelano la salute e sottolineano la funzione sociale della proprietà, lo stabilire i modi in cui tale funzione potrà essere assolta è stato demandato dal legislatore costituzionale alla legge.

Al riguardo il testo di riferimento è senza dubbio la L. 13/1989 e, assai meno, il novellato art. 1120 c.c. che – rispetto a principi di rilevanza costituzionale, quali la tutela della salute e la solidarietà sociale, dei quali l’abbattimento delle barriere architettoniche rappresenta certamente un aspetto rilevante – ha inopinatamente innalzato nuovamente i quorum deliberativi per le innovazioni che perseguono tali fini, con ciò evidenziando una concorrente e rinnovata tutela anche del diritto dominicale.

Con riferimento all’odierno contendere non può inoltre dimenticarsi che – pur adottando una lettura ampia e guardando con maggior favore alle iniziative volte a predisporre meccanismi agevolativi per i disabili – lo stesso legislatore del 1989 ha finito per porre un limite assai prosaico ai dichiarati e perseguiti scopi sociali, mantenendo ferma l’applicabilità dell’art. 1120 comma IV c.c. con riferimento alle innovazioni vietate, sì che – infine – le esigenze di tutela sociale delle persone svantaggiate sotto il profilo motorio finisce per doversi confrontare sullo stesso piano con i parametri di tutela della proprietà (decoro architettonico dell’edificio, pari uso dei condomini, inviolabilità del diritto dominicale dei singoli), cedendo il passo ove tali valori – assolutamente privatistici e scevri di ogni connotazione solidaristica – ne risultino lesi.

Di talché non sussiste affatto un diritto assoluto e preminente del disabile ad installare in condominio strumenti di ausilio, sussistendo eventualmente una pretesa, da valutare in ottica ampia e alla luce dei principi costituzionali e primari sopra ricordati, e da raffrontare con i parimenti legittimi diritti (anch’essi costituzionalmente garantiti) dei singoli condomini titolari dei correlativi diritti reali.

In una lettura del diritto di proprietà costituzionalmente orientata, ai sensi dell’art. 42 Cost., volta a contemperare il diritto soggettivo dei singoli condomini con la funzione sociale che i loro beni sono chiamati a svolgere, i giudici di legittimità hanno sempre dato interpretazione ampia alle facoltà del singolo di comprimere il diritto di  godimento al fine di realizzare opere volte all’abbattimento delle barriere architettoniche, dovendosi tuttavia tale facoltà arrestare ove quella compressione si traduca in una lesione della effettiva possibilità di utilizzo del bene comune o individuale, lesione che può essere integrata anche da una significativa compromissione estetico/funzionale (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 14 settembre 2017 n. 2133)

Il fatto che la ricorrente intendesse procedere in via autonoma all’installazione dell’ascensore, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ, non sottrae il suo operato alla valutazione testè menzionata, che la giurisprudenza ha delineato per gli interventi innovativi decisi dalla maggioranza, mutando – ove proceda il singolo – solo l’imputazione della spesa ma non i criteri generali che sovraintendono alla esecuzione dell’opera.

In tal senso è infatti orientato l’art. 1122 cod.civ., specie dopo l’intervento del legislatore del 2012, che è volto proprio a consentire al condominio e ai condomini di conoscere tali modalità onde attivarsi tempestivamente per farvi fronte ove le ritengano lesive dei diritti comuni o dei singoli; non è infatti prevista la necessità di alcuna autorizzazione assembleare per intervenire ai sensi dell’art. 1102 c.c,  restando tuttavia salva la possibilità dell’amministratore o dei singoli di reagire ad eventuali iniziative che ritengano vietate o comunque illecite.

A tale attività di valutazione e comparazione pare essere improntata la condotta del condominio, poiché dalle delibere (in particolare 1.7.2017 e 23.9.2017) emerge una ampia dialettica fra le parti, volta non già ad impedire alla R. di installare l’impianto quanto a salvaguardare il decoro e la fruibilità dell’edificio condominiale e delle parti comuni soggette alla installazione.

Dalla documentazione prodotta dalla ricorrente non emerge una volontà prettamente ostruzionistica del condominio, quanto piuttosto un’attenzione della compagine condominiale a rendere l’intervento meno invasivo possibile, suggerendo eventuali soluzioni alternative quali il servoscala (anche interno, come prospettato alla assemblea del 23.9.2017, rifiutato dalla ricorrente per generiche ragioni di salute).

A tal proposito non può essere ritenuta esaustiva e dirimente né la documentazione prodotta dalla ricorrente che rimane mero atto di parte (tanto più che la stessa non ha neanche ritenuto di allegare gli elaborati grafici e progettuali dei propri tecnici), posto che era comunque pieno diritto del condominio valutare se non sussistessero alternative ugualmente soddisfacenti delle necessità della ricorrente: non appare infatti necessario – per assolvere al superamento delle barriere architettoniche – l’installazione della miglior soluzione possibile, potendo essere utilmente adottabile anche soluzioni alternative che siano volte “quantomeno ad attenuare e non necessariamente ad eliminare – le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione” (Cass. Civ. sez. II 6 giugno 2018 n.14500).

Né appare convincente e del tutto pertinente la certificazione medica che sconsiglia l’uso di servoscala, in quanto da una parte generica e sfornita di qualunque motivazione (certificato Dr. C 18.1.2018) e, dall’altra, sorretta da valutazione del tutto ipotetica, che peraltro non spiega per quale ragione l’ascensore sarebbe di diversa utilità e di maggior protezione rispetto al montascale (certificato dr. M 12.1.2018).

Va rilevato che la certificazione allegata dalla stessa ricorrente indica patologie ed esiti diagnostici che paiono presupporre un costante accompagnamento, sì che non si comprende quale aggravamento del rischio porterebbe l’adozione di un servoscala, mentre alcuna valenza possono avere i maggiori costi di manutenzione e la più rapida deteriorabilità di tale impianto, lamentati dalla R, ove lo stesso risulti idoneo adassolvere all’ausilio per la mobilità e, al contempo, salvaguardi maggiormente i beni e diritti comuni.

Ancora meno convincenti appaiono le osservazioni della difesa di parte attrice relative a problemi atmosferici per l’utilizzo del montascale, posto che – come si è già rilevato – laricorrentepareaverrifiutatoanchequello internoechein ogni caso la stessa afferma di trascorrere “ i mesi caldi da aprile a settembre presso l’appartamento di cui trattasi”, periodo in cui l’eventualità di avversità atmosferiche appare tendenzialmente di scarsa rilevanza ed incidenza.

Dai documenti allegati al ricorso non si evince dunque la volontà meramente ostruzionistica né la totale infondatezza delle obiezioni del condominio, che paiono invece rispondere al legittimo esercizio di un diritto derivante dal combinato disposto dagli artt. 1102 e 1122 c.c., sì che le ragioni in forza delle quali oggi la ricorrente richiede la condanna del condominio appaiono fondate su mere e unilaterali affermazioni di parte, così come mere allegazioni di parte inidonee a costituire prova, appaiono le osservazioni tecniche (doc.20) prodotte che, in assenza dei relativi progetti, rendono in questa sede impossibile qualunque valutazione oggettiva sulla incidenza dell’impianto.

L’onere della prova circa i fatti costitutivi della pretesa azionata incombeva comunque alla ricorrente, anche ai soli fini della valutazione circa la soccombenza virtuale, onere che non si può ritenere assolto.

Il deliberato finale del condominio in data 10.3.2018 non potrà, come invece pretende l’attrice, essere ritenuto indicativo di alcun riconoscimento o della fondatezza della domanda, poiché quella decisione assembleare appare piuttosto una ponderata scelta che oscilla fra valutazioni di carattere patrimoniale sulla prosecuzione del contenzioso e ragioni di opportunità e disponibilità nell’ambito dei normali rapporti interpersonali  e condominiali, laddove si riconosce “ a malincuore” e per “la volontà di chiudere definitivamente l’annosa questione” la possibilità di procedere alla installazione secondo una delle soluzioni indicate, con materiali a minor impatto esteticopossibile.

Ai fini della valutazione della condotta delle parti non appare significativa neanche l’offerta della ricorrente – dalla stessa più volte indicata quale mero atto di disponibilità personale – di far subentrare in futuro eventuali condomini che desiderassero utilizzare l’impianto, essendo ciò specifico obbligo previsto dall’art. 1121 III commac.c

E’ di intuitiva evidenza, infine, che la scelta del Condominio di non resistere in giudizio non significa necessariamente che lo stesso si sia riconosciuto ex ante soccombente né vale ad invertire alcun onere della prova, rimanendo la contumacia  condotta  a valenza neutra (Cass. Civ. sez. VI 24 febbraio 2017 n. 4871), tanto più alla luce della natura della domanda proposta dalla attrice, che presuppone “un’azione di accertamento del … diritto di servirsi della cosa comune nei limiti consentitidall’art. 1102 C.C.; e nella causa da loro promossa legittimi contraddittori potevano essere soltanto quei condomini che tale diritto avevano contestato, e non necessariamente tutti i condomini o il condominio” (Cass. Civ. sez. II 12 febbraio 1993 n. 1781)

Non paiono dunque sussistenti, neanche a livello virtuale, le ragioni che possono condurre ex art. 91 c.p.c. ad una condanna alle spese del convenuto, in assenza di prova da parte del ricorrente dei fatti costituitivi della propria pretesa iniziale P.Q.M. Visti gli artt. 702 bis e segg. c.p.c. Dichiara cessata la materia del contendere sulla domanda principale relativa alla installazione dell’ascensore. Respinge ogni altra domanda della ricorrente.”

sul tema possono essere ancora interessanti  e non superate le riflessioni di approfondimento svolte in un ormai lontano convegno presso  il Politecnico di Torino.

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© massimo ginesi 15 giugno 2018

il diritto alla riduzione in pristino non si prescrive.

E’ quanto sottolinea Cass.Civ. sez. VI ord. 6 giugno 2018 n. 14622 rel. Scarpa, evidenziando come si tratti di facoltà connessa al diritto di proprietà e che – come tale – non subisce effetti pregiudizievoli dal mero decorso del tempo (salvo il sorgere di eventuali altri diritti per usucapione).

I fatti ed il processo: “B.A. aveva convenuto davanti al Tribunale di Roma il Condominio di via (omissis) , e L.m.P. , per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla propria unità immobiliare, con chiamata in garanzia operata dal Condominio nei confronti di C.G. e V.B. in forza di “clausola di manleva” contenuta nella scrittura del 14 ottobre 1986. In tale scrittura C.G. , la quale aveva eseguito opere di rimozione del tetto, si prendeva carico di tutte le riparazioni dovute al piano sottostante per eventuali cause di infiltrazioni. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 25334/2009, preso atto che erano state eseguite in corso di causa le opere necessarie a far cessare le infiltrazioni, dichiarò cessata la materia del contendere tra l’attrice B.A. , il Condominio e L.m.P. , mentre rigettò le domande di manleva proposta dal Condominio nei confronti di L.P. , C.G. e V.B.”

la corte di legittimità osserva che “La Corte d’Appello di Roma ha respinto la domanda di rimessione in pristino osservando che il decorso di vent’anni dalla dichiarazione di manleva dimostrasse “l’atteggiamento di tolleranza del Condominio che, evidentemente, ha fatto acquiescenza al mutamento dello stato dei luoghi contro l’assunzione di ogni possibile conseguenza negativa da parte degli esecutori dei lavori”.

Questo ragionamento contravviene al consolidato principio giurisprudenziale per cui l’azione, con la quale il condominio di un edificio chiede la rimozione di opere che un condominio abbia effettuato sulla cosa comune, oppure nella propria unità immobiliare, con danno alle parti comuni, in violazione degli artt. 1102, 1120 e 1122 c.c., ha natura reale, e, pertanto, giacché estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà, non è suscettibile di prescrizione, in applicazione del principio per cui “in facultativis non datur praescriptio”.

L’imprescrittibilità, piuttosto, può essere superata dalla prova della usucapione del diritto a mantenere la situazione lesiva (arg. da Cass. Sez. 2, 07/06/2000, n. 7727; Cass. Sez. 2, 29/02/2012, n. 3123; Cass. Sez. 2, 16/03/1981, n. 1455; Cass. Sez. 2, 13/08/1985, n. 4427).

Vanno quindi accolti il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, mentre viene rigettato il primo e viene dichiarato assorbito il terzo motivo del ricorso principale. La sentenza impugnata va cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, che deciderà la causa uniformandosi ai richiamati principi e tenendo conto dei rilievi svolti, e regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.”

© massimo ginesi 12 giugno 2018 

 

canna fumaria in facciata: non occorre autorizzazione del condominio, che neanche può opporsi sic et simpliciter

L’uso del bene  comune facciata da parte dei singoli condomini è consentito ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., così che costoro potranno anche utilizzarlo per collocarvi una canna fumaria, purché non alterino il decoro dell’edificio,  non impediscano agli condomini di farne parimenti uso oppure non ledano i diritti soggettivi dei singoli condomini (violazione, quest’ultima,  che sono legittimati a far valere solo gli interessati).

Tale utilizzo del bene comune non è soggetto ad alcuna autorizzazione assembleare ma, ove siano rispettati i presupposti dell’art. 1102 cod.civ., avvieneiure proprio da parte del singolo; tuttavia il condomino che intende intervenire in tal modo è tenuto a comunicare all’amministratore le modalità di realizzazione, ai sensi del novellato art. 1122 cod.civ., non già per ottenere una non prevista autorizzazione, quanto per cosentire – eventualmente – al condominio di approntare le opportune contestazioni e tutele.

A tali principi, consolidati in giurisprudenza eppure non sempre chiari alle compagini condominiali, si rifà una recente sentenza del Tribunale Arezzo 7.3.2018 n.279 .  

Il Tribunale toscano osserva che: “E’ quindi evidente che negare a priori ed in via anticipatoria l’attività del condomino appare un eccesso di potere non consentito all’assemblea e che determina la nullità della specifica determinazione assunta.

… Anche la delibera riguardante l’apposizione della canna fumaria a servizio dell’immobile della G.Z. appare affetta dai medesimi motivi di nullità.

Ricordiamo infatti come la giurisprudenza è ormai unanime nel ritenere che l’apposizione di una canna fumaria sull’esterno delle mura condominiali rappresenti una mera esplicazione del potere del singolo proprietario di uso del bene comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., soggetto quindi solo (ove non sussistano limitazioni dettate da un regolamento contrattuale) ai limiti posti dal medesimo è infatti mero uso della cosa comune l’installazione di una canna fumaria in aderenza al muro comune (C. Cassazione 16 maggio 2000 n. 6341) tanto che la Suprema Corte ha precisato che “l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale individua una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino – pertanto – può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l’altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio, e non ne alteri il decoro architettonico“.

Ebbene, sussistendo da parte del condominio come unica contestazione quella relativa al decoro architettonico, appare utile e sufficiente far riferimento alla consulenza redatta dall’arch. L., le cui conclusioni di carattere tecnico debbono considerarsi integralmente accolte e trascritte.

Il consulente ha precisato che “l’esecuzione del manufatto non lederebbe il decoro architettonico del condominio” ed ha individuato le modalità costruttive idonee ad evitare il più possibile di turbare le linee costruttive del condominio, costruendo l’opera in una posizione e con modalità esecutive tali che la stessa risulti solo marginalmente visibile e con accorgimenti formali atti ad integrarla nel tessuto murario esistente.

Si ribadisce poi, ai fini della condanna alle spese, che il condominio non aveva provveduto a richiedere al condomino un progetto ma si era limitato a negare sic ed simpliciter l’autorizzazione (autorizzazione peraltro non dovuta).

© massimo ginesi 18 aprile 2018