canna fumaria installata dal singolo: se lede l’estetica, sanatoria possibile solo con l’unanimità.

E’ quanto ha stabilito il TAR Bolzano sez. I 22 febbraio 2018 n. 62: ove il singolo proceda ad installare – senza titolo urbanistico – sulla facciata condominiale una canna fumaria a servizio della propria unità che, per tipologia e dimensioni esca dai parametri previsti dall’art. 1102 cod.civ., potrà ottenere sanatoria solo ove alleghi il consenso di tutti i condomini.

Ritenendo che la canna fumaria, realizzata sulla facciata dell’edificio, costituisse un intervento impattante sull’estetica dell’immobile p.ed. (omissis), il Comune, nel richiedere con lettera dd. 5.3.2015, n. prot. 16887 l’integrazione della documentazione prodotta, chiedeva anche la produzione del consenso unanime dei condomini proprietari dell’edificio in argomento.

A tale richiesta l’interessata forniva risposta con lettera dd. 30.3.2015, dando dimostrazione del consenso da parte dei condomini proprietari nella percentuale, su base millesimale, dei 2/3 dell’intera proprietà della p.ed. (omissis) anziché, come richiesto dal Comune, del consenso unanime degli stessi.

In carenza di un tanto, il Comune, con lettera dd. 13.04.2015, n. prot. 19669, comunicava alla R. G. S.r.l. i motivi ostativi al rilascio della concessione in sanatoria”

“Osserva il Collegio che l’impugnato provvedimento di rigetto si fonda sul presupposto che “L’installazione della canna fumaria per dimensioni e struttura, risulta essere intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio, necessitando del consenso condominiale all’unanimità dei comproprietari, non prodotto. La modifica dell’utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale, che vede nell’installazione di un impianto tecnico e soprattutto, per quanto qui rilevante, di una canna fumaria un presupposto indispensabile, è conseguentemente respinta. Parimenti e per le stesse motivazioni respinta l’istanza di scissione del procedimento con rilascio di concessione edilizia parziale per la modifica di utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale”.

Il rigetto viene dunque motivato in ragione del non comprovato consenso unanime dei proprietari della p.ed. (omissis)in ordine all’istanza di sanatoria della canna fumaria di espulsione all’esterno dei fumi prodotti nel locale interrato p.m. 12, trattandosi di intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio.

Ravvisando un rapporto di pregiudizialità della sanatoria della canna fumaria rispetto alla sanatoria della modifica dell’utilizzazione della p.m. 12 da accessorio (cantine) a principale (locale ricettivo ad uso principale, id est sala da pranzo e cucina), il Comune ha conseguentemente denegato anche la seconda e non ha accolto l’istanza di scissione del procedimento.

La ricorrente contesta la richiesta del Comune di allegare il consenso “unanime” dei condomini ed invoca la previsione di cui al primo comma dell’art. 1102 cc che stabilisce che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”, deducendo che la maggioranza di 2/3 dei millesimi dei proprietari della p.ed. (omissis) (“Condominio (omissis)”) ha autorizzato il signor Ma. Ti. “al mantenimento dell’installazione del condotto di espulsione fumi ( ….. ) della cucina dell’attività ristorativa svolta nei locali ubicati nelle porzioni materiali n. 3 e n. 12 di proprietà dello stesso, in conformità alle prescrizioni dettate dall’Ufficio Igiene” (cfr. allegato al doc. n. 7).

Nel caso di specie, come dettagliatamente motivato nel contestato provvedimento, il Comune ritiene che la canna fumaria in argomento rechi pregiudizio al “decoro architettonico” dell’edificio p.ed. (omissis), trattandosi, diversamente dalle canne fumarie tradizionali, di un condotto di forma rettangolare avente le apprezzabili dimensioni di 700 x 350 mm. (con l’eventuale mascheratura proposta dalla ricorrente assumerebbe le maggiori dimensioni di 850 x 450 mm.), che si estende per un’altezza complessiva di 14,5 metri lineari.

Il suddetto condotto di espulsione fumi è stato realizzato “nell’angolo sud – est della facciata sud dell’edificio in p.ed(omissis), con fuoriuscita del condotto dalla p.m. 3 e con collegamento interno con la p.m. 12, p.ed. (omissis), (omissis), risp. nell’angolo nord – est della terrazza sulla p.ed. (omissis), tutte CC Merano” senza titolo abilitativo (cfr. doc. n. 4 del Comune).

Orbene, in base alla pacifica giurisprudenza, per “decoro architettonico” deve intendersi l’estetica dell’edificio, costituita dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (cfr. Cass. Civ. 1718/2016; 10350/11; 27551/05), e per innovazione lesiva del decoro architettonico si intende non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. Civ. n. 20985/2014).

In ordine alla collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio la giurisprudenza amministrativa afferma che “l’art. 1102 c.c., relativo all’uso della cosa comune, va interpretato (per altro conformemente al costante orientamento del giudice civile) nel senso che il singolo condomino può apportare al muro perimetrale tutte le modificazioni che consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compreso l’inserimento nel muro di elementi estranei e posti al servizio esclusivo della sua porzione”, tuttavia non senza precisare “purché (un tanto n.d.r.) non impedisca agli altri condomini l’uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità” (cfr., Cassazione civ., 16.5.2000, n. 6341; Cons. Stato, V, n. 11/2006; TAR Veneto, Sez. II, n. 1540/2012; TAR Lazio – Latina, Sez. I, n. 413/2012; TAR Firenze, Sez. III, 28.10.2015, n. 1475).

Nel caso di specie, l’intervento in sanatoria, riferentesi alla canna fumaria, non consiste nella mera sostituzione, sic et sempliciter, di una canna di espulsione fumi già esistente in passato, bensì nella realizzazione di un nuovo manufatto, che si differenzia decisamente, per dimensioni ed estensione, dal precedente, e tale da assumere rilevanza sia per la vastità dell’intervento, sia per l’impatto sull’aspetto esteriore dell’edificio p.ed. (omissis).

Si tratta, pertanto, di un manufatto che, invero, coinvolge gli interessi e i diritti degli altri condomini sia perché pregiudica l’armonia e il decoro della facciata dell’edificio p.ed. (omissis) (cfr. TAR Ancona, 9.1.2015, n. 10), sia perché la funzione della canna di espulsione – che è quella di convogliare verso l’esterno fumi, vapori e odori vari derivanti, nel caso di specie, dall’utilizzo della cucina ubicata al piano interrato – incide sugli interessi e diritti dei condomini circostanti (TRGA Bolzano, 26.2.2015, n. 57).

È del resto pacifico che l’intervento edilizio richiesto in sanatoria dalla ricorrente coinvolge la proprietà comune, insistendo anche sulla facciata della p.ed. (omissis), che, per l’appunto, è comune ai proprietari delle singole unità immobiliari (art. 1117, comma 1, n. 1 cc).

Come affermato dalla giurisprudenza, la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini risponde (anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie (cfr. TAR Reggio Calabria, 6.2.2017, n. 85).

In riferimento alla relativa censura, osserva il collegio che la dimostrazione della disponibilità del consenso unanime dei condomini rientra, invero, nell’ambito dell’istruttoria preliminare tesa alla verifica della sussistenza, in capo al richiedente, della necessaria legittimazione ad ottenere il titolo edilizio (è opportuno precisare, per inciso, che si tratta di un’attività che, conformemente all’insegnamento della giurisprudenza, non ha comportato, nel caso di specie, alcun onere istruttorio eccessivo a carico dell’amministrazione).

Pertanto tale attività, riguardando la mera regolarità formale dell’istanza di concessione edilizia (nel caso di specie in sanatoria), si distingue da quelle elencate all’art. 70 L.U.P., soggette ex lege al parere della commissione edilizia comunale, cui spetta esprimersi riguardo agli aspetti urbanistici, edilizi e architettonici del progetto presentato dall’istante.”

© massimo ginesi 19 marzo 2018

varco sul cortile condominiale per accedere ad altro edificio: è servitù.

L’apertura di un varco nel cortile condominiale, per accedere ad altro edificio in cui il condomino sia proprietario di un fondo, costituisce creazione di servitù e richiede il consenso di tutti i condomini.

Lo ribadisce la Suprema Corte (Cass.Civ.  sez. II ord. 12 febbraio 2018 n. 3345), evidenziando come al condomino sia consentito l’uso più intenso della cosa comune – ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. – solo per attività che rimangano circoscritte alla sfera giuridica del condominio.

Dalla sentenza impugnata si ricava che il contestato cancello pedonale mette in comunicazione tra loro una proprietà esclusiva della Co. con il cortile del condominio cui quest’ultima partecipa (v. pag. 12 sentenza impugnata, nella parte sopra testualmente trascritta in narrativa). Dal che si ricava che tale collegamento avviene tra un’area condominiale ed una proprietà estranea al condominio stesso, da non confondersi con un’altra unità immobiliare appartenente alla stessa Co. , ma facente parte del condominio di via (omissis) .

Questo essendo l’accertamento di fatto operato dalla Corte di merito, si rileva che la sentenza impugnata ha ritenuto che tale apertura sia legittima in quanto non pregiudica il pari godimento del cortile da parte degli altri condomini. Conclusione, questa, cui i giudici d’appello sono pervenuti richiamando in particolare (oltre ad altre sentenze del tutto non pertinenti al caso in esame) Cass. nn. 8591/99 e 42/00.

Entrambe dette sentenze, però, si riferiscono al diverso caso di modifiche apportate su di un muro o una recinzione comune che separavano un cortile condominiale deputato proprio all’utilità delle proprietà individuali.

In particolare, la prima delle due suddette sentenze, al di là di quanto riportato nella massima (non sufficientemente precisa), chiarisce in motivazione che “negli edifici soggetti al regime del condominio, ciascun partecipante ha il diritto di servirsi delle cose comuni a vantaggio del proprio piano o appartamento.

Spesso il godimento si attua mediante l’imposizione sulla cosa comune di un vero e proprio peso a vantaggio della cosa propria: di uno di quei pesi che, al di fuori del condominio, darebbero luogo al sorgere di una servitù prediale (apertura di porte, finestre, luci, vedute sul cortile comune).

Al singolo condomino non è consentito costituire sulla cosa comune una servitù a vantaggio della cosa propria, essendo richiesto per la costituzione della servitù il consenso (negoziale) di tutti i partecipanti (art. 1059 c.c.).

Peraltro, non si fa luogo a costituzione di servitù quando la destinazione della cosa comune è precisamente quella di fornire alle unità immobiliari in proprietà esclusiva, site nell’edificio, quella specifica utilità, che formerebbe il contenuto di una servitù prediale.

Per conseguenza, fino a che il partecipante, esercitando il suo diritto, rispetta la destinazione della cosa, di questa gode iure proprietatis. Non sussiste, infatti, imposizione di servitù sulla cosa comune, posto che il potere rientra tra quelli inerenti al diritto di condominio.

Se invece il godimento del singolo partecipante si concreta in un peso sulla cosa comune, che la destinazione della cosa in sé non consente, tale forma di godimento non può essere giustificata con il diritto di condominio. In questo caso inevitabilmente si pone in essere una servitù e, per conseguenza, ogni atto di godimento di fatto assoggetta la cosa comune ad un peso, che le norme sul condominio non permettono”.

Di qui l’inapplicabilità di tali precedenti al caso di specie. Il fatto che la Co. per altro titolo partecipi al condominio di via (omissis) , e perciò abbia al pari degli altri condomini libero accesso al cortile condominiale, non le attribuisce il potere di asservire tale bene comune al diverso ed adiacente altro suo immobile, che di tale condominio non fa parte.

E di conseguenza l’applicabilità, invece, del costante indirizzo di questa Corte in base al quale in tema di uso della cosa comune, viola l’art. 1102 c.c. l’apertura praticata da un condomino nella recinzione del cortile condominiale, senza il consenso degli altri condomini al fine di creare un accesso dallo spazio interno comune ad un immobile limitrofo di sua esclusiva proprietà, determinando, tale utilizzazione illegittima della corte condominiale, la costituzione di una servitù di passaggio a favore del fondo estraneo alla comunione ed in pregiudizio della cosa comune (v. Cass. n. 24243/08).

Nello stesso senso si è altresì affermato che l’azione con cui un condomino metta in comunicazione il cortile condominiale con una sua proprietà estranea alla comunione, determina uno stato di fatto corrispondente ad una servitù di passaggio sul cortile a favore di tale proprietà con la conseguenza che, come può subire l’eliminazione della predetta sua posizione di vantaggio ove i condomini esercitino vittoriosamente l’actio negatoria servitutis, così può consolidarla mercé l’esercizio continuato della servitù per il periodo utile all’usucapione, senza in ogni caso poter porre in essere, per il divieto dell’art 1067 c.c., una situazione di aggravamento della servitù di fatto esercitata, sicché questa si configura come molestia del possesso dei comproprietari del cortile (Cass. n. 5888/79; analogamente, v. anche Cass. nn. 23608/06, 9036/06, 17868/03, 360/95, 2773/92 e 5790/88).”

© massimo ginesi 27 febbraio 2018

 

realizzazione terrazza a tasca e trasformazione tetto: va preservata la funzione del bene e la facoltà di pari uso.

La Suprema Corte ( Cass.Civ. sez. VI-2 21 febbraio 2018 n. 4256 rel. Scarpa) ribadisce un concetto ormai consolidato: non è astrattamente  vietato al singolo condomino, proprietario dell’unità sottostante il manto di copertura, realizzare una terrazza a tasca a proprio uso esclusivo o comunque compiere attività di trasformazione del bene comune volte ad un uso più intenso, deve tuttavia essere preservata la funzione del tetto, con riguardo alla sua funzione di copertura e coibentazione dell’edificio e deve essere rispettata la facoltà di uso degli altri condomini.

Il Tribunale di Sondrio e poi la corte di Appello di Milano hanno  ” ritenuto illegittima, in difetto di apposito titolo contrattuale, la modificazione del tetto comune in terrazzo ad uso esclusivo delle signore M. e M, non interessando la trasformazione una limitata porzione, in quanto la terrazza sovrasta l’appartamento delle attuali ricorrenti ed occupa una rilevante quota dell’area di copertura dell’edificio”

LA Corte di legittimità conferma l ‘interpretazione resa dai giudici di merito: “Il precedente giurisprudenziale, che la ricorrente invoca e che viene citato nella stessa sentenza impugnata, ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, ma sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14107; si veda anche Cass. Sez. 6 – 2, 04/02/2013, n. 2500).

E’ evidente come l’accertamento circa la non significatività del taglio del tetto praticato per innestarvi la terrazza di uso esclusivo e circa l’adeguatezza delle opere eseguite per salvaguardare le utilità di interesse comune dapprima svolte dal tetto (non significatività e permanente adeguatezza, nella specie, del tutto negate dalla Corte di Milano, la quale ha piuttosto accertato come fosse stata realizzata una terrazza che sovrasta l’appartamento delle ricorrenti ed occupa una porzione consistente della sua parte piana, unica fruibile per le funzioni accessorie, diverse da quella di copertura) è riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.c.

Con riferimento all’utilizzazione della cosa comune da parte di un singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, il riscontro dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c. è frutto di un’indagine di fatto, mediata dalla valutazione delle risultanze probatorie, che non può essere sollecitata ulteriormente tramite il ricorso per cassazione, come se esso introducesse un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata.”

© massimo ginesi 22 febbraio 2018

 

quando l’appello rimedia a una stortura di primo grado: un caso emblematico in tema di cortile comune e azione ex art 1102 cod.civ.

Un condomino provvede a recintare una parte del cortile retrostante l’edificio condominiale e a destinarlo a dehor dell’attività di ristorazione che esercita nel  fondo di sua proprietà, posto al piano terra.

Il condominio agisce in Tribunale per vedere restituito il bene alla funzione comune ma, del tutto inopinatamente, la domanda viene respinta.

La Corte d’appello di Genova, con sentenza 7 febbraio 2018 n. 214 ribalta il verdetto e osserva: “Con la sentenza impugnata, il Tribunale della Spezia ha respinto la domanda proposta dal Condominio di via R. 37 La Spezia diretta a sentir accertare la proprietà condominiale dell’area cortilizia retrostante il fabbricato, cui si accedeva anche dall’androne condominiale e identificata al N.C.E.U. del Comune della Spezia al fg. 30 part. 531 e 533 e a sentir condannare i convenuti I. D. e D.C., proprietari del fondo sito in via R. 31, in ragione della indebita occupazione dell’area, a rimuovere le opere realizzate, quali la recinzione in rete e canniccio, la pavimentazione cementizia. Il Tribunale qualificava la domanda come azione di rivendicazione, e affermava che nonostante il rigoroso onere probatorio gravante sul Condominio (cd. probatio diabolica), nessuna prova era stata da questi fornita della proprietà condominiale dell’area. Neppure la disposta CTU aveva fornito elementi utili per attribuire la proprietà dell’area all’una o all’altra parte, avendo anche accertato che altri proprietari confinanti avevano accesso all’area e che l’area non poteva essere ritenuta solo condominiale. Condannava quindi parte attrice al pagamento delle spese di lite e di CTU”

Il giudice di secondo grado accoglie l’appello con ampia motivazione, ritenendo fondate le ragioni del Condominio: “Seppure, l’azione si caratterizzi come azione di rivendica, posto che l’area oggetto della domanda non si trova nel possesso del rivendicante e seppure, anche volendo qualificare l’azione come di mero accertamento, secondo la giurisprudenza della Corte Suprema, l’onere probatorio non muti anche per chi agisce con azione di accertamento (tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla “probatio diabolica” della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione, inclusa quella di accertamento, che fonda sul diritto di proprietà tutelato “erga omnes” Cass. n. 1210/2017), occorre considerare che la vicenda di cui è causa si caratterizza per il fatto che il bene rivendicato è di natura condominiale e che la domanda, sulla base delle difese iniziali dei convenuti fatte proprie dal Condominio, risulta essere stata proposta contro un condomino.

Sul punto, come è stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema (cfr. 2016/9035) “In tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumere la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova”.

Ciò in quanto la comunione condominiale dei beni di cui all’art. 1117 c.c., è presunta e, tale presunzione legale può essere superata dalla prova di un titolo contrario, che si identifica nella dimostrazione della proprietà esclusiva del bene in capo ad un soggetto diverso.

Si è poi anche affermato che al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata a uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni”.

Nel caso di specie, occorre considerare, in primo luogo, che l’area di cui è causa, descritta con planimetria nella CTU del geom. T e visibile nelle fotografie ivi allegate, può essere considerata un cortile, rientrante quindi nella previsione di cui all’art. 1117 c.c., a nulla rilevando che si trovi in posizione esterna al Condominio. Sul punto infatti secondo la Corte Suprema (cfr. Cass. n. 2532/2017) “il cortile, tecnicamente, è l’area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti. Ma avuto riguardo all’ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – che, sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione” (Cass. n. 7889 del 09/06/2000).

L’area in questione, infatti, risponde alle caratteristiche delineate dalla giurisprudenza per essere considerata comune, trattandosi di area posta all’esterno dell’edificio condominiale, e destinata a dare aria e luce al predetto, oltre che funzionale all’accesso al condominio: “Ai fini dell’inclusione nelle parti comuni dell’edificio elencate dall’art. 1117 c.c., deve qualificarsi come cortile lo spazio esterno che abbia la funzione non soltanto di dare aria e luce all’adiacente fabbricato, ma anche di consentirne l’accesso” (cfr. Cass. n. 16241/2003).

A nulla rileva il fatto che anche altri fondi e fabbricati abbiano accesso su tale area posto che, come sempre chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema, la presunzione legale di comunione di talune parti di un edificio, stabilita dell’art. 1117 cc, senz’altro applicabile quando si tratti di parti dello stesso edificio, può ritenersi applicabile in via analogica anche quando si tratti di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, purché si tratti di beni oggettivamente e stabilmente destinati all’uso o al godimento degli stessi, come nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano (Cass. II nn. 7630/91; 4881/93; 9982/96), e più di recente (cfr. Cass. n. 17993/2010 e 21693/2014): “In tema di condominio degli edifici, la presunzione legale di comunione di talune parti, stabilita dall’art. 1117 cod. civ., trova applicazione anche nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano”

Rispondendo, pertanto, il cortile in contestazione alla presunzione di cui all’art. 1117 c.c., erroneamente il Tribunale non ha ritenuto che il cortile oggetto della controversia fosse comune, ai sensi dell’art. 1117 cc, anche in ragione del fatto che le parti convenute non avevano fornito alcuna convincente prova contraria atta a superare la presunzione di comproprietà, prova che doveva consistere o in un titolo contrario oppure in elementi oggettivi, certi ed univoci, atti a far ritenere che il cortile era destinato a loro servizio esclusivo, ma anzi ammettendo esplicitamente la natura comune dell’area.

Risulta dagli accertamenti peritali che gli appellati hanno occupato un’area di circa mq 67, nella zona sud ovest, a ridosso del fondo degli appellati, ed ove gli stessi hanno una porta di accesso al locale stesso e dove è collocato, altresì, un servizio igienico in muratura (cfr. foto 8 e 11). La Corte ritiene che la stabile occupazione di detta ampia parte dell’area comune da parte degli appellati, delimitata in parte da fioriere in plastica, in parte da un muretto in mattoni pieni a vista piastrellata con quadroni in calcestruzzo prefabbricato non possa considerarsi espressione di un uso intensivo della cosa comune, ai sensi dell’art. 1102 c.c., tale da attrarre il bene nella sfera della proprietà esclusiva degli appellati e legittimare questi ultimi ad opporsi alla sua utilizzazione da parte del Condominio.

…  poiché l’uso della cosa comune è sottoposto dall’art. 1102 c.c. ai due limiti fondamentali consistenti nel divieto per ciascun partecipante di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, esso non può estendersi alla occupazione di una parte del bene comune, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, alla usucapione della parte occupata (Cass. 14-12-1994 n. 10699; Cass. 5-2-1982 n. 693).

Le limitazioni poste dall’art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, inoltre, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini (Cass. 28-4-2004 n. 8119; Cass. n. 4372/2015).

Se pertanto deve ritenersi indiscussa la possibilità di utilizzo del cortile da parte degli appellati, tali utilizzo non può di certo spingersi fino ad impedire un pari utilizzo dell’area da parte degli altri condomini, impedimento attuato con la materiale delimitazione ben descritta dalla ctu. Ne consegue che in riforma della sentenza impugnata, dato atto della proprietà comune dell’area cortilizia retrostante il fabbricato e censita al NCEU della Spezia F. , della inesistenza di alcun diritto di uso esclusivo degli appellati su detta area, gli appellati debbono essere condannati a rimuovere le opere realizzate a servizio del loro fondo, e segnatamente recinzione in rete e canniccio meglio descritte nella relazione CTU Geom. T., pavimentazione cementizia ed ogni altra opera che impedisca l’uso comune.”

© massimo ginesi 16 febbraio 2018 

art. 1102 cod.civ. e aiuole condominiali: una sentenza floreale…

 

Una vicenda che arriva dalla Sardegna, per approdare in cassazione, e che riguarda un uso poetico e inusuale del bene comune e delle facoltà concesse al singolo ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.

Un condomino utilizza le aiuole condominiali per piantarvi fiori e piante ornamentali, l’assemblea, evidentemente sorda ad ogni richiamo di bellezza e leggerezza, delibera  che tale uso non è gradito né consentito e procede alla loro rimozione e distruzione.

Delibera  quanto mai improvvida, poiché Cass.Civ.  sez. II 7 febbraio 2018 n. 2957 ha confermato la sentenza del Tribunale di Cagliari che – in riforma della sentenza di primo grado del Giudice di Pace della stessa città – aveva ritenuto lecita ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.  l’attività di floricoltura compiuta dal singolo e condannato il condominio a pagare 849 euro per le piante rimosse e ben 3.000 euro per lite temeraria.

In realtà la controversia nasce  come impugnazione di delibera, con particolare riguardo a quelle che avevano disposto il divieto di utilizzo delle aiuole da parte dei singoli e la corte di legittimità si limita a statuire che – in astratto – l’uso delle fioriere da parte dei singoli è compatibile con l’art. 1102 cod.civ., mentre la delibera che tout court ne disponga il divieto (che invece ben potrebbe avere natura convenzionale) deve ritenersi illegittima.

Quanto poi l’attività del singolo ed i suoi fiori rispettino il pari diritto d’uso degli altri condomini, che comunque la norma impone, è apprezzamento di merito che rimane confinato al giudizio di merito.

La sentenza, aldilà del caso di costume (più interessante, in realtà, del pacifico principio di diritto affermato) riveste interesse anche per la preliminare questione di competenza che risolve, riguardo alle cause condominiali attribuite alla competenza per materia del giudice di pace (e per tale motivo si riporta in forma integrale qui sotto)

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© massimo ginesi 8 febbraio 2018

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trasformazione del tetto e terrazza a tasca: la Cassazione fa chiarezza.

Cass.Civ. sez. VI 25 gennaio 2018 n. 1850 rel. Scarpa fornisce (finalmente) la corretta chiave di lettura di un orientamento  giurisprudenziale che in questi anni è stato, spesso immotivatamente e arbitrariamente, utilizzato dai singoli condomini in modo assai strumentale (e infondato).

Il tetto è un bene comune e non è consentita la sua trasformazione ad libitum, da parte del proprietario  del sottotetto, in una terrazza a proprio uso esclusivo.

Dopo lunghi anni in cui si era ritenuto che la destinazione ad uso esclusivo di una parte comune richiedesse il consenso di tutti gli aventi diritto, nel 2012 la Cassazione (Cass.civ. sez. II  3 agosto 2012 n. 14107) aveva dato una lettura dinamica delle norme in tema di proprietà, ritenendo lecita l’iniziativa ove avesse una modesta incidenza sul manufatto comune e fosse inidonea a distrarlo  dalla sua destinazione funzionale primaria.

Oggi la Corte sottolinea con rigore i limiti di ammissibilità dell’intervento: “Il precedente giurisprudenziale, che la ricorrente invoca e che cita la stessa sentenza impugnata, ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, ma sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14107; si veda anche Cass. Sez. 6 – 2, 04/02/2013, n. 2500). E

E’ evidente come l’accertamento circa la non significatività del taglio del tetto praticato per innestarvi la terrazza di uso esclusivo (non significatività, nella specie, del tutto negata dalla Corte di Venezia, la quale ha piuttosto accertato come fosse stata realizzata una terrazza avvolgente, corrente lungo i lati nord, est e sud dell’appartamento della ricorrente) e circa l’adeguatezza delle opere eseguite per salvaguardare, la funzione di copertura e protezione dapprima svolta dal tetto (adeguatezza del pari negata dalla Corte d’appello, la quale ha riscontrato l’apposizione sulla terrazza della stessa pavimentazione dei locali sottotetto) è riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.c.

Con riferimento all’utilizzazione della cosa comune da parte di un singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, il riscontro dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c. è frutto di un’indagine di fatto, mediata dalla valutazione delle risultanze probatorie, che non può essere sollecitata ulteriormente tramite il ricorso per cassazione, come se esso introducesse un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata.”

© massimo ginesi 29 gennaio 2018

 

il decoro architettonico dell’edificio e la sua alterazione

Un condomino realizza sul proprio terreno, antistante l’edificio condominiale, una piattaforma di oltre trenta metri quadri,  dotata di ombrelloni posta  in adiacenza all’ingresso condominiale e ancorata alla facciata dell’edificio, tale da inserirsi  quindi nell’equilibrio architettonico del prospetto.

La Corte di appello di Roma ha ritenuto tale opera lesiva della simmetria del fabbricato e ne ha ordinato la rimozione.

La vicenda giunge al giudice di legittimità che – ritenendo corretto l’operato del giudice di merito – coglie l’occasione per ripercorrere la disciplina in tema di decoro del fabbricato, confermando principi ormai consolidati (Cass.Civ. VI sez. 18 gennaio 2018 n. 1235 rel. Scarpa) .

Osserva la Cassazione che “ai fini della tutela prevista dall’art. 1120 cod.civ.  in materia di divieto di innovazioni sulle parti comuni dell’edificio condominiale, non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed evidentemente compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità.

La tutela del decoro architettonico – di cui all’art. 1120 cod.civ. – attiene a tutto ciò che nell’edificio è visibile ed apprezzabile dall’esterno, posto che esso si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, per cui il proprietario della singola unità immobiliare non può mai, senza autorizzazione del condominio, esercitare una autonoma facoltà di modificare quelle parti esterne, a prescindere da ogni considerazione sulla proprietà del suolo su cui venga realizzata l’opera innovativa (Cass. Sez. 2, 19/06/2009, n. 14455; Cass. Sez. 2,
14/12/2005, n. 27551; Cass. Sez. 2, 30/08/2004, n. 17398).

Si configura, in astratto, peraltro, non una violazione dell’art. 1120, comma 2, cod.civ.  (testo antecedente alle modifiche introdotte con la legge n. 220/2012, qui operante ratione temporis), ma dell’art. 1102 cod.civ., disposizione invero applicabile a tutte le innovazioni che, come nella specie, non comportano interventi approvati dall’assemblea e quindi spese ripartite fra tutti i condomini; dovendosi del pari riaffermare che, in tema di condominio, è illegittimo l’uso particolare o più intenso del bene comune, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio condominiale (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Sez. 2, 22/08/2012, n. 14607).

Né, ai fini della verifica del danno estetico alla facciata dell’edificio condominiale, determinante agli effetti degli artt. 1102 e 1120 e.e., assume rilievo il fatto che la piattaforma sia stata realizzata “in aderenza” al muro comune.

Al riguardo, il ricorrente propone anche una questione di applicabilità dell’art. 877 cod.civ. , questione che però non viene affrontata nella sentenza impugnata, e che risulta quindi inammissibile in questa sede, non essendo stato indicato, ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., in quale atto del giudizio di merito essa venne posta, e trattandosi peraltro di questione di diritto implicante il necessario svolgimento di indagini ed accertamenti di fatto.

In ogni caso, per il giudizio sull’alterazione dello stile architettonico della parete esterna di un fabbricato condominiale, è privo di decisività il dato che il manufatto ivi realizzato si innesti nel muro comune o coesista con esso,rimanendone autonomo.

Del pari privo di significato determinante è che il manufatto non impedisse l’accesso allo stabile condominiale né la visibilità del suo numero civico (circostanze che la ricorrente assume nel suo quinto motivo come accertate in primo grado e non oggetto di specifica devoluzione al giudice d’appello, e perciò ormai coperte da giudicato), in quanto gli artt. 1120 e 1102 cod.civ.  individuano, quali limiti per la legittimità delle modificazione di uno stabile condominiale, la stabilità o la sicurezza del fabbricato, il decoro architettonico dell’edificio, appunto, nonché l’uso o il godimento delle parti comuni ad opera dei singoli condomini, limiti operanti, tuttavia, in via pure alternativa e non necessariamente concorrente.

Neppure è infine decisiva la doglianza sulla mancata specificazione della diminuzione di valore economico correlata alla modifica, in quanto, avendo la Corte d’Appello accertato una alterazione della fisionomia architettonica dell’edificio condominiale, per effetto della realizzazione di una piattaforma di oltre trenta metri quadrati ancorata alla facciata, il pregiudizio economico risulta conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico, che, costituendo una qualità del fabbricato, è tutelata – in quanto di per sé meritevole di salvaguardia – dalle norme che ne vietano l’alterazione (così Cass. Sez. 2, 31/03/2006, n. 7625; Cass. Sez. 2, 24/03/2004, n. 5899).”

© massimo ginesi 19 gennaio 2018

regolamento contrattuale e innovazioni: quando la valutazione è rimessa ad un terzo.

un caso singolare giunge all’esame della corte di legittimità (Cass.Civ. II sez. 19 dicembre 2017 n. 30528 rel. Scarpa): un regolamento di natura contrattuale rimette al progettista del fabbricato (o ad altro architetto) la valutazione di ammissibilità delle  future innovazioni destinate ad incidere  sul prospetto dell’edificio.

Il motivo di contesa riguarda una serra solare realizzata sul giardino di proprietà esclusiva e in aderenza alla facciata condominiale dal condomino del piano terreno; la vicenda è stata decisa nel merito dal giudice di secondo grado di Milano “La Corte d’Appello ha affermato che l’art. 25 del Regolamento condominiale rimettesse ogni opera, che potesse variare le caratteristiche delle facciate, al “preventivo ed insindacabile benestare scritto” dell’architetto E. Z., progettista dell’edificio (ovvero in futuro ad altro architetto da nominare).

Ciò, secondo la Corte di Milano, significava rimettere, mediante scelta condivisa con l’accettazione del regolamento all’atto dell’acquisto delle singole unità, ad un “soggetto qualificato” la verifica “del rispetto del requisito che la legge impone”.

I giudici di appello definivano la serra realizzata “funzionale ad accrescere la vivibilità dell’appartamento e ad assicurare la fruibilità per qualsiasi occasione anche di svago e di tempo libero”, ed escludevano l’applicabilità dell’art. 907 c.c. in tema di distanze dalle vedute, come anche la violazione dell’art. 1102 c.c., trattandosi di opera realizzata a piano terra, nel giardino di proprietà esclusiva, in aderenza alla facciata condominiale e non preclusiva del pari uso del bene comune”.

in via preliminare il giudice di legittimità osserva che “L’omesso o errato esame di una disposizione del regolamento di condominio da parte del giudice di merito è, piuttosto, sindacabile in sede di legittimità soltanto per inosservanza dei canoni di ermeneutica oppure per vizi logici sub specie del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355).”

La Corte rileva che ad avviso del giudice di merito il regolamento non costituisce deroga alla disciplina codicistica: “A pagina 3, la sentenza impugnata ha spiegato di intendere l’art. 25 del Regolamento di condominio non come “deroga alla norma civilistica”, quanto come “scelta condivisa con l’accettazione del regolamento condominiale”, diretta a “rimettere ad un soggetto particolarmente qualificato” la constatazione della non alterazione del decoro architettonico riferibile agli interventi sulla facciata dell’edificio.

Questa Corte ha già spiegato in passato come la disposizione di cui al quarto comma dell’art. 1138 c.c., secondo cui le norme del regolamento di condominio (anche in ipotesi di cosiddetto regolamento contrattuale) non possono in nessun caso derogare, tra l’altro, a quanto stabilito nell’art. 1120 dello stesso codice, impedisce comunque l’esecuzione di opere e lavori lesivi del decoro dell’edificio condominiale o di parte di esso (Cass. Sez. 2, 26/05/1990, n. 4905; Cass. Sez. 2, 15/01/1986, n. 175).

Tuttavia, una clausola del regolamento condominiale, quale quella in esame, che, per le modifiche esterne ed interne delle proprietà individuali incidenti sulle facciate dell’edificio, richieda il benestare scritto dell’architetto progettista del fabbricato, ovvero di altro architetto da nominare, non costituisce deroga agli artt. 1120 e 1122 c.c., dando luogo, piuttosto, a vincoli di carattere reale tipici delle servitù prediali (e non a limitazioni di portata meramente obbligatoria), nel senso di specificare i limiti di carattere sostanziale delle innovazioni (cfr. Cass. Sez. 2, 16/10/1999, n. 11688), mediante predisposizione di una disciplina di fonte convenzionale, espressione di autonomia privata, che pone nell’interesse comune una peculiare modalità di definizione dell’indice del decoro architettonico.

E’ poi costante l’orientamento di questa Corte ad avviso del quale la disciplina dettata dall’art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute non trova applicazione in ambito condominiale (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14096; anche Cass. Sez. 2, 02/02/2016, n. 1989).

Più in generale, nell’applicare in materia di condominio le norme sulle distanze legali (nella specie con riferimento al diritto di veduta), spetta al giudice di merito, con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., tener conto in concreto della struttura dell’edificio, delle caratteristiche dello stato dei luoghi e del particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, verificando, nel singolo caso, come fatto dalla Corte di Milano, la compatibilità dei rispettivi diritti dei condomini (Cass. Sez. 2, 11/11/2005, n. 22838).

Così come la realizzazione da parte di un condomino di una modifica nella sua proprietà esclusiva (nella specie, realizzazione di una serra) in aderenza alla facciata dell’edificio quale pertinenza del rispettivo appartamento, ai fini dell’utilizzo delle parti comuni, rimane sottoposta, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al divieto di alterare la destinazione della cosa comune, nonché a quello di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; ma l’accertamento se l’opera del singolo condomino, mirante ad una intensificazione del proprio godimento della cosa comune, sia conforme o meno alla destinazione della cosa comune, è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (e la Corte d’Appello ha ben spiegato a pagina 4 della sentenza le ragioni per cui la realizzazione della serra potesse essere considerata esplicazione del normale uso della cosa comune).

sulle distanze la Corte osserva ancora che “la Corte di Milano ha invece affermato che l’art. 27 del Regolamento edilizio del Comune di Milano non trovasse applicazione al caso in esame, trattandosi comunque di nuova costruzione avvenuta all’interno di un edificio condominiale, con ciò facendo ancora una volta applicazione del principio giurisprudenziale per il quale le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale soltanto se compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale (Cass. Sez. 2, 18/03/2010, n. 6546).”

© massimo ginesi 20 dicembre 2017 

il condomino proprietario di due unità in edifici attigui non può collegarle.

E’ principio  consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il soggetto proprietario di due unità immobiliari – poste in distinti edifici condominiali – non possa porle in collegamento per determinazione unilaterale, anche ove gli edifici siano attigui, poiché tale attività comporta la costituzione di una servitù a carico delle parti comuni, che richiede necessariamente il consenso di tutti i condomini.

Il tema è ripreso da una recente pronuncia (Cass.Civ. sez. VI ord. 16 novembre 27164 rel. Scarpa), che applica il principio anche ad una ipotesi apparentemente innocua, ovvero la semplice eliminazione di un setto divisorio fra due balconi appartenenti allo stesso proprietario e che tuttavia sono posti in due edifici distinti.

La pronuncia si rivela interessante anche per la connotazione degli obblighi che incombono ex art. 1122 cod.civ. al singolo che intenda effettuare modifiche, seppur con riguardo alla formulazione della norma ante 2012 (la legge 22072012 ha reso ancor più stringenti gli oneri di comunicazione per il condomino che introduca modifiche nella propria unità, quando queste abbiano incidenza anche sulle pareti comuni).

il caso – “Il Tribunale di Ragusa ha rigettato la domanda di R.G., volta alla ricostruzione di un muretto e di una ringhiera di separazione dei balconi di due unità immobiliari, entrambe di proprietà di P. G. ma comprese in due distinti, seppur contigui, edifici condominiali (quello di via S. C. e quello di via M. S. 51), che il convenuto aveva posto in comunicazione rimuovendo gli indicati manufatti. Riformando la decisione del Giudice di pace, il Tribunale ha osservato che i balconi aggettanti non costituiscono parti comuni dei fabbricati condominiali, ma rientrano nelle rispettive proprietà esclusive, e sono perciò modificabili senza che possa sussistere violazione dell’art. 1102 c.c.”

i principi di diritto – il giudice di legittimità osserva che “E’ corretto evidenziare in premessa come, mentre l’art 1102 c.c. riguarda esclusivamente le opere compiute dal condomino sulla cosa comune, l’art. 1122 c.c. (nella formulazione qui applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge n. 220/2012) disciplina l’ipotesi in cui l’opera sia effettuata dal condomino sulla cosa propria (nella specie, i balconi aggettanti, costituenti un prolungamento dei due appartamenti di P. G.).

Anche peraltro la facoltà di eseguire opere sulle parti di proprietà esclusiva incontra, proprio nell’art. 1122 c.c., il limite consistente nel danno alle parti comuni dell’edificio, danno che comprende ogni diminuzione di valore riferito alla funzione della cosa, considerata nella sua unità (cfr. Cass. Sez. 2, 25/01/1995, n. 870; Cass. Sez. 2, 26/03/1963, n. 745).

Il ricorso di R.G. assume fondatamente che il Tribunale non ha preso in considerazione la sua specifica deduzione, riproposta nella comparsa di costituzione in appello, secondo cui l’aver reso i due edifici comunicanti, mediante la rimozione delle separazioni esistenti sui balconi di proprietà di P. G., ha comportato la illegittima costituzione di una servitù a favore dell’appartamento di via M S., se non a carico di quello di via S. C. (operando il principio nemini res sua servit), tuttavia a danno della proprietà condominiale di quest’ultimo fabbricato.

La sentenza del Tribunale di Ragusa non ha infatti valutato che anche un’opera su parte di proprietà esclusiva, che consenta ad un condomino la comunicazione tra il proprio appartamento ed altra unità immobiliare attigua, sempre di sua proprietà, ma ricompresa in un diverso edificio condominiale, può determinare la creazione di una servitù a carico di fondazioni, suolo, solai e strutture dell’edificio (per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i partecipanti al condominio), dando luogo ad un rapporto di pertinenzialità tra i beni comuni ex art. 1117 c.c. di ciascuno dei due condomìni messi in collegamento e un’unità immobiliare non partecipante in origine ad essi (arg. da Cass. Sez. 2, 14/12/2016, n. 25775 del; Cass. Sez. 2, 05/03/2015, n. 4501; Cass. Sez. 2, 14/06/2013, n. 15024 ; Cass. Sez. 2, 06/02/2009, n. 3035; Cass. Sez. 2, 26/09/2008, n. 24243; Cass. Sez. 2, 19/04/2006, n. 9036; Cass. Sez. 2, 07/03/1992, n. 2773 )”.

© massimo ginesi 22 novembre 2017

costituzione del condominio e diritto di uso esclusivo delle parti comuni.

Una lunga ed interessante sentenza della suprema corte (Cass.Civ. II sez. 16 ottobre 2017 n. 24301) affronta l’ipotesi in cui l’originario unico proprietario del fabbricato condominiale, nel cedere la prima unità a terzi e, dunque, nel dar luogo alla nascita del condominio, disponga in ordine all’uso esclusivo di talune parti comuni a favore di alcuni condomini.

La Corte riconosce pacíficamente come legittima tale facoltà, che può essere esercitata anche semplicemente tramite una disposizione in un regolamento contrattuale richiamato nel primo atto di cessione che da luogo alla costituzione del condominio e provvede, con interessante disamina, a delineare i confini ed i contenuti del diritto d’uso così costituito.

Afferma il giudice di legittimità, respingendo una tesi dei ricorrenti,  che il diritto d’uso così costituito non va ricondotto nè alla ipotesi del diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 cod.civ. né viola il principio del numero chiuso dei diritti reali, poiché la situazione caratteristica che si determina in condominio – laddove venga attribuito l’uso esclusivo di una parte comune ad un singolo – trova radice normativa nella stessa disciplina condominiale e segnatamente negli artt. 1126 e 1122 cod.civ.

La sentenza per l’articolata e interessante motivazione, richiede lettura integrale

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© massimo ginesi 17 ottobre 2017