La Cassazione (Cass.civ. sez. II ord. 17 febbraio 2020 n. 3860 rel. Scarpa) affronta in maniera approfondita – confermando orientamenti consolidati – la natura giuridica del sottotetto di un edificio condominiale, ribadendo che – laddove tale vano appaia funzionalmente destinato ad assolvere funzioni comuni – dovrà ritenersi tale ai sensi dell’art. 1117 c.c., competendo a colui che invece ne pretende la titolarità esclusiva l’onera di dar prova dei relativi presupposti : “Secondo, tuttavia, la consolidata interpretazione di questa Corte, che la sentenza impugnata ha del tutto trascurato, sono comunque oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con modifica, in parte qua, di natura interpretativa, proprio dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220) i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune (Cass. civ. III, n. . Sez. 6-2, 14/02/2018, n. 3627; Cass, Sez. 6 – 2, 10/03/2017, n. 6314; Cass. Sez. 2, 02/03/2017, n. 5335; Cass. Sez. 2, 23/11/2016, n. 23902; Cass. Sez. 2, 30/03/2016, n. 6143; Cass. Sez. 2, 20/06/2002, n. 8968; Cass. Sez. 2, 20/07/1999, n. 7764).
Altrimenti, soltanto ove non sia evincibile il collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà supposto dall’art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la destinazione all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, giacché lo stesso sottotetto assolve all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non ha dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di tale appartamento.
La proprietà del sottotetto si determina, dunque, in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto: nel caso in esame, la Corte di Appello di Milano non ha compiuto alcun accertamento sulle funzioni e sulle caratteristiche strutturali del locale sottotetto, né, al contrario, sulla destinazione pertinenziale dello stesso a servizio di appartamenti di proprietà esclusiva, erroneamente supponendo che la natura condominiale di tale bene dovesse negarsi soltanto perché non stabilita convenzionalmente nel contratto del 2 febbraio 1979 o nel regolamento condominiale
Ove dunque il sottotetto dell’edificio di via C… , Milano, risultasse destinato, per sue caratteristiche funzionali e strutturali, all’uso comune, occorrerà verificare il momento di costituzione del condominio, con riferimento all’atto con cui l’originario unico proprietario ne operò il frazionamento, alienando ad un terzo la prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione...
In presenza di un sottotetto posto in rapporto di accessorietà con l’intero edificio o parte di esso, e dunque di uso comune, e non invece destinato pertinenzialmente ad una determinata unità immobiliare di proprietà individuale, per escluderne la condominialità si dovrà accertare che il titolo costitutivo del condominio, ovvero il primo atto di trasferimento di una porzione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, recasse una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente al venditore o ad uno dei condomini la proprietà di detta parte, sì da escluderne gli altri (Cass. Sez. 2, 18/12/2014, n. 26766; Cass. Sez. 2, 19/11/2002, n. 16292).
La circostanza che gli atti di vendita, come le correlate note di trascrizione, non contenessero espressa menzione del trasferimento della comproprietà dei sottotetti, se destinati all’uso comune, non è in alcun modo sufficiente a superare la presunzione posta dall’art. 1117 c.c., la quale, al contrario, comporta che all’atto stesso consegua l’alienazione, unitamente alla porzione esclusiva, della corrispondente quota di condominio su dette parti comuni. Stando, infatti, al consolidato orientamento di questa Corte, una volta accertata la sussistenza di una situazione di condominio di edifici, le vicende traslative riguardanti i piani o le porzioni di piano di proprietà individuale estendono i loro effetti, secondo il principio “accessorium sequitur principale”, alle parti comuni necessarie per la struttura o destinate per la funzione al servizio degli immobili di proprietà solitaria (Cass. Sez. 2, 06/03/2019, n. 6458; Cass. Sez. 6 – 2, 26/10/2011, n. 22361; Cass. Sez. 2, 27/04/1993, n. 4931).
Secondo uniforme interpretazione giurisprudenziale, spetta in ogni caso al condomino, che pretenda l’appartenenza esclusiva di un bene, quale appunto un sottotetto destinato all’uso comune, compreso tra quelli elencati espressamente o per relationem dall’art. 1117 c.c., dar prova della sua asserita proprietà esclusiva derivante da titolo contrario (non essendo determinanti, a tal fine, né le risultanze del regolamento di condominio, né l’inclusione del bene nelle tabelle nnillesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino, né i dati catastali); in difetto di tale prova, infatti, deve essere affermata l’appartenenza dei suddetti beni indistintamente a tutti i condomini.”
La Corte di legittimità (Cass. civ. sez. II 10 dicembre 2019 n.32237) ritorna sul supercondominio, confermando i propri orientamenti sulla nascita del complesso sovra condominiale e fornendo una interessante lettura sistematica del fenomeno, che esclude la sussistenza di beni in comunione e beni in condominio, dovendosi invece aver riguardo alla natura e funzione prevalente:
“Sebbene qui non direttamente applicabile ratione temporis, l’art. 1117-bis c.c., avendo recepito l’elaborazione giurisprudenziale formatasi intorno al concetto di supercondominio, ne identifica una nozione utile anche in senso retrospettivo, allorquando si riferisce, con ampia locuzione, a “più unità immobiliari o più edifici ovvero più condomini di unità immobiliari o di edifici aventi parti comuni ai sensi dell’art. 1117”.
L’elemento identificativo del supercondominio risiede nella natura specificamente condominiale (“… ai sensi dell’art. 1117”) della relazione di accessorietà tra la parte comune servente e la pluralità di immobili serviti, a prescindere dalla circostanza che questi ultimi integrino un condominio unitario “… ovvero più condomini…”.
Sorgendo ipso iure et facto, se il titolo o il regolamento non dispongono altrimenti, il supercondominio unifica più edifici, costituiti o meno in distinti condomini, entro una più ampia organizzazione condominiale, legata dall’esistenza di talune cose, impianti e servizi comuni, in rapporto di accessorietà con i fabbricati, sicché trova ad essi applicazione, proprio in ragione della condominialità del vincolo funzionale, la disciplina specifica del condominio, anziché quella generale della comunione (Cass. 14 novembre 2012, n. 19939).
In altri termini, la qualificazione supercondominiale replica al plurale la qualificazione condominiale, postulando anch’essa una relazione funzionale di accessorietà necessaria, per non essere il bene in (super)condominio – diversamente dal bene in comunione suscettibile di godimento autonomo.
Per quanto non possa escludersi, nell’odierna multiforme fenomenologia degli aggregati immobiliari, la coesistenza di beni a godimento strumentale e beni a godimento autonomo (la dottrina considera infatti l’eventualità di un “doppio regime”), criteri di preminenza funzionale devono orientare il giudice di merito verso la definizione prevalente della fattispecie, nell’un senso o nell’altro.
D’altronde, in una logica di sistema che oggi trae conferma dal rinvio dell’art. 1117-bis, all’art. 1117, questa Corte ha dichiarato applicabile al supercondominio la presunzione legale di condominialità, stabilita dall’art. 1117, per i beni oggettivamente e stabilmente destinati all’uso o al godimento di tutti gli edifici (Cass. 9 giugno 2010, n. 13883).
Nella specie, il giudice d’appello ha enfatizzato aspetti irrilevanti per la corretta applicazione della nozione di supercondominio, e nel contempo accantonato aspetti rilevanti, così alterando la fisionomia giuridica dell’istituto, e integrando la denunciata violazione di legge.
Egli ha ritenuto decisivo che i quattro edifici del Condominio (omissis) (“(omissis) “, “(omissis) “) siano gestiti da un unico amministratore, circostanza viceversa estranea al profilo realmente decisivo, inerente la relazione funzionale che, in termini oggettivi, correla a quegli edifici il parcheggio e l’area pedonale. Per converso, il giudice d’appello ha svalutato il dato obiettivo della realizzazione di opere di collegamento tra i beni serventi e gli edifici serviti (in particolare, la scala di accesso dal “(omissis)” al parcheggio), dato obiettivo che, invece, può far emergere un vincolo funzionale di accessorietà necessaria a carattere (super)condominiale.
Ancora, il giudice territoriale non ha conferito alcun ruolo operativo alla presunzione di (super)condominialità, ed invece questa concorre a qualificare giuridicamente le parti necessarie all’uso comune dei plurimi edifici, finché il contrario non risulti dal titolo o dal regolamento
A proposito del regolamento, lo stesso giudice d’appello ha evidenziato, senza tuttavia valorizzare, l’esistenza di previsioni orientate all’accessorietà necessaria, segnatamente quella che destina l’area di parcheggio a servizio di tre edifici del complesso, con possibilità di estensione al quarto (“(omissis)”)
In definitiva, anche alla luce del diverso periodo di realizzazione di edifici poi funzionalmente unificati con opere di collegamento (ciò che è riferito dallo stesso giudice distrettuale), occorre rinnovare il giudizio di sussunzione della fattispecie concreta nel paradigma giuridico del supercondominio.”
Una monumentale ordinanza della Suprema Corte (Cass. civ. Sez. II 2 dicembre 2019 n. 31420 rel. Scarpa) affronta la delicata questione dei beni condominiali di uso esclusivo, rilevando come tale diritto – laddove involga beni che sarebbero altrimenti comuni ex art. 1117 c.c. – appare difficilmente assimilabile al diritto d’uso, inteso quale diritto reale minore ex art 1021 c.c.
La problematica – nel caso all’esame della Corte – sorge per talune aree, antistanti ad esercizi commerciali, che il titolo costitutivo del condominio qualifica fra le parti comuni “salvo gli usi esclusivi delle porzioni di corte antistanti i negozi”. La Corte di appello di Bologna, giudice di merito di seconda istanza nella vicenda giunta all’esame dalla Cassazione, ha rilevato come tale uso esclusivo non dovrebbe essere ricondotto al diritto previsto dall’art. 1021 c.c., “ma costituirebbe comunque un uso delle parti condominiali ex artt. 1102 e 1122 c.c. , ben potendosi contemplare particolari diritti di utilizzazione esclusivi dei beni comuni”.
La riflessione parrebbe suscettibile di applicazione – mutatis mutandis – anche all’ipotesi paradigmatica di beni comuni destinati ad uso esclusivo, ovvero il lastrico o la terrazza previsti dall’art. 1126 c.c.; in tale ipotesi, tuttavia, i diversi ambiti cui ricondurre i diritti del singolo e il diritto degli altri condomini paiono decisamente più definiti e distinti, sia dalla norma che dalla interpretazione più diffusa.
La Corte di legittimità, dopo un’ampia ed interessantissima analisi degli istituti sottesi alla fattispecie, rileva come sussista difficoltà interpretativa nell’inquadrare sistematicamente l’ipotesi di bene condominiale di uso esclusivo (specie laddove, come nell’ipotesi concreta dell’area antistante gli esercizi, la facoltà del singolo titolare escluderebbe in concreto la possibilità per gli altri condomini di trarne alcuna utilità).
La corte delinea con grande chiarezza e lucidità la questione di notevole importanza che ha indotto a rimettere il procedimento al primo Presidente, affinchè valuti la rimessione alle Sezioni Unite:
L’ordinanza, per il significativo excursus e per il notevole rilievo delle argomentazioni, merita comunque lettura integrale.
La suprema corte (Cass.civ. sez. VI ord. 18 novembre 2019 n. 29925 rel. Scarpa) ribadisce orientamento consolidato: “L’art. 1117 c.c., ricomprende fra le parti comuni del condominio “il suolo su cui sorge l’edificio“.
Oggetto di proprietà comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., è, quindi, non solo la superficie a livello del piano di campagna, bensì tutta quella porzione del terreno su cui viene a poggiare l’intero fabbricato e dunque immediatamente pure la parte sottostante di esso.
Il termine “suolo”, adoperato dall’art. 1117 cit., assume, invero, un significato diverso e più ampio di quello supposto dall’art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all’aria.
Piuttosto, l’art. 1117 c.c., letto sistematicamente con l’art. 840 del codice cit., implica che il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio (seppure non menzionato espressamente dall’elencazione esemplificativa fatta dalla prima di tali disposizioni), va considerato di proprietà condominiale, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini.
Pertanto, nessun condomino può, senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione, procedere all’escavazione in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, verrebbe a ledere il diritto di proprietà degli altri partecipanti su una parte comune dell’edificio, privandoli dell’uso e del godimento ad essa pertinenti (Cass. 30 marzo 2016, n. 6154; Cass. 13 luglio 2011, n. 15383; Cass. 2 marzo 2010, n. 4965; Cass. 24 ottobre 2006, n. 22835; Cass. 27 luglio 2006, n. 17141; Cass. 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. 28 aprile 2004, n. 8119; Cass. 18 marzo 1996, n. 2295; Cass. 23 dicembre 1994, n. 11138; Cass. 11 novembre 1986, n. 6587).
La condotta del condomino che, senza il consenso degli altri partecipanti, proceda a scavi in profondità del sottosuolo, acquisendone la proprietà, finisce, in pratica, con l’attrarre la cosa comune nell’ambito della disponibilità esclusiva di quello. La Corte d’Appello di Genova ha valutato l’illegittimità dello scavo eseguito dalla F. non con riferimento ad una ipotizzata alterazione della destinazione del bene (sicché non ha rilievo invocare la verifica sotto il punto di vista della funzione di sostegno alla stabilità dell’edificio, o dell’idoneità dell’intervento a pregiudicare l’interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune, su cui si veda, ad esempio, Cass. 22 settembre 2014, n. 19915), quanto alla stregua della consistenza in sé dello scavo (55-60 centimetri di abbassamento del livello del pavimento).
Ciò ha dato luogo, stando al giudizio di fatto sul punto formulato dai giudici del merito – che non è sindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 -, ad un’appropriazione di una porzione rilevante del sottosuolo, che ha comportato una modifica significativa del bene condominiale, in rapporto alla sua estensione e alla destinazione della modifica stessa, e che perciò non si può spiegare soltanto come modalità di uso più intenso della cosa comune da parte del condomino, in prospettiva di migliore godimento della unità immobiliare di proprietà esclusiva.”
Una recente sentenza della Cassazione (Cass. civ. sez. II 16 settembre 2019 n. 23001 rel. Scarpa) riprende temi ormai consolidati in ordine alla nascita del condominio (e – nel caso di specie – del supercondominio), sottolineando come lo stesso nasca in fatto e diritto quando almeno due unità – poste all’interno di un medesimo complesso – inizino ad appartenere a due soggetti diversi e sussistano beni o servizi destinati a soddisfare esigenze comuni alle proprietà solitarie, ai sensi dell’art. 1117 c.c. (o dell’art. 1117 bis c.c. ove si tratti di supercondominio, come nel caso di specie).
La vicenda nasce in terra subalpina: “La Corte di Torino ritenne inammissibile la domanda ove diretta “a provocare una diversa conformazione dell’edificio condominiale, tale da escludere… da esso quei corpi di fabbrica che lo specifico condomino ritiene estranei”. Ad avviso dei giudici di secondo grado, invece, “la rimodellazione del Condominio, includendo od escludendo corpi di fabbrica, non può essere oggetto di domanda giudiziale, dal momento che essa è di competenza esclusiva dei condomini in sede di eventuale modifica della struttura condominiale, e quindi regolamentare.
Il giudice non ha alcun potere per ‘formarè il Condominio: il giudice, preso atto della scelta insindacabile dei costituenti il condominio, si limita alla verifica di legittimità delle decisioni assunte”. In fatto, peraltro, la Corte d’Appello aggiunse che l’unità immobiliare di proprietà esclusiva Coface, ubicata negli edifici (omissis) , alla stregua della planimetria allegata nel regolamento del 2005, fosse inclusa nell’edificio che comprende anche la galleria e le autorimesse sotterranee, a nulla rilevando che essa non utilizzasse tali spazi.”
La Corte di legittimità, a fronte di una alluvionale serie di motivi di impugnazione, ritiene fondati solo il quinto ed il sesto e rinvia alla corte di merito per nuova disamina alla luce del principio di diritto affermato nella sentenza: Il Giudice non può rimodellare l’edificio condominiale ma ben può accertare se un bene come le autorimesse, che non risultano essere assistite dalla presunzione di condominialità ex art 1117 c.c., debba ritenersi comune per titolo, non potendo peraltro ascriversi a tale genus il regolamento di natura non convenzionale, inidoneo ad incidere sui diritti reali dei singoli condomini.
“Erra la sentenza impugnata quando afferma che la domanda giudiziale della Coface non potesse tendere “a provocare una diversa conformazione dell’edificio condominiale” e che “la rimodellazione del Condominio, includendo od escludendo corpi di fabbrica, non può essere oggetto di domanda giudiziale, dal momento che essa è di competenza esclusiva dei condomini in sede di eventuale modifica della struttura condominiale, e quindi regolamentare”. Sicché “il giudice, preso atto della scelta insindacabile dei costituenti il condominio, si limita alla verifica di legittimità delle decisioni assunte”. Così come erra la ricorrente, peraltro, a cercare nei regolamenti di condominio il titolo costitutivo della condominialità della galleria commerciale e dell’autorimessa.
Al pari del condominio negli edifici, anche il c.d. supercondominio (la cui figura è ora riconducibile all’art. 1117 bis c.c., norma poi introdotta dalla L. n. 220 del 2012, e che quindi non regola la fattispecie in esame), viene in essere “ipso iure et facto”, senza bisogno d’apposite manifestazioni di volontà di tutti i proprietari o altre esternazioni e tanto meno d’approvazioni assembleari, sol che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati (quali, ad esempio, il viale d’ingresso, l’impianto centrale per il riscaldamento, i locali per la portineria, l’alloggio del portiere), attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, “pro quota”, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati, cui spetta altresì l’obbligo di corrispondere gli oneri condominiali relativi alla loro manutenzione (cfr. Cass. Sez. 2, 17/08/2011, n. 17332; Cass. Sez. 2, 31/01/2008, n. 2305; Cass. Sez. 2, 28/01/2019, n. 2279).
I regolamenti di supercondominio, di natura assembleare, quale quello del Centro i Giardini e poi del Condominio (omissis) , approvati a maggioranza, seppur “dalla quasi totalità dei condomini”, afferendo alla sfera della mera gestione, sono paradigmaticamente diretti a disciplinare la conservazione e l’uso delle parti comuni a più condominii, nonché l’apprestamento e la fruizione dei servizi comuni, e pertanto le loro disposizioni non possono incidere sull’estensione e sulla consistenza dei diritti di proprietà e di condominio di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni.
Le clausole che, eventualmente inserite nel loro contesto, tendano a delimitare tali diritti, sia in ordine alle parti comuni, sia in ordine a quelle di proprietà esclusiva, rivestono natura convenzionale e possono, quindi, trarre validità ed efficacia solo dalla specifica accettazione di ciascuno degli interessati, espressa in forma scritta (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612; Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012).
D’altro canto, essendo il giudizio in esame una impugnazione di deliberazione assembleare ex art. 1137 c.c., va considerato come esula dai limiti della legittimazione passiva dell’amministratore una domanda volta ad ottenere l’accertamento della condominialità, o meno, di un bene, ai fini dell’art. 1117 c.c., giacché tale domanda impone il litisconsorzio necessario di tutti i condomini; ne consegue che, nel giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, in cui la legittimazione passiva spetta all’amministratore, l’allegazione dell’appartenenza o dell’estraneità di un bene alle parti comuni di un condominio può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612).
Tuttavia, è altresì noto come il nesso di condominialità, presupposto dalla regola di attribuzione di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive, sia estese in senso verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti adiacenti orizzontalmente, purché le diverse parti siano dotate di strutture portanti e di impianti essenziali comuni, come appunto quelle res che sono esemplificativamente elencate nell’art. 1117 c.c., con la riserva “se il contrario non risulta dal titolo”.
Elemento indispensabile per poter configurare l’esistenza di una situazione condominiale è rappresentato dalla contitolarità necessaria del diritto di proprietà sulle parti comuni dello edificio, in rapporto alla specifica funzione di esse di servire per l’utilizzazione e il godimento delle parti dell’edificio medesimo. Anzi, la “condominialità” si reputa non di meno sussistente pur ove sia verificabile un insieme di edifici “indipendenti”, e cioè manchi un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, ciò ricavandosi dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., che consentono lo scioglimento del condominio nel caso in cui “un gruppo di edifici… si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi”, sempre che “restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dell’art. 1117 codice” (arg. ancora dal già citato art. 1117 bis c.c., introdotto dalla L. n. 220 del 2012).
Peraltro, verificare se un bene rientri, o meno, tra quelli necessari all’uso comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., ovvero appartenga ad un unico condominio complesso, costituito, come nella specie, da più fabbricati, in quanto gruppo di edifici che, seppur indipendenti, hanno in comune alcuni beni, suppone valutazioni in fatto, sottratte al giudizio di legittimità. Nella specie, la Corte d’Appello di Torino, nelle pagine 40 e 41 di sentenza, ha ravvisato l’applicabilità delle norme che disciplinano il condominio, perché il corpo di fabbrica, costituito dall’edificio (…) e all’edificio (…), dove è ubicata l’unità immobiliare della ricorrente, non è strutturalmente indipendente dalla galleria e dall’autorimessa.
Va tuttavia affermato che i locali sotterranei per autorimesse e la galleria commerciale non costituiscono parti dell’edificio condominiale soggette alla presunzione legale di proprietà comune di cui all’art. 1117 c.c. (nella formulazione di tale norma, ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 220 del 2012). Le autorimesse ed i locali commerciali, infatti, anche se situati (come nella specie accertato dalla Corte di Torino) nel perimetro dell’edificio condominiale, non sono inclusi fra quelli di proprietà comune elencati nel citato art. 1117 c.c. (neppure sotto l’aspetto di “parte dell’edificio necessaria all’uso comune”) e il condominio non può perciò giovarsi della relativa presunzione al fine di pretendere il contributo di ogni condomino alle relative spese di manutenzione, così come al condomino che adduca di non essere tenuto al detto contributo per non essere comproprietario di tali locali non incombe l’onere della relativa prova negativa (onere probatorio positivo – che incombe invece al condomino il quale, in caso di parti dell’edificio comuni, per la presunzione stabilita dall’art. 1117 c.c., intenda vincere detta presunzione pretendendo la proprietà esclusiva).
Al fine di accertare l’obbligo del condomino di sostenere (in misura proporzionale) le spese di manutenzione di un locale non incluso fra quelli di proprietà comune elencati nell’art. 1117 c.c., occorre, quindi, che sia data la prova dell’appartenenza di detti locali in proprietà comune e al fine anzidetto determinante è l’esame dei titoli di acquisto e delle eventuali convenzioni (cfr. Cass. Sez. 2, 22/10/1997, n. 10371; Cass. Sez. 3, 17/08/1990, n. 8376).Nè, ai fini dell’accertamento dell’appartenenza al condominio di galleria ed autorimesse sotterranee, può assumere rilievo il regolamento di condominio di formazione assembleare, o la planimetria ivi riportata, non costituendo il regolamento un titolo di proprietà, ove non si tratti di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini (cfr. Cass. Sez. 2, 03/05/1993, n. 5125).”
Una pronuncia ( Cass.civ. sez. II ord. 9 settembre 2019, n. 22442) che potrebbe essere fraintesa, poichè al termine sottoscala possono essere ricondotte situazioni fra loro assai eterogenee, da vano chiuso e dotato di propria autonomia funzionale a semplice area aperta posta sotto la rampa.
Appare quindi opportuno che, prima di applicare il principio di diritto richiamato dalla Corte, peraltro già oggetto di consolidato orientamento, si ponga debita attenzione alla natura, struttura e destinazione funzionale del vano di cui si discute.
“È pacifico che il sottoscala rientri tra le parti comuni dell’edificio condominiale, ex art. 1117 c.c., in quanto proiezione delle scale. Incombe, pertanto, a chi rivendichi l’acquisto uti singuli di detta porzione di immobili l’onere di provare che questa venne avocata a sé dal venditore col primo atto di frazionamento. Questa Corte, con orientamento consolidato al quale intende dare continuità, ha affermato che, al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto.
Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni (Cassazione civile sez. II, 09/08/2018, n. 20693; Cass. Civ., n. 11812 del 2011; Cass. Civ., n. 13450 del 2016; Cass. Civ., n. 5831 del 2017).
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte e, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha accertato che G.L. aveva acquistato dalla SICE s.r.l., con atto del 14.10.1963 per notar T. , diversi locali terranei facenti parti del fabbricato in (OMISSIS) , con altro atto in pari data aveva acquistato alcuni quartini del medesimo fabbricato, nonché il locale garage, confinante – tra l’altro – con il locale in questione. Dall’esame dei titoli di proprietà e dalla CTU, riservata al giudice di merito, era emerso che la ditta costruttrice si era riservata la proprietà di alcuni sottoscala ma non di quello della scala X, ove era situato quello oggetto di lite, che era, pertanto di proprietà comune.
Ulteriore conferma della condominialità del bene veniva ravvisato nel contenuto del regolamento di condominio, che annoverava tra le proprietà esclusive della società costruttrice i box sottostanti al primo rampante delle scale (…) ma non della scala (…), che, doveva, pertanto ritenersi comune (pag.11-13 della sentenza impugnata). In assenza del titolo contrario idoneo a superare la condominialità del sottoscala, il giudice d’appello ha ritenuto che si trattasse di bene comune.”
La corte osserva come sia onere di colui che invoca l’acquisto di detto vano per usucapione provare rigorosamente sia il termine iniziale che il decorso del ventennio: “Incombe su chi invoca l’acquisto per usucapione o ne eccepisce l’acquisto, l’onere di provare sia il momento iniziale del possesso ad usucapionem, sia la decorrenza del ventennio. La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto in tema di onere della prova, ritenendo che fosse onere del G. provare l’inizio della decorrenza dell’usucapione, coincidente con l’inizio dei lavori per l’accorpamento del vano scala. Ha, quindi, ritenuto che, poiché i testi avevano genericamente fatto riferimento al periodo post-terremoto, fosse inverosimile che l’inizio dei lavori risalisse al 1980 e che nel 2000 il termine ad usucapire fosse decorso.”
Le autorimesse costruite su un cortile comune accedono all’area su cui sono costruite e, per tale ragione, divengono comuni pro quota fra i singoli condomini ai sensi dell’art. 1117 c.c., seguendo anche nei trasferimenti dell’unità immobiliare il particolare regime giuridico circolatorio che attiene ai beni condominiali. Non incide, nello specifico caso, la disciplina vincolistica sui parcheggi, ma la disciplina generale del condominio.
E’ quanto afferma, con esaustiva ed interessante motivazione, una recente sentenza di legittimità (Cass.civ. sez. II 14 giugno 2019 n. 16070 rel. Scarpa).
“ la Corte di Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, per raggiungere la conclusione che il box era stato trasferito a C.G.A. quale pertinenza dell’appartamento di cui all’atto pubblico del 16 giugno 1999, ha posto in evidenza che il cortile dove furono realizzati i nuovi box nel 1988 era di proprietà comune pro quota fra i condomini, sicché “tutti e ciascuno di essi appartenevano… ai singoli trentatrè titolari delle proprietà esclusive”.
Ora, secondo consolidato orientamento di questa Corte, il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dalla L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 sexies, in base al testo introdotto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 18 (e prima della modifica introdotta dalla L. n. 246 del 2005, art. 12, comma 9, nella specie inoperante ratione temporis) norma di per sé imperativa, non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa.
La normativa urbanistica, dettata dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per l’epoca dell’edificazione (parametri poi modificati dalla L. n. 122 del 1989, art. 2), verificati a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3393).
Questa Corte ha altresì spiegato come gli spazi che debbono essere riservati a parcheggio ex art. 41 sexies possono essere ubicati indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe idonee a soddisfare l’esigenza, costituente la ratio della norma, di deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22 febbraio 2006, n. 3961).
L’elaborazione giurisprudenziale ha anche chiarito come lo standard urbanistico prescritto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, pone un vincolo pubblicistico di destinazione degli spazi da utilizzare come parcheggio “a servizio delle singole unità immobiliari”, con la conseguenza che “il godimento di tale spazio, nell’ipotesi di fabbricato condominiale, deve essere assicurato in favore del proprietario del singolo appartamento” (Cass. 4 agosto 2017, n. 19647; Cass. 4 febbraio 1999, n. 973). Il vincolo non opera, quindi, genericamente a favore del fabbricato condominiale o dei condomini indistintamente, ma delle singole unità immobiliari di cui l’edificio si compone.
Nella specie, è tuttavia accertato in fatto che le autorimesse oggetto della concessione edilizia del 7 gennaio 1988 furono costruite in un cortile di proprietà condominiale.
I cortili (ed esplicitamente pure le stesse aree destinate a parcheggio, dopo l’entrata in vigore della L. n. 220 del 2012), rispetto ai quali manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio, rientrano tra le parti comuni dell’edificio condominiale, a norma dell’art. 1117 c.c. (Cass. 8 marzo 2017, n. 5831), e la loro trasformazione in un’area edificabile destinata alla installazione, con stabili opere edilizie, di autorimesse, a beneficio di alcuni soltanto dei condomini, seppur faccia venir meno la funzione dell’area comune, non ne comporta una sottrazione al regime della condominialità sotto il profilo dominicale (arg. da Cass. 9 dicembre 1988, n. 6673; Cass. 14 dicembre 1988, n. 6817; Cass. 16 febbraio 1977, n. 697).
Ciò a differenza del locale autorimessa, che, se anche situato entro il perimetro dell’edificio condominiale, non può ritenersi ex se incluso tra le “parti comuni dell’edificio” ai diretti effetti dell’art. 1117 c.c. (cfr. Cass. 22 ottobre 1997, n. 10371).
Essendo state costruite le autorimesse, assentite con concessione edilizia del 7 gennaio 1988, nel cortile comune, su richiesta di ventuno condomini del complesso di (OMISSIS), le stesse dovevano intendersi per accessione, ai sensi dell’art. 934 c.c., di proprietà comune pro indiviso a tutti i condomini dell’immobile, salvo contrario accordo, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam (arg. da Cass. Sez. Un. 16 febbraio 2018, n. 3873).
Giacché appartenenti in comunione ai singoli condomini, quali comproprietari ex art. 1117 c.c. del cortile sul cui suolo sono state costruite, ogni acquisto di un’unità immobiliare compresa nell’edificio condominiale comprende la quota di comproprietà delle autorimesse comuni e il diritto di usufruire della stessa, a nulla rilevando l’eventuale divergenza fra il numero delle autorimesse e quello dei partecipanti al condominio (divergenza su cui invece si sofferma la ricorrente), la quale può semmai incidere ai fini della regolamentazione dell’uso di esse (arg. da Cass. 16 gennaio 2008, n. 730; Cass. 18 luglio 2003, n. 11261; Cass. 28 gennaio 2000, n. 982).
Deve concludersi che l’acquisto del diritto sul box auto sito all’interno del Condominio di (OMISSIS), riconosciuto dalla Corte d’Appello in capo a C.G.A. a titolo di “pertinenza dell’appartamento” di cui all’atto pubblico 16 giugno 1999, discenda piuttosto quale automatica conseguenza dall’essere comprese le autorimesse realizzate nel complesso edilizio fra le parti comuni a tutti i partecipanti. Non rileva, cioè, in maniera decisiva, nella fattispecie di causa, il vincolo previsto dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, su cui si incentra il ricorso, quanto il regime circolatorio tipico delle parti comuni, proprio del condominio edilizio.
L’alienazione dell’unità immobiliare compresa nel Condominio di (OMISSIS) in favore di C.G.A. doveva per questo comportare il trasferimento della titolarità pro quota delle autorimesse costruite nel cortile condominiale.”
Taluni soci di cooperativa edilizia, che ha nel frattempo ha provveduto alla assegnazione in via esclusiva degli alloggi, propongono azione per accertare che alcuni beni posti nel complesso edilizio non sono comuni a tutti, non essendo menzionati espressamente negli atti di acquisto.
La vicenda giunge in cassazione, ove la corte (Cass.civ. sez. II ord. 27 maggio 2019 n. 14432) ripercorre i principi consolidati in tema di condominio e beni comuni, osservando come – una volta che si sia proceduto all’assegnazione in via individuale delle unità singole – si dia luogo ad una situazione di condominio, in cui la norma di riferimento è costituita dall’art. 1117 c.c., sì che i beni destinati per natura o funzione ad uso e beneficio comune devono ritenersi tali anche ove non espressamente menzionati nell’atto di acquisto.
Tuttavia, osserva la corte, la vicenda non può essere decisa poiché coperta da giudicato esterno, avendo taluni condomini impugnato delibere che attribuivano loro spese ed avendo il giudice di merito, con sentenza passata in giudicato, accertato che quelle somme non erano dovute poiché relative a beni non comuni.
Essendo statuizione che attiene allo stesso esatto rapporto dedotto nel giudizio di legittimità, deve ritenersi che la vicenda sia coperta da giudicato esterno, preclusivo di ulteriore esame.
“va ritenuto, in via di principio, che, qualora una cooperativa edilizia, dopo aver stipulato con il Comune una convenzione di lottizzazione su di un terreno al fine di costruirvi un complesso edilizio da destinare a civile abitazioni, abbia poi provveduto all’assegnazione degli alloggi realizzati ai soci, con conseguente formale trasferimento in loro favore della proprietà delle singole unità immobiliari ed insorgenza di un rapporto di condominio tra i soci assegnatari, deve ritenersi che oggetto dell’assegnazione sia pure la comproprietà dei beni che abbiano l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e, cioè, siano collegati strumentalmente, materialmente o funzionalmente, con le unità immobiliari assegnate in proprietà esclusiva ai soci, ovvero che siano in rapporto con queste da accessorio a principale, essendo il diritto dei soci assegnatari sulle parti di area non direttamente interessate dai fabbricati assimilabile a quello dei condomini sulle parti comuni;
– come già sostenuto da questa Corte (sentenza n. 6882/2014), deve rilevarsi che le cooperative edilizie perseguono lo scopo di costruire alloggi e di assegnarli dapprima in godimento e poi in proprietà individuale ai soci; -nell’attuare tale oggetto sociale, la previsione di spazi deputati al godimento comune dei soci è più o meno necessitata dalla natura stessa del corpo di fabbrica realizzato e dall’applicazione ad esso dell’art. 1117 cod. civ. in tema di parti comuni dell’edificio;
-il Tribunale di Tivoli aveva ritenuto decisiva, al fine di escludere la comproprietà in capo ai soci assegnatari delle aree degli impianti di pertinenza degli alloggi (pozzi, depuratore, terreni destinati a verde, impianti di urbanizzazione secondaria), e quindi di negare il conseguente obbligo di partecipare alle relative spese, la mera mancata menzione di tali beni all’interno dell’atto di assegnazione;
-in realtà, va osservato, applicando, al caso di specie, l’art. 1117 cod. civ., si sarebbe, peraltro, configurata, piuttosto, una presunzione di comunione che abbraccia quelle aree quegli impianti i quali (all’esito di indagine di fatto riservata al giudice del merito) denotino una relazione strumentale necessaria con l’uso comune;
– inoltre, tale presunzione non potrebbe essere vinta dalla pura e semplice omessa menzione nell’atto di assegnazione di dette aree o impianti, occorrendo, invece, una formale espressione in questa direzione contenuta nel contratto sociale
– nonostante queste considerazioni, risulta decisiva la circostanza che con la memoria ex art. 380 parte controricorrente ha dedotto l’esistenza di un giudicato esterno formatosi inter partes dopo la notifica del ricorso per cassazione in forza della sentenza del Tribunale di Tivoli n. 1493 del 2014 dep. il 23/6/2014 corredata di idonea certificazione ai sensi dell’art. 124 delle disp. att. cod. proc. civ. che ha prodotto ritualmente il relativo documento;
-la menzionata sentenza, avente ad oggetto l’ impugnativa delle deliberazioni assembleari relativa ai bilanci consuntivo 2011 e 2012 proposta da vari proprietari fra cui il sig. G., accertava che gli atti di assegnazione dei singoli lotti agli attori non avessero alcun riferimento alle pertinenze ad esse relative, sicché non sussisteva alcuna comunione al riguardo dei detti beni;
–l’accertamento contenuto nella sentenza del Tribunale di Tivoli – come già osservato nelle precedenti pronunce di questa Corte richiamate dalla controricorrente n. 328/2017, 327/2017, 767/2017, 10058/2018, 9540/2018 e n.9279/2018 – della insussistenza di una situazione di contitolarità in capo alla controricorrente delle aree pertinenziali del Complesso P. , presupposto di fatto dell’obbligo della stessa di contribuire alle spese della relativa comunione, inerisce ad una connotazione, di fatto e di diritto, del rapporto inter partes,idonea a produrre effetti destinati a durare per tutto il protrarsi di tale rapporto a situazione normativa e fattuale immutata;
– ne consegue che la situazione ivi accertata non può più formare oggetto di valutazione diversa nel presente giudizio (cfr. Cass. 11572/2016), né ai fini del primo motivo, né ai fini del secondo motivo, in quanto i limiti della cognizione del giudice del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali dipendono comunque dalla preventiva configurabilità di una deliberazione che abbia approvato la ripartizione delle spese tra i condomini relative a parti ad essi comuni, essendo tale situazione di comunione smentita dall’intervenuto giudicato esterno (arg. Cass. 305/2016);
– consegue che il ricorso per cassazione, poiché finalizzato a porre in discussione la questione relativa alla contitolarità delle aree pertinenziali del Complesso Residenziale P., che risulta coperta dal contrario giudicato esterno dedotto da parte controricorrente, deve essere rigettato (Cass. 13916/2006);
– la rilevanza del giudicato esterno non è inficiata dalla deduzione di parte ricorrente svolta nella memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ. in relazione alla natura incidentale dell’accertamento oggetto del giudicato , perché esso non riguarda la natura esclusiva di beni ritenuti condominiali;
–esso concerne l’insussistenza dell’obbligo di concorrere alle spese ed il suo antecedente logico rappresentato dall’esclusione del rapporto di condominialità nei confronti del G., accertamento rispetto al quale il contraddittorio è integro e la decisione idonea ad assurgere all’efficacia di giudicato esterno ed ad impedire la riapertura della questione, in difetto di elementi sopravvenuti (Cass.11572/2016).”
Il giudice, nella valutazione della destinazione di beni al servizio comune, onde stabilire se costituiscano proprietà esclusiva oppure beni comuni ex art 1117 c.c., può avvalersi anche delle dichiarazioni testimoniali assunte durante l’istruttoria.
E’ quanto afferma una recente sentenza di legittimità, (Cass. civ. sez. II 3 maggio 2019 n. 11729), ritenendo che – pur trattandosi di beni immobili – l’accertamento della loro natura comune non sottostà ai rigidi principi probatori in tema di azione di rivendicazione, secondo una consolidata giurisprudenza.
“Non sussiste, anzitutto, la lamentata violazione di legge riguardo al fatto che la natura condominiale delle nicchie collocate lungo il tracciato interposto tra i fabbricati sia stata desunta dalle deposizioni testimoniali in assenza di prova scritta, poiché tale accertamento dipendeva dal riscontro della concreta destinazione delle nicchie a servizio delle proprietà esclusive e dalla specifica relazione di accessorietà tra i beni comuni e quelli di proprietà esclusiva, alla stregua delle complessive risultanze di causa.
Tale relazione costituisce – difatti – il presupposto applicativo della presunzione sancita dall’art. 1117 non essendo richiesto, ai fini dell’accertamento della natura condominiale dei beni, il rigore probatorio proprio dell’azione di rivendica (Cass. 20593/2018; Cass. 11195/2010; Cass. 15372/2000; Cass. 884/2018; Cass.20071/2017), fermo inoltre che la predetta presunzione può essere vinta solo da un titolo contrario (da intendersi come atto costitutivo del condominio: Cass. 11877/2002; Cass. 11844/1997; Cass. 9062/1994), la cui esistenza deve essere dedotta e dimostrata dal condomino che si affermi proprietario esclusivo del bene o della porzione controversa (Cass. 27145/2017).
Va inoltre precisato che, in considerazione del rapporto di accessorietà necessaria che lega le parti comuni dell’edificio alle proprietà singole, la condominialità non è esclusa per il solo fatto che le costruzioni siano realizzate, anziché come porzioni di piano l’una sull’altra (condominio verticale), quali proprietà singole in sequenza (villette a schiera, condominio in orizzontale), poiché la nozione di condominio è configurabile anche nel caso di immobili adiacenti orizzontalmente in senso proprio, ove dotati delle strutture e degli impianti essenziali indicati dall’art. 1117 c.c. (Cass. 27360/2016; Cass. 18344/2015; Cass. 4973/2007; Cass. 8066/2005).
La decisione non è infine censurabile, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., per aver ritenuto credibili le dichiarazioni testimoniali de relato o rese da soggetti legami da vincoli di parentela e professionali con le parti.
Premesso che, a seguito della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 247 c.p.c. (Corte Cost. 248/1974), la sussistenza di rapporti di parentela tra i testi e le parti non si traduce in un motivo di incapacità a testimoniare, nè comporta ex se alcun giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni rese in giudizio, e che la testimonianza de relato, pur se munita di una valenza probatoria attenuata, è certamente utilizzabile per la decisione specie se, come nel caso concreto, confermata dal raffronto con le altre risultanze processualità (cfr. sentenza pag. 9; Cass. 8358/2007; Cass. 43/1998), resta che l’apprezzamento delle prove ed il giudizio di attendibilità dei testi, anche in presenza di particolari legami con le parti, è rimessa al giudice di merito ed è sindacabile solo per vizi di motivazione (Cass. 25358/2015; Cass. 1109/2006; Cass. 7061/2002).”
Una lunga e dotta sentenza della corte di legittimità ( Cass.Civ. sez.II 6 marzo 2019 n. 6458 rel. Scarpa) affronta un tema interessante e spesso frainteso: laddove si costituisca una situazione di condominio in conseguenza del frazionamento della unitaria proprietà individuale in unità attribuite a diversi soggetti, i beni comuni e strumentali a tali unità saranno soggetti (ex lege o per titolo) al regime dell’art. 1117 cod.civ., non potendosi invece applicare la disciplina delle pertinenze.
La vicenda trae origine in terra ligure, da una sentenza del Tribunale di Chiavari, poi appellata dinanzi alla Corte di Genova: “L. C. convenne davanti al Tribunale di Chiavari S. A. T. ed il notaio R.a S., chiedendo di accertare che la prima non avesse alcun diritto di proprietà o comproprietà sulla striscia di terreno aderente alla casa dell’attrice in via T n. 4 di Chiavari (area che invece la signora T. occupava con beni e masserizie, ostruendone il transito), nonché di condannare il notaio S al risarcimento dei danni, per aver erroneamente indicato i confini della proprietà T. nell’atto di acquisto da A C del 19 aprile 2002, nonché in un precedente titolo.
S A T dedusse di essere comproprietaria per un terzo della striscia di terreno in contesa, come da atto di divisione del 20 luglio 1987. Il notaio R S eccepì la prescrizione e chiamò in garanzia la Fondiaria SAI s.p.a. e la Loyd’s of London Rappresentanza Generale per l’Italia.
Il Tribunale di Chiavari respinse le domande dell’attrice, dichiarando che la striscia di terreno fosse in comunione tra L C, S A T e S P, e, accogliendo la riconvenzionale, condannò la signora C a rimuovere vasi ed altri oggetti dal sedime, nonché a rimborsare le spese alle convenute ed alle assicuratrici chiamate in causa.
La Corte di Genova, rigettando l’appello di L C, osservò che nell’atto di divisione del 20 luglio 1987, stipulato tra i comproprietari originari dell’immobile, era individuata con chiarezza l’esistenza di una striscia di terreno posta tra il fabbricato ed i giardini, definita come “distacco condominiale”, che rimaneva di proprietà comune dei condividenti.
Secondo la Corte d’Appello, la striscia in contesa “come bene condominiale e pertinenza degli appartamenti è stata trasferita agli aventi causa dei condividenti originari, che sono i proprietari attuali della casa: in tanto appartiene per un terzo a L C, per un terzo a S P e per un terzo a S A T.
Per i giudici di secondo grado, nemmeno rileva – in senso contrario – “il fatto che la striscia di terreno in contestazione non sia stata espressamente indicata – come bene pertinenziale – nel titolo di acquisto della signora T. Invero – in forza del principio per cui “accessorium sequitur principale” – gli atti traslativi aventi per oggetto i beni principali ovvero le proprietà individuali facenti parte di un condominio comprendono i beni pertinenziali – ove non sia diversamente disposto – ed i beni condominiali, che siano destinati per la loro funzione all’uso e servizio dei beni di proprietà solitaria.
Nella fattispecie non è sostenibile che la striscia per cui è causa costituisca oggetto di una comunione ordinaria, perpetuatasi tra i proprietari originari dell’immobile, a sé stante e separata dal condominio, trattandosi – al contrario – a tutti gli effetti di un bene pertinenziale, definito espressamente come condominiale nel titolo originale di divisione dagli originari comproprietari della casa ed appositamente escluso dalla divisione, siccome destinato propriamente al passaggio comune”.
A tal proposito il Giudice di legittimità osserva che: ” La Corte d’Appello di Genova ha qualificato la striscia di terreno corrente tra gli immobili delle parti, siti in via T n. 4 di Chiavari, come “bene condominiale e pertinenza degli appartamenti”, e così considerato che “gliattitraslativiaventi per oggetto i beni principaliovveroleproprietàindividuali facenti parte di un condominio comprendono i beni pertinenziali – ove non sia diversamente disposto – edi benicondominiali,che siano destinati per la loro funzioneall’usoeserviziodei beni di proprietà solitaria”.
La qualificazione dell’area come condominiale è stata ricavata dai giudici di secondo grado dal “titolo originale di divisione dagli originari comproprietari della casa”, trattandosi di bene“appositamenteesclusodalla divisione, siccome destinato propriamentealpassaggio comune”.
Ora, la situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti del Codice Civile, si attua sin dal momento in cuisi opera il frazionamento della proprietàdi unedificio,aseguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto.
La sentenza impugnata individual’attodi frazionamento iniziale, dal quale ebbeorigineilcondominiodelle unità immobiliari ora appartenenti a L C; S A T e S P, nella divisione ereditaria del 20 luglio 1987, allorché furono assegnati ai condividenti singoli appartamenti ed una porzione di orto.
Individuato tale momento, doveva reputarsi operante la presunzione legale ex art. 1117e.e.dicomunione”proindiviso”ditutte quelleparti del complessoche, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal primo titolo di frazionamento non risultasse, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente al venditore o ad alcuno dei condomini la proprietà di dette parti (Cass.Sez.2,18/12/2014,n. 26766; Cass.Sez. 2, 22/08/2002,n. 12340;Cass.Sez.2,07/08/2002,n. 11877).
Nella specie, si ha riguardo (per quanto accertato in fatto dai giudici di merito, sullabasediapprezzamentolorospettante) ad area strutturalmente destinata a dareaccessoalfabbricato ed ai giardini, definita nel titolo “distaccocondominiale”,in quanto tale facente parte delle cose comuni di cui all’art. 1117 cod.civ. , dovendosi qualificarsi come cortile, agli effetti di tale disposizione, qualsiasi spazio esterno che abbia la funzione non soltanto di dare ariae luceall’adiacentefabbricato,maanche di consentirne l’accesso (Cass. Sez. 2, 29/10/2003, n. 16241; Cass. Sez. 2, 03/10/1991, n. 10309). Tale bene, pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso nel primo atto di trasferimento qualsiasi univoco riferimento al riguardo, deve essere ritenuto parte comune dell’edificio condominiale,aisensidelmedesimoart.1117e.e.,ceduta in comproprietà proquota.
Peraltro,questaCortehaancora di recente ribadito come, al fine di accertare se l’uso esclusivo di un’area esterna al fabbricato, altrimenti idonea a soddisfare le esigenze di accesso all’edificio di tutti i partecipanti, sia attribuito ad uno o più condomini, è irrilevanteex se la circostanza che l’area stessa, per la conformazione dei luoghi, sia stata di fatto goduta più proficuamente e frequentemente dal condomino titolare della contigua unità immobiliare (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712).
Ne consegue che non ha alcun rilievo il contenuto dell’atto traslativo C/T del19 aprile 2002 (del quale la ricorrente evidenzia che non indicasse espressamente la striscia di terreno), non potendo esso valere quale titolo contrario ex art. 1117 cod.civ. , né validamente disporre della proprietà esclusiva dell’area oggetto di lite, ormai compresa fra le proprietà comuni (rimanendo nulla, alcontrario, la clausola, contenuta nel contratto di vendita di un’unità immobiliare di un condominio, con la quale venga esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni: cfr. Cass. Sez. 2, 29/01/2015, n. 1680).
La mera circostanza che uno dei successivi atti di vendita di una singola unità immobiliare non contenga espressa menzione del trasferimento anche della comproprietà delle aree comuni non è, in sostanza, in alcun modo sufficiente a superare la presunzione posta dall’art. 1117 cod.civ. , la quale, al contrario, comporta che all’atto stesso consegua l’alienazione, unitamente alla porzione esclusiva, della corrispondente quota di condominio su dette parti comuni.
Stando, infatti, al consolidato orientamento di questa Corte, una volta accertata lasussistenzadiunasituazionedicondominiodiedifici, le vicende traslative riguardanti i piani o le porzioni di piano di proprietà individuale estendono i loro effetti, secondo il principio “accessorium sequitur principale”, alle parti comuni necessarie per la struttura o destinate per la funzione al servizio degli immobili di proprietà solitaria(come,nella specie, la striscia destinata al passaggio comune), non trattandosi, per quanto accertato in fatto dallaCortedi Genova, di area legata agli appartamenti delle parti da mera relazione spaziale (Cass. Sez. 6 – 2, 26/10/2011, n. 22361; Cass. Sez. 2, 27/04/1993, n. 4931).
Nonèpertinente all’acclarata situazione difatto la censura, contenuta nelsecondo motivo, diviolazione e falsa applicazione dell’art. 817 cod.civ.
La relazione di accessorietàtra parti comuni ed unità immobiliari,tipicadelcondominiodi edifici, ex artt. 1117 e ss. e.e.,esuladallafiguradelle pertinenze ex art. 817 cod.civ.
Nel condominio, il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, le facciate,itetti,icortili,gliimpianti che servono all’uso comune, non sono «cose» distinte e autonome rispetto alle porzioni di proprietà individuale, ma «parti» indivisibili di un tutto.
Le parti elencate o richiamate dall’art. 1117 cod.civ. non offrono, invero, alcuna utilitàautonoma e compiuta, in quanto la loro utilizzazione oggettiva e il loro godimento soggettivo sono unicamente strumentali all’utilizzazione o al godimento degli appartamenti.
Le pertinenzedi cuiall’art.817 cod.civ. , per contro, suppongono due «cose» che mantengono la loro identità, e che sono non congiuntefisicamente,quanto combinate in forza di una «destinazione durevole» (cioè, di una destinazionenon episodica, ma comunque temporanea) alservizioo all’ornamento l’unadell’altra.Perché,peraltro,sicrei un’efficace destinazione pertinenziale, basta essere proprietario o titolare di altro diritto reale sulla sola cosa principale, mentre non occorre affatto essere anche proprietario (o comproprietario) della cosa destinata a pertinenza.
Ed ancora, il proprium della res accessoria è la sua non indispensabilità, ovvero la sua separabilità dal tutto, mentre la divisibilità delle parti comuni dell’edificio condominiale è rigidamente condizionata, in base all’art. 1119 e.e., al raffronto trai vantaggi che i singoli condomini ritraevano in precedenza da esse e i vantaggi che ne ricaverebbero dopo la divisione (oltre che al “consenso di tutti i partecipanti al condominio”, presupposto esplicitamente aggiunto dalla legge n. 220/2012).
Né vi è alcuna contraddizione tra l’accertamento della condominialità della striscia di terreno e la mancata condanna della signora T a rimuovere i vasieglioggetti posizionati su tale area, in quanto è noto come le due fondamentali limitazioni poste dall’art. 1102 cod.civ. all’usodella cosa comune da parte di ciascuncondomino, ovveroildivietodi alterarne la destinazione e l’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri comproprietari, non impediscono al singolo partecipante, entro i limitioraricordati,diservirsidiessa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, quali, nella specie, come denuncia la ricorrente, la collocazione di masserizie e di oggetti ornamentali (cfr., fra le tante, Cass. Sez. 2, 05/12/1997, n. 12344; Cass. Sez. 2, 06/05/1988, n. 3376).”
La Corte esclude infine qualunque responsabilità del notaio: “la mancata menzione da parte del notaio, nella stipula di uno dei successivi atti di vendita di una singola unità immobiliare compresa in un condominio edilizio, del trasferimento anche della comproprietà di alcuna delle aree comuni, ex art. 1117 cod.civ., non concreta alcuna violazione delle regole posta dall’ordinamento professionale a tutela delle esigenze della pubblica fede e della certezza degli strumenti della vita giuridica, tale da trascendere la sfera giuridica dei partecipi dell’atto redatto dal notaio e ledere i terzi, i quali abbiano interesse a fare affidamento sulla validità dell’atto, secondo il generale canone del neminem laedere (arg. da Cass. Sez. 3, 24/05/1960, n. 1327).”