Una definizione suggestiva per un fenomeno processuale non immediatamente comprensibile ai non addetti ai lavori.
Si afferma in giurisprudenza che il singolo condomino e il Condominio abbiano una concorrente legittimazione processuale e che il primo possa agire in giudizio a tutela di interessi condominiali anche ove la rappresentanza processuale sia stata assunta dall’amministratore, oppure a fronte della inerzia dell’amministratore stesso.
Il presupposto indefettibile di tale rappresentanza sostitutiva è che in quella sede il singolo faccia comunque valere interessi collettivi e non esclusivamente propri.
Il concetto è ribadito da una sentenza recente della Suprema Corte che, purtroppo, torna a definire il condominio quale ente di gestione, un istituto che la più accreditata dottrina ha ritenuto non applicabile al condominio e una lettura che è stata letteralmente demolita dalle sezioni unite n. 9148 del 2008.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 5 luglio – 4 ottobre 2016, n. 19796: “Nel condominio di edifici, che costituisce un ente di gestione, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, ne’ quindi del potere di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell’amministratore stesso che vi abbia fatto acquiescenza, salvo che relativamente alle controversie aventi ad oggetto la gestione di un servizio comune (Sez. 2, n. 6480 del 3/7/1998, RV. 516908; Sez. 2, n. 9033 del 4/7/2001, Rv. 547884). Da qui si è condivisamente tratto che il principio della c.d. “rappresentanza reciproca” e della “legittimazione sostitutiva” – in base al quale il condomino può agire a tutela dei diritti comuni nei confronti dei terzi – non può essere invocato, ad esempio, qualora il condomino, nel chiedere il rimborso anche delle spese anticipate dagli altri comproprietari rimasti estranei al giudizio, agisca non a tutela di un bene comune, bensì per far valere l’interesse personale alla reintegrazione del proprio patrimonio individuale (Sez. 2, n. 18028 del 318/2010, Rv. 614474). Ciò posto, deve osservarsi che nel caso alla mano il resistente non ha agito per sostenere le ragioni dei condominio, ma quelle sue proprie, nei confronti di soggetto (l’appaltatore) legato da rapporto contrattuale con il condominio. Da qui il difetto di legittimazione del B. ad un’autonoma azione nei confronti dei B. al fine di soddisfare un interesse esclusivamente proprio. Ove, poi, avesse inteso tutelare, come parrebbe sulla base dell’esposto, il suo diritto di condomino, leso da abusi edilizi, ed opere dirette a favorire solo alcuni condòmini e poste a carico di tutti i condòmini, non avrebbe dovuto rivolgersi che contro il condominio, restando estraneo alla pretesa il terzo contraente.”
La novella del 2012 ha completamente ridisegnato il volto dell’art. 67 disp.att. cod.civ., dettando una disciplina del supercondominio la cui operatività – a tutt’oggi – lascia ampi margini di dubbio anche fra gli interpreti più accreditati.
Per i complessi con più di sessanta condomini il legislatore ha dettato un farraginoso meccanismo che, astrattamente, intendeva evitare le riunioni fiume, attribuendo l’ordinaria amministrazione ad una assemblea più snella e composta dai rappresentanti dei singoli fabbricati ma che – per la contorta e imprecisa formulazione della norma – lascia aperti forti interrogativi sulle modalità di nomina dei rappresentanti stessi, di convocazione, di partecipazione e di svolgimento di quella assemblea.
Il Tribunale di Milano, con sentenza 22 agosto 2016 (estensore Rota), ha statuito che l’assemblea dei rappresentanti ha competenza in materia di nomina dell’amministratore – che è certamente materia di ordinaria amministrazione – ma non può invece deciderne la revoca, che competerebbe alla assemblea plenaria.
La sentenza, i cui approdi possono anche apparire poco condivisibili alla luce degli orientamenti di legittimità su alcuni dei problemi affrontati, ha il pregio di tentare una analisi sistematica dell’istituto del supercondominio così come tracciato dal legislatore del 2012 e merita lettura attenta e integrale.
Qualora da una attività industriale o commerciale derivino immissioni di fumi e rumori nelle proprietà esclusive dei vicini, per stabilire se le stesse si qualifichino come illecite ai sensi dell’art. 844 cod.civ. è indispensabile, oltre alla assunzione delle prove ordinarie in ordine alla loro sussistenza e alle modalità con cui si manifestano, che il Giudice disponga una consulenza tecnica che accerti il superamento dei limiti della loro tollerabilità.
Solo su tali presupposti potrà fondarsi una sentenza di condanna nei confronti del soggetto che produca rumori o fumi che arrecano pregiudizio al quotidiano vivere dei vicini.
Il principio è affermato da Cass. civ. II sez. nella sentenza 17685/2016 depositata il 7.9.2016.
La Suprema Corte ha censurato i giudici di merito che avevano respinto – in primo e in secondo grado – la domanda dei danneggiati, ritenendo la motivazione insufficiente; in particolare la corte di appello di Verona aveva affermato che “dalle deposizioni testimoniali e dalla documentazione amministrativa offerte da parte ricorrente emergeva che la situazione era certamente difficile a cagione dell’attività di sfasciacarrozze svolta dal convenuto … ma non vi era prova certa né del superamento dei limiti di tollerabilità cli cui all’art . 844 e.e., né dei danni al fabbricato nel quale tutte le persone coinvolte nella vicenda abitavano o lavoravano, e neppure che tutto quanto allegato e lamentato cagionasse con nesso eziologico certo, un danno alla salute. La Corte ha aggiunto che icertificati medici non fornivano la dimostrazione necessaria sul punto. Ha negato l’ammissione di accertamenti peritali relativi alla valutazione delle immissioni e al danno alla salute perché la ctu non è un mezzo istruttorio, ma sarebbe utilizzabile solo laddove la parte assolva il proprio onere probatorio”
La Cassazione ha ritenuto tale motivazione frettolosa e inadeguata, chiarendo un principio importante in tema di ammissione della consulenza tecnica: “La valutazione sintetica addotta dalla sentenza appare quindi apodittica nel concludere per l’insufficiente assolvimento dell’onere della prova. Trattasi di formula rinunciataria della decisione delle controversie civili, che deve essere preceduta e giustificata da un vaglio critico e da uno sforzo conoscitivo e valutativo appropriati, mediante opportuno uso delle presunzioni e dei mezzi istruttori che siano nella disponibilità del giudice. E’ opportuna in proposito la censura sviluppata nel secondo motivo, relativa alla mancata ammissione di consulenze tecniche volte ad accertare se i danni materiali agli immobili e le patologie cliniche alle persona istanti, circostanze documentate da risultanze di cui si è detto e da certificazioni mediche, fossero direttamente ricollegabili alle lavorazioni effettuate da controparte.
Il ricorso ha puntualmente ricordato (invocando Cass. 16256/04) che in casi siffatti la consulenza tecnica, che di regola non è mezzo di prova ma sempre è mezzo istruttorio (contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, che ha ripreso isolate massimazioni), è doverosa (cfr. Cass. 13401/05; 8297/05; 1120/06). La consulenza tecnica può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolva in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche (tra le tante Cass. 4792/2013; 1149/11; 6155/09; 1020/06): in tal senso la valutazione del rapporto eziologico tra i fatti documentati in causa e la loro rilevanza sulla solidità dell’immobile e sulla salute degli attori, che lamentano tra l’altro ipertensione e affezioni dermatologiche, appare senz’altro ipotesi ineludibile in cui è indispensabile il conforto specialistico”. Pertanto ha carattere di motivazione apparente quella del giudice che eluda la decisione di merito, rifiutando l ‘ammissione di consulenza tecnica in queste circostanze. Va aggiunto che la cessazione delle attività moleste non fa venir meno l’obbligatorietà dell’approfondimento istruttorio, che si impone al fine di verificare se sia possibile, mediante l’esame degli atti e adeguate indagini tecniche e anamnestiche, accertare la veridicità delle ipotesi di danno prospettate da chi agisce in giudizio, suffragate da riscontri presuntivi, descritti nel caso di specie dalle stesse sentenze di merito”
La sentenza di secondo grado è stata dunque cassata e il giudizio è stato rimesso alla corte di Appello di Trento affinché rinnovi il procedimento di secondo grado attendendosi ai principi di diritto enunciati.
Si tratta di materia di frequente applicazione in campo condominiale, ove i rumori, i fumi o gli odori provenienti dalle proprietà esclusive sono spesso oggetto di contendere dinanzi all’autorità giudiziaria: è bene a tal proposito sottolineare che per tali controversie sussiste legittimazione attiva dell’amministratore ove le immissioni riguardino (anche) parti comuni, mentre se le doglianze sono relative a disagi subiti da una unità di proprietà esclusiva rimane vicenda circoscritta alla sfera dei diretti interessati.
La Suprema Corte (Cass. pen. II sez. 1 agosto 2016 n. 33547) delinea linee interpretative dell’art. 646 cod.pen. in campo condominiale che devono far riflettere chi si trova a gestire patrimoni, anche significativi, riconducibili a centri di interesse diversi.
Con sentenza depositata il primo di agosto la Corte chiarisce che l’appropriazione si perfeziona non con la mancata restituzione ma con il prelievo dal conto condominiale e che l’ingiusto profitto può concretizzarsi anche semplicemente nello spostamento delle somme ad un unico conto con il quale l’amministratore gestiva tutti i condomini, che presentava condizioni di miglior favore.
Un sentenza da leggere, per comprendere come prassi che oggi sono espressamente vietate dall’art. 1129 XII comma n. 4 cod.civ. e che in precedenza erano comunque considerate illecite sotto il profilo civilistico dalla giurisprudenza abbiano anche risvolti di natura penale da non sottovalutare.
“ la lingua italiana – scriveva Flaiano – non è adatta alla protesta, alla rivolta, alla discussione dei valori e delle responsabilità, è una lingua buona per fare le domande in carta da bollo, ricordi d’infanzia, inchieste sul sesso degli angeli e buona, questo sì, per leccare. Lecca, lecca, buona lingua italiana infaticabile fai il tuo lavoro per il partito o per i buoni sentimenti “
In realtà il paradosso di Flajano era il frutto dell’amara delusione e disillusione di fronte ad un paese, non ad un linguaggio, che ha sempre omesso di considerare il bene del gruppo, preferendo quello dei pochi, ammantandolo di parole fuorvianti.
Oggi il legislatore, con quella stessa lingua, ci dice da un lato che l’amministratore deve essere un professionista serio, preparato, rigoroso, soggetto a ben precise caratteristiche di affidabilità personale e sociale (basti vedere i numerosi requisiti previsti dall’art. 71 bis disp.att. cod.civ.), che risponde a parametri di deontologia, trasparenza e correttezza verso il suo utente consumatore, secondo un modello che – seppure non strutturato in ordini o collegi – è in tutto e per tutto rapportato dalla L. 4/2013 alle caratteristiche delle professioni ordinistiche.
Last but not least, il D.M. 140/2014, come norma attuativa dell’art. 71 bis disp.att. cod.civ., prevede che l’amministratore deve essere un professionista soggetto a formazione continua e, cosa ancor più singolare, sottoposto obbligatoriamente ad una valutazione annuale, cosa che forse è richiesta oggi solo ai piloti da combattimento e a poche altre professioni.
Tutto ciò, seppure con qualche auspicabile correzione e qualche rigidezza in meno, è stato salutato come il dovuto riconoscimento – trascorsi settanta anni dalla entrata in vigore del codice civile – ad una figura che occupa un ruolo tecnico, complesso, sfaccettato e che richiede competenze eterogenee e non comuni che vanno dal diritto alla contabilità, alla fiscalità, alla sicurezza sul lavoro. L’amministratore di condominio non deve essere né un avvocato, né un ingegnere né un commercialista ma deve essere un professionista di grande preparazione che – come i medici condotti di una volta – sia in grado di percepire celermente la natura di un problema e di indirizzare il paziente dallo specialista più adatto.
Ciò richiede, indubbiamente, una seria preparazione e un costante aggiornamento, che deve abbinarsi ad una provata affidabilità, ritenuta imprescindibile in un soggetto che – nell’adempimento del proprio dovere professionale – è chiamato anche a gestire ingenti quantità di denaro dei suoi amministrati.
Insomma negli anni dal 2012 al 2014 il legislatore ci ha detto che, finalmente, l’amministratore non era più quel quisque de populo che emergeva dal silenzio del codice del 1942 ma doveva diventare un professionista di grande competenza e attendibilità, in quanto chiamato ad operare in un settore di fra i più complessi e rilevanti nel contesto socioeconomico, ovvero la multiforme realtà degli edifici in condominio; una realtà che rappresenta un laboratorio sperimentale ove si mescolano i profili più delicati del diritto (dai diritti reali alle obbligazioni plurisoggettive, con i relativi articolati processuali) insieme a quelli tecnici degli impianti, degli edifici, della contabilità e della normativa fiscale e tributaria fino alla gestione dei gruppi; un breve sguardo alle materie di aggiornamento obbligatorio previste dall’art. 5 del DM 140/2014 fa impallidire i programmi di diversi corsi universitari: “I corsi di formazione e di aggiornamento contengono moduli didattici attinenti le materie di interesse dell’amministratore, quali:a) l’amministrazione condominiale, con particolare riguardo ai compiti ed ai poteri dell’amministratore; b) la sicurezza degli edifici, con particolare riguardo ai requisiti di staticita’ e di risparmio energetico, ai sistemi di riscaldamento e di condizionamento, agli impianti idrici, elettrici ed agli ascensori e montacarichi, alla verifica della manutenzione delle parti comuni degli edifici ed alla prevenzione incendi; c) le problematiche in tema di spazi comuni, regolamenti condominiali, ripartizione dei costi in relazione alle tabelle millesimali; d) i diritti reali, con particolare riguardo al condominio degli edifici ed alla proprieta’ edilizia; e) la normativa urbanistica, con particolare riguardo ai regolamenti edilizi, alla legislazione speciale delle zone territoriali di interesse per l’esercizio della professione ed alle disposizioni sulle barriere architettoniche; f) i contratti, in particolare quello d’appalto ed il contratto di lavoro subordinato; g) le tecniche di risoluzione dei conflitti; h) l’utilizzo degli strumenti informatici; i) la contabilita’.”
A fronte della conclamata complessità della materia, che il legislatore ha ritenuto motivo essenziale per riqualificare (opportunamente) il ruolo e la figura professionale dell’amministratore di condominio, è stata di recente approvata la Legge, 28/04/2016 n° 57, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 29/04/2016, che delega al Governo la riforma della magistratura onoraria.
Già è singolare che una legge che tocca un settore tanto delicato sia delegata all’esecutivo e non sottoposta ad un serio ed approfondito confronto parlamentare. Peraltro il disegno di legge, oltre ad intervenire in maniera assolutamente discutibile – precarizzandola definitivamente – su una figura che da vent’anni regge un bel pezzo del carico dei Tribunali facendo appello spesso solo alla propria buona volontà – unifica Giudici Onorari di Tribunale e Giudici di Pace in un unico ibrido definito Magistrato Onorario di Pace e introduce una sconcertante previsione: “Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, comma 1, lettera p), il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi,:…“attribuendo alla competenza dell’ufficio del giudice di pace:a) le cause e i procedimenti di volontaria giurisdizione in materia di condominio degli edifici”.
Oggi quella materia che è stata definita di tale complessità da richiedere a chi la pratica quotidianamente come attività professionale parametri stringenti e di grande livello, viene in blocco attribuita alla cognizione di un giudice che la stessa legge definisce come figura minore, transitoria e di mero complemento, destinata a rimanere in servizio un quadriennio (prorogabile una sola volta) e con obbligo di dedicarsi contemporaneamente ad altra professione che gli assicuri da vivere, con un tetto massimo di tempo settimanale da dediciare allo svolgimento della attività giurisdizionale.
L’intera cognizione sulla materia del Condominio sarà dunque affidata in primo grado ad non professionista, un soggetto che lo stesso legislatore relega a figura minore della giurisdizione.
Tutte le controversie in tema di nomina e revoca dell’amministratore diventeranno di competenza del magistrato onorario che – non dedicandosi professionalmente, perché la legge glielo impedisce – a tale attività le guarderà come e quando potrà; stessa sorte attende le impugnative delle delibere condominiali, qualche che sia il loro valore.
Con l’ulteriore problematica che, essendo la materia cautelare sottratta al magistrato onorario, della eventuale sospensiva della efficacia delle delibere si dovrà forse andare a discutere dinanzi al Tribunale, con inutile duplicazione di fasi e costi.
Con la stessa lingua di Flaiano il legislatore ci ha detto che la materia del Condominio è materia assai tecnica e complessa, e di ciò non ne dubitiamo, essendo diversi i grandi giuristi che hanno dedicato a quel tema molte delle loro energie (da Salis a Corona), dall’altra ci sta per dire che, tuttavia, le liti che scaturiscono da quella materia così complessa è bene che le decida un giudice onorario, precario e non professionista.
Contro tale stranissima visione si è già levata alta la voce di diverse associazioni di amministratori e anche di personalità del mondo dell’avvocatura come Maurizio de Tilla, presidente dell’Associazione Nazionale Avvocati Italiani nonché prolifico e attento studioso della materia del Condominio.
Non resta che confidare nei decreti governativi, che comunque dovranno attenersi ai parametri dettati dalla delega e quindi non potranno certo mutarne l’impianto.
un ordine del giorno che impegna il governo a “intraprendere ogni iniziativa utile all’individuazione dei requisiti di professionalità che deve avere l’amministratore e a darne adeguata pubblicità, obbligandolo ad allegare al verbale di nomina, già in sede assembleare, la documentazione che attesti di essere in possesso dei requisiti di cui all’articolo 71-bis delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e del decreto ministeriale n. 140 del 2014”
Ci sono già due leggi e un decreto ministeriale ( assai mal fatti) che disciplinano la materia. Basterebbe, forse, interpretarli correttamente e applicarli.
Oppure, ove si ritenga che non siano idonei, modificarli (a riprova della valenza di un legislatore che in quattro anni fa tre provvedimenti che ha già ritoccato due volte e che ancora trova inadeguati…)
Oggi il Governo si impegna a rivedere ancora la disciplina (impegno peraltro dell’organo esecutivo e non legislativo).
E tutto ciò affinché l’amministratore sia tenuto ad allegare al verbale di nomina qualche attestazione sui requisiti: ma l’art. 71 bis disp. att. cod.civ. già prevede l’obbligo di quei requisiti e anche le conseguenze della loro assenza.
E l’assemblea che decida di nominare un certo amministratore, in violazione o meno della norma, non si spaventerà certo per un obbligo di allegazione documentale.
interessante articolo di Francesco Schena oggi sul sole24ore, che descrive una realtà in continuo divenire e che coglie senza giri di parole uno degli aspetti del fenomeno:
“in realtà, l’attuale polverizzazione è dovuta, almeno principalmente, non ad una spontanea crescita di nuove realtà associative grazie all’impegno di giovani professionisti, bensì ad un vera e propria epidemia scissionistica. Infatti, molte sigle sono “costole” di altre, nate per dissapori e contrasti interni tra i gruppi dirigenti. Questo fenomeno denota l’incapacità di risolvere conflitti e fare gruppo, a favore di una più facile propensione a creare spaccature”
la causidicità delle parti nei processi italiani non ha spesso limiti né confini…
L’amministratore del Condominio firma la procura al difensore e appone il proprio segno grafico che risulta non leggibile, il difensore sbaglia nell’indicare correttamente le sue generalità nel corpo dell’atto (sostituisce una R con una S) e la controparte recepisce la nullità della procura.
Peraltro il condomino che eccepisce il vizio conosce perfettamente il nome del suo amministratore e lo ha reiteratamente citato nel proprio atto (!).
Afferma la Cassazione (Cassazione civile, sez. II, 14/04/2016, n. 7406) che si tratta di nullità relativa che la parte, a fronte della eccezione sollevata dall’avversario, può sanare alla prima udienza utile:
“Preliminarmente deve rilevarsi l’infondatezza dell’eccezione di nullità della procura speciale del ricorrente, sollevata dall’intimata in considerazione della divergenza esistente tra il cognome dell’amministratore del condominio riportato nell’intestazione del ricorso ( M.) e quello invece rilevabile dal corpo della procura speciale ( M.), aggiungendosi da parte della P., al fine di corroborare la proposta eccezione, che la corretta individuazione delle generalità dell’amministratore non sarebbe nemmeno evincibile dalla firma in calce alla procura, trattandosi di sottoscrizione illeggibile. Rileva il Collegio che trattasi all’evidenza di un mero lapsus calami e che, come si ricava dalla stessa lettura del controricorso, le corrette generalità dell’amministratore del condominio erano ben note alla stessa attrice, atteso che nel controricorso, nel riepilogare il contenuto del materiale istruttorio raccolto nel corso del giudizio di primo grado, si fa menzione delle dichiarazioni rese da tal M.F., espressamente qualificato come amministratore del condominio convenuto. E’ evidente pertanto che non sussisteva alcun dubbio, anche in considerazione delle pregresse conoscenze acquisite dalla parte nel corso del giudizio, in ordine a quale fosse la corretta identità di colui che aveva sottoscritto la procura in qualità di amministratore del condominio. In ogni caso, appaiono applicabili alla fattispecie i principi desumibili dall’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza del 7/3/2005 n. 4810, nella quale si è affermato che l’illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite, apposta in calce od a margine dell’atto con il quale sta in giudizio una società esattamente indicata con la sua denominazione, è irrilevante, non solo quando il nome del sottoscrittore risulti dal testo della procura stessa o dalla certificazione d’autografia resa dal difensore, ovvero dal testo di quell’atto, ma anche quando detto nome sia con certezza desumibile dall’indicazione di una specifica funzione o carica, che ne renda identificabile il titolare per il tramite dei documenti di causa o delle risultanze del registro delle imprese. In assenza di tali condizioni, ed inoltre nei casi in cui non si menzioni alcuna funzione o carica specifica, allegandosi genericamente la qualità di legale rappresentante, si determina nullità relativa, che la controparte può opporre con la prima difesa, a norma dell’art. 157 c.p.c., facendo così carico alla parte istante d’integrare con la prima replica la lacunosità dell’atto iniziale, mediante chiara e non più rettificabile notizia del nome dell’amore della firma illeggibile; ove difetti, sia inadeguata o sia tardiva detta integrazione, si verifica invalidità della procura cd inammissibilità dell’atto cui accede. Da tali affermazioni, e seppur con specifico riferimento al condominio, qualificabile, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, quale mero ente di gestione, appare possibile affermare la regola secondo cui ove emergano delle contraddittorie indicazioni in ordine alle esatte generalità del sottoscrittore della procura, contraddittorietà non risolvibile mediante il riscontro con la firma, per l’incomprensibilità dei segni grafici utilizzati, a fronte della specifica eccezione sollevata dalla controparte, è data la possibilità nella prima difesa di poter chiarire quale sia l’effettivo nominativo del rappresentante. Nella vicenda in esame il Condominio, nel controricorso al ricorso incidentale ha chiarito che il cognome dell’amministratore era ” M.”, provvedendo in tal modo a sanare la nullità denunziata dalla P., e risultando pertanto superfluo anche il rilascio di una nuova procura a ratifica del precedente operato del difensore del condominio.”
Se l’amministratore si appropria di somme del condominio può commettere il reato previsto dall’art. 646 cod.pen. Tuttavia il momento consumativo di tale fattispecie non si verifica, in caso di più atti di appropriazione (nel caso concreto l’amministratore si bonificava periodicamente somme dal conto del condominio al proprio conto personale), in occasione di ogni singola condotta ma quando quella condotta diviene irreversibile, manifestando l’agente un atto di signoria sul bene idoneo a far ritenere il provento acquisito al patrimonio dell’agente.
La Cassazione penale , con una recente sentenza, ha chiarito che è solo al passaggio delle consegne al nuovo amministratore che si cristallizza la volontà dell’agente di non restituire quanto indebitamente trattenuto, a quel momento dunque si deve intendere perfezionato il reato con ogni conseguenza anche in termine di prescrizione .
Sino a quel momento, invece, i flussi di denaro (seppur sconsigliati alla luce di quanto previsto dall’art. 1129 XII comma n. 4 cod.civ. ) possono trovare ragion d’essere anche in motivi di rilievo non penale, legati alla gestione del condominio: la condotta illecita si perfeziona “nel momento in cui l’agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato “uti dominus” rispetto alla “res”. Analogamente deve pertanto ritenersi che l’utilizzo delle somme versate nel conto corrente da parte dell’amministratore durante il mandato non profila l’interversione nel possesso che si manifesta e consuma soltanto quando terminato il mandato le giacenze di cassa non vengano trasferite al nuovo amministratore con le dovute conseguenze in tema di decorrenza dei termini di prescrizione. E difatti avendo l’amministratore la detenzione nomine alieno delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera attraverso operazioni in conto corrente, solo al momento della cessazione della carica si può profilare il momento consumativo dell’appropriazione indebita poiché in questo momento rispetto alle somme distratte si profila l’interversione nel possesso”