E’ quanto statuisce la Suprema Corte in una recentissima pronuncia (Cass.civ. sez. II ord. 24 novembre 2020 n. 26703 rel. Scarpa), ove è stato ravvisato un indebito utilizzo del bene comune da parte di un condomino che aveva aperto varchi sul cortile comune e sulla pubblica via per accedere alle proprie autorimesse.
Osserva la Corte che “La Corte d’Appello ha accertato in fatto, con apprezzamento spettante ai giudici del merito e sindacabile in sede di legittimità solo nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che la condomina N.Y. avesse aperto sul muro perimetrale condominiale due porte carrabili, una verso il cortile comune ed una verso la pubblica via, porte che per le loro dimensioni comportavano una notevole alterazione della funzione di contenimento del muro, e che peraltro cagionavano una riduzione della possibilità di uso del cortile comune a scopo di parcheggio, per la necessità di lasciare uno spazio di manovra alle autovetture che dovessero accedere al garage privato.
Il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto, in tema di uso della cosa comune, in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame del motivo di ricorso non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa, con conseguente inammissibilità del ricorso ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, (Cass. Sez. U., 21/03/2017 n. 7155).
La nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l’art. 1102 c.c., seppur non vada intesa nel senso di uso identico e contemporaneo (dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione), implica, tuttavia, la condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.
Il proprietario di vani terranei di un edificio in condominio può, perciò, aprire porte di comunicazione tra tali vani e il contiguo cortile comune, ovvero per accedere ai primi dalla via pubblica, pur se uno o più dei detti vani siano già serviti da autonomo ingresso dalla stessa via, rientrando ciò nella facoltà di ciascun condomino di utilizzare la cosa comune per il miglior godimento della stessa anche apportandovi opportune modificazioni, sempre che non ne risulti alterata la destinazione e ne sia impedito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto (Cass. Sez. 2, 18/02/1998, n. 1708; Cass. 14/12/1994, n. 10704; Cass. Sez. 2, 17/07/1962, n. 1899).
L’accertamento del superamento dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c. al condomino, che si assuma abbia alterato, nell’uso della cosa comune, la destinazione della stessa (come avvenuto nel caso di specie, quanto al ritenuto pregiudizio arrecato al diritto dei condomini ad utilizzare il cortile quale area di parcheggio, come alla funzione di contenimento del muro comune), ricollegandosi all’entità e alla qualità dell’incidenza del nuovo uso, è comunque riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità. Del resto, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, che è quello che lamenta la ricorrente, non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile neppure nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.”
L’art. 1102 c.c. consente al singolo condomino di fruire in maniera più intensa del bene comune, e di farne anche un utilizzo esclusivo, sempre che tali condotte non comportino alterazione della destinazione del bene e lesione del pari diritto degli altri condomini.
In virtù di tale pacifico e consolidato principio la giurisprudenza ha, da sempre, sostenuto al legittimità della condotta del singolo che metta in collegamento la proprietà esclusiva di cui è titolare con un cortile o altra parte comune, sempre che tale iniziativa si contenga entro i limiti sopra individuati.
La Suprema Corte ( Cass.civ. sez. II ord. 3 ottobre 2019 n. 24718) ha ritenuto che l’apertura di un cancello carraio su un vialetto comune, da parte di un singolo condomino, non sia lecita ove comporti l’eliminazione della porzione di area destinata a parcheggio in fregio a tale strada condominiale, decisone più che pertinente ed in linea con principi vieppiù consolidati.
“questa Corte ha opinato nel senso che il comproprietario di una stradella comune, posta al servizio dei singoli fondi appartenenti in proprietà esclusiva a ciascun partecipante alla comunione, può legittimamente aprirvi l’accesso ad un locale costruito sul proprio suolo e destinato ad autorimessa, ai sensi dell’art. 1102 c.c. (cfr. Cass. 5.6.1978, n. 2814. Cfr. anche Cass. 1.8.2001, n. 10453; in tal ultima occasione questa Corte ebbe a confermare la sentenza di merito, secondo la quale la realizzazione di un passo carraio tra un fondo di proprietà esclusiva e la strada comune costituiva un uso consentito al condomino, in quanto non snaturava la funzione cui la strada era destinata, nè impediva l’uso della stessa da parte dell’altro comproprietario).
E tuttavia è parimenti indubitabile che questo Giudice del diritto non solo nell’occasione di cui alla pronuncia n. 2814/1978 ebbe a soggiungere che l’apertura dell’accesso dalla proprietà esclusiva alla proprietà comune è legittima, qualora non ne derivi un mutamento dell’originaria destinazione della stradella comune nè un impedimento per gli altri condomini di farne pari uso, ma ha modo di spiegare, in linea di principio e reiteratamente, che, in tema di condominio, è conforme a legge, ai sensi dell’art. 1102 c.c., sia l’utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri condomini, sia l’uso più intenso della cosa, purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine avere riguardo all’uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno (cfr. Cass. 12.3.2007, n. 5753; Cass. 19.1.2006, n. 972; Cass. 1.8.2001, n. 10453; Cass. 16.4.2018, n. 9278).
Nei termini enunciati è da reputare, nel caso de quo, che sussiste la denunciata falsa applicazione dell’art. 1102 c.c. (cfr. Cass. 24.10.2007, n. 22348, secondo cui il vizio di falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre o non ricorre, a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione, allorché la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, allorché sia stata applicata quando non doveva esserlo, allorché sia stata male applicata). Difatti i ricorrenti hanno condivisibilmente rimarcato, evidentemente nella prospettiva dell’uso potenziale che gli altri condomini potranno far della strada condominiale interna denominata “…” ed a riscontro del minor uso (potenziale) cui costoro potranno attendere, con susseguente inevitabile alterazione dell’equilibrio allo stato esistente tra gli interessi dei comproprietari tutti, “che l’apertura del nuovo accesso comporterebbe la materiale impossibilità di sostare su quella parte di piazzale”
…
Al cospetto dei surriferiti condivisibili rilievi la corte d’appello si è limitata ad affermare sic et simpliciter, così malamente applicando alla fattispecie l’art. 1102 c.c., che, “se ad oggi i condomini hanno la facoltà di parcheggiare provvisoriamente le proprie autovetture sulla strada condominiale (…) il passo carraio (che altro non è che un cancelletto pedonale prolungato) non arrecherebbe alcun aggravio di manovra degli altri condomini” (così sentenza d’appello, pag. 20). Ovviamente – si evidenzia da ultimo – la falsa applicazione dell’art. 1102 c.c., comma 1, assorbe e rende vana ogni valutazione in ordine alla dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 1067 c.c. (in tema tuttavia cfr. Cass. (ord.) 16.5.2019, n. 13213; in tale occasione questa Corte ha confermato la pronuncia della corte d’appello ed ha ritenuto che la corte di merito si era attenuta al principio di diritto nell’affermare che il passaggio su strada comune che venga effettuato da un comunista per accedere – (si badi) – ad altro fondo a lui appartenente, non incluso tra quelli cui la collettività dei compartecipi aveva destinato la strada, configuri un godimento vietato, risolvendosi nella modifica della destinazione della strada comune e nell’esercizio di una illegittima servitù a danno del bene collettivo).”
Ormai da tempo la Corte di legittimità ha chiarito come, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., sia consentito un uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche per trarne utilità esclusive, e che a tale uso possa essere anche manifestarsi nell’apertura di ulteriori varchi su muri perimetrali per accedere dalla parte comune alla proprietà esclusiva, sempre fatti salvi i limiti previsti dalla norma (decoro, statica e diritti degli altri condomini).
Allo stesso modo la Cassazione afferma con costanza che ove tale apertura sia volta a mettere in comunicazione la parte comune con una unità estranea al condominio, seppur di proprietà del singolo condomino, si tratta invece di uso non consentito in quanto idoneo a creare una servitù sul bene comune a favore di un fondo terzo, sì che la fattispecie non può essere ricondotta all’art. 1102 cod.civ.
Cass.Civ. sez.II ord. 2 ottobre 2018 23858 ribadisce tale orientamento, seppur in una fattispecie particolare in cui il diritto di passo era comunque destinato ad essere fruito da terzi estranei al condominio.
Alcuni condomini si erano dunque attivati dinanzi al Tribunale di Venezia contro gli autori della nuova apertura: deducendo che costoro avevano trasformato senza il consenso di tutti i condomini una finestra esistente sul muro perimetrale dello stabile condominiale in una porta, mettendo in tal modo in comunicazione un locale destinato a bar con altro spazio esterno di proprietà dei medesimi convenuti. Ad avviso degli attori, in tal modo era stata realizzata un’opera illegittima idonea a costituire una servitù a carico del bene comune a tutti i condomini”
Gli esiti di merito erano stati contrastanti: il Tribunale respingeva la domanda ritenendo che gli attori non avessero adeguatamente dimostrato che l’area scoperta non facesse parte dello stesso condominio. Interponevano appello gli attori in prime cure e la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata n. 2534/2013, riformava la prima sentenza ritenendo che la trasformazione della finestra in porta alterasse la destinazione e la funzione dell’apertura e costituisse evento idoneo a costituire una nuova servitù a carico del condominio. Riteneva inoltre che l’intervento costituisse una possibile via di accesso di terzi estranei, avventori del bar, agli spazi condominiali, attraverso l’area esterna ed il bar degli appellati.”
La corte di legittimità, adita dai soccombenti in appello, ha così statuito: “Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art.1102 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché il vizio della motivazione, perché la Corte di Appello avrebbe configurato un uso abnorme del bene comune, rappresentato dal muro di cinta, sul presupposto che una delle due proprietà dei ricorrenti (in particolare, lo spazio aperto) non fosse compreso nello stesso condominio del quale faceva parte il locale ad uso commerciale, mentre avrebbe dovuto piuttosto ritenere i due beni compresi nel medesimo condominio e configurare pertanto un uso più intenso della cosa comune, ammesso dall’art. 1102 c.c.. Inoltre, i ricorrenti deducono che l’apertura da loro praticata non sarebbe idonea a costituire una nuova servitù a carico del condominio, da un lato poiché il possesso del diritto non poteva essere esercitato dal gestore del bar e dai suoi avventori, e dall’altro lato perché l’uso più intenso della cosa comune ammesso dall’art. 1102 c.c. non si riferirebbe necessariamente al solo proprietario del bene, ma riguarderebbe anche i terzi utilizzatori autorizzati dal proprietario medesimo.
Le due censure, che vanno esaminate congiuntamente poiché tra loro connesse, sono infondate.
Contrariamente a quanto ritenuto dai ricorrenti, infatti, la questione della ricomprensione o meno nel medesimo condominio delle due proprietà poste in comunicazione tra loro ha costituito oggetto del giudizio di secondo grado, come si evince dalla lettura del fatto contenuta a pag. 4 della sentenza impugnata. Anche dall’esame dell’atto di impugnazione, del resto, emerge che gli appellanti avevano lamentato proprio che gli odierni ricorrenti, mediante la trasformazione della finestra in porta, avessero creato una servitù di passaggio a favore di terzi estranei al condominio, con ciò evidentemente sottointendendo l’estraneità di una delle due proprietà poste in comunicazione dalla predetta apertura alla compagine condominiale in cui ricadeva invece l’altra.
Non essendosi formato quindi alcun giudicato interno sull’appartenenza o meno delle due proprietà di cui è causa allo stesso condominio, la Corte di Appello ha correttamente statuito sul punto, ritenendo – all’esito di un giudizio di fatto non utilmente censurabile in questa sede – che nel caso di specie una delle due predette proprietà fosse estranea al condominio e che quindi la nuova apertura praticata dagli odierni ricorrenti nel muro perimetrale dello stabile costituisse uso non consentito del bene comune, idoneo tra l’altro a costituire una nuova servitù a carico del condominio.
Né assume alcun rilievo, al riguardo, il fatto che il locale commerciale dei ricorrenti, posto certamente all’interno del condominio, sia stato concesso in locazione a terzi, giacché il titolo legittimante la detenzione in capo a costoro è soltanto idoneo ad escludere il loro diritto di possedere la servitù di passaggio ad usucapionem nei confronti degli odierni ricorrenti, proprietari del bene locato, ma non impedisce in termini assoluti la possibilità di questi ultimi di usucapire il predetto diritto di passaggio, anche per effetto del possesso mediato, nei confronti del condominio, né vale comunque a rendere lecita una condotta oggettivamente risolventesi in un uso abnorme e non autorizzato del bene comune.
Del pari irrilevante è la deduzione secondo cui l’uso più intenso della cosa comune non postula l’utilizzazione esclusiva della stessa da parte del solo condomino, ma ammette anche un uso da parte di terzi, autorizzati dal primo, posto che quel che rileva, nel caso di specie, è in ultima analisi la natura illecita dell’utilizzazione, che rende superflua qualsiasi considerazione relativa alla sua effettiva estensione, oggettiva o soggettiva.”
L’apertura di un varco nel cortile condominiale, per accedere ad altro edificio in cui il condomino sia proprietario di un fondo, costituisce creazione di servitù e richiede il consenso di tutti i condomini.
Lo ribadisce la Suprema Corte (Cass.Civ. sez. II ord. 12 febbraio 2018 n. 3345), evidenziando come al condomino sia consentito l’uso più intenso della cosa comune – ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. – solo per attività che rimangano circoscritte alla sfera giuridica del condominio.
“Dalla sentenza impugnata si ricava che il contestato cancello pedonale mette in comunicazione tra loro una proprietà esclusiva della Co. con il cortile del condominio cui quest’ultima partecipa (v. pag. 12 sentenza impugnata, nella parte sopra testualmente trascritta in narrativa). Dal che si ricava che tale collegamento avviene tra un’area condominiale ed una proprietà estranea al condominio stesso, da non confondersi con un’altra unità immobiliare appartenente alla stessa Co. , ma facente parte del condominio di via (omissis) .
Questo essendo l’accertamento di fatto operato dalla Corte di merito, si rileva che la sentenza impugnata ha ritenuto che tale apertura sia legittima in quanto non pregiudica il pari godimento del cortile da parte degli altri condomini. Conclusione, questa, cui i giudici d’appello sono pervenuti richiamando in particolare (oltre ad altre sentenze del tutto non pertinenti al caso in esame) Cass. nn. 8591/99 e 42/00.
Entrambe dette sentenze, però, si riferiscono al diverso caso di modifiche apportate su di un muro o una recinzione comune che separavano un cortile condominiale deputato proprio all’utilità delle proprietà individuali.
In particolare, la prima delle due suddette sentenze, al di là di quanto riportato nella massima (non sufficientemente precisa), chiarisce in motivazione che “negli edifici soggetti al regime del condominio, ciascun partecipante ha il diritto di servirsi delle cose comuni a vantaggio del proprio piano o appartamento.
Spesso il godimento si attua mediante l’imposizione sulla cosa comune di un vero e proprio peso a vantaggio della cosa propria: di uno di quei pesi che, al di fuori del condominio, darebbero luogo al sorgere di una servitù prediale (apertura di porte, finestre, luci, vedute sul cortile comune).
Al singolo condomino non è consentito costituire sulla cosa comune una servitù a vantaggio della cosa propria, essendo richiesto per la costituzione della servitù il consenso (negoziale) di tutti i partecipanti (art. 1059 c.c.).
Peraltro, non si fa luogo a costituzione di servitù quando la destinazione della cosa comune è precisamente quella di fornire alle unità immobiliari in proprietà esclusiva, site nell’edificio, quella specifica utilità, che formerebbe il contenuto di una servitù prediale.
Per conseguenza, fino a che il partecipante, esercitando il suo diritto, rispetta la destinazione della cosa, di questa gode iure proprietatis. Non sussiste, infatti, imposizione di servitù sulla cosa comune, posto che il potere rientra tra quelli inerenti al diritto di condominio.
Se invece il godimento del singolo partecipante si concreta in un peso sulla cosa comune, che la destinazione della cosa in sé non consente, tale forma di godimento non può essere giustificata con il diritto di condominio. In questo caso inevitabilmente si pone in essere una servitù e, per conseguenza, ogni atto di godimento di fatto assoggetta la cosa comune ad un peso, che le norme sul condominio non permettono”.
Di qui l’inapplicabilità di tali precedenti al caso di specie. Il fatto che la Co. per altro titolo partecipi al condominio di via (omissis) , e perciò abbia al pari degli altri condomini libero accesso al cortile condominiale, non le attribuisce il potere di asservire tale bene comune al diverso ed adiacente altro suo immobile, che di tale condominio non fa parte.
E di conseguenza l’applicabilità, invece, del costante indirizzo di questa Corte in base al quale in tema di uso della cosa comune, viola l’art. 1102 c.c. l’apertura praticata da un condomino nella recinzione del cortile condominiale, senza il consenso degli altri condomini al fine di creare un accesso dallo spazio interno comune ad un immobile limitrofo di sua esclusiva proprietà, determinando, tale utilizzazione illegittima della corte condominiale, la costituzione di una servitù di passaggio a favore del fondo estraneo alla comunione ed in pregiudizio della cosa comune (v. Cass. n. 24243/08).
Nello stesso senso si è altresì affermato che l’azione con cui un condomino metta in comunicazione il cortile condominiale con una sua proprietà estranea alla comunione, determina uno stato di fatto corrispondente ad una servitù di passaggio sul cortile a favore di tale proprietà con la conseguenza che, come può subire l’eliminazione della predetta sua posizione di vantaggio ove i condomini esercitino vittoriosamente l’actio negatoria servitutis, così può consolidarla mercé l’esercizio continuato della servitù per il periodo utile all’usucapione, senza in ogni caso poter porre in essere, per il divieto dell’art 1067 c.c., una situazione di aggravamento della servitù di fatto esercitata, sicché questa si configura come molestia del possesso dei comproprietari del cortile (Cass. n. 5888/79; analogamente, v. anche Cass. nn. 23608/06, 9036/06, 17868/03, 360/95, 2773/92 e 5790/88).”
Un condomino procede al taglio di alcune travi del solaio per mettere in comunicazione il proprio appartamento con il sovrastante lastrico solare di uso esclusivo, realizzando comunque adeguato intervento statico e una bussola a copertura del passaggio, che salvaguarda la funzione di copertura del manufatto.
Il Tribunale di Trieste ha riteneto tale attività perfettamente nei limiti di cui all’att. 1102 cod.civ., mentre la Corte di Appello di Trieste – assai singolarmente – ha ritenuto l’intervento illecito: “ La Corte territoriale ha dato, circa l’alterazione del bene comune (che non consente di applicare l’art. 1102 cod. civ.) una “interpretazione (non suffragata né da dottrina né da giurisprudenza) limitatissima sul punto”, posto che “il solo fatto di un intervento sul bene comune con l’eliminazione di alcune travi ne determinerebbe la sua alterazione”
La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile, 10 marzo 2017, n. 6253) accoglie l’impugnativa, ribadendo i principi consolidati in materia: “Il ricorso è fondato perché la Corte locale, nel ritenere l’intervenuta violazione dell’art. 1102 cod. civ., ha affermato che “non può dubitarsi che si sia realizzata l’alterazione della cosa comune, dal momento che è pacifico che D.P. sia intervenuto sulle travi portanti del tetto tagliandole”.
La Corte di appello non ha considerato che di per sé il taglio delle travi del solaio, ove non ulteriormente valutato anche con riguardo alla statica e comunque agli altri limiti dettati dall’art. 1102 cod. civ., non può determinare l’alterazione della cosa comune che ne impedisce l’uso ai sensi della norma civilistica in questione. Al riguardo, questa Corte di recente ha avuto occasione di affermare i seguenti condivisi principi di diritto:
a) “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene. (Sez. 2, Sentenza n. 14107 del 03108/2012, Rv. 623614)”;
b) “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può effettuarne la parziale trasforma ione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti – da un giudizio di fatto, sindacabile in sede di legittimità solo riguardo alla motivazione – che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso. (Se 6 – 2, Ordinanza n. 2500 del 04/ 02/ 2013, Rv. 624921)”. Inoltre, occorre anche tener conto della peculiarità del caso in esame, nel quale è pacifico che l’apertura in questione è stata realizzata per mettere in collegamento l’appartamento di proprietà del D.P. con il sovrastante lastrico solare in suo uso esclusivo. La Corte locale in tale situazione avrebbe dovuto con un’adeguata motivazione individuare la specifica violazione dei limiti di cui alla norma citata, non potendosi appunto ritenere che il solo necessario taglio delle travi ne integrasse la violazione, dovendosi altrimenti ritenere inibito qualsiasi intervento sulla cosa comune. La Corte locale avrebbe dovuto quindi specificamente valutare, adeguatamente motivando, la violazione degli altri limiti indicati, anche con la realizzazione della bussola a copertura della nuova apertura. 3. L’accoglimento del ricorso nei limiti di cui in motivazione, determina la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Trieste, che procederà ad un nuovo esame e regolerà anche le spese del giudizio di cassazione”
Un condomino procede alla trasformazione della propria cantina in autorimessa e, a tale scopo, trasforma anche una finestra che si apre sul muro perimetrale in varco di accesso al garage appena creato.
La vicenda giunge alla Suprema Corte, che con recente sentenza (Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017, n. 4437 Rel. Giusti), ha occasione di riaffermare principi ormai consolidati.
Due condomini non avevano gradito l’intervento sul muro perimetrale e avevano fatto ricorso al Tribunale di Catania: “Premesso di essere condomini dello stabile sito in (omissis) , gli attori deducevano: che lo S. aveva provveduto alla trasformazione in autorimessa di un vano di sua proprietà, sito al piano terra dell’edificio condominiale; che tale innovazione era stata eseguita mediante l’allargamento di una finestra prospiciente la via (…), trasformata in porta carraia di accesso al garage; che le opere eseguite avevano determinato il parziale abbattimento del muro condominiale, pregiudicando la stabilità e la sicurezza dell’edificio e ledendo il decoro architettonico dello stabile. Lamentavano, inoltre, l’illegittima appropriazione, da parte dello S. , di parte del muro perimetrale. Esponendo di aver promosso ricorso ex art. 1172 cod. civ., accolto in sede di reclamo, chiedevano la condanna del convenuto a ripristinare la situazione preesistente, nonché al risarcimento dei danni subiti.”
Il Tribunale ritiene fondata la richiesta con riferimento alla lesione del decoro architettonico e accoglie la domanda degli attori, ma la sentenza è completamente ribaltata in appello: merita leggere compiutamente le argomentazioni del Giudice di secondo grado, poiché costituiscono ormai un orientamento stabile che tuttavia, ancora con troppa frequenza appare ignorato dai condomini.
“Con sentenza depositata il 16 maggio 2013, la Corte d’appello di Catania, in accoglimento dell’appello proposto dallo S. , in parziale riforma della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda formulata dai G. di condanna del convenuto ad eliminare le opere abusivamente realizzate obbligandolo a ripristinare la situazione preesistente all’effettuazione delle opere stesse, e li ha condannati a rifondere allo S. le spese di entrambi i gradi del giudizio. La Corte territoriale ha rilevato che, pur ampliata l’originaria finestra (della larghezza di ml. 1,80) in passo carraio (della larghezza di ml. 2,80), leggermente più ampio rispetto al portone recante civico 193, e pur apparentemente modificata la sequenza “finestra-portone-finestra”, non sussiste alcuna significativa alterazione del decoro architettonico. La Corte territoriale ha evidenziato che la nuova apertura è stata munita di una porta con caratteristiche del tutto simili al vicino portone (con bugne, riquadri e colore del tutto simili) che, all’evidenza, richiama sotto il profilo estetico; che nessun deprezzamento può ritenersi sussistente, con riferimento all’intero fabbricato e alle singole unità immobiliari, avuto riguardo all’aspetto architettonico complessivo dello stabile (edificato nel 1947, e dotato di non particolare pregio) e al contesto nel quale esso è inserito (presenza di altri palazzi costruiti in aderenza, secondo lo stile di quello oggetto di causa, sede stradale di ordinarie dimensioni, zona estremamente appetibile per la strategica posizione centrale nella città di Catania), sicché non è dato notare in maniera significativa l’alterazione eseguita, e comunque essa non provoca un risultato esteticamente sgradevole, apparendo anzi immutato lo stile architettonico della facciata. Infine, la Corte di Catania ha rilevato come tale alterazione si accompagni ad una utilità estremamente rilevante per lo S. , costituita dalla possibilità di usufruire di un garage in una zona trafficatissima, caratterizzata notoriamente da enormi difficoltà di parcheggio.”
Da sottolineare come una modesta modificazione delle linee complessive del prospetto sia ammissibile, laddove da ciò derivi una rilevante utilità per chi ha posto in essere l’intervento, a fronte della modestissima compressione del diritto degli altri condomini (criterio che la Suprema Corte ha spesso espresso in tema di installazione di ascensore da parte del singolo, ove l’occupazione dell’androne e della tromba delle scale comuni è compensata dall’utilità che l’impianto apporta al singolo e – in prospettiva ex art. 1121 cod.civ. – all’intero fabbricato).
I condomini non si danno per vinti e ricorrono in cassazione, per veder accertata l’illegittimità dell’intervento sulla facciata. LA Corte, con motivazione puntuale, che costituisce ottima sintesi dei prinpci in tema di uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. ritiene il motivo di doglianza infondato:
“Secondo la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., Sez. II, 25 settembre 1991, n. 10008; Cass., Sez. II, 26 gennaio 1987, n. 703; Cass., Sez. II, 27 ottobre 2003, n. 16097; Cass., Sez. VI-2, 14 novembre 2014, n. 24295), in tema di condominio, il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro – ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi – e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale.
Si è anche precisato (Cass., Sez. II, 29 aprile 1994, n. 4155; Cass., Sez. II, 26 marzo 2002, n. 4314) che l’apertura di varchi e l’installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell’edificio condominiale, eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva, non integrano, di massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell’art. 1102, primo comma cod. civ., e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non già alla necessità di ovviare ad una interclusione dell’unità immobiliare al cui servizio il detto accesso è stato creato, ma all’intento di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo proprietario. Negli edifici in condominio, i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad esse corrispondenti, sempre che l’esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 cod. civ., non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato. A tale principio si è correttamente attenuta la Corte di merito. Invero, la Corte di Catania – nel giungere alla conclusione che l’allargamento dell’apertura da parte dello S. al fine di trasformare la finestra in accesso carraio ha semplicemente comportato un uso più intenso della cosa comune, come tale consentito dall’art. 1102 cod. civ., senza con questo alterare il rapporto di equilibrio con gli altri comproprietari – ha per un verso rilevato che lo S. era l’unico fra i condomini a poter usufruire, per le proprie esigenze, del varco in questione, siccome proprietario esclusivo dell’unità immobiliare comunicante con l’esterno; per l’altro ha sottolineato che il realizzato allargamento ha lasciato immutato lo stile architettonico della facciata, non comportando alcuna significativa alterazione del relativo decoro, e ciò considerando in concreto le linee e le strutture che connotano il fabbricato stesso. La Corte territoriale ha compiuto un congruo accertamento di fatto nel quadro dei principi dettati da questa Corte regolatrice.”
Anche i timori circa la statica risultano infondati: “I ricorrenti finiscono con il sollecitare un diverso esame delle risultanze di causa e un differente apprezzamento di merito, il che fuoriesce dai limiti del sindacato devoluto alla Corte di cassazione. Essi muovono dal presupposto che nella specie vi sia stato “l’abbattimento di un muro portante” dell’edificio, ma non considerano che nella specie si è avuta soltanto una riduzione del “maschio murario” (pilatro) in corrispondenza dell’allargamento della precedente apertura. E prospettano l’esistenza di un pregiudizio attuale alla stabilità e alla sicurezza del fabbricato, ma non tengono conto della circostanza che già il Tribunale di Catania, definendo il primo grado di giudizio con la sentenza n. 4671 del 2009, ha affermato che il pregiudizio sismico – pur inizialmente sussistente per effetto dell’intervento effettuato dallo S. – era stato eliminato a seguito dell’effettuazione, da parte dello stesso convenuto, delle opere disposte in sede di reclamo cautelare; né dal testo del ricorso si ricava come la questione dell’attualità del rischio per la stabilità del fabbricato (pur dopo che lo S. aveva realizzato, ottemperando all’ordinanza resa in rese di reclamo cautelare, tutti gli interventi diretti all’eliminazione del pregiudizio sismico) sia stata riproposta dai G. in appello.”
osserva infine la Corte che “nel giudizio di merito promosso una volta esaurito il procedimento cautelare, il Tribunale di Catania ha escluso il denunciato pregiudizio attuale alla stabilità dell’edificio, avendo dato atto della eliminazione della situazione di pericolo a seguito della effettuazione delle opere disposte in sede cautelare. Va ribadito che dal testo del ricorso per cassazione non risulta come – una volta che lo S. ha provveduto, mediante l’esecuzione degli opportuni interventi, a rimuovere l’originaria situazione di non conformità alle prescrizioni della normativa antisismica – la questione del pregiudizio attuale alla stabilità sia stata riproposta in appello dai G. “
LA vicenda ha anche avuto un risvolto non lieve sotto il profilo delle spese poiché la Corte ha rilevato che, seppur il Tribunale di Catania avesse in sede cautelare riconosciuto al sussistenza di pregiudizio statico e dettato i rimedi per ovviarvi, il condomino che stava procedendo aveva adempiuto a quanto previsto dal giudice mentre le fasi successive di merito lo avevano visto vittorioso; l’esito complessivo della controversia non vedeva dunque un soccombente principale: per tale ragione il giudice di legittimità ha disposto integrale compensazione delle spese di tutti gradi di giudizio.