I DIPENDENTI DELL’APPALTATORE NON POSSONO AGIRE CONTRO IL CONDOMINIO OVE COSTUI ABBIA CEDUTO IL CREDITO

Lo afferma il Tribunale Capitolino ( Trib. Roma 21.10.2021 n. 8648), sostenendo  che i dipendenti dell’appaltatore non possono giovarsi della norma di cui all’art. 1676 c.c., ove costui abbia ceduto il credito a terzi con atto avente data certa anteriore alla loro azione.

La norma codicistica prevede  una significativa garanzia in favore dei dipendenti di colui che abbia eseguito opere in appalto: «coloro che, alle dipendenze dell’appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l’opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda».

Il Tribunale ha tuttavia stabilito, riprendendo un isolato e risalente orientamento di legittimità, che «Se l’appaltatore ha trasferito il suo credito verso il committente con atto di cessione che sia efficace riguardo ai terzi a norma dell’articolo 1265 Codice civile, e se tale efficacia si sia già avuta alla data in cui i dipendenti dell’appaltatorepropongono la domanda ex articolo 1676 Codice civile, il «debito del committente verso l’appaltatore» più non esiste, onde manca l’oggetto dell’azione diretta attribuita ai dipendenti dell’appaltatore» (Cassazione 11074/2003).”

Trib_Roma_8648_21

© massimo ginesi 2 novembre 2021 

denunzia vizi nell’appalto: la decorrenza del termine

Cass.civ. sez. II  27 settembre 2021 n. 26136 ribadisce un principio consolidato, ovvero che il termine annuale per la denunzia dei vizi ex art 1669 c.c. decorre non già dalla semplice conoscenza del vizio ma dalla effettiva consapevolezza della sua entità e della sua riconducibilità causale all’operato dell’appaltatore.

Nel deriva che, qualora il committente sia il condominio, tale termine decorre non già dalla data della relazione tecnica ma dal momento in cui amministratore e assemblea ne abbiano contezza :” Se è vero che ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria ex articolo 1669 Codice civile la scoperta dei vizi può avvenire anche attraverso una relazione di consulenza tecnica» scrive la Corte «è pur vero che spetta al giudice di merito accertare il giorno esatto in cui il contenuto della relazione stessa sia giunto a conoscenza delle parti».

appalto_1669

© Massimo Ginesi 30 settembre 2021 

denunzia gravi vizi nell’appalto: il termine prescrizionale decorre dalla effettiva consapevolezza.

la Corte di legittimità (Cass.Civ. sez. VI 8 febbraio 2019  n. 3891) riprende principi noti e chiarisce, in una sintetica motivazione, come il committente abbia un ampio margine di valutazione in ordine al nesso causale fra difetto e opera realizzata dall’appaltatore e che, tuttavia, il termine annuale per la denunzia derivi dalla effettiva conoscenza di tale nesso; tale consapevolezza può derivare  all’esito di consulenza tecnica può anche sussistere  prima di tale accertamento: competerà a chi eccepisce  l’intervenuta  prescrizione fornire adeguata prova sul punto.

La Corte di appello ha statuito che andava condiviso il granitico orientamento giurisprudenziale sulla decorrenza del termine prescrizionale dal momento in cui il danneggiato acquisisce un grado apprezzabile di conoscenza oggettiva non solo della grave entità ma soprattutto delle cause tecniche al fine di individuarne le responsabilità e solo dalla ctu in via preventiva erano posti in evidenza i difetti, per cui, decorrendo dal deposito dell’elaborato il termine prescrizionale, l’azione ex art. 1669 cc era tempestiva.

La ricorrente denunzia, col primo motivo, violazione dell’art 1669 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., perchè la conoscenza dei vizi risaliva ad una precedente raccomandata e l’atp nulla aveva aggiunto a detta conoscenza; col secondo motivo violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. per la mancata prova dei difetti costruttivi.

In ordine al primo motivo si osserva:

La giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto tempestiva la denunzia successiva ad una CTU che accerti il vizio.

L’identificazione degli elementi conoscitivi necessari e sufficienti onde possa individuarsi la “scoperta” del vizio ai fini del computo dei termini deve effettuarsi con riguardo tanto alla gravità dei vizi quanto al collegamento causale di essi con l’attività espletata, sì che, non potendosi onerare il danneggiato di proporre senza la dovuta prudenza azioni generiche a carattere esplorativo o comunque suscettibili di rivelarsi infondate, la conoscenza completa, idonea a determinare il decorso del termine, dovrà ritenersi conseguita, in assenza di convincenti elementi contrari anteriori, solo all’atto dell’acquisizione d’idonei accertamenti tecnici; per il che, nell’ipotesi di gravi vizi la cui entità e le cui cause, a maggior ragione ove già oggetto di contestazioni tra le parti, abbiano, anche per ciò, rese necessarie indagini tecniche, è consequenziale ritenere che una denunzia di gravi vizi possa implicare un’idonea ammissione di valida scoperta degli stessi tale da costituire il dies a quo per la decorrenza del termine ed, a maggior ragione, tale da far supporre una conoscenza dei difetti di tanto antecedente da implicare la decadenza, solo quando, in ragione degli effettuati accertamenti, risulti dimostrata la piena comprensione dei fenomeni e la chiara individuazione ed imputazione delle loro cause, per l’un effetto, alla data della denunzia e, per l’altro, a data ad essa convenientemente anteriore (cfr. Cass. 9.3.99 n. 1993, 18.11.98 n. 11613, 20.3.98 n. 2977, 94 n. 8053).

Ciò non significa, come pure ha evidenziato questa Corte con decisioni del tutto coerenti con i principi sopra richiamati, che il ricorso ad un accertamento tecnico possa giovare al danneggiato quale escamotage onde essere rimesso in termini quando dell’entità e delle cause dei vizi avesse già avuta idonea conoscenza, ma solo che compete al giudice del merito accertare se la conoscenza dei vizi e della loro consistenza fosse stata tale da consentire una loro consapevole denunzia prima ed una non azzardata iniziativa giudiziale poi, anche in epoca precedente, pur senza l’ulteriore supporto del parere d’un perito (cfr. Cass. 9.3.99 n. 1993, 2.9.92 n. 1016).

Solo la certezza oggettiva dei vizi legittima la denunzia.”

© Massimo Ginesi 13 febbraio 2019

l’azione in tema di vizi dell’appalto può essere ad ampio spettro

 

Il Tribunale di Torino, con una ponderosa sentenza in data 29 gennaio 2019 n. 429, ribadisce principi già espressi dalla Corte di legittimità, evidenziando come – ove ne sussistano i presupposti e non si sia incorsi nelle diverse decadenze – l’azione per gravi vizi ex art 1669 cod.civ.  e quella contrattuale ai sensi dell’art. 1667 cod.civ. possano essere proposte cumulativamente.

Il Giudice piemontese sottolinea anche come l’eccezione relativa alla decadenza ex art 1667 cod.civ. non sia rilevabile d’ufficio e che, pertanto, l0’appaltatore che si costituisca tardivamente, ovvero non rispettando il termine di cui all’art. 167 cod.proc.civ. , non sia legittimato a farla valere.

Anche se superfluo, si precisa che questo giudice non condivide tale ragionamento perché la domanda svolta è certamente proponibile a norma dell’art. 1668 e 1669 c.c. ed è invece inconferente il richiamato agli artt. 2931 c.c. e 612 c.p.c. svolto dalla difesa di parte convenuta posto che la controparte non ha formulato soltanto una domanda di “facere”.

In merito alla qualificazione della domanda, si precisa che la Corte di Cassazione ha statuito che “i gravi difetti che, ai sensi dell’art. 1669 c.c., fanno sorgere la responsabilità dell’appaltatore nei confronti dei committente e dei suoi aventi causa consistono in quelle alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura. A tal fine, rilevano pure vizi non totalmente impeditivi dell’uso dell’immobile, come quelli relativi all’efficienza dell’impianto idrico o alla presenza di infiltrazioni e umidità, ancorché incidenti soltanto su parti comuni dell’edificio e non sulle singole proprietà dei condomini” (Cass. civ., Sez. II, 4 ottobre 2018, n. 24230; Id., Sez. II, 3 gennaio 2013, n. 84, nella quale si era parimenti sostenuto che “i gravi difetti di costruzione che danno luogo alla garanzia prevista dall’art. 1669 cod. civ. non si identificano necessariamente con vizi influenti sulla staticità dell’edificio, ma possono consistere in qualsiasi alterazione che, pur riguardando soltanto una parte condominiale, incida sulla struttura e funzionalità globale dell’edificio, menomandone il godimento in misura apprezzabile, come nell’ipotesi di infiltrazione d’acqua e umidità nelle murature del vano scala, causata dalla non corretta tecnica di montaggio dei pannelli di copertura).

Per tali ragioni non si condivide la tesi espressa dalla difesa di parte convenuta secondo cui il disposto di cui all’art. 1669 c.c. non può trovare applicazione alla fattispecie in esame.

Peraltro, il Supremo Collegio ha altresì chiarito che “non sussiste incompatibilità tra gli artt. 1667 e 1669 c.c., potendo il committente di un immobile che presenti “gravi difetti” invocare, oltre al rimedio risarcitorio del danno (contemplato soltanto dall’art. 1669 c.c.), anche quelli previsti dall’art. 1668 c.c. (eliminazione dei vizi, riduzione del prezzo, risoluzione del contratto) con riguardo ai vizi di cui all’art. 1667 c.c., purché non sia incorso nella decadenza stabilita dal comma secondo di quest’ultimo, dovendosi ritenere che, pur nella diversità della natura giuridica delle responsabilità rispettivamente disciplinate dalle anzidette norme (l’art. 1669 c.c., quella extracontrattuale, l’art. 1667 c.c., quella contrattuale), le relative fattispecie si configurino l’una (l’art. 1669 c.c.) come sottospecie dell’altra (art. 1667 c.c.), perché i “gravi difetti” dell’opera si traducono inevitabilmente in “vizi” della medesima, sicché la presenza di elementi costitutivi della prima implica necessariamente la sussistenza di quelli della seconda, continuando ad applicarsi la norma generale anche in presenza dei presupposti di operatività di quella speciale, così da determinare una concorrenza delle due garanzie, quale risultato conforme alla “ratio” di rafforzamento della tutela del committente sottesa allo stesso art. 1669 c.c.” (Cass. civ., Sez. I, 19 gennaio 2016, n. 815).

Anche a voler ritenere applicabile il disposto di cui all’art. 1667 c.c., si puntualizza che “la decadenza del committente dall’azione di garanzia per vizi dell’opera, prevista dall’art. 1667 c.c. non è rilevabile d’ufficio” (Cass. civ., Sez. II, 11 novembre 1988, n. 6077) e deve essere eccepita dal convenuto con la comparsa di costituzione in giudizio a norma dell’art. 167, comma secondo, c.p.c. (cfr Cass. civ., Sez. II, 19 ottobre 2012, n. 18078; nonché l’ordinanza n. 5931/2016 della Sezione IV).

Nella fattispecie, il convenuto si è tardivamente costituito in giudizio e pertanto l’eccezione di decadenza dalla denuncia dei vizi non può essere esaminata.

Visto che non era stata eccepita la relativa decadenza nei termini di legge è del tutto irrilevante la giurisprudenza richiamata dalla difesa di parte convenuta in comparsa conclusionale in tema di onere della prova della tempestività della denuncia (condizione dell’azione).

Come noto, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, “il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 cod. civ.” (cfr Cass. civ., Sez. III, 20 gennaio 2015, n. 826; Id., Sez. I, 15 luglio 2011, n. 15659).

Con riferimento al contratto di appalto, si è chiarito che “le disposizioni speciali dettate dal legislatore attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera, assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all’art. 1667 c.c., ma non derogano al principio generale che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, il quale comporta che l’appaltatore, il quale agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto, abbia l’onere – allorché il committente sollevi l’eccezione di inadempimento di cui al terzo comma di detta disposizione – di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l’opera conformemente al contratto ed alle regole dell’arte” (Cass. civ., Sez. II, 20 gennaio 2010, n. 936).”

© massimo ginesi 11 febbraio 2019 

rifacimento lastrico solare: la custodia durante i lavori e la responsabilità del condominio.

 

La Cassazione (Cass.Civ. sez.II ord. 14/05/2018 n. 11671) ribadisce un principio più volte affermato: l’esecuzione di un appalto che ha ad oggetto interventi su parti comuni – salvo che all’appaltatore non sia stata affidata la custodia esclusiva del cantiere – non elimina la concorrente responsabilità ex art. 2051 cod.civ. del condominio.

I fatti: “P., R., PA. e M.S. nonchè C.R., quali proprietari, il primo in via esclusiva, dell’immobile sito in …, e tutti, in comunione tra loro, dell’immobile sito nel medesimo stabile, int. , a seguito di infiltrazioni di acqua nei predetti cespiti provenienti dal lastrico di copertura, convennero in giudizio, innanzi al Tribunale di Genova, il CONDOMINIO… nonchè l’IMPRESA E., in persona del legale rappresentante p.t, quale appaltatrice dei lavori di manutenzione del lastrico, al fine di sentirli condannare, in solido tra loro, al ristoro dei danni in conseguenza patiti”

Il Tribunale di Genova condanna al risarcimento il solo appaltatore, sentenza riformata dalla Corte d’appello ligure, che individua quale tenuto al risarcimento – in via solidale – anche il condominio.

La corte di legittimità, nell’esaminare il ricorso del condominio osserva che “la Corte di appello ha ampiamente e congruamente motivato (cfr. pp. 5-7) in ordine alla (cor)responsabilità del CONDOMINIO per l’omessa adozione, nel periodo oggetto di valutazione (4.8.2000-4.12.2000), di concrete misure di precauzione – concettualmente diverse dal semplice sollecito alla appaltatrice di procedere alla ripresa dei lavori – atte ad evitare il (ri)prodursi dei fenomeni infiltrativi per cui è causa e, tanto, nonostante la pacifica conoscenza, ad opera dell’assemblea (proprio per tale ragione riunitasi in più occasioni), “della grave situazione di degrado degli immobili degli appellanti e della saltuarietà degli interventi dell’impresa E.”;

Tale motivazione vale a richiamare un principio consolidato in tema di appalto: “la Corte territoriale si è attenuta ai pacifici principi applicabili in tema di appalto, per cui, se è vero che  l’autonomia dell’appaltatore comporta che, di regola, egli deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione dell’opera, potendo configurarsi una corresponsabilità del committente soltanto in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 c.c., ovvero nell’ipotesi di riferibilità dell’evento al committente stesso per culpa in eligendo (per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea) ovvero quando l’appaltatore, in base a patti contrattuali, sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente, agendo quale nudus minister dello stesso (Cass., Sez. 2, 25.1.2016, n. 1234, Rv. 638645-01), cionondimeno: a) il committente può essere chiamato a rispondere dei danni derivanti dalla condizione della cosa di sua proprietà laddove, per sopravvenute circostanze di cui sia venuto a conoscenza – come, ad es., nel caso di abbandono del cantiere o di sospensione dei lavori da parte dell’appaltatore – sorga a carico del medesimo il dovere di apprestare quelle precauzioni che il proprietario della cosa deve adottare per evitare che dal bene derivino pregiudizi a terzi (Cass., Sez. 2, 15.6.2010, n. 14443, in motivazione); b) ove l’appalto non implichi il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata, non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. che, essendo di natura oggettiva, sorge in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l’evento lesivo (Cass., Sez. 3, 18.7.2011, n. 15734, Rv. 619067-01);

che, a tale ultimo riguardo ed in aggiunta a quanto in precedenza esposto, va comunque osservato che, già in linea astratta, il lastrico svolge, indipendentemente dal regime proprietario ovvero da una sua fruizione diretta, una ineludibile funzione primaria di copertura e protezione delle sottostanti strutture (arg. da Cass., Sez. 6-2, 9.8.2017, n. 19779, Rv. 645340-01 e da Cass., Sez. U., 10.5.2016, n. 9449, Rv. 639821-01): sicchè, quantomeno sotto tale profilo ed indipendentemente dall’avvenuta “consegna” – quale area di cantiere – all’appaltatore, per l’esecuzione di lavori volti alla relativa manutenzione o ristrutturazione, il lastrico deve considerarsi nella persistente disponibilità del condominio, con conseguente permanenza, in capo a quest’ultimo, delle obbligazioni connesse alla sua custodia e delle connesse responsabilità per il relativo inadempimento (arg. Da Cass., Sez. 3, 18.7.2011, n. 15734, Rv. 619067-01, cit.).”

© massimo ginesi 4 giugno 2018

 

l’inadeguata insonorizzazione integra il grave difetto costruttivo ex art 1669 c.c.

Una monumentale sentenza del Tribunale di Savona 6 aprile 2018 n. 358 affronta  il complesso tema della insonorizzazione dell’immobile, riconducendo  il vizio a quelli disciplinati dall’art. 1669 cod.civ. e ascrivendone la responsabilità a venditore, costruttore e progettista/direttore lavori.

La normativa sottesa non è di semplice disamina e la sentenza compie un utile ed interessante excursus fra le norme che si sono succedute nel tempo.

L’esito è favorevole all’acquirente, che si vede valutare significativamente la diminuzione di valore del bene in conseguenza di un vizio destinato ad incidere in maniera significativa sul suo godimento.

L’ampiezza della argomentazione e dei riferimenti normativi e giurisprudenziali consigliano lettura integrale della pronuncia.

insonorizzazione

© massimo ginesi 31 maggio 2018 

 

 

 

 

 

l’accordo con l’apppaltatore sulla rinuncia alla sussidiarietà ex art 63 disp.att. cod.civ. non limita la legittimazione ad agire del condomino

Anche ove il condominio inserisca nel contratto di appalto una clausola che imponga all’appaltatore di perseguire i soli condomini morosi, tale accordo non incide sulla legittimazione del condominio a riscuotere le quote, che rimane assolutamente integra e doverosa.

Lo afferma, in una condivisibile sentenza,  Trib. Grosseto 8 marzo 2018 n. 249:

“Vale la pena osservare preliminarmente che il vincolo di esclusione della solidarietà passiva tra i condomini pattuito tra il Condominio e la società esecutrice dei lavori, non rileva in questa sede, atteso peraltro che il Condominio ha richiesto solo il pagamento delle spese di competenza di M.G. e non di altri condomini.

Inoltre, la stipula di un simile accordo non priva in alcun modo il Condominio, in persona del proprio amministratore pro tempore del potere/dovere di attivarsi per il recupero delle spese condominiali. È evidente come l’adesione ad una diversa opzione interpretativa finirebbe per porre a carico esclusivo della società che ha eseguito i lavori l’onere di attivarsi contro i condomini morosi. Sotto altro profilo deve altresì che già all’epoca di instaurazione del presente giudizio era ormai pacifica la natura parziaria delle obbligazioni condominiali (SS.UU. 9148/2008) la cui affermazione, peraltro, non ha mai avuto l’effetto di elidere la legittimazione del Condominio a far valere la pretesa creditoria.”

Meno condivisibile appare la pronuncia laddove, plausibilmente per una imprecisione di stesura, afferma che le tabelle millesima che non hanno contenuto negoziale si approvino con la maggioranza semplice, richiamando le sezioni unite 18477/2010: “Va, inoltre, evidenziato che è approdo ormai consolidato in giurisprudenza che relativamente all’approvazione delle tabelle millesimali, la deliberazione assembleare non ha natura negoziale e non è pertanto necessaria, contrariamente a quanto sostenuto dall’opponente l’unanimità, essendo sufficiente la maggioranza semplice (SS.UU. n. 18477/18478 del 2010).

La suprema Corte nel 2010finalmente chiarì che le tabelle millesima hanno natura regolamentare e -ove non deroghino ai criteri previsti dagli arti. 1123 e s.s. – si approvano con la maggioranza prevista dall’art 1138 cod.civ., ovvero quella qualificata prevista dal secondo comma dell’art. 1136 cod.civ. 

© massimo ginesi 26 marzo 2018

 

azione contrattuale contro l’appaltatore: i poteri dell’amministratore e dei singoli condomini.

Ove sia stato stipulato contratto di appalto per opere di sistemazione delle aree verdi condominiali, l’amministratore è legittimato ad agire per far valere l’inadempimento dell’appaltatore mentre i singoli condomini possono intervenire, iure proprio, nello stesso giudizio per far valere il danno subito individualmente a causa di tale inadempimento.

E’ principio espresso da Cass.Civ. II sez. 14 dicembre 2017 n. 30038, che -nel decidere una vicenda nata in terra savonese e poi vagliata dalla Corte di appello di Genova – affronta anche il tema del potere del giudice di qualificazione della domanda in forza  delle difese svolte dalle parti: il condominio che aveva inizialmente svolto domanda di adempimento, si è visto riconoscere il diritto al pagamento per equivalente, ad avviso della corte di legittimità in maniera perfettamente legittima.

La sentenza – seppur sintetica -merita lettura integrale.

30038_appalto_legittimazione

© massimo ginesi 15 dicembre 2017 

appalto: recesso unilaterale e risoluzione per inadempimento.

Il recesso è facoltà prevista dall’art. 1671 cod.civ. “Il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”.

La risoluzione è invece prevista dall’art. 1453 cod.civ.: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.
La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione.
Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione.”

La Suprema Corte in una recente pronuncia (Cass.civ. sez. II Ord. 9 ottobre 2017, n. 23558) ne delinea i risvolti  applicativi: ” il recesso ad nutum non presuppone necessariamente uno stato di regolare svolgimento del rapporto ma al contrario, stante l’ampiezza di formulazione della norma di cui all’art. 1671 c.c., può essere esercitato per qualsiasi ragione che induca il committente a porre fine al rapporto, da un canto non essendo configurabile un diritto dell’appaltatore a proseguire nell’esecuzione dell’opera (avendo egli diritto solo all’indennizzo previsto dalla norma) e, d’altro canto, rispondendo il compimento dell’opera esclusivamente all’interesse del committente.”

La Corte distingue chiaramente l’ipotesi del mero recesso unilaterale con la risoluzione dovuta ad una adempimento dell’appaltatore ex art. 1453 cod.civ.

!Ne consegue che il recesso può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti d’inadempimento e, poichè il contratto si scioglie esclusivamente per effetto dell’unilaterale iniziativa del recedente, non è necessaria alcuna indagine sull’importanza dell’inadempimento, viceversa dovuta quando il committente richiede anche il risarcimento del danno per inadempimento già verificatosi al momento del recesso (Cass. n. 2130/17, Cass. n. 11642/03, Cass. 10400/08, 17294/06 ex multis).

Essendo il recesso espressione dell’esercizio del diritto potestativo del committente, logico corollario è che l’obbligo di pagamento all’appaltatore dell’indennizzo ex art. 1671 c.c., costituisce effetto automatico della decisione di scioglimento dal vincolo adottata unilateralmente dal convenuto.

Se l’appaltatore è inadempiente, la sua eventuale condanna al risarcimento del danno può vanificare il suo diritto all’indennizzo ma, nel caso in esame, tale diritto al risarcimento del danno è stato escluso con pronunzia non impugnata sul punto per cui il diritto all’indennizzo ex art. 1671 c.c. non può essere messo in discussione.”

© massimo ginesi 13 ottobre 2017

 

il condomino apparente è una chimera, anche per il terzo creditore.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI ord.  9 ottobre 2017 n. 23621 rel. Scarpa) affronta un tema peculiare,   cogliendo l’occasione per una interessante disamina del sorgere dell’obbligazione condominiale e della sua natura, temi che in diverse recenti sentenze stanno acquisendo una interpretazione organica e di grande interesse per l’operatore del diritto.

Il caso nasce da una opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dall’appaltatore,  terzo creditore del condominio,  nei confronti di colui che riteneva condomino e che si è, invece, rivelato essere l’amministratore della società di capitali effettiva proprietaria del bene.

Assai singolarmente la Corte di appello di Salerno ha ritenuto che il principio del condomino apparente, spazzato dalle aule di giustizia dalla Cassazione ormai una ventina di anni fa – sulla considerazione che la proprietà immobiliare è soggetta a pubblicità erga omnes e debba  dunque obbligatoriamente essere accertata  da chi agisce – fosse invece applicabile al terzo, “poiché  l’apparenza della qualità di condomino (manifestata dalla partecipazione alle assemblee condominiali senza mai manifestare tale qualità) rileva nei confronti di soggetti terzi, i quali non possono farsi carico di accertare la proprietà dell’immobile”.

Il giudice di legittimità, su ricorso dell’ingiunto, ripercorre con interessante motivazione sia la genesi dell’obbligazione, che presuppone necessariamente la qualità di condomino, sia l’obbligo, per chiunque, di accertare l’effettiva titolarità del bene, non potendo affatto invocarsi l’apparenza del diritto in simili contesti.

“Questa Corte ha più volte affermato che in materia condominiale, quanto meno con riferimento alle azioni promosse dall’amministratore per la riscossione delle spese condominiali di competenza delle singole unità immobiliari di proprietà esclusiva, sono passivamente legittimati soltanto i rispettivi proprietari effettivi di dette unità, e non anche coloro che possano apparire tali, a nulla rilevando la reiterazione continuativa di comportamenti propri del condomino, né sussistendo esigenze di tutela dell’affidamento di un terzo di buona fede nella relazione tra condominio e condomino (Cass. Sez. U, 08/04/2002, n. 5035; Cass. Sez. 2, 03/08/2007, n. 17039; Cass. Sez. 2, 25/01/2007, n. 1627).”

Con riguardo alla bizzarra affermazione della Corte d’Appello di Salerno, la Cassazione rileva che “Questo argomentare non tiene conto che la costruzione giurisprudenziale del principio della diretta riferibilità ai singoli condomini della responsabilità per l’adempimento delle obbligazioni contratte verso i terzi dall’amministratore del condominio per conto del condominio, tale da legittimare l’azione del creditore verso ciascun partecipante, poggia comunque sul collegamento tra il debito del condomino e la res, in quanto è comunque la contitolarità delle parti comuni che ne costituisce il fondamento.

D’altro canto, la stessa conclusione raggiunta in giurisprudenza, per cui la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, nel senso che le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, è stata costruita spiegando che l’amministratore possa vincolare i singoli comunque “nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote” (Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148).

E’ pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, l’approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 4, c.c., per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale.

E’ poi dalla deliberazione dell’assemblea, e non dal rapporto contrattuale con l’appaltatore, che discende l’obbligo dei singoli condomini di partecipare agli esborsi derivanti dall’esecuzione delle opere, ponendosi il condominio (e non ciascun condomino) come committente nei confronti dell’appaltatore stesso.

Anche, dunque, la vicenda obbligatoria che si imputa pro quota al singolo partecipante è geneticamente correlata al diritto reale condominiale (si vedano, indicativamente, i commi 1 e 2 dell’art. 63 disp. att. c.c., come modificato dalla legge n. 220/2012, pur non applicabile nella specie ratione temporis), ed è quindi quanto meno indirettamente collegata alla situazione resa pubblica nei libri fondiari.

Ai fini dell’invocabilità dell’apparentia iuris a garanzia dell’affidamento maturato dal terzo creditore del condominio, non può quindi negarsi, come fatto dalla Corte d’Appello di Salerno, la sussistenza di un legame con il dato pubblicitario emergente dalla trascrizione nei registri immobiliari, trattandosi di trarre conseguenze ai fini dell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria comunque connessa con la titolarità di un diritto reale di proprietà.

D’altro canto, è decisivo osservare come nel nostro ordinamento il principio dell’apparenza del diritto (art. 1189 c.c.) trova applicazione quando sussistono uno stato di fatto difforme dalla situazione di diritto ed un errore scusabile del terzo in buona fede circa la corrispondenza del primo alla realtà giuridica, assumendo comunque rilievo giuridico l’apparenza ai soli fini della individuazione del titolare di un diritto soggettivo, ma non anche per fondare una pretesa di adempimento nei confronti di un soggetto non debitore, atteso che l’affidamento del terzo può legittimare una richiesta di risarcimento danni per il subito pregiudizio, e non invece trasformare in debitore un soggetto che non rivesta tale qualità (cfr. Cass. Sez. U, 01/07/1997, n. 5896; Cass. Sez. 1, 10/11/1997, n. 11041; Cass. Sez. 1, 10/11/1997, n. 11040).”

© massimo ginesi 10 ottobre 2017