Lo afferma la Cassazione (Cass.civ. sez. II ord. 17 agosto 2017 n. 20137 rel. Scarpa) che ribadisce altro rilevante principio correlato: il terzo che abbia trattato con l’amministratore, per vicende che esulano dai poteri previsti dall’art. 1130 cod.civ. e sulle quali la legge riserva la decisione alla assemblea, non ha diritto alla tutela dell’affidamento.
I fatti traggono origine dall’incarico conferito dall’amministratore ad un avvocato per la redazione del contratto di appalto relativo a lavori straordinari, materia riservata ex art. 1135 cod.civ. alla delibera dell’organo collegiale.
Il professionista ha richiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti del condominio, revocato dal giudice di merito a seguito della opposizione del condominio che lamentava l’attività ultra vires dell’amministratore.
Osserva la Corte di legittimità che “È pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’articolo 1135, comma I, numero 4 cod. civ., e con la maggioranza prescritta dall’articolo 1136, comma IV, cod. civ, per l’approvazione di un appalto relativo a lavori straordinari dell’edificio condominiale (si vedano indicativamente Cass.civ. sez. II 21.2.2017 n. 4430, Cass.civ. sez. II 25.5.2016 n. 10865).
La delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve determinare l’oggetto del contratto di appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi ed il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell’opera , ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa.
Non rientra fra i compiti dell’amministratore di condominio neppure il conferimento ad un professionista legale dell’incarico di assistenza nella redazione del contratto di appalto per la manutenzione straordinaria dell’edificio, dovendosi intendere tale facoltà riservata all’assemblea dei condomini, organo cui è demandato dall’art. 1135, comma 1, n. 4, cod.civ. il potere di disporre le spese necessarie ad assumere obbligazioni in materia.
Ove siano mancate la preventiva approvazione o la successiva ratifica della spesa inerente tale incarico professionale da parte dell’assemblea, a norma degli artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, cod.civ., l’iniziativa contrattuale dello stesso amministratore non è sufficiente a fondare l’obbligo di contribuzione dei singoli condomini, salvo che non ricorra il presupposto dell’urgenza nella fattispecie considerata dall’art. 1135, ult. comma, cod.civ. (arg. da Cass. Sez. 2, 02/02/2017, n. 2807).
Peraltro, il principio secondo cui l’atto compiuto, benché irregolarmente, dall’organo di una società resta valido nei confronti dei terzi che abbiano ragionevolmente fatto affidamento sull’operato e sui poteri dello stesso, non trova applicazione in materia di condominio di edifici con riguardo a prestazioni relative ad opere di manutenzione straordinaria eseguite da terzi su disposizione dell’amministratore senza previa delibera della assemblea di condominio, atteso che i rispettivi poteri dell’amministratore e dell’assemblea sono delineati con precisione dagli artt. 1130 e 1135 cod.civ., limitando le attribuzioni dell’amministratore all’ordinaria amministrazione e riservando all’assemblea dei condomini le decisioni in materia di amministrazione straordinaria (Cass. Sez. 2, 07/05/1987, n. 4232).
Né il terzo, che abbia operato su incarico dell’amministratore, può dedurre che la prestazione da lui adempiuta rivestisse carattere di urgenza, valendo tale presupposto a fondare, in base all’art. 1135, ultimo comma, e.e., il diritto dell’amministratore a conseguire dai condomini il rimborso delle spese nell’ambito interno al rapporto di mandato.
…
Infine, il criterio discretivo tra atti di ordinaria amministrazione, rimessi all’iniziativa dell’amministratore nell’esercizio delle proprie funzioni e vincolanti per tutti i condomini ex art. 1133 cod.civ., ed atti di amministrazione straordinaria, al contrario bisognosi di autorizzazione assembleare per produrre detto effetto, salvo quanto previsto dall’art. 1135 comma 2 cod.civ., riposa sulla normalità dell’atto di gestione rispetto allo scopo dell’utilizzazione e del godimento dei beni comuni, sicché gli atti implicanti spese che pur dirette alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere economico rilevante, necessitano della delibera dell’assemblea condominiale (Cass.civ. sez. II 25.5.2016 n. 10865). “
Una recentissima sentenza della suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 28 luglio 2017 n. 18891 rel. Scarpa) affronta una ipotesi di frequente verificazione nella pratica, riprendendo un consolidato orientamento di legittimità e applicandolo ad una peculiare fattispecie in tema di vizi dell’immobile venduto.
La vicenda attiene alla vendita di un’un Italia immobiliare sita in condominio, dalla cui terrazza a livello derivavano infiltrazioni nei locali sottostanti.
Il compratore si era avvisto di tale circostanza solo dopo che erano trascorsi due anni dall’acquisto, poiché se ne era lamentato il proprietrio dell’unità danneggiata; dalla CTU svolta in primo grado era emerso che “lo stillicidio proveniente dal terrazzo dovesse farsi risalire ad epoca ben anteriore al novembre 2003, visti i tempi occorrenti per l’emersione di un fenomeno di dilavamento”, sicché l’acquirente assume che il vizio gli sia stato dolosamente sottaciuto dai venditori e promuove azione contro costoro.
In primo grado ottiene ragione dal Tribunale di Roma, sull’assunto che non potesse operare nel caso di specie la prescrizione di cui all’art. 1495 cod.civ., avendo i venditori occultato il vizio.
Il secondo grado di merito conduce ad esiti opposti: “La Corte d’Appello osservava come la prescrizione della garanzia dovuta dal venditore, ai sensi dell’art. 1495, comma 3, c.c., si compie “in ogni caso in un anno dalla consegna”, indipendentemente dal tempo della scoperta e dalla valutazione della condotta del venditore, sicchè, avendo le parti stabilito all’art. 6 dell’atto 1 ottobre 2001 che il compratore veniva immediatamente immesso nel possesso dell’immobile, l’azione doveva dirsi prescritta già in data 1 ottobre 2002, mentre la domanda era stata avanzata soltanto il 25 novembre 2004. La Corte di Roma escludeva altresì ogni responsabilità dei venditori ai sensi dell’art. 1669 c.c., in quanto norma disciplinante “esclusivamente la responsabilità dell’appaltatore, qualità non rivestita dalla parte venditrice”.
La vicenda giunge in cassazione ove, con ampia ed interessante disamina che merita integrale lettura, si dichiara l’infondatezza del primo motivo di ricorso, relativo alla applicazione dell’art. 1495 cod.civ. al caso di specie: “Secondo l’orientamento del tutto consolidato di questa Corte, che viene qui ribadito, in tema di compravendita, l’azione del compratore contro il venditore per far valere la garanzia a norma dell’art. 1495 c.c. si prescrive, alla stregua del comma 3 di tale disposizione, in ogni caso nel termine di un anno dalla consegna del bene compravenduto, e ciò anche se i vizi non siano stati scoperti o non siano stati tempestivamente denunciati o la denuncia non fosse neppure necessaria, sempre che la consegna abbia avuto luogo dopo la conclusione del contratto, coincidendo, altrimenti, l’inizio della prescrizione con quest’ultimo evento (Cass. Sez. 2 , 05/05/2017, n. 11037; Cass. Sez. 6 – 2, 15/12/2011, n. 26967; Cass. Sez. 2, 11/09/1991, n. 9510 ; Cass. Sez. 2, 22/07/1991, n. 8169).
Diversamente, il termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta del vizio occulto, sempre inerente la garanzia ai sensi dell’art. 1495 c.c., decorre dal momento in cui il compratore ne abbia acquisito certezza obiettiva e completa (cfr. Cass. Sez. 2, 27/05/2016, n. 11046). Ancora diversamente, in tema di appalto, qualora l’opera appaltata sia affetta da vizi occulti o non conoscibili, perché non apparenti all’esterno, il termine di prescrizione dell’azione di garanzia, ai sensi dell’art. 1667, comma 3, c.c., decorre dalla scoperta dei vizi, la quale è da ritenersi acquisita dal giorno in cui il committente abbia avuto conoscenza degli stessi (Cass Sez. 3, 22/11/2013, n. 26233; Cass. Sez. 3, 19/08/2009, n. 18402).
Agli effetti dell’art. 1495, comma 3, c.c., la consegna è quella, effettiva o materiale, eseguita in forza del contratto di vendita, ovvero attuata contemporaneamente alla conclusione del contratto (come avvenuto nella specie, secondo quanto accertato in fatto di giudici del merito) o in seguito ad essa. Il termine decorre dalla consegna, pertanto, «in ogni caso» (come si esprime la norma in esame), indipendentemente, cioè dal rilievo fattuale che, nonostante l’avvenuta consegna, non fosse ancora possibile la scoperta del vizio da parte del compratore, e quindi anche se il medesimo vizio fosse stato dolosamente occultato dal venditore con espedienti o raggiri, il che rende, piuttosto, non necessaria la denuncia (art. 1495 comma 2, c.c.), giustificandosi tale soluzione alla luce dell’esigenza di evitare che i rapporti negoziali restino per lungo tempo sospesi, ma anche, e soprattutto, di rendere più agevole l’accertamento della sussistenza, della causa e della entità dei vizi (arg. da Cass. Sez. 3, 17/09/1963, n. 2540).
In dottrina si sostiene come, ove il venditore abbia indotto con raggiri il compratore ad acquistare una cosa viziata, ferma comunque la decorrenza della prescrizione dalla consegna del bene, è ammissibile piuttosto, in concorrenza con la garanzia, l’azione di annullamento del contratto per dolo (la cui prescrizione è diversamente regolata dall’art. 1442, comma 2, c.c.), mentre è pure possibile invocare la sospensione della prescrizione dell’azione di garanzia fin quando il compratore non abbia scoperto i vizi, ma ciò in base all’art. 2941, n. 8, c.c., secondo il quale la prescrizione resta, appunto, sospesa ove il debitore abbia dolosamente occultato l’esistenza del debito, e fino alla scoperta di esso.
A tal fine, questa Corte ha già affermato che, per la sospensione della prescrizione dell’azione di garanzia accordata al compratore, agli effetti dell’art. 2941, n. 8, c.c., occorre accertare la sussistenza di una dichiarazione del venditore, non solo obiettivamente contraria al vero, quanto altresì caratterizzata da consapevolezza dell’esistenza della circostanza taciuta e da conseguente volontà decipiente (Cass. Sez. 2, 20/08/2013, n. 19240). Le questioni poste dall’art. 1442, comma 2, c.c. e dall’art. 2941, n. 8, c.c., sono tuttavia, diverse da quelle cui fa specifico riferimento il primo motivo di ricorso, che indica, quale norma regolatrice della fattispecie, unicamente l’art. 1495, comma 3, c.c., e critica perciò la soluzione adottata dalla Corte d’appello di Roma mediante argomentazioni intese a dimostrare che le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata siano in contrasto esclusivamente con tale norma.”
E’ invece accolta la tesi sulla applicabilità al caso di specie, della garanzia ex art. 1669 cod.civ. che trova applicazione – secondo una recente pronuncia delle sezioni unite – anche in caso di ristrutturazione e che fa pertanto assumere al venditore – che abbia proceduto a lavori qualificanti sul bene – la posizione di garanzia dell’appaltatore: “La Corte d’appello di Roma ha negato ogni responsabilità dei venditori pure ai sensi dell’art. 1669 c.c., in quanto norma ritenuta disciplinante “esclusivamente la responsabilità dell’appaltatore, qualità non rivestita dalla parte venditrice.
La decisione di tale questione di diritto adotatta dai giudici d’appello contrasta con l’interpretazione più volte ribadita da questa Corte, per la quale l’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili, prevista dall’art. 1669 c.c., nonostante la collocazione della norma tra quelle in materia di appalto, può essere esercitata, in ragione della sua natura extracontrattuale, non solo dal committente contro l’appaltatore, ma anche dall’acquirente nei confronti del venditore che risulti fornito della competenza tecnica per dare direttamente, o tramite il proprio direttore dei lavori, indicazioni specifiche all’appaltatore esecutore dell’opera, ed abbia perciò esercitato un potere di direttiva o di controllo sull’impresa appaltatrice, tale da rendergli addebitabile l’evento dannoso (così Cass. Sez. 2, 17/04/2013, n. 9370; Cass. Sez. 2, 16/02/2012, n. 2238; Cass. Sez. 2, 29/03/2002, n. 4622).
La responsabilità del venditore, in ordine alla conseguenze dannose dei gravi difetti di costruzione incidenti profondamente sugli elementi essenziali dell’opera e che influiscono sulla durata e solidità della stessa, compromettendone la conservazione, è configurabile sia quanto questi abbia costruito l’immobile e lo abbia poi alienato all’acquirente, sia quando il medesimo venditore abbia incaricato un terzo appaltatore della costruzione del bene prima della sua vendita (arg. da Cass. Sez. 2, 16/02/2006, n. 3406).
Di recente, Cass. Sez. U, 27/03/2017, n. 7756, componendo il contrasto di pronunce esistente sul punto, ha stabilito che l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo.
Risulta, nel caso in esame, accertato in fatto che i venditori B – L, alcuni anni prima di alienare ad E.F. l’appartamento sito in Roma, via P 11, avessero dato incarico da un’impresa appaltatrice di eseguire lavori di totale rifacimento della pavimentazione e dell’impermeabilizzazione del terrazzo.
Deve pertanto essere enunciato il seguente prinicpio di diritto: “L’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili, di cui all’art. 1669 c.c.c, può essere esercitata anche dall’acquirente nei confronti del venditore che, prima della vendita, abbia fatto eseguire sull’immobile ad un appaltatore, sotto la propria direzione ed il proprio controllo, opere di ristrutturazione edilizia o interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, che rovinino o presentino gravi difetti”
Anche se non è espressamente dedotto in contratto, nelle realizzazione di opere edilizie costituisce comunque obbligo dell’appaltatore verificare che il suolo su cui devono essere eseguite le opere sia idoneo alla loro costruzione, in quanto si tratta di cautela necessaria e prodromica alla esecuzione stessa dell’appalto.
Ove ciò non avvenga e ne derivi danno, l’appaltatore ne sarà comunque responsabile, in via solidale con il direttore dei lavori.
Lo afferma Cass.civ. sez. I 20 giugno 2017 n. 15190 in una monumentale pronuncia, in cui afferma che tale obbligo incombe all’appaltare anche in presenza di vizi di progettazione riconducibili al committente.
La sentenza, per ampiezza di argomentazioni, anche processuali, merita lettura integrale.
La Suprema Corte ( Cass. SS.UU 27 marzo 2017 n. 7756), con una pronuncia fiume che ripercorre i fondamenti del contratto di appalto di opere edili, risolve un contrasto interpretativo e chiarisce che anche ove l’appaltatore intervenga su un fabbricato già esistente, la sua prestazione gode delle ordinarie garanzie previste dal codice civile, ivi compresa quella di lungo periodo per i gravi difetti prevista dall’art. 1669 cod.civ.
La sentenza affronta un unico quesito posto dal ricorrente: “Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 e.e. in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”. Espone che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell’art. 1669 e.e.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’entità dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonché sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce cheJ rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all’ipotesi di cui all’art. 1669 e.e.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/ 12 per affermare che la ridetta norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata.”
Le Sezioni Unite, dopo un ampio escursus sui diversi orientamenti giurisprudenzaili e dottrinali (che emrita integrale lettura), danno una lettura ampia della norma: “Queste Sezioni unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica. In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va, però, soffermata principalmente sull’ipotesi dei “gravi difetti”, sia perché confinaria rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 e.e., sia per il rilievo specifico che i “gravi difetti” assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno più chiaramente di seguito.
Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si è occupata dell’art. 1669 e.e., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parti o per altre ragioni) l’applicabilità anche in riferimento ad opere limitate. Ed è pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo.
Si è ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art.1669 cod.civ., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 legge n. 457/78 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, v. n. 8140/ 04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83,2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69).
Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/ 12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umiditànelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/ 86, 1427I 84, 6741/ 83, 2858/ 83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/ 11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/ 86 e 2763/ 84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. . 2070/ 78).
Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettività, un dato di fatto: nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, , che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perché non preordinata al (né dipendente dal) rispetto dell’una o dell’altra opzione esegetica in esame.
Spostando l’attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull’incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall’angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 e.e. sia ugualmente applicabile. In conclusione, considerare anche gli elementi “secondari” ha significato distogliere il focus dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa; per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito.
Come la previsione dei “gravi difetti” dell’opera sia il risultato d’un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma. Derivata dall’art. 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che «Si l’édijìce construit a prix fait, périt en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, !es architecte et entrepreneur en son! responsables pendant dix ans»), essa così recitava sotto l’art. 1639 del e.e. del 1865: «Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazjone di un edijìcio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzjone o per vizjo del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili». Rispetto all’ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioè le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma – si noti – aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata (“… l’uno o l’altra… “), cioè l’edificio, cui appunto aveva aggiunto “altra opera notabile”. Un ulteriore e consapevole passo in avanti è stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.
Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): <<Innovando poi al codice del 1865 si è creduto di non dover limitare fa .ifera di applicazjone della norma in questione alfe sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell’opera o di evidente pericolo di rovina, ma si è estesa fa garanzja anche alfe ipotesi in cui l’opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta fa costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi è dubbio che fa giurisprudenza farà un’applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezjonafe della responsabilità dell’appaltatore». (Il riferimento alla riconoscibilità dei gravi difetti al momento del collaudo è, ad evidenza, un fuor d’opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex art. 1669 e.e. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo).
Come si è visto, però, la postulata eccezionalità dell’art. 1669 e.e. non e valsa ad arginarne l’applicazione. Chiamata a dotare il sintagma “gravi difetti” di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l’unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti. Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di “gravi difetti” per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l’argomento è di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile (“l’uno o l’altra”), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 e.e. il soggetto diviene “l’opera”, nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 e.e.).
E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica.
Ben si comprende, allora, che nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 e.e., l’aggiunta dei “gravi difetti” ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 e.e. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione.
Completano e confermano la vahd1ta d1 tale esito ermeneutico, l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/ 15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme).
Così ricomposta la storia e l’esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 e.e. pretende di fondarsi perde la propria base logico-giuridica. Infatti, riferire l’opera alla “costruzione” e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale
Si noti che nel testo della norma il sostantivo “costruzione” rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per “attività costruttiva”; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d’intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto 0’opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di “costruzione” quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la nonna come se affermasse che l’opera può rovinare per difetto suo proprio. Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all’interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un’opera; salvo convenire che esso è quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, così confermandosi che quest’ultimo sostantivo allude, appunto, all’attività dell’appaltatore.
Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben più logico un diverso incipit della norma (e cioè, “Quando si tratta [della costruzione] di edifici… “); e b) il termine “costruzione” risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall’art. 1669 e.e., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioè da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che natura/iter fa pensare alle opere murarie). Ancora. Incentrando l’interpretazione dell’art. 1669 e.e. sul concetto di “costruzione” quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione così come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo lì dove afferma (cosa in sé condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale è costruzione nuova ed autonoma rispetto ali’edificio sopraelevato. Ma è una tematica del tutto estranea, quella degli artt. 873 e ss. e.e., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze è costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/ 16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09).
Non meno controvertibile l’altro argomento – la specialità o l’eccezionalità della norma – utilizzato dall’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 cod.civ. per escluderne l’applicazione analogica. In disparte il fatto che solo di specialità potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilità aggravata prevista da detta disposizione è speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell’art. 1668 cod.civ.; che tale specialità si è già attenuata fortemente allorché la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all’azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all’eliminazione dei difetti dell’opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui è tenuto l’appaltatore (per l’affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/ 16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/ 89 e 2763/ 84; contra, le più risalenti sentenze nn. 2954/ 83, 2561/ 80 e 1662/ 68); e che l’analogia serve a disciplinare ciò che non è positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto ciò a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l’art. 1669 e.e. includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialità della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione m oggetto.
Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 e.e. – con carattere di specialità rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 e.e. – costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Cass. nn. 4035/ 17 e 1674/ 12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell’ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d’appalto). Tutt’altro che monolitica, invece, è al riguardo la dottrina.
Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/ 15, che come detto escludono l’applicazione dell’art. 1669 e.e. alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilità; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/ 70 e il brano della relazione al codice civile . del 1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’incolumità personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (v. Cass. n. 81/00), ha anch’essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l’impero del e.e. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Ciò allo scopo di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, essendo invalsa già in allora, con lo sviluppo delle attività edilizie, l’unificazione delle due figure.
Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 cod.civ. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. C’.ass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 cod.civ.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e da ultima – ma non ultima – la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. e.e.).
Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 e.e., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma.
Per le considerazioni svolte l’unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “l’art. 1669 e.e. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”.
La Cassazione, III sezione penale, con sentenza del 1 marzo 2017 n. 10014 ha stabilito che il committente è responsabile per l’erronea scelta di soggetto non idoneo anche se costui subisce infortunio cadendo dal tetto durante un semplice sopralluogo preliminare, finalizzato unicamente alla stesura di un preventivo dei lavori da effettuare successivamente.
LA pronuncia chiarisce che le norme sugli infortuni in ambiente di lavoro, che dettano responsabilità anche per il committente, si applicano non solo durante l’esecuzione dell’appalto ma anche nelle attività prodromiche allo stesso, ove vanno ricompresi anche gli accessi dell’appaltatore volti a verificare i luoghi per predisporre una semplice offerta.
Il caso esaminato riguarda un infortunio sul tetto di un capannone, ma è evidente che la pronuncia deve far riflettere anche per i lavori svolti in ambito condominiale.
“Le misure generali di tutela della salute e sicurezza del lavoro, che implicano a norma dell’articolo 15 decreto legislativo 81/2008 la valutazione preventiva e l’eliminazione di rischio in relazione ai lavori da eseguire, pongono a carico del committente, sin dalla fase di progettazione dell’opera e delle conseguenti scelte tecniche, specifiche cautele prescritte dall’articolo 90, comma 9 del medesimo decreto, fra cui la verifica nell’ipotesi di cantieri temporanei dell’idoneità tecnico professionale dell’impresa affidataria, la quale implica l’iscrizione di quest’ultima alla camera di commercio e la autocertificazione in ordine al possesso dei requisiti previsti dalla normativa di settore.
Da ciò discende che non è affatto necessario il perfezionamento di un contratto di appalto, sia perché trattasi di adempimenti preliminari alla successiva fase della stipula, sia perché la norma in esame non contempla tale figura contrattuale – come si desume dal tenore letterale dello stesso art. 90 che parla di “affidamento dei lavori” e che nella lettera C) del comma 9 contemplante a sua volta gli adempimenti di cui alle precedenti lettere a) e b), esclude espressamente la necessità del ricorso all’appalto – ben potendo la commissione esaurirsi in una mera prestazione d’opera, quale è certamente il sopralluogo sul tetto ai fini della verifica dei lavori necessari, alla quale devono comunque presiedere le cautele previste. “
“Con motivazione coerente ed esente ed aderente ai principi affermati da questa Corte in materia di responsabilità nei reati edilizi (sezione 3 n.1334 del 26/4/2016, sezione 4 n. 8589 del 14/1/2008) il giudice di merito ha pertanto ritenuto la culpa in eligendo dell’imputato non essendo la ditta X che, secondo la deposizione dell’ispettore, stava effettuando al momento dell’infortunio attività lavorativa sul tetto…, desunta dal materiale e dall’attrezzatura ivi rinvenuta, più attiva dal 2009 ed essendo l’attività di artigiano edile del preteso titolare cessata sin dal 2003, senza che alcuna rilevanza assuma la proprietà, in capo esecutore materiale ovvero al committente, dell’attrezzatura a tal fine utilizzata. L’insussistenza dei titoli di idoneità prescritti dalla legge in capo alla ditta esecutrice dell’opera, la cui verifica configura adempimento preliminare da parte del committente rispetto quella dei effettuarsi in concreto in relazione alla capacità rispetto alla tipologia dell’attività commissionata, consente di ritenere che la sentenza impugnata, espressasi in conformità alle fondamentali regole di ermeneutica probatorie con procedimento idoneo a fornire piena contezza dell’iter logico giuridico dal quale è derivato il convincimento espresso, sia scevra dai vizi lamentati sul piano motivazionale.”
Una articolata sentenza della Cassazione fa il punto sul complesso tema dell’appalto e dei relativi poteri assembleari previsti dall’art. 1135 cod.civ.
Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 . n. 4430 (rel. Scarpa): la causa nasce nel 2004 con una impugnazione di delibera con cui gli attori chiedono al Tribunale di Lanciano di dichiarare invalida “la deliberazione dell’assemblea condominiale del 9 dicembre 2003, che aveva approvato il rendiconto dall’1.11.2002 al 31.10.2003 e la relativa ripartizione, comprensivi di un importo dei lavori di manutenzione della fogna per un importo di C 13.840,63, oltre I.V.A., maggiore di quello preventivato e pattuito con l’appaltatrice B.D. SRL, pari ad C 7.790,89. Gli attori avevano chiesto di dichiarare invalida la deliberazione dell’assemblea, per motivi inerenti alle carenze dell’ordine del giorno, al merito dei lavori effettivamente eseguiti dall’impresa ed alla ripartizione delle spese, effettuata sulla base di 986,42 millesimi anziché 1000 millesimi”
Osserva la corte, in primo luogo, che l’approvazione dell’appalto è materia di pertinenza dell’assemblea ai sensi dell’art. 1135 cod.civ. “E’ pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, l’approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 4, c.c., per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale (si veda indicativamente Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016).”
La decisione passa poi ad esaminare il contenuto della delibera di approvazione di contratto di appalto e il potere del sindacato del giudice, che non potrà mai estendersi al merito: “Il contenutLa delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve determinare l’oggetto del contratto di appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi ed il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell’opera, ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa.
Sono, peraltro, ammissibili successive integrazioni della delibera di approvazione dei lavori, pure inizialmente indeterminata, sulla base di accertamenti tecnici da compiersi. In ogni caso, l’autorizzazione assembleare di un’opera può reputarsi comprensiva di ogni altro lavoro intrinsecamente connesso nel preventivo approvato (arg. da Cass., Sez. 2, Sentenza n. 5889 del 20/04/2001). I condomini non possono, però, sollecitare il sindacato dell’autorità giudiziaria sulla delibera di approvazione dei lavori straordinari, censurando l’utilità dei lavori, l’adeguatezza tecnica dell’intervento manutentivo stabilito, o la scelta di un preventivo di spesa meno vantaggioso di quello contenuto in altra offerta. Il controllo del giudice sulle delibere delle assemblee condominiali è limitato al riscontro della legittimità, in base alle norme di legge o del regolamento condominiale, e giunge fino alla soglia dell’eccesso di potere, mentre non può mai estendersi alla valutazione del merito ed alla verifica delle modalità di esercizio del potere discrezionale spettante all’assemblea”.
Ove intervengano significative varianti nel corso della esecuzione dell’opera, queste dovranno formare oggetto di ulteriore specifica approvazione assembleare: Quanto detto in ordine all’approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell’opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall’assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, c.c. E’ tuttavia certamente consentito all’assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinarie appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall’art. 1135 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6896 del 04/06/1992; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016, in motivazione). L’assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18192 del 10/08/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2864 del 07/02/2008).”
Detta ratifica ben potrà avvenire anche durante l’approvazione del rendiconto annuale, ove l’ordine del giorno sia sufficientemente esteso da poter comprendere tutti gli esborsi dell’esercizio (seppure, plausibilmente, la delibera sullo specifico punto sia da adottare con le diverse maggioranze richieste dalla materia straordinaria): “Quanto detto in ordine all’approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell’opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall’assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, c.c. E’ tuttavia certamente consentito all’assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinarie appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall’art. 1135 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6896 del 04/06/1992; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016, in motivazione). L’assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18192 del 10/08/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2864 del 07/02/2008).”
Da quella delibera sorge l’obbligo dei condomini di versare le proprie quote e non dalla stipulazione del contratto con l’appaltatore e, per le stesse ragioni, non può darsi azione diretta del singolo condomino verso l’appaltatore: “Ritenuta la deliberazione dell’assemblea 9 dicembre 2003 utile ratifica dell’obbligo di spesa per i lavori di manutenzione della fogna nell’importo di C 13.840,63, oltre I.V.A., dovuto all’appaltatrice B. D. SRL, è da essa (salvi gli effetti invalidanti dell’impugnazione ex art. 1137 c.c.), e non dal rapporto contrattuale con l’appaltatrice, che discende l’obbligo dei singoli condomini di partecipare agli esborsi derivanti dall’esecuzione delle opere. Ponendosi il condominio (e non ciascun condomino) come committente nei confronti dell’appaltatrice (giacché unitario è l’interesse sottostante alla posizione dei singoli partecipanti al condominio, espresso nell’atto collegiale), la tutela del singolo condomino, riguardo agli effetti pregiudizievoli derivanti dalle obbligazioni assunte nei confronti della stessa appaltatrice, può concepirsi soltanto nell’ambito dell’impugnazione della deliberazione dell’assemblea di approvazione, e non sotto il profilo dei rimedi contrattuali.
E’ perciò sostanzialmente corretto quanto deciso dalla Corte d’Appello dell’Aquila, dichiarando inammissibile la pretesa dei condomini D.D.V. e M. P. di agire in via diretta verso l’appaltatrice per accertare il minor compenso spettante a quest’ultima.”
Il ricorso al Giudice di legittimità trova invece fondamento sulla ripartizione millesimale errata, che comporta rinvio al giudice di merito: “D.D.V. e M. P. avevano impugnato con specifico motivo la sentenza del Tribunale di Lanciano anche riproponendo la domanda di annullamento della deliberazione dell’assemblea condominiale del 9 dicembre 2003, perché il riparto era stato effettuato sulla base di 986,42 millesimi anziché 1000 millesimi, in quanto domanda su cui il primo giudice non aveva deciso. Su tale motivo di appello la Corte di L’Aquila ha omesso di pronunciarsi. Si impone pertanto la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, richiedendo la decisione nel merito accertamenti di fatto in ordine alla sussistenza nella deliberazione di ripartizione della spesa del valore delle unità immobiliari, espresso in millesimi, ragguagliato a quello dell’intero edificio.”
L’impugnazione risulta fondata anche per quel che attiene al tema delle spese, sullo spinoso problema della compensazione, soluzione con troppa frequenza adottata dai Tribunali (e su cui gli ultimi interventi legislativi hanno opportunamente posto qualche limite applicativo): “La Corte di L’Aquila ha altresì omesso di pronunciare sul motivo di impugnazione attinente all’omessa compensazione ed all’entità della liquidazione delle spese di primo grado operata in favore dei convenuti. Il giudice di appello, in presenza di una censura che investe la pronunzia del giudice di primo grado sulle spese, specificamente indicando giusti motivi di compensazione o un’eccessiva liquidazione di esse, ha il dovere di apprezzare, anche nel contesto di ogni altro elemento, la consistenza ed importanza dei fatti dedotti e di precisare, così, la ragione per la quale egli ritenga di condividere la decisione di primo grado (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9758 del 10/05/2005).”
Una ditta che ha eseguito opere di manutenzione straordinaria al fabbricato condominiale non è stata saldata e ottiene decreto ingiuntivo nei confronti del condominio, il Condominio propone opposizione e chiede di chiamare a garanzia il precedente amministratore, che aveva ordinato quei lavori in assenza di alcuna delibera assembleare.
La Cassazione riafferma un principio importante in tema di responsabilità patrimoniale del condominio e dell’amministratore nei confronti dell’appaltatore, già espresso nel 2010: ove difetti il requisito dell’urgenza, le opere straordinarie ordinate dall’amministratore senza supporto assembleare rimarranno un contratto unicamente a lui riferibile e del quale è chiamato a rispondere in via diretta ed esclusiva sotto il profilo patrimoniale, non sussistendo alcun rapporto di garanzia nei confronti del condominio ma esclusivamente una responsabilità personale dell’amministratore, che ha assunto l’obbligazione eccedendo i limiti del mandato.
Cass. civ. II sez. 2 febbraio 2017 n. 2807: “In materia di lavori straordinaria amministrazione disposti dell’amministratore di condominio, in assenza di previa delibera assembleare, non è … configurabile alcun diritto di rivalsa o di regresso del condominio, atteso che i rispettivi poteri dell’amministratore dell’assemblea sono delineati con precisione dalle disposizioni del codice civile (articoli 1130 e 1135), che limitano l’attribuzione dell’amministratore all’ordinaria amministrazione e riservano all’assemblea di condominio le decisioni in materia di amministrazione straordinaria, con la sola eccezione dei lavori di carattere urgente. (Cass. n. 4332/1987)
Di conseguenza, nel caso in cui l’amministratore, avvalendosi dei poteri di cui all’articolo 1135 comma due cod. civ., abbia assunto l’iniziativa di compiere opere di manutenzione straordinaria caratterizzata dall’urgenza, ove questa effettivamente ricorra ed egli abbia speso, nei confronti dei terzi, il nome del condominio, quest’ultimo deve ritenersi validamente rappresentato e l’obbligazione è direttamente riferibile al condominio; laddove invece i lavori eseguiti da terzi su disposizione dell’amministratore non posseggano i requisiti dell’urgenza, il relativo rapporto obbligatorio non è riferibile al condominio, trattandosi di atto posto in essere dall’amministratore al di fuori delle sue attribuzioni, attesa la rilevanza esterna delle disposizioni di cui agli articoli 1130 e 1135 comma due cod. civ. (cass. 6557/1987).”
lo ha stabilito la Cassazione con sentenza 13902/2016.
Il caso riguarda un contratto d’appalto per lavori straordinari in condominio, nel quale le parti avevano stabilito una clausola penale che prevedeva il versamento di € 19,22 dalla data della domanda al saldo effettivo.
Il risultato concreto della applicazione secca di tale previsione contrattuale finiva per comportare un esborso per il condominio di oltre 33 mila euro, decisamente sproporzionato rispetto alla prestazione pattuita e assolutamente squilibrato rispetto ai concreti interessi delle parti e alla funzione stessa della clausola.
La suprema Corte ha dunque ritenuto che il Giudice – in applicazione dell’art. 1384 cod.civ. – debba e possa introdurre correttivi che consentano di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, adeguando la prestazione alla lesione effettivamente subita dalla parte adempiente ed evitando effetti che, in concreto, travalicano il limite dell’usura. Per tali ragioni si deve considerare: “il riferimento all’interesse del creditore contenuto nella norma e considerato che la possibilità della riduzione ad una misura equa trova la sua ragion d’essere nell’interesse del debitore inadempiente, consente di identificare quel criterio nell’equo contemperamento degli interessi contrapposti, che assicuri, cioè, il posizionamento del soggetto adempiente sulla curva di indifferenza più vicina a quella su cui si sarebbe co0llocato qualora il contratto fosse stato adempiuto… D’altra parte, tenuto conto che dal nuovo e moderno sistema contrattuale, quale viene sempre più emergendo, anche dalla normativa europea, corollario di un liberismo che al contempo è anche solidaristico, emerge una maggiore attenzione per la giustizia contrattuale, cioè per un contratto che non presenti né uno squilibrio strutturale, né e soprattutto uno squilibrio tra prestazioni o di contenuto, appare ragionevole che anche la clausola penale debba essere espressione di un corretto equilibrio degli interessi contrattuali contrapposti”
La Cassazione (II sezione civile, 10865/2016, rel. Scarpa) ritorna su due temi caldi.
Quanto alle diverse categorie di spesa e ai poteri dell’amministratore, osserva la Corte che “Vi si allega che l’appalto dei servizi di manutenzione del verde condominiale, nonche’ di derattizzazione e disinfestazione delle aree comuni, involgono contratti rientranti nella straordinaria amministrazione, e percio’ sarebbe illegittima la delibera che dava generico mandato all’amministratore al riguardo. La Corte d’Appello ha ritenuto che si trattasse di contratti che “rientrano chiaramente nell’ordinaria amministrazione, in quanto tendono alla conservazione delle cose comuni, e quindi nella competenza dell’amministratore”, sicche’ la deliberazione sarebbe valsa soltanto come “sollecitazione” a quest’ultimo a provvedere ad atti di sua competenza. E’ noto che i contratti conclusi dall’amministratore nell’esercizio delle sue funzioni ed inerenti alla manutenzione ordinaria dell’edificio ed ai servizi comuni essenziali, ovvero all’uso normale delle cose comuni, sono vincolanti per tutti i condomini in forza dell’articolo 1131 c.c., nel senso che giustificano il loro obbligo di contribuire alle spese, senza necessita’ di alcuna preventiva approvazione assembleare delle stesse, intervenendo poi tale approvazione utilmente in sede di consuntivo (Cass. 18 agosto 1986, n. 5068). L’elemento distintivo dell’ordinaria amministrazione dell’obbligazione assunta, come tale sottratta al presupposto autorizzativo dell’assemblea, risiede, pertanto, al pari di quanto si sostiene per le amministrazioni commerciali, nella normalita’ dell’atto di gestione condominiale rispetto allo scopo dell’utilizzazione e del godimento dei beni comuni. Mentre, solo laddove si verta in ipotesi di spese che, seppure dirette alla migliore utilizzazione di cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino per la loro particolarita’ e consistenza un onere economico rilevante, superiore a quello normalmente inerente alla gestione, l’iniziativa contrattuale dello stesso amministratore, senza la preventiva deliberazione dell’assemblea, non e’ sufficiente a fondare l’obbligo dei singoli condomini, salvo che non ricorra il presupposto dell’urgenza contemplato nella fattispecie di cui all’articolo 1135 c.c., comma 2. “
Quanto alla legittimazione processuale dell’amministratore, in linea con le Sezioni Unite del 2010 e con le modfiche apportate all’art. 1131 cod.civ. dalla novella del 2012, il Giudice di legittimità ribadisce che “deve conclusivamente affermarsi, quanto al primo motivo di ricorso, che l’amministratore di un condominio, per conferire procura al difensore al fine di costituirsi in giudizio nelle cause che non esorbitano dalle sue attribuzioni, agli effetti dell’articolo 1131 c.c., commi 2 e 3 (quale, nella specie, la resistenza all’impugnazione di una Delib. proposta da un condomino), non ha bisogno dell’autorizzazione dell’assemblea dei condomini, ed un’ eventuale Delib. sul punto avrebbe il significato di mero assenso alla scelta gia’ validamente effettuata dall’amministratore”