legittima la notifica del decreto ingiuntivo al debitore che versa acconti

E’ quanto stabilito dal Tribunale di Bergamo (sentenza 31 dicembre 2020 n. 1294), nell’opposizione promossa da un condomino moroso, che aveva versato acconti dopo l’emissione del decreto richiesto dal condominio e prima della sua notifica, eccependo l’illegittimità della condotta del condominio.

Il giudice osserva che “Nessun profilo di colpa o negligenza si configura nella richiesta di notifica dell’ingiunzione da parte del condominio che, considerato il pagamento parziale comunque minimo, in ogni caso successivo alla data di emissione del decreto, ha ridotto la pretesa creditoria senza azionarlo in sede esecutiva e dichiarando alla prima udienza”.

Il tribunale  ha quindi confermato l’ordinanza ex articolo 186ter Codice procedura civile richiesta dal condominio in sede di opposizione condannando il condomino al pagamento del debito residuo (circa 5800 euro) oltre le spese processuali.

© Massimo Ginesi 18 gennaio 2021

riparazioni urgenti: l’art. 1134 cod.civ. si applica anche al condominio minimo, purché l’intervento non sia dovuto a condotta colposa di chi lo esegue.

Cass.Civ. sez. VI-2 28 maggio 2018 n. 13293 rel. Scarpa  affronta un caso davvero peculiare: un condomino ricorre in cassazione avverso una sentenza della corte di appello di Brescia “che, riformando la decisione di primo grado resa dal Tribunale di Bergamo in data 25 maggio 2012, ha rigettato la domanda proposta dallo stesso R. D. nei confronti della B. A. & c. s.a.s., volta al rimborso della somma di €  8.549,07, anticipata per il rifacimento del tetto e della facciata del complesso immobiliare sito in S., composto da unità immobiliari di proprietà del D. e della società convenuta.”

In realtà le ragioni per cui il giudice bresciano ha respinto la domanda attengono alla responsabilità nella causazione  dell’evento; non potrà invocare l’art. 1134 cod.civ. colui che provveda ad opere sulle parti comuni svolte per porre rimedio a danni cagionati da una sua condotta colposa: “La Corte d’Appello di Brescia ha escluso che potesse essere invocata dal D. l’applicazione dell’art. 1134 c.c., in quanto l’urgenza dell’intervento di manutenzione delle parti comuni dell’edificio condominiale era stata determinata da un incendio sviluppatosi nella notte tra il 28 ed il 29 febbraio 2008 conseguente al surriscaldamento della canna fumaria posta all’interno di appartamento di proprietà dello stesso R. D.. Tale surriscaldamento della canna fumaria, per quanto accertato già dal Tribunale di Bergamo, era stato provocato da un non adeguato utilizzo di una stufa a legna. Essendo la responsabilità dell’incendio attribuibile al D., a carico dello stesso devono porsi, per la Corte di Brescia, tutte le conseguenze patrimoniali della sua condotta, visto che l’intervento di rifacimento del tetto e della facciata risultava a sua volta da attribuire causalmente (anche per le risultanze del verbale dei Vigili del Fuoco intervenuti sul luogo) all’incendio stesso, che aveva intaccato le travi di legno della copertura, rendendola pericolante.”

I motivi, inammissibili, svolti dal ricorrente attengono unicamente ad una diversa valutazione in concreto del nesso causale fra l’evento dannoso (l’incendio) e la sua condotta, giudizio di merito che non può essere rimesso al giudice di legittimità che, tuttavia, coglie l’occasione per evidenziare che “ l’infondatezza del primo motivo discende radicalmente da altra considerazione.

Il presente giudizio non ha ad oggetto l’individuazione dei danni che R. D. debba risarcire alla B A. & c. s.a.s., quando la sussistenza di un diritto del condomino D. ad essere rimborsato di spese fatte per le cose comuni di sua iniziativa.

Ora, anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti (quale risulta quello per cui è causa), la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile soltanto nel caso in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c. (testo previgente alla modifica operata con la legge n. 220/2012).

Ai fini dell’applicabilità dell’art 1134 c.c., va dunque considerata ‘urgente’ non solo la spesa che sia giustificata dall’esigenza di manutenzione, quanto la spesa la cui erogazione non possa essere differita, senza danno o pericolo, fino a quando l’amministratore o l’assemblea dei condomini possano utilmente provvedere.

Ciò vale anche per i condomini composti da due soli partecipanti, la cui assemblea si costituisce validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all’unanimità decida validamente. Se non si raggiunge l’unanimità e non si decide, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, diventa necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, come previsto dagli artt. 1139 e 1105 c.c. (Cass. Sez. 2, 12/10/2011, n. 21015; Cass. Sez. U, 31/01/2006, n. 2046).

Peraltro, l’obbligo del singolo condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare  alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni dell’edificio trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio.

Ove l’esigenza di manutenzione e riparazione delle parti comuni dell’edificio derivi, invece, dalla specifica condotta illecita attribuibile ad un condomino (come nella specie accertato in fatto dalla Corte di Brescia), tale condotta fa sorgere soltanto a carico di quest’ultimo l’obbligo di risarcire il danno complessivamente prodotto ex art. 2043 c.c., e non anche l’obbligo degli altri partecipanti di contribuire alle spese ai sensi degli artt. 1123 e ss. c.c. (Cass. Sez. 3, 08/11/2007, n. 23308; Cass. Sez. 2, 12/04/1999, n. 3568).

Ne consegue che non può comunque spettare al condomino alcun diritto al rimborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, ai sensi dell’art. 1134 c.c., ove l’esigenza di manutenzione e riparazione della stessa abbia trovato la sua causa in una specifica condotta illecita a lui attribuibile, e le opere fatte eseguire dal singolo abbiano perciò dato luogo ad una forma di risarcimento del danno in forma specifica.”

© massimo ginesi 29 maggio 2018

scivolata sulle scale condominiali: compete al danneggiato la prova del nesso di causalità.

Il condominio è custode dei beni comuni e risponde ai sensi dell’art. 2051 cod.civ. dei danni che derivino da tali beni; la norma prevede notoriamente un’inversione dell’onere della prova, sì che sarà il custode a dover dimostrare di aver fatto tutto quanto in proprio potere per evitare il danno (il.c.d. fortuito).

Rimane tuttavia in capo al danneggiato l’onere di provare il nesso  di causa fra il bene e il danno lamentato: in forza di tale principio la suprema corte (Cass.Civ. Sez. VI 8 maggio 2018 n. 10986) ha respinto il ricorso di un condomino che assumeva di aver subito lesioni in conseguenza di una caduta nelle scale condominiali, dovuta alla presenza di sostanza oleosa sui gradini, poichè risultava che lo stesso stesse percorrendo le medesime con entrambe le mani occupate dalle borse della spesa, adottando dunque  una condotta colposa che si inserisce quale elemento interruttivo del nesso causale fra la res e l’evento.

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© massimo ginesi 10 maggio 2018

 

responsabilità da cosa in custodia e caduta dall’ascensore.

Una articolata e interessante pronuncia della suprema corte (Cass.civ. sez. III  31 ottobre 2017 n. 25837) affronta il tema della responsabilità da cosa in custodia in caso di danno derivato da un evento in cui il danneggiato ha concorso, con la propria condotta alla sua causazione.

Si tratta, nella fattispecie, di un evento assai frequente, ovvero la caduta di un soggetto che, uscendo dall’ascensore, inciampa nel gradino che si forma fra cabina e pianerottolo, per una imperfetta fermata, scalino che nel caso di specie vedeva un dislivello di appena otto centimetri.

Tribunale e Corte di appello di Milano avevano respinto la domanda avanzata dal danneggiato per le lesioni subite, ritenendo che la caduta fosse ascrivibile unicamente alla condotta del danneggiato, che non aveva prestato la dovuta attenzione, integrando così il c.d. caso fortuito, che la giurisprudenza ha sempre ravvisato anche nella condotta colposa della vittima, quando è da sola idoneo a cagionare l’evento.

La Corte compie una lunga ed articolata disamina, dapprima soffermandosi sul concetto di insidia, che non necessariamente deve sussistere per integrare la responsabilità del custode, ed evidenziando poi come la condotta del danneggiato non sempre costituisca fortuito idoneo ad escludere la responsabilità da custodia, ma vada valutata nel suo concreto esplicarsi, per stabilire se concorra con la responsabilità del custode o se valga ad escluderla.

Osserva la corte che affinché la condotta della vittima sia idonea ad escludere la responsabilità del custode deve essere non solo imprudente ma anche imprevedibile, evidenziando come tali caratteristiche possano gradatamente combinarsi fra loro in una gamma che può attenuare o escludere del tutto la responsabilità ex art 2051 cod.civ. in capo al titolare del bene in custodia.

sarà compito del giudice di merito accertare la sussistenza di questi presupposti, in forza dei quali stabilire se si tratti effettivamente di fortuito idoneo ad escludere la colpa del custode.

La pronuncia di secondo grado è dunque cassata con rinvio ad altra sezione della stessa corte d’appello, che dovrà attenersi al  principio di diritto enunciato dalla corte.

Una sentenza interessante in diritto, che merita integrale lettura per la vastità e accuratezza delle argomentazioni e che, tuttavia, desta qualche perplessità nella sua pratica applicazione, per la complessità dell’onere probatorio che finisce per addossare alla parte che invoca il caso fortuito.

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© massimo ginesi 6 novembre 2017 

 

 

l’amministratore risponde di omicidio colposo per l’incidente all’appaltatore.

Durante l’esecuzione di lavori in condominio un soggetto cade da circa dieci metri e muore. L’amministratore viene condannata per omicidio colposo dai giudici di appello e ricorre in cassazione, articolando diversi motivi, fra tutti quelli del difetto dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità fra la sua condotta e l’evento.

Cass. pen. Iv sez. 21 settembre 2017 n. 43452 respinge il ricorso con una motivazione che lascia ben poco margine alla posizione dell’amministratore che, per il solo fatto di essere il committente, risponde  del fatto rivestendo in tali ipotesi una posizione di garanzia, anche  se non si è ingerito nella esecuzione dei lavori.

Il fatto e l’imputazione

gli elementi di responsabilità

l’assunto difensivo principale dell’amministratore ruota intorno al fatto che non avrebbe commissionato lui i lavori

I giudici di legittimità rilevano che la corte di appello ha in effetti verificato che fu l’amministratore a conferire l’incarico al soggetto deceduto di effettuare i lavori sulla terrazza in quota, “non verificò in alcun modo la formazione, le competenze e l’idoneità tecnico professionale dell’operaio e che non adottò, nonostante si trattasse di lavori sostanzialmente in quota, alcuna precauzione”

A fronte di tali elementi la conclusione in diritto è senza scampo:

© massimo ginesi 22 settembre 2017 

la tutela delle minoranze condominiali, la convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’art. 96 c.p.c.

Esemplare e godibile pronuncia della cassazione (Cass.civ. Sez. III 5 luglio 2017 n. 16482) , che sanziona pesantemente un ricorrente che ha inteso occupare la giustizia con un procedimento privo di fondamento e per questioni bagatellari.

Accade che durante una assemblea di condominio si verbalizza ciò che accade durante la riunione  ed il condomino X,  dall’animo particolarmente sensibile, si sente leso nella propria dignità dalle espressioni utilizzate da coloro che hanno steso lo scritto; li cita dunque dinanzi al Tribunale di Novara  per sentirli condannare al risarcimento del danno, poiché le espressioni usate sarebbero diffamatorie.

Ecco  le espressioni che il condomino ritiene  meritevoli di sanzione giudiziale, con condanna al risarcimento degli autori: ” a fondamento della domanda dedusse che i convenuti, nel redigere il verbale di assemblea condominiale, avevano adottato espressioni lesive del suo onore della sua reputazione, ed in particolare avevano scritto che:

il controllo dei documenti da parte di X si dilunga oltre ogni ragionevole tempo;

tutti gli altri condomini danno evidenti segni di impazienza;

sorge, come sempre, solita animata discussione tra X e l’amministratore;

I condomini sono loro malgrado testimoni dei fatti;

il signor X giustifica suo voto contrario con le solite motivazioni di tutti gli anni.

Chiunque abbia frequentato una assemblea condominiale o un’aula di giustizia troverà tali espressioni degne di una cena nobiliare britannica, ma tant’è.

Il Tribunale di Novara respinge la domanda per manifesta infondatezza, condannando l’attore X  per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.

L’animo sensibile non ha impedito al condomino X di appellare una sentenza che già costituiva una indicazione chiara nel merito; l’impugnazione è dichiarata inammissibile dalla Corte di Appello di Milano, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. (“l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”).

Altro significativo segnale nel merito, rimasto inascoltato, poiché il condomino la cui reputazione risulterebbe irrimediabilmente lesa, ricorre in cassazione, con una serie articolata di motivi assai bizzarri, lamentando che

1 – Il tribunale avrebbe violato l’art. 101 c.p.c. poiché avrebbe deciso la causa senza preventivamente sottoporre alle parti la questione, rilevata di ufficio, del “contesto agitato in cui venne redatto il verbale”

La corte rileva che il Tribunale di Novara venne chiamato a stabilire se quel verbale era o meno diffamatorio e non lo ritenne tale, il motivo è dunque infondato in quanto non risulta che la decisione sia fondata su questioni sulle quali le parti non hanno potuto interloquire, e la notazione sul clima teso non è certo motivo di decisione ma semplice nota ad colorandum.

2 – il Tribunale avrebbe violato il giudicato esterno perché il Tribunale di Novara, in una precedente sentenza del 2013, avrebbe accertato che il condomino X non faceva perdere tempo in assemblea (sic!), motivo ritenuto inammissibile poiché il giudicato si forma sull’oggetto della domanda, che in questo caso era la diffamatorietà delle espressioni e non la condotta del condomino X

3 . il terzo motivo di ricorso è il più godibile: il condomino X deduce che il Tribunale avrebbe violato l’art. 2 della Cost. e la gli artt. 10 e 14 CEDU perché ha escluso il carattere diffamatorio degli scritti che avrebbero leso i suoi diritti di persona, avendolo discriminato in quanto minoranza nella assemblea condominiale. la motivazione della Cassazione è lapidaria: “il motivo è manifestamente infondato, non esistendo norma veruna nell’ordinamento nazionale o sovranazionale che tuteli i diritti delle minoranze condominiali”.

4 – con il quarto motivo lamenta che non può sussistere condanna ex art. 96 c.p.c. mancando la malafede: osserva la corte di legittimità che la condanna ex art. 96 III comma c.p.c. non richiede necessariamente malafede, mentre lo stabilire se sussista colpa nella proposizione della domanda è questione riservata al giudice del merito.

Nel respingere il ricorso la Cassazione, oltre a condannare il ricorrente alle spese di giudizio liquidate in tremila euro oltre accessori, traccia una linea netta in ordine alla temerarietà dell’azione, gettando un chiaro monito non solo alla parte sostanziale ma anche al difensore.

LA suprema Corte rileva che il ricorrente “Ha sostenuto tesi giuridicamente molto originali, come quella secondo cui la CEDU tutelerebbe le minoranze condominiali” ed ha in più sostenuto a sproposito l’esistenza del giudicato esterno, chiedendo inoltre un riesame di merito precluso al giudice di legittimità.

“Il ricorrente, in definitiva, ha proposto un ricorso in parte manifestamente infondato, ed in parte manifestamente inammissibile.

Da ciò deriva che delle due l’una: o il ricorrente – e per lui suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex articolo 2049 c.c. – ben conosceva l’insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha  agito sapendo di sostenere una tesi infondata (condotta che, ovviamente, l’ordinamento non può consentire);

ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita o nel non essersi adoperato con la exacta  diligetia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall’articolo 1176 comma II c.c.)  da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata,  quale è quella dell’avvocato in generale, e dell’avvocato cassazionista in particolare.

Il ricorrente va dunque, condannato di ufficio ai sensi dell’articolo 96, comma III c.p.c., al pagamento in favore delle parti intimate, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento del danno. Tale somma va determinata assumendo a parametro di riferimento l’importo delle spese dovute alla parte vittoriosa per questo grado di giudizio e – tenendo conto del numero dei controcorrenti – nella specie può essere fissata in via equitativa ex art. 1226 c.c. nell’importo di euro 10.000″

LiteTemerariaSentenza16482

© Massimo Ginesi 7 luglio 2017  

il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone in condominio

 

L’art. 659 cod.pen. prevede che : “Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro”

La Suprema Corte ( Cass. pen. III sez. 15 dicembre 2016 n. 53102) ha delineato i limiti di applicabilità della norma in ambito condominiale, sia con riferimento alla natura del disturbo che con riguardo alla responsabilità del genitore  che non impedisca al figlio di arrecare quel disturbo, tenendo lo stereo troppo alto.

Quanto alla possibilità che il reato sussista in ambito condominiale, la corte afferma che non è sufficiente che il rumore interessi solo le unità contigue:  Affinché sussista la contravvenzione in oggetto relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei a recare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni  non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti medesimo edificio

Nel caso di specie il rumore si percepiva ben oltre l’ambito condominiale: “La sentenza impugnata ha chiaramente e analiticamente riportato elementi di prova dai quali doveva ritenersi che i rumori fossero stati percepiti ben al di là addirittura dell’ambito condominiale, in particolare richiamando le deposizioni dei testi, entrambi appartenenti alla polizia municipale, secondo cui la musica ad alto  volume si percepiva già ad 80 m di distanza dal condominio… Il fatto che sono due persone avessero ritenuto di denunciare il fatto non poteva evidentemente incidere sulla sussistenza del reato”

Assai interessante si rivela invece il passaggio sulla colpa attribuita al padre e sul concetto di posizione di garanzia, spesso richiamato in giurisprudenza anche per fondare la colpa per responsabilità omissiva dell’amministratore: ” aldilà dell’improprio richiamo effettuato per sostenere la responsabilità dell’imputato, agli obblighi discendenti dalla sua qualità di proprietario ed abitante dell’immobile dal quale i rumori si diffondevano, posto che il danno non è stato, nella specie, come correttamente rilevato del ricorrente, prodotto dall’immobile in sé (come richiesto dall’articolo 2051 codice civile) ma dagli apparecchi di riproduzione musicale attivati dal figlio, la sentenza ha posto in evidenza la posizione di garanzia data dall’esercizio della potestà genitoriale sul figlio minore autore, come appena detto, delle propagazioni rumorose”

A tal proposito rileva la Suprema corte che “Tale fonte di responsabilità è stata correttamente evocata dei giudici di merito. L’articolo 40 comma due codice penale prevede che “non impedire un evento che sia l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” e non può esservi dubbio che fra gli obblighi giuridici richiamati da tale norma debba ricomprendersi anche quello discendente dalla responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori, essendo i genitori responsabili del danno cagionato da fatto illecito dei figli minori secondo quanto previsto dall’articolo 2048 codice civile”

“Va infatti chiarito come da tale disposizione discenda un obbligo  di sorveglianza che, senza escludere la concorrente responsabilità del minore ultraquattordicenne e  capace di intendere di volere, non può non radicare una responsabilità anche del genitore in tutti casi in cui un tale obbligo sia rimasto inadempiuto, solo che restando salva la possibilità, espressamente consentita dal comma tre dell’articolo 2048 citato, di provare di non aver potuto impedire il fatto”

© massimo ginesi 16 dicembre 2016

Ascensore: insidia trabocchetto in condominio

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La definizione di insidia/trabocchetto è stata da tempo elaborata dalla giurisprudenza con riferimento alle cadute accidentali per buche o altri ostacoli che, con frequenza, giungono alla attenzione dei giudici.

La Suprema Corte ha sempre sottolineato che la norma di cui all’art. 2051 cod.civ., che prevede la responsabilità del custode del bene che cagiona il danno, fa salvo il caso fortuito e in tale concetto deve ricondursi anche il fatto del terzo o dello stesso danneggiato.

La giurisprudenza ha in più occasioni sottolineato che il soggetto che subisce danno in conseguenza di un ostacolo o di un particolare assetto dei luoghi dovrà essere risarcito solo ove il fatto non possa essere evitato con l’ordinaria diligenza, quindi abbia carattere insidioso idoneo a superare il normale atteggiarsi dell’individuo di fronte a situazioni analoghe.

La Cassazione (Cassazione civile, Sezione III, sentenza 22 giugno 2016, n. 12895) con una recente    sentenza    affronta il problema dell’insidia e della responsabilità da cosa in custodia in condominio.

L’ascensore si ferma un ventina di centimetri sotto il livello della soglia e il soggetto che si trova all’interno inciampa procurandosi lesioni.

Afferma la Corte che “ai sensi del citato art. 2051 cod. civ., allorché venga accertato, anche in relazione alla mancanza di intrinseca pericolosità della cosa oggetto di custodia, che la situazione di possibile pericolo, comunque ingeneratasi, sarebbe stata superabile mediante l’adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, deve escludersi che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell’evento, e ritenersi, per contro ingrato il caso fortuito.
Nella specie, osserva la pronuncia, il dislivello di circa venti centimetri avrebbe potuto essere intrinsecamente pericoloso: tuttavia, le condizioni di illuminazione e la presenza della doppia porta, avrebbero reso superabile il pericolo – comunque ingeneratosi – se la ricorrente danneggiata avesse tenuto un comportamento ordinariamente cauto”

Insomma il nesso causale si interrompe se non si guarda dove si mettono i piedi…

© massimo ginesi giugno 2016 

il committente che non verifica l’idoneità dell’appaltatore risponde di omicidio colposo

E’ obbligo del committente accertarsi che l’impresa scelta per i lavori abbia i requisiti di idoneità richiesti per lo svolgimento dell’opera che gli viene affidata e che in cantiere vengano rispettate le norme minime di sicurezza, poiché ove così non sia e accada un infortunio mortale di tale evento sarà chiamato a risponderà anche chi ha commissionato l’opera.

Lo ha ribadito la Cassazione penale, con una lunga ed articolata disamina, nella sentenza 263/2016 della quarta sezione penale depositata in data 1.6.2016.

La pronuncia compie una accurata disamina degli obblighi del committente, con riferimento al principio della culpa in eligendo e della cupola in vigilando e merita attenta lettura anche da parte dell’amministratore di Condominio che, con frequenza, può trovarsi ad impersonare quel ruolo che implica ben precise responsabilità  anche sotto il profilo penale.

Osserva in particolare  la corte che, ai fini della responsabilità,   “rilevanti devono considerarsi i criteri seguiti dal committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera (quale soggetto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge e della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa); fondamentale è poi l’accertamento di situazioni di pericolo così evidenti e macroscopiche da non poter essere ignorate da un committente sovente presente in cantiere”.

Il giudice di legittimità sottolinea che “Sul punto, deve rilevarsi che l’art. 3, co. 1, d. lgs. 495/96 richiama il committente a d attenersi ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’art. 3 del d. lgs. 6 26/ 94 e che, parallelamente, il comma 9 lett. a) dell’art. 90 citato prevede, in a dempimento dell’obbligo di verifica da parte del committente, la presentazione, da parte del datore di lavoro, del certificato d’iscrizione alla Ca mera di commercio, industria e artigia nato e del documento unico di regolarità contributiva, corredato però dalla autocertificazione sul possesso degli altri requisiti di cui all’allegato X VII.
Il citato allegato riguarda, per l’appunto, l’idoneità tecnico professiona le dell’impresa e contiene un espresso richiamo alla documenta zione minima che il datore di lavoro deve esibire al committente o al responsabile dei lavori, ove nominato. Vi figurano, oltre alla iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, anche il il documento di valutazione dei rischi (lett. b), la specifica documentazione attesta nte la conformità alle disposizioni di cui al decreto dispositivi di protezione individuali forniti ai lavora tori (lett. d), la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e delle altre figure preposte alla prevenzione dei rischi nel cantiere ( lett. e), gli attestati inerenti la formazione (lett. g), oltre all’elenco dei lavora tori e al documento unico di regolarità contributiva (lett. h e i).”

Anche in presenza di opere che non comportano l’obbligo di nomina di soggetti responsabili per la sicurezza, al committente rimane un obbligo di vigilanza sia in sede di scelta dell’impresa che durante l’esecuzione delle opere: la responsabilità va individuata “sia con riferimento alla scelta della ditta appaltatrice, tenuto conto degli obblighi di verifica imposti dall’art. 3 co. 8 del d lgs. 494/96, che sulla scorta dell’omesso controllo dell’adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro, nel caso di specie totalmente omesse. Tali misure non devono essere approntate dal committente, rientrando certamente nel novero degli obblighi propri del datore di lavoro, ma la loro concreta adozione da parte di costui deve essere verificata e, in caso di accertata omissione, pretesa dal committente.”

Importante il passaggio in cui la Corte sottolinea la rilevanza causale della condotta del committente nella verificazione dell’evento: “La riscontrata inadeguatezza dimensionale dell’impresa con impiego di lavoratori \ irregolari, a fronte della entità e tipologia dell’opera in esecuzione, in uno con le macroscopiche irregolarità del cantiere, palesemente ed immediatamente evidenti, ) imponevano l’esercizio dei poteri di inibizione propri del committente, la cui attivazione avrebbe pertanto scongiurato l’evento verificatosi proprio a causa di tali inadeguatezze ed inadempienze. “

Suona strano sottolinearlo nell’anno 2016, ma nel caso di specie si trattava di lavori edili eseguiti in maniera  del tutto garibaldina da parte di un appaltatore che utilizzava lavoratori “in nero” e senza alcuna protezione in lavorazioni in quota, circostanza che – da sola – è idonea ad evidenziare profili in cui l’amministratore professionista non dovrebbe mai trovarsi, senza necessità dell’analisi giurisprudenziale.

Tuttavia i principi generali espressi dalla Corte si rivelano di grande interesse al fine di  comprendere con chiarezza gli obblighi e le responsabilità connesse ad un ruolo di grande delicatezza.

© massimo ginesi giugno 2013

lite temeraria, i diversi presupposti dell’art. 96 II e III comma c.p.c.

La Cassazione fa chiarezza sulla diversa natura e portata delle diverse previsioni contenute nell’art. 96 c.p.c., norma in materia di lite temeraria di recente modificata dal legislatore (che ha inteso ampliare i poteri del Giudice, con intenti plausibilmente disincentivanti nei conforti di iniziative giudiziali poco meditate).

LA Terza Sezione, con sentenza depositata ieri (Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 8 marzo – 16 giugno 2016, n. 12413 Presidente Amendola – Relatore Barreca) chiarisce che:

“- l’art. 96, comma terzo, cod. proc. civ. prevede una sanzione processuale che prescinde del tutto dall’esistenza di danni risarcibili. Pertanto, quando il Tribunale ha affermato di voler liquidare danni patrimoniali e non patrimoniali, non ha basato la decisione su questa norma;

– l’art. 96, comma terzo, cod. proc. civ. prescinde dall’istanza di parte, consentendo la condanna d’ufficio. Il Tribunale non ha affatto affermato di voler esercitare il potere officioso riconosciutogli dalla norma, ma si è riferito, come detto, alla domanda della parte attrice.
Ancora, il giudice d’appello ha sbagliato in diritto quando ha ritenuto che si possa prescindere dalla mala fede e dalla colpa grave e che l’art. 96, comma terzo, cod. proc. civ. possa trovare applicazione “in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole”, compresi i casi in cui “la condotta della parte soccombente sia caratterizzata da colpa semplice… ovvero laddove una parte abbia agito o resistito senza la normale prudenza”.
Così decidendo, il giudice ha disatteso l’orientamento di questa Corte espresso già con l’ordinanza n. 21570 del 30 novembre 2012, secondo cui “La condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., aggiunto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, presuppone l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile”. La necessaria ricorrenza dei presupposti della mala fede o della colpa grave è stata ritenuta altresì da Cass. S.U. n. 13899/13, nonché da Cass. n. 3003/14, n. 27534/14 e, da ultimo, ord. n. 3376/16… (omissis) Questa Corte di legittimità ha già avuto modo di affermare infatti che nel giudizio di appello incorre in colpa grave, giustificando la condanna ai sensi dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., la parte che abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall’appellante in modo da evitare il gravame (così Cass. n. 24546/14, nonché n. 1115/16).”

© massimo ginesi giugno 2016