la soprelevazione del muro comune

“Il comproprietario ha facoltà di sopraelevare il muro comune ma deve iniziare, in ogni caso, la costruzione dal confine della sua proprietà esclusiva, anche quando non intenda estendere la sopraelevazione a tutto lo spessore del muro giacché diversamente, egli attrarrebbe nella sfera della sua proprietà esclusiva una porzione della cosa comune”.

E’ quanto stabilisce Cass.civ. sez. II  13.6.2022 n. 19040

Cass_19040_2022

© massimo ginesi 14.6.2022

distanze legali: l’ente locale può incrementare l’entità ma non il metodo di misura.

Lo afferma, condivisibilmente, Cass.civ. sez. II  sent. 16 aprile 2019 n. 10580: “Il giudice d’appello ha osservato che “oggetto di censura è unicamente la modalità radiale di misurazione” cui sono quindi limitati “l’esame e la decisione del gravame”, che, in forza del richiamo operato dagli artt. 872 e 873 c.c., i regolamenti edilizi e i piani regolatori generali hanno valore di legge e possono sempre stabilire una distanza maggiore, il che può indifferentemente avvenire sia in virtù della espressa indicazione di una maggiore misura dello spazio che come effetto di una particolare misurazione da essi imposta, così che conclude il giudice – è legittimo il metodo radiale stabilito dall’art. 18, delle norme di attuazione del piano regolatore del Comune di (…) e bene ha fatto il giudice di primo grado ha ritenere violata la distanza minima.

L’iter argomentativo del giudice si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall’art. 873 c.c., è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto” (così Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).

Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell’art. 873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.”

© massimo ginesi 18 aprile 2019

la norma comunale non può derogare alla legge nazionale in tema di distanze fra edifici

lo ribadisce Cass.Civ. sez.II ord. 16 ottobre 2018 n. 25833, chiarendo che tale facoltà è concessa all’autorità locale solo ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione. Ove non si tratti di tale ipotesi, la norma locale che violi il disposto di legge nazionale potrà essere semplicemente disapplicata dal giudice ordinario.

Secondo “l’ormai consolidato orientamento di questa Corte, in tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9, comma 2, del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica”, con la conseguenza che “l’adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma fa insorgere l’obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio di applicare immediatamente la disposizione del menzionato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata” (così Cass. 23136/2016).

Quanto all’ipotesi derogatoria contemplata dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, essa riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (cfr. Cass., sez. un., n. 1486/1997).

Pertanto, il fatto che gli strumenti urbanistici del Comune di Conversano – che possono essere disapplicati ove contrastino con la disciplina di cui al citato art. 9, disciplina che diviene in tal caso direttamente applicabile – consentissero distanze inferiori rispetto a quelle fissate dalla norma, non è sufficiente per ritenere legittima la deroga, ma è necessario accertare, come prescrive l’ultimo comma dell’art. 9, che le costruzioni fossero incluse in un piano particolareggiato, verifica che non emerge da quanto affermato nella sentenza impugnata.”

© massimo ginesi 19 ottobre 2018

cortile , art. 1117 cod.civ. e presunzione di condominialità.

La suprema Corte ribadisce un principio consolidato riguardo alla  classica fattispecie  in cui  alcuni condomini affermano la proprietà esclusiva del cortile ed altri ne sostengono invece la condominialità.

Cass.Civ. II sez. 14 giugno 2017 . n 14809 riafferma il principio che : “la presunzione stabilita per i beni elencati nell’articolo 1117 c.c., la cui elencazione non e’ tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune, sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune (Cass. Civ. sent. del 23/08/2007 n.17928) e colui che rivendica la proprieta’ esclusiva deve superare tale presunzione fornendo la prova di tale diritto, producendo un titolo d’acquisto da cui risulta escluso il bene dalla comunione. A tal fine, titolo d’acquisto deve ritenersi, come gia’ evidenziato, l’atto costitutivo del condominio, che si identifica col primo atto di trasferimento di una unita’ immobiliare del fabbricato dall’originario ad altro soggetto (Cass. Civ. Sez. 2 sent del 27/05/2011 n. 11812).

“Giova precisare che quella prevista dall’articolo 1117 c.c. non costituisce una presunzione in senso tecnico ma, piuttosto, l’attribuzione legale della natura comune ai beni elencati in tale norma. Attribuzione, questa, che puo’ essere derogata solo con patto contrario, risultante dall’atto costitutivo del condominio o con usucapione. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprieta’ di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni (nella specie, portico e cortile) risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni.”

Assai curioso che coloro che si affermavano proprietari del cortile prendessero di dimostrare il loro titolo attraverso l’atto di acquisto dell’originario appezzamento di terreno su cui è stato costruito il condominio: “la Corte d’Appello, ha correttamente escluso che i documenti prodotti in appello dall’odierno ricorrente avessero una rilevanza probatoria, in quanto l’atto di vendita ( (OMISSIS) – (OMISSIS)) dell’intero appezzamento di terreno del 10.1.1928 evidentemente nulla provava in ordine alla proprieta’ esclusiva del cortile condominiale, come nessun rilievo poteva avere la mappa della zona, tra l’altro riferibile al periodo 2001-2008, ne’ le note di trascrizione intervenute nei confronti di soggetti diversi rispetto alle parti in causa”.

© massimo ginesi 21 luglio 2017

l’art. 1102 cod.civ. e il pari uso della cosa comune: i limiti.

Cass.civ. sez. II  13 luglio 2017 n. 17400 ribadisce i limiti di utilizzo delle parti comuni che il singolo può attuare secondo l’art. 1102 cod.civ.: si tratta, nella fattispecie, della installazione di un condizionatore  su una parte condominiale e a servizio della unità di un condomino.

L’installazione è stata ritenuta vietata (sin dal giudice di pace che, in primo grado, aveva deciso sulla vicenda) poiché l’utilizzo di una parte comune ad pera del singolo è consentito -anche ove sottragga in parte al disponibilità della stessa all’uso comune, ove agli altri condomini non rimanga precluso un uso analogo.

“In tema di condominio ciascun condomino libero di servirsi della cosa comune anche per fini esclusivamente propri,  traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini.

il disposto di cui all’articolo 1102 c.c. prevede che il pari godimento della cosa comune è sottoposto due limiti fondamentali: il divieto di alterarne la destinazione e il divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.”

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© massimo ginesi 14 luglio 2017

bene necessariamente comuni e beni comuni per destinazione. l’alloggio del portiere.

La Cassazione (Cassazione, sez. II Civile,  14 giugno 2017, n. 14796) traccia – sulla scorta di un orientamento consolidato, una efficace sintesi sulla nascita del condominio e sulla natura dei beni destinati all’uso comune.

Quelli che tali sono per necessaria destinazione funzionale, indispensabili all’esistenza stessa di un fabbricato multipiano, e quelli che invece – quali l’alloggio del portiere – possono ritenersi comuni solo se tale destinazione gli venga impressa nel momento stesso in cui il condominio si costituisce.

“È risaputo che tutto ciò che si costruisce sul suolo, in virtù del principio dell’accessione (art. 934 ss. cod. civ.), si acquista dal proprietario di esso.

Quindi, il proprietario del suolo, che costruisce un edificio composto da più, piani o porzioni di piano, per effetto dell’accessione acquista la proprietà esclusiva dell’intero fabbricato.

Il condominio, che si sostituisce alla proprietà solitaria, nasce come conseguenza della vendita della proprietà separata dei singoli piani o porzioni di piano, a far tempo dalla prima alienazione.

Quale effetto accessorio del trasferimento ad altri soggetti delle singole unità immobiliari, ha origine il diritto di proprietà comune sulle cose, sui servizi e sugli impianti necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero destinati all’uso o al servizio dei piani o delle porzioni di piano.

La necessità per l’esistenza dell’intero edificio e per l’uso comune di talune cose (il suolo, le fondazioni, i muri maestri, i tetti, i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i cortili etc.) non può revocarsi in dubbio: avuto riguardo alla loro unica ed univoca funzione strumentale al servizio dei piani o delle porzioni di piano siti nel fabbricato, non può contestarsi che esse, una volta istituito il condominio, formino oggetto di proprietà comune e costituiscano beni comuni.

Per contro, i locali dell’edificio contemplati dall’art. 1117 n. 2 cit., raffigurano beni ontologicamente suscettibili di utilizzazioni diverse, anche autonome: per diventare beni comuni, essi abbisognano di una specifica destinazione al servizio in comune.

In difetto di espressa disciplina negoziale, affinché un locale sito nell’edificio – che, per la sua collocazione, può essere adibito ad alloggio del portiere, oppure utilizzato come qualsiasi unità abitativa – diventi una parte comune ai sensi dell’art. 1117 n. 2 cit., occorre che, all’atto della costituzione del condominio, al detto locale sia di fatto assegnata la specifica destinazione al servizio comune. Se prima della costituzione del condominio la destinazione al servizio comune non gli viene conferita, o gli viene sottratta, il locale non può considerarsi come bene comune.”

© massimo ginesi 16 giugno 2017

T.A.R. Liguria, il Comune non ha potestà impositiva su aree condominiali private

Su un cortile condominiale si affacciano alcuni box e un fondo commerciale destinato a  supermercato, l’area è utilizzata come accesso veicolare sia dai proprietari dei box, in favore dei quali è costituito  un diritto di servitù sulla stessa, sia dai clienti del supermercato che viceversa sono terzi senza alcun titolo.

Il Condominio, per tutelare la proprietà condominiale e impedire l’indiscriminato accesso a chiunque, ha apposto due paletti e una catena all’ingresso. Ciò ha indotto il Comune a notificare un provvedimento al Condominio con cui ingiunge di “rispristinare lo stato preesistente dei luoghi mediante la rimozione dei paletti metallici con catenella” e  con cui  subordina il rilascio del richiesto titolo paesistico all’accordo di tutti i partecipanti.

Il provvedimento è stato ritenuto illegittimo dal TAR, cui ha fatto ricorso il Condominio, che ha rilevato come “L’esclusiva proprietà della via abilita infatti gli interessati a posizionare idonei strumenti volti ad impedire il transito dei terzi sul fondo, eccezion fatta per chi deve accedere e recedere alle proprietà che vantano il diritto di servitù come osservato in precedenza; la correttezza della destinazione del piano terreno del condominio (box ovvero magazzini utilizzati come autorimesse) non esclude l’interesse dei condomini all’accesso ed al recesso che presuppongono l’utilizzo della piccola strada privata”

Quanto all’assenso paesistico per l’installazione dei dissuasori a scomparsa  osserva il TAR che ” In proposito il comune impone che: il condominio dovrà presentare una dichiarazione giurata sull’esclusiva proprietà del fondo in contestazione; l’installazione dei dissuasori dovrà essere preceduta dall’assenso degli aventi diritto, e che costoro avranno comunque una facoltà interdittiva sul rilascio del successivo titolo edilizio. Al riguardo il tribunale nota che, sempre nei limiti fissati dall’art. 8 del d.lvo 2.7.2010, n. 204, è sufficientemente appurata la proprietà dei condomini sulla fascia di terreno per cui è lite, sì che la determinazione è illegittima a tale riguardo. In ordine alla volontà dell’amministrazione di assumere funzioni simili a quelle giurisdizionali si osserva che ad essa non compete la preventiva soluzione dei contrasti tra i privati: è verosimile che l’amministrazione sia stata da tempo interessata dai differenti interessi tra le parti sul bene di che si tratta, ma il corretto rapporto tra la regolamentazione di diritto comune e quella che pertiene ad un’amministrazione postula che il titolo venga eventualmente rilasciato agli aventi diritto sulla base delle norme edilizie, mentre competono al giudice ordinario le controversie sulle eventuali doglianze relative all’esercizio dei diritti esistenti sul bene interessato dal titolo di fonte amministrativa”.

In sostanza la P.A. non può e non deve spingersi oltre il proprio ruolo di tutela imposta dalla norma pubblicistica, spettando la valutazione e la soluzione delle controversie fra privati al Giudice ordinario.

Una sentenza interessante, a fronte di condotte spesso non lineari dei Comuni.

© massimo ginesi giugno 2013

lastrico solare, solo una espressa pattuizione nel titolo fonda la proprietà esclusiva

Il lastrico solare, in quanto destinato a copertura dell’edificio, costituisce uno dei beni funzionalmente destinati all’uso comune e che pertanto si devono ritenere condominiali ai sensi dell’art. 1117 cod.civ.

E’ la stessa norma che prevede tale presunzione di condominialità per i beni ivi elencati (in via esemplificativa e non tassativa), salvo che il contrario risulti dal titolo.

Il costruttore  del fabbricato condominiale dovrà dunque provare di aver riservato a sè, negli atti di vendita ai condomini, la proprietà esclusiva del lastrico, essendo unicamente tale presupposto a fondare la titolarità esclusiva del bene che – in difetto – deve ritenersi comune.

A tal fine sono irrilevanti sia gli interventi di modificazione compiuti dal costruttore  sul bene sia il fatto che i condomini che ne rivendicano la proprietà comune non abbiano accesso diretto alla copertura.

Si tratta di principi noti e consolidati, che la Cassazione ha anche di recente ribadito nella

sentenza 16 febbraio – 5 maggio 2016, n. 9035