nomina giudiziale amministratore: non può esservi soccombenza

il procedimento per la nomina giudiziale di amministratore ha natura di volontaria giurisdizione e pertanto non è soggetto all’applicazione del principio  di soccombenza, con conseguente condanna alle spese, neanche ove la domanda sia respinta.

E’ quanto ha di recente statuito la suprema corte (Cass.civ. sez. VI ord. 20 gennaio 2022 n. 1799): “il procedimento per la nomina giudiziale dell’amministratore di condominio si caratterizza, pur in presenza di situazioni di contrasto tra i condomini, per essere finalizzato esclusivamente alla tutela dell’interesse generale e collettivo del condominio, con l’effetto che con riguardo ad esso non trovano applicazione le regole di cui agli artt. 91 e seguenti cod. proc. civ., che postulano l’identificazione di una parte vittoriosa e di una soccombente in esito alla definizione di un conflitto di tipo effettivamente contenzioso (Cass. n. 25336 del 2018; Cass. n. 5194 del 2002).”

© massimo ginesi 28 gennaio 2022

requisiti soggettivi dell’amministratore: per la cessazione dall’incarico la condanna penale deve essere definitiva.

Un interessante provvedimento del Tribunale di Milano – decreto 20.6.2018 n. 1963 – affronta il tema della  disciplina dettata dall’art. 1129 c.c. sulle gravi irregolarità dell’amministratore, introdotta dalla novella del 2012, nonché la portata della previsione contenuta nell’art. 71 bis disp.att. cod.civ., ove si prevede che l’amministratore che riporti condanna penale per determinati reati cessi dall’incarico.

Il giudice lombardo si pronuncia in sede di volontaria giurisdizione, a seguito di ricorso per la revoca dell’amministratore, introdotto da alcuni condomini, anche se va rilevato che la dizione letterale della norma attuativa presupporrebbe una cessazione de iure ove venga meno uno dei requisiti previsti dalle lettere a-e del primo comma, sì che in simili ipotesi non dovrebbe neanche darsi luogo a revoca da parte dell’autorità giudiziaria che – al più – dovrebbe pronunciarsi in via dichiarativa sulla intervenuta decadenza dall’incarico.

Il provvedimento è  interessante sia per la peculiarità della fattispecie (pare che l’amministratore abbia tentato di finanziare la propria campagna elettorale con denaro condominiale…) sia per alcune significative notazioni interpretative rese dal Tribunale, peraltro in linea con i più diffusi e autorevoli orientamenti dottrinali sul punto.

il giudice rileva, in particolare, come l’indicazione delle gravi irregolarità previste dal novellato art. 1129 cod.civ. sia meramente esemplificativa e non tassativa, lasciando comunque al giudice un apprezzamento ampio della concreta fattispecie di cui ci si duole, che potrà essere comunque ascritta alla grave irregolarità – ove se ne ravvisino i presupposti – anche aldifuori delle ipotesi individuate dalla norma ed in funzione del generico richiamo contenuto nel comma 11.

Quanto invece alla sanzione decadenziale prevista dall’art. 71 bis disp.att. cod.civ. non potrà che aversi riguardo, per ovvie decidenti ragioni di garanzia e di costituzionalità, alla condanna divenuta definitiva .

Tribunale Milano 1963:2018

© massimo ginesi 5 settembre 2018 

 

 

 

 

 

la parte può impugnare la sentenza sul capo delle spese anche se vi è distrazione ex art. 93 c.p.c.

Lo afferma, con una sentenza (Cassazione, sez. III Civile, 30 maggio 2017, n. 13516) fa applicazione logica dei principi in materia di soccombenza, condanna alle spese e distrazione, la Cassazione.

Può accadere che un soggetto vinca la causa, che il suo difensore abbia fatto istanza di distrazione delle spese (ovvero di essere pagato direttamente dall’avversario) e che il giudice condanni il soccombente in tal senso, riconoscendo tuttavia una somma inferiore all’accordo intercorso fra cliente e professionista o a quanto previsto dalle tariffe forensi di cui al DM 55/2014..

La Suprema Corte chiarisce che la parte sostanziale vittoriosa mantiene interesse e legittimazione ad impugnare anche tale capo della sentenza, per la semplice ragione che il suo difensore – pur essendo beneficiario del provvedimento di distrazione – può comunque rivolgersi al proprio assistito per la parte di competenze che eccedono la liquidazione giudiziale.

Osserva la Corte “che il provvedimento di distrazione delle spese processuali instaura, fra il difensore della parte vittoriosa e la parte soccombente, un autonomo rapporto che, nei limiti della somma liquidata dal giudice, si affianca a quello di prestazione d’opera professionale fra il cliente vittorioso e il suo procuratore;

che, di conseguenza, rimane integra la facoltà di quest’ultimo non solo di rivolgersi al cliente per la parte del credito professionale che ecceda la somma liquidata dal giudice, ma anche di richiedere al proprio cliente l’intera somma dovutagli, per competenze professionali e spese, nonostante la distrazione disposta (Sez. 3, Sentenza n. 27041 del 12/11/2008, Rv. 605450);

che la parte sostanziale vittoriosa è, pertanto, legittimata ad impugnare il capo della sentenza di primo grado che, pur distraendo le spese processuali in favore del difensore, le ha liquidate in misura insufficiente, in quanto – essendo comunque tenuta a corrispondere al proprio difensore la differenza fra quanto liquidato dal giudice e quanto dovutogli in base agli accordi o al tariffario professionale – ha interesse a che la liquidazione giudiziale sia quanto più possibile esaustiva delle legittime pretese del professionista;

che il difensore distrattario delle spese assume la qualità di parte, sia attivamente sia passivamente, in sede di gravame solo quando l’impugnazione riguarda la pronuncia di distrazione in sé considerata (Sez. 1, Sentenza n. 6761 del 22/12/1981, Rv. 417650; Sez. 1, Sentenza n. 1204 del 17/04/1972, Rv. 357687), con esclusione delle contestazioni relative all’ammontare delle spese liquidate, giacché l’eventuale erroneità della liquidazione non pregiudica i diritti del difensore (che potrà rivalersi nei confronti del proprio assistito) bensì quelli della parte vittoriosa (che sarà tenuta al pagamento della differenza al proprio difensore)

mediazione, ancora condanne per mancata partecipazione

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Si va sempre più affermando nella giurisprudenza di merito una interpretazione  rigorosa ed estesa della mediazione quale strumento di risoluzione della controversia alternativa alla lite.

Accade così che i giudici  si spingano a ritenere la mancata comparizione delle parti equivalente ad un tentativo di mediazione non esperito, così come affermano di  ritenere  la mancata e ingiustificata partecipazione della parte  elemento qualificante della sua condotta procesuale, tanto da condurre alla condanna sia al pagamento della sanzione pari al contributo unificato in favore dell’Erario sia – ai sensi dell’art. art. 96 III comma c.p.c. – nei confronti della parte vittoriosa.

Lo ha deciso il Tribunale di Roma    con sentenza del 23 giugno 2016, che merita di essere letta per intero.

L’amministratore di condominio – a fronte di tale giurisprundenza – potrà dunque  rappresentare all’assemblea, chiamata a decidere ai sensi dell’art. 71 quater disp. att. cod.civ., l’opportunità  di partecipare comunque alla prima comparizione dinanzi al mediatore, onde non incorrere in conseguenze processuali che potrebbero essere assai spiacevoli, fatta  salva comunque  la possibilità di esporre in quella sede le ragioni per cui si ritiene inutile procedere oltre.

© massimo ginesi giugno 2016

 

art. 96 III comma c.p.c.: lite temeraria all’esame della consulta

La questione di costituzionalità dell’art. 96 III comma c.p.c. non è fondata: lo ha stabilito la Corte Costituzionale con  sentenza 1 – 23 giugno 2016, n. 152.

Il Tribunale di Firenze ne aveva prospettato l’illegittimità laddove alla funzione sanzionatoria della norma ricollega la condanna in favore della parte vittoriosa piuttosto che dell’Erario.

La Corte Costituzionale, pur accedendo ad alcuni rilievi critici mossi dal rimettente, ritiene che la norma sia comunque compatibile con l’architettura normativa del nostro ordinamento.

Osserva la Corte che: “La ragionevolezza della soluzione auspicata dal rimettente non comporta, però, la irragionevolezza della diversa soluzione adottata dal legislatore del 2009, e tantomeno ne evidenzia quel livello di manifesta irragionevolezza od arbitrarietà che unicamente consente il sindacato di legittimità costituzionale in ordine all’esercizio della discrezionalità legislativa in tema di disciplina di istituti processuali (ex plurimis, ordinanze n. 138 del 2012, n. 141 del 2011).
La motivazione, che ha indotto i redattori della novella a porre «a favore della controparte» l’introdotta previsione di condanna della parte soccombente al «pagamento della somma» in questione, è, infatti, plausibilmente ricollegabile – e non è mancato, in dottrina, chi l’ha così ricollegata – all’obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico.
L’istituto così modulato è suscettibile di rispondere, peraltro, anche ad una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata anch’essa da una temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata in giudizio) nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l’an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell’art. 96 cod. proc. civ.”

qui il provvedimento per esteso.

© massimo ginesi giugno 2016