il giudice che certi l’avvenuta violazione delle distanze deve necessariamente disporre la riduzione in pristino e il risarcimento del danno, non potendo limitarsi a provvedimenti alternativi volti a limitare il diritto di veduta: è quanto afferma Cass.civ. sez. II ord. 21 settembre 2021 n. 25495 rel. Scarpa. La pronuncia contiene interessanti riflessioni sui diversi aspetti che attengono alla costruzione di edifici contigui.
“ove il giudice accerti l’avvenuta realizzazione di una costruzione in violazione delle distanze ex art. 873 c.c. (come la Corte d’appello ha fatto a proposito del balcone posto al secondo piano dell’edificio S. a pagina 7 della sentenza impugnata), deve ordinarne la riduzione in pristino con demolizione delle parti che superano tali limiti (arg. da Cass. Sez. 2, 28/11/2018, n. 30761), e non può, viceversa, soltanto disporre, come avvenuto nel caso in esame, l’esecuzione di accorgimenti idonei ad impedire l’esercizio della veduta sul fondo altrui, consistenti in opere che rendano impossibile il “prospicere” e l'”inspicere in alienum”.
L’azione in tema di distanze tra costruzioni è chiaramente volta ad evitare il formarsi di intercapedini tra fabbricati, potenzialmente dannose per gli interessi generali all’igiene, al decoro ed alla sicurezza degli abitanti, mentre diversa è l’azione concernente l’apertura di vedute sul fondo del vicino, la quale tutela gli interessi esclusivamente privati del proprietario del bene dall’indiscrezione del vicino, impedendo a quest’ultimo di affacciarsi e di guardare nella proprietà del primo (arg. da Cass. Sez. 2, 18/04/2001, n. 5698).
È fondato il secondo motivo, perché la Corte d’appello ha omesso di pronunciare sulla espressa autonoma domanda di risarcimento dei danni lamentati dall’attrice in conseguenza della costruzione realizzata in violazione delle distanze prescritte dall’art. 873 c.c., domanda reiterata in sede di gravame.
È fondato il terzo motivo di ricorso. In presenza di prescrizioni sulle distanze legali contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale comunale, aventi natura integrativa dei precetti di cui all’art. 873 c.c., quali quelle allegate nel giudizio in esame (e di cui il giudice è comunque obbligato ad avere diretta conoscenza, giusta il principio “iura novit curia”), nel senso che si debba costruire a “distanza da confini privati: m. 5”, oppure in “aderenza o confine con l’assenso della proprietà confinante” (assenso che quindi preclude anche le costruzioni in aderenza senza il preventivo consenso dei proprietari dei fondi contigui), la realizzazione di un fabbricato alto, come nella specie, oltre dieci metri più del preesistente demolito, deve essere considerata “nuova costruzione”, e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della vigente normativa sulle distanze legali dalle costruzioni o dal fondo confinante. Un’opera di modifica che si traduce non soltanto nella realizzazione “ex novo” di un fabbricato, ma anche in un aumento della volumetria e della superficie di ingombro rispetto all’edificio preesistente non può qualificarsi come risanamento conservativo o ricostruzione dei volumi edificabili preesistenti, i quali hanno solo lo scopo di conservarne i precedenti valori (tra le più recenti, Cass. Sez. 2, 15/12/2020, n. 28612; Cass. Sez. 2, 05/03/2018, n. 5049).
È infine fondato il quarto motivo di ricorso. La costruzione in aderenza alla fabbrica altrui (la cui nozione è contenuta nell’art. 877 c.c.) postula l’assenza di qualsiasi intercapedine rispetto al preesistente muro del vicino e la piena autonomia (statica e funzionale) nei riguardi dello stesso e, quindi, è consentita, salvo l’obbligo di pagamento nascente dall’eventuale occupazione di suolo altrui, anche quando tale muro presenti irregolarità (rientranze, sporgenze, riseghe e simili) nel suo ulteriore sviluppo in altezza, purché l’intercapedine possa ugualmente colmarsi mediante opportuni accorgimenti tecnici a cura del costruttore prevenuto, al di fuori dei cui obblighi resta, invece, qualsiasi opera intesa ad eliminare dette irregolarità, che fa carico al preveniente (Cass. Sez. 2, 25/05/1984, n. 3229). La circostanza, acclarata dalla Corte di Milano, che la gronda e la pluviale dell’edificio di proprietà della I. V. s.r.l. sporgessero di circa cinquanta centimetri oltre la linea di confine con la proprietà S. s.r.l. avrebbero consentito a quest’ultima di chiederne la rimozione, dovendo essa altrimenti costruire in aderenza, ove consentito, anche alle parti sporgenti rispetto al confine, senza creare comunque intercapedini.”
Taluni condomini si lamentano che l’installazione di un’ascensore esterno violi le distanze dai balconi e comporti creazione di nuove servitù di veduta, affacciandosi la cassa esterna su un’area di proprietà esclusiva, nella quale sconfina per 50 centimetri.
Pur apparendo la lettura conforme ai precedenti e correttamente ispirata a principi di solidarietà e funzione sociale della proprietà ex art 42 Cost., la pronuncia lascia insoluto l’interrogativo in ordine allo sconfinamento su proprietà altrui, che certamente non può essere giustificato da alcun interesse diffuso (è plausibile che vi fosse consenso del proprietario di quel suolo e che i ricorrenti lamentassero solo la diminuzione della propria veduta).
la Corte d’appello di Messina “rilevava – per quanto ancora qui di interesse – che pacifica la situazione dei luoghi e la descrizione analitica degli stessi riportata negli elaborati peritali, con la conseguenza che l’opera realizzanda violava le distanze rispetto ai balconi di proprietà esclusiva esistenti in affaccio verso il cortile interno, la questione controversa atteneva alla qualificazione di siffatti aggetti, se costituenti o meno una veduta, per la loro connotazione interna e per il ridotto visus. Inoltre osservava che l’ingombro della torre ascensore non era limitato all’atrio di ingresso di proprietà comune, ma per circa mq. 0,50 insisteva su adiacente cortile di proprietà privata degli eredi Cr. e per l’effetto veniva in discussione non solo un affaccio su area di proprietà comune, ma anche una servitù di affaccio gravata su altra area di proprietà esclusiva, interessamento che limitava l’operatività della normativa speciale contenuta nella L. n. 13 del 1989, art. 2 essendo fatto salvo dalla novella il disposto dell’art. 1120 c.c., comma 2 (ora 4). Concludeva che nella circostanza la veduta vantata dagli I. veniva limitata e lesa per la violazione della distanza legale che comportava l’inutilizzo dell’affaccio per detta parte, oltre ad interessare la nuova opera non solo un uso diverso della cosa comune, ma anche uno sconfinamento nella proprietà esclusiva di altro condomino. Di qui traeva anche la conclusione della irrilevanza del disposto della Delib. assembleare 19 aprile 2001 di autorizzazione a maggioranza dell’opera de qua”
La Corte di legittimità osserva invece che “Nella sua assolutezza, l’affermazione circa la violazione delle distanze appare avulsa da ogni riferimento al caso di specie, nel quale i lavori per la installazione dell’ascensore erano dichiaratamente volti alla eliminazione delle barriere architettoniche, ai sensi della L. n. 13 del 1989.
In particolare, la Corte territoriale non sembra avere adeguatamente apprezzato che, nella valutazione del legislatore, quale si desume dalla citata L. n. 13 del 1989, art. 1 (operante a prescindere dalla effettiva utilizzazione degli edifici considerati da parte di persone portatrici di handicap: Corte Cost. n. 167 del 1999), l’installazione dell’ascensore o di altri congegni, con le caratteristiche richieste dalla normativa tecnica, idonei ad assicurare l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici, costituisce elemento che deve essere necessariamente previsto dai progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici, ivi compresi quelli di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata, presentati dopo sei mesi dall’entrata in vigore della legge.
Da tale indicazione si desume agevolmente che, nella valutazione del legislatore, e contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, l’ascensore o i congegni similari costituiscono dotazione imprescindibile per l’approvazione dei relativi progetti edilizi; in altri termini, l’esistenza dell’ascensore può senz’altro definirsi funzionale ad assicurare la vivibilità dell’appartamento, cioè è assimilabile, quanto ai principi volti a garantirne la installazione, agli impianti di luce, acqua, riscaldamento e similari.
Vero è che tale qualificazione è dal legislatore imposta per i nuovi edifici o per la ristrutturazione di interi edifici, mentre per gli edifici privati esistenti valgono le disposizioni di cui alla L. n. 13 del 1989, art. 2; tuttavia, la assolutezza della previsione di cui all’art. 1 non può non costituire un criterio di interpretazione anche per la soluzione dei potenziali conflitti che dovessero verificarsi con riferimento alla necessità di adattamento degli edifici esistenti alla prescrizioni dell’art. 2.
Di tal che, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento la L. n. 13 del 1989, art. 2 con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati (Cass. n. 18334 del 2012).
Ai fini della legittimità dell’intervento innovativo approvato ai sensi della L. n. 13 del 1989, art. 2 è sufficiente, peraltro, che lo stesso produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione (Cass. n. 18147 del 2013).
In questo senso, non vi è dunque ragione per escludere, in via di principio, come ha fatto la Corte di appello, l’operatività, anche riguardo all’ascensore, del principio secondo cui negli edifici condominiali l’utilizzazione delle parti comuni con impianto a servizio esclusivo di un appartamento esige non solo il rispetto delle regole dettate dall’art. 1102 c.c., comportanti il divieto di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, ma anche l’osservanza delle norme del codice in tema di distanze, onde evitare la violazione del diritto degli altri condomini sulle porzioni immobiliari di loro esclusiva proprietà.
Tale disciplina, tuttavia, non opera nell’ipotesi dell’installazione di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell’appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l’apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cass. n. 7752 del 1995; Cass. n. 6885 del 1991; Cass. n. 11695 del 1990).
Appare quindi evidente il denunciato vizio in ordine alla affermazione della non applicabilità della disciplina speciale al caso in esame.
Le censure della ricorrente sono fondate anche con riferimento alla questione della applicabilità, nel caso di specie, delle norme sulle distanze dalle vedute, di cui all’art. 907 c.c.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è infatti affermato il principio per cui le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima.
Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabili alla costruzione di un balcone le norme in tema di vedute e non anche quella dell’art. 1102 c.c.: Cass. n. 6546 del 2010).
La Corte d’appello non poteva quindi ritenere violato, nel caso di specie, l’art. 907 c.c., senza previamente accertare se il manufatto realizzando dalla ricorrente su cose comuni (parte del cortile comune) avesse rispettato i limiti posti dall’art. 1102 c.c. nell’uso della cosa comune, non apparendo a tal fine sufficiente l’affermazione che il manufatto determina lo sconfinamento in proprietà esclusiva di altro condomino per lo spazio di circa mq 0,50, limitandone la veduta.
Nè può ritenersi che la disciplina di cui all’art. 907 c.c. potesse operare per effetto del richiamo ad essa contenuto nella L. n. 13 del 1989, art. 3, comma 2. In proposito, deve rilevarsi che l’art. 3 citato dispone, al comma 1, che le opere di cui all’art. 2 possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati e, al comma 2, che è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c. nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune.
Nel suo complesso, tale disposizione non può ritenersi applicabile all’ipotesi in cui venga in rilievo, non un fabbricato distinto da quello comune, ma una unità immobiliare ubicata nell’edificio comune. In sostanza, il richiamo contenuto nell’art. 3, comma 2, ai “fabbricati alieni” impone di escludere che la disposizione stessa possa trovare applicazione in ambito condominiale. Difetta, dunque, nel caso di specie, il presupposto di fatto per l’operatività della richiamata disposizione di cui all’art. 907 c.c., e cioè l’altruità del fabbricato dal quale si esercita la veduta che si intende tutelare ( v. Cass. 14096/2012 e 10852/2014).
un paese davvero bizzarro quello in cui la Suprema Corte (Cass.civ. sez. II 1 ottobre 2019 n. 24471) deve ancora dirimere controversie spendendo pagine a spiegare cosa debba intendersi per pareti frontistanti, pervenendo ‘all’imprevedibile’ risultato che tali debbano intendersi – ai fini delle distanze – quelle che hanno almeno un punto in cui sono una di fronte all’altra, senza che abbia rilievo l’angolo relativo delle pareti che si fronteggiano.
“Il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 prescrive la distanza minima tra parete e parete finestrata.
È pacifico che l’art. 9 è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata (Cass., S.U., n. 1486/1997; n. 1984/1999) e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del muovo edificio o dell’edificio preesistente (Cass. n. 13547/2011), o che si trovi alla medesima altezza o diversa altezza rispetto all’altro (Cass. n. 8383/1999).
Finalità della norma è la salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine fra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata (Cass. n. 20574/1997).
La “antistanza” va intesa come circoscritta alle porzioni di pareti che si fronteggiano in senso orizzontale. Nel caso in cui i due edifici siano contrapposti solo per un tratto (perché dotati di una diversa estensione orizzontale o verticale, o perché sfalsati uno rispetto all’altro, il giudice che accerti la violazione delle distanze deve disporre la demolizione “fino al punto in cui i fabbricati si fronteggiano” (Cass. n. 4639/1997).
La Suprema Corte ha osservato che, ai fini del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, due fabbricati, per essere antistanti, non devono essere necessariamente paralleli, ma possono fronteggiarsi con andamento obliquo, purché “fra le facciate dei due edifici sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento” (Cass. n. 4175/2001).
Non danno luogo a pareti antistanti gli edifici posti ad angolo retto, nè quello in cui sono opposti gli spigoli a potersi toccare se prolungati idealmente uno verso l’altro. Poiché lo scopo del limite imposto dall’art. 873 c.c. è quello di impedire intercapedini nocive, “la norma non trova applicazione quando i fabbricati non si fronteggiano, ma sono disposti ad angolo retto in modo da non avere parti tra loro contrapposte” (Cass. n. 4639/1997). Le distanze fra edifici non si misurano perciò in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare (Cass. n. 9649/2016).
Con riferimento all’analoga materia di “pareti frontistanti” vigente in materia antisismica “la giurisprudenza di questa corte ha avuto modo di affermare che la disposizione contenuta nella L. n. 1684 del 1962, art. 6, n. 4 – a norma della quale l’area posta tra edifici e sottratta al pubblico transito deve avere la larghezza minima di sei metri misurata tra i muri frontali – attiene a tutte le ipotesi in cui i muri perimetrali di costruzioni finitime si trovino in posizione antagonista, idonea a provocare, in caso di crollo di uno degli edifici, danni a quello finitimo: pertanto la presenza nei detti muri perimetrali di spigoli o angoli non esula dalla sfera di applicazione della detta norma, in quanto ogni angolo o spigolo è formato da due linee che, sul piano costruttivo, costituiscono vere e proprie “fronti”, le quali, a loro volta, realizzano rispetto all’opposta costruzione, quella posizione antagonista la cui potenzialità viene eliminata o attenuata dal rispetto della distanza minima. Ha, però, soggiunto che tale principio trova applicazione nel caso in cui le due rette che si dipartano dall’angolo secondo le direttrici dei lati di questo vadano ad intersecare il perimetro della costruzione che si vuole opposta, mentre, qualora tali linee non attraversino idealmente il corpo dell’edificio vicino, non v’è antagonismo tra le costruzioni, nè sussiste quella frontalità che la norma in oggetto prevede come presupposto dell’osservanza della distanza di sei metri a scopo di prevenzione antisismica tra i segmenti perimetrali degli edifici” (Cass. n. 14606/2007).
È stato anche chiarito che “il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, n. 2, non impone di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ma va interpretato, in applicazione del principio di prevenzione, nel senso che tra una parete finestrata e l’edificio antistante va mantenuta la distanza di mt. 10, con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di mt. 5 dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, abbia a sua volta osservato una distanza di almeno mt. 5 dal confine. Ove, invece, il preveniente abbia posto una parete finestrata ad una distanza inferiore a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino alla distanza di mt. 10 dalla parete stessa, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine, ed eventualmente procedere all’interpello di cui all’art. 875 c.c., comma 2, qualora ne ricorrano i presupposti” (Cass. n. 4848/2019; n. 3340/2002).
… Il principio affermato dal Consiglio di Stato (sent. n. 7731/2010), utilizzato dalla corte d’appello quale criterio guida nella valutazione della fattispecie, vuole dire che la distanza deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quelle principali e prescindendo dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela. Ma tale principio, così come gli analoghi principi della giurisprudenza di legittimità, implica pur sempre che “sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento” (Cass. n. 4715/2001).
Al contrario la corte di merito, dopo avere descritto la posizione dei fabbricati, ha ravvisato la violazione della norma senza verificare se, in dipendenza della edificazione Faer in aderenza fino al colpo del muro cieco del preesistente edificio destinato a laboratorio, vi fosse una effettiva e attuale posizione di frontalità fra due facciate, nel senso che facendo avanzare idealmente in linea retta una facciata verso il fabbricato vicino, le due facciate si sarebbero incontrate almeno in un punto (Cass. n. 2548/1972; n. 3480/1972; n. 9649/2016).”
Una recente pronuncia (Cass.civ. sez. II ord. 28 giugno 2019 n. 17549) sottolinea l’onere del giudice di merito di valutare e motivare in ordine alla loro eventuale disapplicazione, laddove ciò avvenga per contemperare le esigenze sottese a tali precetti con quelle legate ad una corretta e moderna fruizione degli immobili.
La vicenda riguarda il posizionamento di una condotta fognaria sul muro perimetrale, resa necessaria dall’esigenza di adeguamento di un bagno decisamente obsoleto.
“la sentenza impugnata pur avendo invocato il principio di diritto che ritiene la disposizione dell’art. 889 c.c., relativa alle distanze da rispettare per pozzi, cisterne, fossi e tubi, applicabile anche con riguardo agli edifici in condominio, non l’ha adeguatamente applicato nella valutazione delle circostanze concrete, così come indicato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità che impone il contemperamento degli interessi fra norme che regolano i rapporti di vicinato e diritti e facoltà dei condomini (cfr. Cass. 12633/2016; id.12520/2010);
– ne consegue che l’art. 889 c.c., non opera nel caso di impianti da considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione dell’immobile, tale da essere adeguata all’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene (cfr. Cass. 8801/1999);
– in particolare, tale principio è già stato affermato in relazione alla creazione o modifica di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di taglio medio, in quanto esigenza tanto diffusa da rivestire il carattere dell’essenzialità e che giustifica la mancata applicazione dell’art. 889 c.c., negli edifici in condominio (così Cass. 13313/2009);
– ciò posto, risulta tempestivamente dedotto dagli appellanti che la delocalizzazione del nuovo bagno, era indispensabile per adeguare il bagno esistente, accessibile solo dalla cucina ed avente estensione di 1 mq, dotato di sola tazza wc, alle norme di igiene dettatte dal decreto del Ministero della sanità del 5/7/1975 e dall’art. C-I-6 commi 1 e 2 del Regolamento edilizio del Comune di (OMISSIS) (secondo il quale deve essere provvisto di vaso, bidet, lavabo e vasca da bagno o doccia, con divieto di accesso dalla cucina anche se con interposto antibagno);
– parimenti risulta che il ctu P. con la relazione a chiarimenti del 28/11/2006, in risposta al quesito se la condotta fecale potesse essere realizzata nel muro senza arrecare eventuali ed ulteriori danni alla statica dell’immobile, si sia pronunciato ammettendo la possibilità di uno scavo nel muro di facciata nel quale allocare la condotta senza pregiudizio della statica e al tempo stesso, in risposta al quesito se la condotta possa essere collocata in altra posizione sul medesimo muro nel rispetto delle distanze legali, affermava (cfr. ricorso pagg. 20,30,34, 40 ove si richiamano le pag. 22-23 della relazione) “la condotta non può essere collocata nè a sinistra della porta del civico n. 12, nè a destra di quella del civico 10 in quanto violerebbe la distanza legale dai fabbricati confinanti;
– da ultimo il ctu concludeva che ” nel caso in cui il giudicante ritenesse indispensabile l’impianto e, quindi, fosse possibile superare, in tema di edifici condominiali, la limitazione della distanza legale con la proprietà S., l’unica possibile collocazione della condotta è sul tratto di muro compreso tra I due civici innanzi citati, ossia in posizione simile a quella attuale”;
– a fronte di dette non contestate considerazioni, appare perciò fondata la censura perchè la corte territoriale non ha adeguatamente verificato la ‘impossibilità di collocare diversamente la colonna fognante (cfr. pag. 10 della sentenza);
– il giudice d’appello ha omesso di accertare se la rigorosa osservanza dell’art. 889 c.c., non sia irragionevole, considerando – alla luce del sopra descritto accertamento di fatto svolto dal ctu – che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sè il contemperamento dei vari interessi al fine dell’ordinato svolgersi della convivenza tra I condomini (cfr. Cass. 1989/2016);
– al contrario, la corte ha concluso, senza alcun cenno alle suddette risultanze del ctu e senza operare il contemperamento degli interessi, che lo spostamento della condotta era dipeso da una scelta deliberata degli attori e non da esigenze inderogabili (cfr. pag. 11 della sentenza);
– si rende, pertanto, necessario l’accoglimento del motivo e la cassazione della sentenza in relazione ad esso, con l’assorbimento degli altri due motivi (cfr. Cass. 28995/2018);
– va dunque disposto il rinvio alla Corte d’appello di Bari, altra sezione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.”
E’ quanto ha ribadito, secondo un orientamento consolidato, Cass. civ. sez. II ord. 23 maggio 2019 , n. 14091.
“Giova premettere che secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, affinché sussista una veduta, a norma dell’art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della inspectio anche quello della prospectio nel fondo del vicino, dovendo detta apertura non solo consentire di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, vale a dire di guardare non solo di fronte, ma anche obliquamente e lateralmente, così assoggettando il fondo alieno ad una visione mobile e globale (Cass. S.U. n. 10615 del 1996 e successive conformi).
Ciò posto, va ulteriormente specificato che le porte, essendo destinate in generale all’accesso ai locali e all’uscita da essi, non rientrano nella categoria delle “aperture”, -considerate dagli artt. 900 c.c. e segg., che hanno invece la funzione di consentire il passaggio della luce e dell’aria, o di affacciarsi sul fondo vicino; possono dunque avere dimensioni e caratteristiche diverse da quelle che l’art. 901 c.c. prescrive per le luci, ed essere aperte senza rispettare le distanze prescritte dagli artt. 905 e 906 c.c. per le vedute.
Nondimeno le porte possono essere anche destinate alla veduta, e vedute devono essere considerate, ai fini delle citate norme, quando tale congiunta e stabile funzione (che non può desumersi dal fatto che al momento della loro apertura e fino alla loro chiusura esse possano occasionalmente e fugacemente permettere di guardare nel fondo vicino) risulti da elementi non equivoci, che il giudice del merito deve puntualmente accertare e verificare (così, in motivazione, Cass. n. 8693/00; in senso conforme, fra le tante, v. Cass. n. 10603/90).
Stabilire, pertanto, se una porta oltre a dare accesso ad un locale assolva anche la stabile e univoca funzione di assoggettare il fondo vicino ad una visione completa, ossia obliqua e laterale, costituisce accertamento di fatto rimesso al giudice di merito e sottratto, come tale, al sindacato di legittimità, ove sorretto da una motivazione sufficiente e scevra da vizi di logica giuridica.
Nel caso specifico la Corte territoriale mostra di essersi attenuta a entrambi i principi innanzi richiamati, là dove, accertato il requisito dell’inspectio, ha escluso che la porta-finestra in oggetto potesse qualificarsi come veduta per difetto della possibilità di esercitare anche la facoltà di prospectio. La sentenza impugnata, pertanto, è conforme al seguente principio di diritto “La “porta-finestra” che consenta la inspectio, ma non la prospectio, ossia lo sguardo frontale sul fondo del vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non integra veduta, sebbene permetta occasionalmente e fugacemente, nel momento dell’uscita, la visione globale e mobile del fondo alieno” (Sez. 6-2, Ord. n. 17950 del 2014).”
Vi sono tuttavia ipotesi in cui tali norme sono vincolanti anche per i condomini, ovvero quando le costruzioni – ed i relativi obblighi – riguardano la proprietà individuale.
E’ quanto afferma Cass.Civ. sez.II ord. 27 febbraio 2019, n. 5732 rel. Criscuolo: “S.L. e F.P. , poi deceduto in corso di causa, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Modena M.G. , M.O. e P.A. (ai quali ultimi due, deceduti in corso di causa, succedeva a titolo universale il primo) perché, in quanto proprietari di unità immobiliare posta nello stesso edificio condominiale, fossero condannati alla rimozione di una costruzione eseguita nell’area scoperta di loro proprietà esclusiva in violazione delle distanze di cui all’art. 907 c.c., rispetto alla soprastante veduta esercitata dall’appartamento di proprietà esclusiva degli attori, oltre al risarcimento del danno…
…sebbene le due unità immobiliari dei contendenti siano ubicate in un condominio, il manufatto di cui si denuncia l’illegittimità è stato posto non su di un’area comune, ma a copertura di un’area scoperta annessa alla proprietà esclusiva del ricorrente ed a sua volta appartenente a quest’ultimo in regime di proprietà esclusiva. Quanto al diritto di veduta di cui si lamenta la violazione, lo stesso pertiene all’appartamento in proprietà esclusiva dell’attore, il che rende evidente l’inconferenza ai fini della decisione della controversia, del richiamo a quei precedenti, fatto da parte ricorrente a pag. 15 del ricorso, che invece attengono ad ipotesi in cui le opere asseritamente lesive del diritto di veduta erano state realizzate su di un’area comune. Atteso che, come rilevato dalla Corte d’Appello il conflitto si pone tra diritti spettanti alle proprietà esclusive dei contendenti, risulta non invocabile la diversa previsione di cui all’art. 1102 c.c., che attiene al concorrente godimento della cosa comune, la controversia deve avere la sua soluzione in base alla sola applicazione dell’art. 907 c.c., e ciò in conformità della giurisprudenza più recente di questa Corte, puntualmente richiamata anche dalla sentenza gravata. Ed, infatti, si è affermato che (Cass. n. 955/2013) il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell’edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino (nella specie, un pergolato realizzato a copertura del terrazzo del rispettivo appartamento), che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l’esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l’art. 907 c.c. il bilanciamento tra l’interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l’igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita (conf. ex multis Cass. n. 7269/2014; Cass. n. 1261/1997).”
Una ponderosa pronuncia della corte di legittimità (Cass.Civ. sez.II ord. 19.2.2019 n. 4834 rel Criscuolo) affronta un tema peculiare, ovvero la nozione di parate finestrata ai fini del compito delle distanze.
i fatti: “Il condominio (omissis) conveniva in giudizio la Immobiliare Raffaella S.r.l., lamentando che la convenuta aveva realizzato sull’area denominata “(omissis) ” un fabbricato a confine con l’edificio condominiale, ma a distanza inferiore a quella di legge individuata nella previsione di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9. Il Tribunale di Milano – sezione distaccata di Legnano rigettava la domanda ma la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 2123 del 18 maggio 2015, in accoglimento del gravame del condominio condannava la società convenuta a demolire ed arretrare le porzioni del fabbricato H, compresi i balconi sulle medesime aggettanti sino a garantire il rispetto della distanza di metri 10 dal frontistante condominio, secondo le indicazioni contenute nella CTU alle pagg. da 15 a 19, nonché al risarcimento del danno che quantificava nell’importo di Euro 10.000,00. Rilevavano i giudici di appello che le risultanze della CTU avevano permesso di evidenziare che effettivamente il fabbricato realizzato dalla società appellata era posto a confine con l’edificio condominiale, dovendo quindi trovare applicazione l’art. 873 c.c. con il rinvio alle fonti integrative locali.
Tuttavia il potere normativo secondario degli enti locali trovava un limite nelle previsioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, emanato in applicazione dell’art. 41 quinquies della legge urbanistica come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 17. Infatti, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale, tale norma, sebbene non direttamente applicabile, è però inderogabile da parte degli enti locali che devono conformarsi a quanto nella stessa prescritto, con l’ulteriore conseguenza che l’eventuale disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici locali deve essere disapplicata, occorrendo assicurare il rispetto della distanza assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Per l’effetto, risultava erroneo quanto affermato dal Tribunale che aveva ritenuto di assicurare prevalenza alle previsioni delle NTA del PRG del Comune di Legnano, che invece non prescrivevano la detta distanza di metri 10 tra pareti finestrate. Pertanto, poiché la costruzione della società era da intendersi come edificio nuovo costruito in Zona Omogenea Speciale Piano Integrato di Intervento Area (omissis) , dalle risultanze della CTU emergeva che le pareti finestrate della convenuta si ponevano a distanza inferiore a metri 10 dalla facciata del fabbricato condominiale. Ciò imponeva quindi la condanna della società alla riduzione in pristino, con l’ordine di demolizione e/o arretramento sino alla distanza di metri 10. Infine, era reputata meritevole di accoglimento anche la domanda risarcitoria, sebbene limitata al solo danno subito temporaneamente dalla data della costruzione sino a quella in cui sarebbe stata eseguita la riduzione in pristino, danno equitativamente determinato nell’importo di Euro 10.000,00.”
La società ricorreva per cassazione, ma la corte di legittimità ha ritenuto i motivi non fondati: “Ed, invero, non può non rilevarsi che, come ammesso da parte della stessa ricorrente, sulla parete del fabbricato di cui è stata ordinata la demolizione ovvero l’arretramento sono collocate, oltre ad alcune aperture, di cui si discute se abbiano carattere di veduta oppure di semplici luci, anche dei balconi, dei quali si è tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze (sul presupposto che non fossero dei meri sporti ornamentali), come confortato anche dalla lettura del dispositivo.
La tesi della ricorrente è che, perché possa invocarsi la previsione di cui al citato D.M. del 1968 n. 1444, lungo una delle pareti frontistanti debbano aprirsi delle finestre intese quali vedute, con la conseguenza che, essendo state apposte delle sbarre in corrispondenza delle finestre ivi allocate, che impediscono la possibilità di affaccio, diretto, laterale e/o obliquo, non si sarebbe più al cospetto di vedute, ma di semplici aperture lucifere, che appunto non rilevano ai fini della norma in esame.
Ritiene il Collegio che tuttavia l’interpretazione della norma de qua non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione in esame.
In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n. 26383/2016), poiché nella disciplina legale dei “rapporti di vicinato” l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione “pareti finestrate” contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 – il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come “vedute”, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette “lucifere” (conf. Cass. n. 6604/2012).
Deve quindi ritenersi che anche la presenza di balconi assicuri la possibilità di veduta (cfr. da ultimo Cass. n. 8010/2018, a mente della quale con riferimento ai balconi, rispetto ad ogni lato di questo si hanno una veduta diretta, ovvero frontale, e due laterali o oblique, a seconda dell’ampiezza dell’angolo), e che quindi la loro presenza sul fronte del fabbricato impone l’applicazione della norma alla quale hanno fatto riferimento i giudici di merito (si veda per la giurisprudenza amministrativa Cons. Stato 5/10/2015 n. 4628, che ha ribadito che per pareti finestrate si devono intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere in esse anche quelle sulle quali si aprono semplici luci, nonché T.A.R. L’Aquila, (Abruzzo), 20/11/2012, n. 788, che ha specificato che ai sensi del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi per “pareti finestrate”, non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento).
Ne consegue che, attesa la presenza di balconi lungo la parete dell’edificio della ricorrente, va esclusa la dedotta violazione di legge, mentre risulta priva del carattere della decisività la pretesa omessa disamina della circostanza che alcune delle aperture non consentano l’affaccio, trattandosi di affermazione che non tiene conto della necessaria rilevanza che invece assumono i balconi ai fini della presente vicenda. Né sussiste il dedotto vizio motivazionale, avendo la sentenza adeguatamente fatto richiamo alla presenza dei balconi lungo il fronte del fabbricato della società.
Il quarto motivo denuncia la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla domanda subordinata proposta dall’appellata con la conseguente violazione dell’art. 1123 c.p.c. e degli artt. 24 e 111 Cost.. Si deduce che la società nel corso del giudizio di merito ha richiesto, in via subordinata, che la condanna fosse limitata all’esecuzione delle opere necessarie a garantire il rispetto del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, mediante la trasformazione delle finestre in luci o mediante le altre opere che la Corte di Appello avesse voluto stabilire, con esclusione della demolizione parziale dell’edificio, ma tale richiesta non è stata in alcun modo presa in esame.
Anche tale motivo è destituito di fondamento. Ed, invero, deve in primo luogo farsi richiamo al costante orientamento di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 7809/2014) in tema di violazione delle distanze legali, non incorre in ultrapetizione il giudice che, richiesto dell’ordine di demolizione della costruzione, ne ordini il semplice arretramento, essendo la decisione contenuta nei limiti della più ampia domanda di parte, senza esulare dalla “causa petendi”, intesa come l’insieme delle circostanze di fatto poste a fondamento della pretesa (conf. Cass. n. 475/2002; Cass. n. 1411/1999). Nel caso in esame, assume tuttavia la ricorrente che aveva chiesto che la condanna, una volta riscontrata la violazione delle previsioni di cui al citato art. 9, fosse limitata alla sola adozione delle opere necessarie a garantire il rispetto della norma, con la trasformazione delle finestre in luci, ovvero delle altre opere che la Corte d’Appello avesse ritenuto di stabilire. Ed, invero, in disparte il difetto di specificità del motivo nella parte in cui, pur denunciando un error in procedendo omette di riprodurre con precisione il contenuto delle deduzioni difensive alle quali fa riferimento, e dalle quali si dovrebbe desumere la violazione dell’art. 112 c.p.c. (cfr. sul rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 anche in caso di denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, Cass. S.U. n. 8077/2012), non ignora il Collegio che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 9640/2006), allorquando il soccombente nel giudizio in tema di distanze per l’apertura di vedute e balconi impugni la sentenza del giudice di merito che lo abbia condannato alla demolizione dei propri balconi realizzati a confine in violazione dell’art. 905 cod. civ., deducendo che era sufficiente, ai fini del rispetto delle predette distanze, l’adozione di diversi specifici accorgimenti, deve affermarsi che l’eliminazione delle vedute abusive può essere realizzata non solo mediante la demolizione delle porzioni immobiliari per mezzo delle quali si realizza la violazione di legge lamentata, ma anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui, come l’arretramento del parapetto o l’apposizione di idonei pannelli che rendano impossibile il “prospicere” e l’”inspicere in alienum” (conf. Cass. n. 2343/1995). Trattasi però di giurisprudenza che appare essenzialmente maturata nell’ambito della dedotta violazione delle distanze delle vedute, laddove nella vicenda in esame si dibatte in materia di distanze tra costruzioni, nella quale la presenza delle vedute è un presupposto fattuale per l’applicazione della più restrittiva norma di cui al menzionato art. 9. Inoltre, come si ricava dalla lettura del motivo, la società aveva chiesto adottarsi i rimedi alternativi per la trasformazione delle vedute in luci, ma ciò sul presupposto, confermato dalla lettura dei primi tre motivi, che non spiegassero alcuna rilevanza ai fini della decisione i balconi pur esistenti lungo la facciata dell’edificio, balconi che invece sono da ritenersi decisivi ai fini della nozione di parete finestrata. È il balcone in sé che legittima l’esercizio della veduta, avendone la sentenza impugnata disposto l’arretramento. L’assenza di qualsivoglia riferimento ai balconi nelle richieste subordinate della società esclude pertanto che possa riscontrarsi la detta violazione dell’art. 112 c.p.c.. 5. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione sotto altro profilo del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 nonché dell’art. 113 c.p.c. e dell’art. 2058 c.c., nella parte in cui la sentenza gravata ha condannato la società a demolire tutta la parete finestrata, sebbene la stessa fronteggi una parete priva di finestre. Si assume che il condominio possa vantare solo il diritto alla chiusura delle finestre ma non anche alla demolizione dell’intera parete. Il motivo è privo di fondamento. Questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire il principio per il quale (Cass. n. 5017/2018) è illegittima una previsione che imponga il rispetto di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi, in quanto il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 detta disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute. Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente non può essere condivisa in quanto contrasta con l’interpretazione che delle norme in esame è stata in passato offerta dal giudice di legittimità. Va in primo luogo richiamato che costituisce opinione consolidata quella secondo cui (cfr. ex multis Cass. n. 20574/2007) ai fini dell’osservanza delle distanze legali, ove sia applicabile il D.M. n. 1444 del 1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici, l’obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata alla salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano, quando uno dei due abbia una parete finestrata. Le Sezioni Unite sono intervenute sul punto ed hanno avuto modo di precisare (cfr. Cass. S.U. n. 14953/2011) che, attesa l’idoneità del citato art. 9 a dar vita a disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati destinate a prevalere sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, non è legittima una previsione regolamentare che imponga il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi. Come peraltro chiarito anche in motivazione da Cass. n. 15529/2015, ai fini della corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite, deve ribadirsi che la norma è destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate. Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontistante facciata e non già la reciproca posizione delle finestre in entrambe le superfici aperte. Trattasi di conclusione che appare del tutto coerente con quanto in precedenza affermato, e cioè che (cfr. Cass. n. 8383/1999) ai fini dell’applicazione della norma in esame è del tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra, atteso che (cfr. Cass. n. 11404/1998) il regolamento edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantisi, deve esser osservato anche se dalle finestre dell’uno non è possibile la veduta sull’altro perché la “ratio” di tale normativa non è la tutela della privacy, bensì il decoro e sicurezza, ed evitare intercapedini dannose tra pareti. Va pertanto data continuità al principio già sostenuto da questa Corte, anche prima dell’intervento delle Sezioni Unite del 2011 sopra ricordato, che peraltro si limita a rafforzarne la correttezza, secondo cui (cfr. Cass. n. 13547/2011) ai fini dell’applicazione della norma in esame è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta, sicché il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre (conf. Cass. n. 5741/2008, a mente della quale, essendo “ratio” della norma non la tutela della riservatezza, bensì quella della salubrità e sicurezza, la medesima va applicata indipendentemente dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle pareti di questi, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento). Sempre in senso conforme si veda, con specifico riferimento alle fattispecie esaminate, Cass. n. 4715/2001, che ha ritenuto applicabile l’art. 7 del P.R.G. di Viterbo, con formulazione identica al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, laddove gli edifici per cui è causa si fronteggiavano con una parete finestrata ed uno spigolo di muro, nonché Cass. n. 9207/1991, la cui massima recita a favore dell’applicazione dell’art. 9 sempre che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ed ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta (la vicenda riguardava fabbricati frontistanti solo per un tratto di metri 0,82 dell’uno ed entrambi con pareti prive di finestre nelle rispettive parti contrapposte, avendo la Corte confermato la correttezza della decisione dei giudici di appello che avevano disposto l’arretramento del nuovo corpo di fabbrica fino a ripristinare la distanza di dieci metri, limitatamente al predetto tratto di metri 0,82).”
La Suprema Corte ( Cass.Civ. sez.II ord. 27 novembre 2018 n. 30708) chiarisce quali manufatti vadano considerati ai fini delle distanze fra fabbricati: “La Corte di merito ha, correttamente, escluso che (ferma restando la riserva alla legge dello Stato della definizione delle “costruzioni” al fine della applicazione del’art. 873 c.c.), il vano scale dell’immobile in questione non possa non essere considerato a tutti gli effetti una “costruzione”, come tale non rientrante nel concetto di sporto.
Trattasi di un accertamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione – fondata sui richiamati esiti peritali, secondo i quali “trattasi di due rampe in muratura, di larghezza di mt 2,51 e lunghezza di mt 3,17 con all’interno la stanza di alloggiamento dell’impianto di riscaldamento; il tutto infisso, in modo stabile e permanente, al suolo e realizzante una superficie complessiva di mq 9,98 ed un volume di metri cubi 15,02” (sentenza impugnata, pag. 12) come tale immune dalle censure sollevate dai ricorrenti (Cass. n. 1916 del 2011), che sostanzialmente si limitano a contestare la qualificazione data dai giudici del merito al manufatto in esame.
Va rilevato che risulta consolidato il principio per il quale, in tema di distanze legali fra edifici, non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati. (Cass. n. 12964 del 2006).
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni (Cass. n. 17242 del 2010; Cass. n. 18282 del 2016).
Integra, dunque, la nozione di “volume tecnico”, non computabile nella volumetria della costruzione, solo l’opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi – quali quelli connessi alla condotta idrica, termica – di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa, e non anche quella che costituisce – come appunto il vano scale – parte integrante del fabbricato, ossia corpo di fabbrica. (Cass. n. 2566 del 2011; v. altresì Cass. n. 20886 del 2012).”
Cass.Civ. sez.II ord. 23 novembre 2018 n. 30462 ribadisce alcuni dati ormai acquisiti in tema di decoro architettonico e di pari utilizzo del bene comune ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. : “La Corte distrettuale ha ordinato la rimozione della canna fumaria, ritenendo che essa costituisse costruzione ai sensi della normativa sulle distanze legali (e segnatamente dell’art. 907 c.c.) e che ledesse il decoro architettonico dell’edificio, poiché, per i materiali da cui era composta, per le sue dimensioni e per la sua innegabile evidenza, non si inseriva nell’aspetto armonico della facciata, producendo un “risultato esteticamente sgradevole” (cfr. sentenza pag. 10 e 11).
Pur considerando che l’opera era stata impiantata su un prospetto secondario del fabbricato, ha però stabilito che ne alterava la sagoma modificando l’aspetto del muro condominiale in violazione dell’art. 1120 c.c., essendo inoltre in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico locale, che vietava l’apposizione di canne fumarie esterne alle murature.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale sostanzia una modifica della cosa comune conforme alla sua destinazione, che ciascun condomino – pertanto – può apportare a sue cure e spese, ma a condizione che non impedisca l’uso paritario delle parti comuni, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico, ipotesi – quest’ultima – che si verifica non già quando si mutano le originali linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme dell’aspetto armonico dello stabile (Cass. 17072/2015; Cass. 18350/2013; Cass. 6341/2000).
Non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano pregiudicate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità (Cass. 10350/2011; Cass. 14455/2009; Cass. 8830/2008; Cass. 27551/2005; Cass. 6496/1995).
Non esclude l’illegittimità dell’opera il fatto che essa sia stata apposta su una parete retrostante o in modo non visibile dalla strada principale, venendo in rilievo la violazione oggettiva dell’estetica del fabbricato data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile e gli imprimono una determinata fisionomia ed una specifica identità, mentre il rilievo da attribuire al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell’edificio, muta da caso a caso, e non esclude di per sé la violazione, configurabile anche riguardo ad opere interne al fabbricato, fermo che il relativo apprezzamento è rimesso al giudice di merito ed è sindacabile solo per vizi di motivazione (Cass. 1718/2016; Cass. 851/2007; Cass. 10350/2011).
Infine, la circostanza che l’opera fosse stata autorizzata dall’amministrazione comunale non ne impediva la demolizione, poiché la regolarità dell’opera da punto di vista urbanistico non poteva incidere negativamente sui diritti degli altri condomini (Cass. 20985/2014; Cass. 1936/1977).
Non sussistendo quindi la denunciata violazione di legge e risultando l’opera comunque illegittima riguardo alla lesione del decoro architettonico, è superfluo stabilire se potesse operare in ambito condominiale la disciplina di cui all’artt. 907 c.c., così come ritenuto dalla decisione impugnata, non potendone comunque conseguire la cassazione di detta pronuncia.”
la Corte di legittimità (Cass.Civ. sez. II ord. 23 ottobre 2018, n. 26846) ritorna sul tema delle distanze fra costruzioni e ribadisce il proprio orientamento su tale ultimo concetto: anche un singolo pilastro che sporge sul lastrico deve ritenersi manufatto idoneo per il computo delle distanze.
“Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, la nozione di costruzione, agli effetti dell’art. 873 cod. civ., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie neppure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore (Cass. 144/2016; Cass. 19530/2005; Cass. 1556/2005).
A tali effetti, deve ritenersi “costruzione” qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. 22127/2009; Cass. 400/2005). Non sono computabili nelle distanze le sole sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, mentre rientrano nel concetto civilistico di “costruzione” le parti dell’edificio, inclusi, come nella specie, gli sporti sorretti da pilastri e i corpi avanzati che seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato (Cass. 4322/1989; Cass. 5795/1979; Cass. 1566/1972; Cass. 452/1970)
La Corte distrettuale doveva quindi tener conto dei pilastri che, elevandosi dal suolo, formano – di regola – parte integrante della facciata del fabbricato (Cass. 2838/1969; Cass. 1393/1968), del piano di calpestio e del piovente del tetto, e calcolare le distanze dai punti della loro massima sporgenza, benché le norme locali contemplassero un diverso criterio di misurazione, il quale, essendo tuttavia in contrasto con la norma primaria (art. 873 c.c.), andava disapplicato.”