E’ noto che il singolo condomino, ai sensi dell’art. 1102 c.c., può apportare alla cosa comune ogni modifica che renda più comodo o proficuo il suo utilizzo, purché non alteri la destinazione e non impedisca l’altrui pari uso.
Ove l’intervento rimanga entro tali parametri, il condomino può intervenire in autonomia e l’assemblea non ha alcun titolo ha rilasciare autorizzazioni, previsione che invece può essere contenuta in un regolamento di natura contrattuale.
Ove il regolamento negoziale preveda la preventiva autorizzazione dell’assemblea all’intervento del singolo, è consentito al Giudice (che per costante orientamento non può intervenire sulle valutazioni discrezionali dell’organo collegiale) sindacare la sussistenza della violazione del decoro opposto dall’assemblea per negare il consenso.
E’ quanto emerge da una recente pronuncia di legittimità (Cass.civ. sez. II 28.12.2022 n. 37852 rel. Scarpa) che, per ampiezza e accuratezza dell’analisi, merita integrale lettura e che giunge ad affermare il seguente principio di diritto: “allorché una clausola del regolamento di condominio, di natura convenzionale, obblighi i condomini a richiedere il parere vincolante della assemblea per l’esecuzione di opere che possano pregiudicare il decoro architettonico dell’edificio, la deliberazione che deneghi al singolo partecipante il consenso all’intervento progettato, ritenendo lo stesso lesivo della estetica del complesso, può essere oggetto del sindacato dell’autorità giudiziaria, agli effetti dell’art. 1137 c.c., soltanto al fine di accertare la situazione di fatto che è alla base della determinazione collegiale, costituendo tale accertamento il presupposto indefettibile per controllare la legittimità della delibera.”
Qualora nel condominio sia in vigore un regolamento di natura contrattuale,, il giudice è tenuto ad interpretarlo secondo le ordinarie regole ermeneutica in tema di contratti e non potrà limitarsi a recepire la lettura che di tali norme sia stata data in sede di successive delibere condominiali.
Nella fattispecie il regolamento vietava innovazioni lesive del decoro e il Condominio aveva ritenuto conforme alla clausola un intervento di recupero del sottotetto effettuato da un condomino.
La Corte di legittimità ( Cass.civ. sez. II ord. 27 maggio 2020 n. 9957), nel ribadire nozioni ormai consolidate in tema di decoro, rileva che il giudice di merito era tenuto a valutare se quell’intervento fosse effettivamente in contrasto con la clausola regolamentare, non potendo limitarsi a prendere atto del consenso espresso dalla maggioranza assembleare.
“Questa Corte ha affermato, con orientamento consolidato al quale il collegio intende dare continuità, che costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (Cassazione civile sez. II, 28/06/2018, n. 17102). L’alterazione di tale decoro è integrata, quindi, da qualunque intervento che alteri in modo visibile e significativo la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono all’edificio una sua propria specifica identità (Cass. 1076/05 e Cass. 14455/09).
Ne consegue che, attesa la sostanziale identità della domanda basata sulla lesione del decoro architettonico o sull’art. 8 del regolamento condominiale, sia in relazione all’art. 1120 c.c., il motivo dedotto non è decisivo perché basato sui medesimi presupposti fattuali.
Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa interpretazione dell’art. 1362 c.c., in relazione al regolamento condominiale ed agli artt. 1120, 1137, 1138, 1350, 1372 e 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., commi 2 e 3, per avere la corte distrettuale interpretato il regolamento condominiale, facendo riferimento alla volontà dei condomini manifestata nella Delib. 25 febbraio 2003, con la quale i medesimi nulla obiettavano in ordine al progetto di modifica delle parti comuni; la corte di merito non avrebbe tenuto conto che, trattandosi di regolamento di natura contrattuale, non avrebbe potuto essere modificato a semplice maggioranza, ma con il consenso unanime dei condomini, in quando incidente sul decoro architettonico. Contestava, inoltre, che si fosse formato il giudicato per assenza di opposizione alla citata Delib. condominiale in quanto l’oggetto della Delib. era limitato al riconoscimento della legittimità degli interventi purché conformi al regolamento condominiale.
Il motivo è fondato sotto diversi profili. È incontestato che il regolamento del Condominio (omissis) abbia natura contrattuale e che la domanda dal medesimo proposta fosse diretta alla declaratoria di illegittimità dei lavori eseguiti dai convenuti, consistenti nel recupero, ai fini abitativi, del sottotetto, perché lesivi del decoro architettonico. Nell’interpretare il regolamento contrattuale, il giudice deve utilizzare i canoni ermeneutici previsti dal codice civile e quindi leggere le clausole complessivamente e non limitarsi alla singola disposizione (art. 1363 c.c.) e cercare di ricostruire la volontà e l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c. (Cassazione civile sez. VI, 03/05/2018, n. 10478).
L’art. 1362 c.c., allorché nel comma 1, prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cassazione civile sez. II, 22/08/2019, n. 21576).
La corte di merito ha interpretato l’art. 8 del regolamento contrattuale e, in particolare della volontà delle parti, non sulla base dei citati criteri ermeneutici, ovvero tenendo conto del dato letterale e delle altre clausole contrattuali, ma sulla base del comportamento successivo, costituito dal contenuto della Delib. 22 maggio 2003, nella quale il condominio nulla obiettava in relazione al progetto di realizzazione del recupero dell’abitabilità dei sottotetti, secondo il progetto presentato. Tale deliberazione , che non risulta essere stata adottata all’unanimità, non poteva costituire l’unico parametro interpretativo per l’individuazione della volontà dei condomini espressa nel regolamento contrattuale, nè era idonea a modificarlo perché attinente ad innovazioni incidenti sul decoro architettonico. In tale ipotesi, infatti, esula dai poteri istituzionali dell’assemblea dei condomini la facoltà di deliberare o consentire opere lesive del decoro dello edificio condominiale, alla stregua dell’art. 1138 c.c., comma 4 (Cassazione civile sez. VI, 18/11/2019, n. 29924). Ne consegue che l’interpretazione del regolamento contrattuale, erroneamente basato, sulla Delib. Condominiale 22 maggio 2003, non poteva avere autorità di giudicato.”
La seconda sezione della Suprema Corte torna sul tema dell’art. 844 cod.civ., già affrontato pochi giorni orsono, con due pronunce che chiariscono l’estensione dei poteri di valutazione del giudice sulla tollerabilità e la necessaria “personalizzazione” dell’apprezzamento, a seconda della natura e destinazione degli immobili coinvolti.
* La prima sentenza (Cass.civ. sez. II 30 agosto 2017 n. 20553 rel. Scarpa) attiene ad una controversia sorta per a i rumori prodotti dalla autoclave a servizio di una unità immobiliare in condominio: “L’avvocato M., usufruttuario dell’appartamento sito in Roma, via F., convenne, nel febbraio 2003, innanzi al Giudice di Pace di Roma, A. G., proprietario di altro appartamento compreso nello stesso fabbricato, nonché il Condominio di Via F., lamentando immissioni sonore provenienti dal locale “cabina idrica” condominiale, riferibili all’installazione, da parte del G., di un “impianto idrico elettrico al fine di potenziare la fornitura idrica al suo appartamento…”. Il M. chiedeva di “ritenere e dichiarare il dott. A.G. e il Condominio di via F. di Roma responsabili delle immissioni di rumore superiore ai limiti di decibel di tolleranza”, con condanna di entrambi “a cessare da ogni comportamento da cui possa derivare immissione di rumori oltre la normale tollerabilità”
Il Giudice di Pace di Roma accoglieva la domanda e “ inibiva l’uso del locale ex cassoni del quinto piano quale sede per l’installazione dell’impianto idrico di cui è causa, ovvero di qualsivoglia altro impianto idrico dotato di pompa; ordinava la messa in atto di tutti i suggerimenti indicati dall’ingegnere Balestra, nominato C.T.U., ed in particolare la rimozione dell’autoclave dall’attuale sede e la sua ricollocazione sopra al sesto piano, dove si trovava in precedenza, o addirittura al piano terra; dichiarava tanto il condomino G. quanto l’Amministratore del Condominio di Via F responsabili, per comportamenti commissivi o omissivi, dei danni subiti dall’attore nei cinque anni decorsi, danni da accertarsi e valutarsi in separato giudizio“.
La pronuncia ha trovato conferma in grado di appello, ove il Tribunale di Roma ha respinto l’impugnazione promossa dai convenuti; costoro ricorrono in cassazione, ove lamentano anche che il giudice di merito abbia ecceduto quanto richiesto dall’attore.
La suprema Corte respinge il ricorso ed osserva che “La domanda di cessazione delle immissioni che superino la normale tollerabilità (nella specie, volta ad ottenere la condanna di un condomino a cessare da ogni comportamento da cui possa derivare immissione di rumori ed a rimuovere l’impianto idrico elettrico causa delle stesse) non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata, ben potendo egli ordinare l’attuazione di quegli accorgimenti che siano concretamente idonei ad eliminare la situazione pregiudizievole.
Non viola, pertanto, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sotto il profilo del limite costituito dal divieto di immutazione degli effetti giuridici che la parte intende conseguire, il giudice che, decidendo su una domanda di cessazione delle immissioni, ordini tanto la rimozione del manufatto, da cui le immissioni provengono, quanto l’adozione di misure inibitorie implicanti l’attuazione di accorgimenti che evitino il ripetersi della situazione pregiudizievole (nella specie, l’uso di uno spazio condominiale quale sede di impianti idrici a pompa, per la contiguità di tale spazio con un appartamento di proprietà esclusiva) (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 17/01/2011, n. 887 ; Cass. Sez. 2, 05/08/1977, n. 3547).
Quanto alla intollerabilità delle immissioni, accertata dal giudice di prime cure, la Corte di legittimità sottolinea come “ in giudizio relativo ad immissioni, i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio con funzione “percipiente”, in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone (cfr. Cass. Sez. 2, 20/01/2017, n. 1606; Cass. Sez. 2, 04/03/1981, n. 1245).
E’ del pari consolidato l’orientamento di questa Corte, ribadito dal Tribunale, secondo cui, in tema, appunto, di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all’intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse.
Il Tribunale di Roma ha valutato comunque illecite le immissioni sulla base di un giudizio di tollerabilità formulato ai sensi dell’art. 844 c.c., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza del locale condominiale dove era stata allocata la pompa e l’unità immobiliare abitativa del M.
Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c., diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale.
Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, 05/08/2011, n. 17051; Cass. Sez. 2, 12/02/2010, n. 3438).
** La seconda pronuncia (Cass.civ. sez. II 30 agosto 2017 n. 20555 rel. Scarpa) riguarda un caso in cui una condomina lamentava, fra l’altro, immissioni provenienti dalle caldaie poste a servizio degli appartamenti sottostanti, in cui il giudice di legittimità richiama gli stessi principi, seppur riferiti a diversa situazione di fatto.
“il Tribunale di Pesaro aveva rigettato tutte le domande per assenza di prova dei vizi lamentati, essendo risultato, in particolare: che le caldaie fossero conformi alla normativa esistente all’epoca della loro installazione, quando non era ancora vigente il d.P.R. n. 412/1993; che lo sfiato fosse correttamente collocato sulla copertura del tetto e non ne provenissero miasmi intollerabili; che, una volta riparato il filtro dello scarico di raccolta delle acque, il deflusso delle stesse fosse ritornato regolare; che non era stata allegata, né comunque provata, l’intollerabilità delle immissioni di gas di scarico derivanti dalle caldaie, come anche delle esalazioni provenienti dalla fossa biologica.
La Corte d’Appello di Ancona, dopo aver richiesto chiarimenti al CTU sulla questione dei fumi provenienti dalle caldaie, ha parimenti negato difetti di manutenzione delle caldaie, o violazioni delle norme tecniche che rendessero intollerabili le immissioni; come anche la sussistenza dei miasmi provenienti dallo sfiato posto sulla copertura dell’edificio imputabili a difetti tecnici dell’impianto condominiale”
La suprema Corte, nel respingere il ricorso che lamentava anche violazioni relative alle distanze cui le caldaie erano situate, coglie l’occasione per una significativa ricostruzione delle peculiarità insite nella realtà condominiale e della conseguente necessità che l’applicazione delle norme in tema di proprità venga dal giudice armonizzata con tali profili caratteristici: “si consideri, comunque, l’orientamento di questa Corte, secondo il quale, negli edifici condominiali, la disciplina in tema di distanze legali nei rapporti fra proprietà singole non opera nell’ipotesi dell’installazione di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale abitabilità dell’appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l’apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cass. Sez. 2, 15/07/1995, n. 7752; Cass. Sez. 2, 18/06/1991, n. 6885; Cass. Sez. 2, 05/12/1990, n. 11695).
Quanto al resto, la Corte d’Appello di Ancona, recependo le indicazioni del CTU, ha negato che l’intervento di manutenzione straordinaria eseguito dopo l’ottobre 1995 rendesse le caldaie soggette all’art. 5 del d.P.R. n. 412/1993, e, valutata l’entità dei fumi da essere provenienti, ha considerato i valori nella norma, tali da non arrecare alcun pregiudizio all’ambiente, ed ha poi definito gli impianti conformi alle vigenti prescrizioni tecniche.
Come da questa Corte già chiarito, d’altro canto, la disposizione dell’art. 844 c.c. è applicabile anche negli edifici in condominio nell’ipotesi in cui un condomino, nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni, dia luogo ad immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condomini.
Nell’applicazione della norma deve aversi riguardo, tuttavia, per desumerne il criterio di valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, alla peculiarità dei rapporti condominiali e alla destinazione assegnata all’edificio dalle disposizioni urbanistiche o, in mancanza, dai proprietari.
Dalla convivenza nell’edificio, tendenzialmente perpetua (come si argomenta dall’art. 1119 c.c.), scaturisce talvolta la necessità di tollerare propagazioni intollerabili da parte dei proprietari dei fondi vicini;per contro, la stessa convivenza suggerisce di considerare in altre situazioni non tollerabili le immissioni, che i proprietari dei fondi vicini sono tenuti a sopportare.
Il principio, dunque, va precisato in considerazione delle condizioni di fatto, del tutto peculiari, consistenti nei confini in senso orizzontale e verticale tra le unità abitative.
In particolare, nel caso in cui il fabbricato non adempia ad una funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti, ad un tempo ad abitazione ed ad esercizio commerciale, il criterio dell’utilità sociale, cui è informato l’art. 844 cit., impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica dei condomini, privilegiando, alla luce dei principi costituzionali (artt. 14, 31, 47 Cost.) le esigenze personali di vita connesse all’abitazione, rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all’esercizio di attività commerciali (Cass. Sez. 2, 15/03/1993, n. 3090).
In tema, poi, di immissioni di fumo o di calore, le disposizioni dettate, con riguardo, nella specie, all’installazione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia o della tutela dall’inquinamento ambientale (disposizioni che attengono a rapporti di natura pubblicistica tra la P.A., preposta alla tutela dell’interesse collettivo della salvaguardia della salute in generale, ed i privati, prescindendo da qualunque collegamento con la proprietà fondiaria) non regolano direttamente i rapporti tra i proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (arg. da Cass. Sez. 2, 25/08/2005, n. 17281; Cass. Sez. 2, 29/04/2002, n. 6223; Cass. Sez. 6 – 2, 01/02/2011, n. 2319; Cass. Sez. 2, 17/01/2011, n. 939).
Si vuol quindi dire che non hanno decisività le censure svolte dalla ricorrente avendo riguardo ai parametri fissati dalla normativa speciale in tema di requisiti e dimensionamento degli impianti termici negli edifici (in quanto diretti alla protezione di esigenze della collettività di rilevanza pubblicistica), pur potendo gli stessi essere considerati come criteri minimali di partenza, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li eccedano.
Il giudice civile non è infatti necessariamente vincolato dalla normativa tecnica prescritta per limitare l’inquinamento ed i consumi energetici, e, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo motivatamente al giudizio di intollerabilità, ex art. 844 c.c., sulla scorta di un prudente apprezzamento di fatto che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica, e che rimane, in quanto tale, insindacabile in sede di legittimità.
Spetta, quindi, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità o la nocività delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità.”
La Cassazione, con una delle numerose ordinanze estive di questo 2017 (Cass.civ. sez. II 17 agosto 2017 n. 20135 rel. Scarpa), conferma un proprio orientamento consolidato sui poteri della assemblea condominiale e sui limiti del sindacato dell’Autorità Giudiziaria sulle scelte amministrative dell’organo collegiale condominiale.
I ricorrenti censurano una sentenza della Corte di Appello di Cagliari che aveva respinto le loro doglianze contro le scelte effettuate dal condominio: “I condomini attori avevano dedotto a sostegno dell’impugnazione ex art. 1137 c.c. che le spese approvate con detta delibera erano eccessive, indeterminate ed inverosimili (in particolare, quanto al compenso da corrispondere all’amministratore ed al rimborso delle spese anticipate dallo stesso, alla somma corrisposta al custode M. P., pari ad € 27.500,00, agli importi erogati per l’ICI e l’assicurazione, e a titolo di spese legali).”
Osserva il giudice di legittimità che: “Come correttamente affermato dalla Corte d’Appello, sulle delibere delle assemblee di condominio degli edifici il sindacato dell’autorità giudiziaria non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo della discrezionalità di cui dispone l’assemblea quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi al riscontro della legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, può abbracciare anche l’eccesso di potere, ma solo quando la causa della deliberazione risulti – sulla base di apprezzamento di fatto del contenuto di essa che spetta ai giudici del merito – falsamente deviata dal suo modo di essere, in quanto anche in tal caso lo strumento di cui all’art. 1137 c.c. non è finalizzato a controllare l’opportunità o convenienza della soluzione adottata dall’impugnata delibera, ma solo a stabilire se la decisione collegiale sia, o meno, il risultato del legittimo esercizio del potere dell’assemblea.
Esulano, quindi, dall’ambito del sindacato giudiziale sulle deliberazioni condominiali le censure inerenti la vantaggiosità della scelta operata dall’assemblea sui costi da sostenere nella gestione delle spese relative alle cose ed ai servizi comuni (Cass. Sez. 2, 20/06/2012, n. 10199; Cass. Sez. 2, 20/04/2001, n. 5889; Cass. Sez. 2, 26/04/1994, n. 3938; Cass. Sez. 2, 09/07/1971, n. 2217).
Indicativamente, l’erogazione del compenso all’amministratore, la stipula di un contratto d’assicurazione del fabbricato, la corresponsione della retribuzione a chi sia incaricato della custodia dell’edificio, la predisposizione di un fondo – cassa per le spese legali, danno luogo a scelte gestorie tutte, in astratto, rientranti nel potere discrezionale dell’assemblea e non dirette a perseguire finalità extracondonniniali, di tal che a tale potere deliberativo dell’assemblea del condominio, da esercitare nelle forme e con le maggioranze prescritte, fa riscontro l’obbligo di ciascun condomino di contribuire alle relative spese.”