ancora sui parcheggi pertinenziali: quando l’area è stata realizzata dal costruttore e ceduta a terzi.

Il tema dei parcheggi pertinenziali è assai complesso ed è stato oggetto di lunga elaborazione giurisprudenziale.

Si è più volte affermato in giurisprudenza che, ove il costruttore non provveda a realizzare le relative aree, al compratore dell’immobile non residui altro che azione risarcitoria nei suoi confronti.

Una pronuncia estiva di legittimità (Cass.civ. sez. II  22 agosto 2019 n. 21582 rel. Giusti) esamina invece l’ipotesi opposta, ovvero il caso in cui il costruttore dell’edificio condominiale abbia realizzato in concreto dette aree, disponendone poi l’alienazione a singoli, in violazione della destinazione imposta dalla norma di rilevanza pubblica (e che, come tale, è opponibile anche al terzo acquirente).

LA motivazione della sentenza è stringata ed in linea con l’orientamento della Corte Suprema, già più volte espresso;  interessante ed indispensabile ai fini di meglio comprendere la fattispecie, appare  la descrizione in fatto degli avvenimenti che hanno condotto al processo.

i fatti e il processo – “La controversia veniva promossa, con atto di citazione notificato il 4 marzo 1983, dinanzi al Tribunale di Roma da O.G. e altri contro la società Capitolina a r.l., lo.ma. , C.C. ved. Lo. , Lo.Me. e Lo.Ma. , nella qualità di eredi di Lo.Ar. , e L.A. .

Con patto d’obbligo del 16 febbraio 1968 la società Capitolina si era impegnata a destinare ad area di parcheggio una superficie di mq. 523,75; con atto di compravendita del 23 dicembre 1968 detta società trasferiva ad Lo.Ar. gli appartamenti di cui alla scala B con annessa autorimessa al piano interrato e a Lo.Ma. la proprietà dei restanti appartamenti; Lo.Ar. vendeva ad L.A. il locale autorimessa distinto con il n. 2 e il locale autorimessa con il n. 3; con successivi atti Lo.Ar. e Lo.Ma. trasferivano la proprietà dei singoli appartamenti agli attori.

Il Tribunale di Roma, a seguito della rimessione della causa dalla Corte d’appello ex art. 354 c.p.c., per difetto di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, con sentenza n. 17041 del 2001, non definitivamente pronunciando, così provvedeva: dichiarava che la società costruttrice si era impegnata irrevocabilmente e definitivamente a destinare e mantenere permanentemente a parcheggio la superficie asservita; dichiarava nullo l’atto con cui la società costruttrice aveva venduto ad Lo.Ar. un’autorimessa privata al piano interrato con un piccolo cortiletto di servizio e accessorio a confine da tutti i lati con terrapieno; dichiarava di conseguenza nullo in parte l’atto con cui Lo.Ar. aveva venduto ad L.A. i locali ad uso autorimessa privata siti al piano interrato e distinti con il n. 2 e il n. 3; dichiarava fondata l’azione degli attori tesa a ottenere uno spazio su cui esercitare in modo esclusivo e permanente il diritto di parcheggio come riconosciuto dal legislatore; dichiarava che il bene sul quale gli attori dovevano esercitare il diritto di parcheggio andava individuato nei due locali venduti da Lo.Ar. ad L.A. e precisamente nel locale ad uso autorimessa privata sito al piano interrato, distinto con il n. 2, confinante con il garage della palazzina A, nonché nel locale a uso autorimessa privata sito al piano interrato, distinto con il n. 3, confinante con il locale caldaia; dichiarava che si doveva procedere con separata sentenza a indicare la consistenza del bene da asservire, individuare la posizione dei luoghi, indicare i lavori da eseguire, stabilire le modalità di uso, quantificare i danni patiti da L.A. da porre a carico degli eredi del dante causa, provvedere alla liquidazione delle spese; ordinava altresì l’estromissione di Lo.Ma. e compensava le spese nei suoi confronti, rimettendo con ordinanza la causa sul ruolo per l’istruttoria.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 33031 del 2004, definitivamente pronunciando, accertava che l’area da adibire all’uso di parcheggio per gli attori era di mq. 215,82 e per l’effetto condannava L.A. al rilascio dell’area, nonché all’esecuzione dei lavori specificati dal c.t.u. e ritenuti necessari per l’adattamento dell’area all’uso, oltre che al pagamento delle spese di lite in favore della parte attrice, accoglieva la domanda di risarcimento dei danni proposta dal L. nei confronti degli eredi di Lo.Ar. e per l’effetto condannava Lo.Me. e Lo.Ma. al pagamento della somma di Euro 258.958, oltre rivalutazione e interessi legali, compensando le spese di lite tra di loro, mentre condannava questi ultimi a rivalere il L. delle spese di giudizio e di c.t.u. alle quali era stato condannato, rigettava la domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti della C. , nonché rigettava la domanda di manleva proposta dagli eredi di Lo.Ar. nei confronti della società Capitolina e rigettava le restanti domande.

Pronunciando sull’appello principale di Lo.Me. e Lo.Ma. e sull’appello incidentale di L.A. , la Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 14 maggio 2014, in parziale riforma della sentenza definitiva, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dal L. , ha confermato nel resto le sentenze gravate come in parte motiva e ha compensato tra le parti costituite le spese del giudizio.

Per quanto qui ancora rileva, la Corte distrettuale:
ha rigettato la doglianza del L. secondo cui agli attori avrebbe dovuto essere riconosciuta solo una tutela risarcitoria e non un diritto reale d’uso;
ha escluso la sussistenza del diritto al risarcimento in favore del L. , conoscendo costui, successivo acquirente, l’entità del suo acquisto e dunque il vincolo di destinazione d’uso;
ha affermato che l’asservimento dell’area deve ritenersi limitato al solo diritto d’uso in proporzione fatto valere dagli attori e che con riguardo all’uso dei soli attori ha pronunciato il Tribunale con la sentenza gravata;
ha rilevato che nessuna domanda di quantificazione del corrispettivo per il diritto d’uso è stata proposta dal L. .”

il principio di diritto espresso dalla CassazioneÈ bensì esatto, rispondendo ad un principio più volte affermato da questa Corte regolatrice (Cass., Sez. II, 22 febbraio 2006, n. 3961; Cass., Sez. II, 7 maggio 2008, n. 11202; Cass., Sez. II, 25 maggio 2017, n. 13210), che, in tema di spazi riservati a parcheggio nei fabbricati di nuova costruzione, il vincolo previsto al riguardo dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, è subordinato alla condizione che l’area scoperta esista e non sia stata adibita ad un uso incompatibile con la sua destinazione; ove lo spazio, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a parcheggio in corso di costruzione e sia stato, invece, utilizzato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura, non può farsi ricorso alla tutela ripristinatoria di un rapporto giuridico mai sorto ma, eventualmente, a quella risarcitoria, atteso che il contratto di trasferimento delle unità immobiliari non ha avuto ad oggetto alcuna porzione dello stesso ed il riconoscimento giudiziale del diritto reale d’uso degli spazi destinati a parcheggio può avere ad oggetto soltanto le aree che siano destinate allo scopo di cui si tratta nei provvedimenti abilitativi all’edificazione.

Sennonché da tale principio deriva che la configurabilità della sola tutela risarcitoria si ha quando lo spazio vincolato, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a parcheggio in corso di costruzione e sia stato utilizzato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura.

Ma non è questa la situazione che la Corte d’appello, confermando la sentenza del Tribunale, ha accertato, essendo risultato, alla luce delle emergenze tecniche, che la proprietà L. con la destinazione di autorimessa è localizzata all’interno della superficie destinata inderogabilmente a parcheggio (“l’area destinata a parcheggio di proprietà del L. indicata dal consulente in mq 215,82 è l’area sulla quale grava per legge il diritto d’uso”).

… La Corte d’appello si è correttamente attenuta al principio di diritto secondo cui il diritto reale d’uso di aree destinate a parcheggio, quale limite legale della proprietà del bene, deriva da norme imperative assistite, come tali, da una presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari, sì che il vincolo da esse imposto non può legittimamente qualificarsi come onere non apparente gravante sull’immobile secondo la previsione dell’art. 1489 c.c., e non è, conseguentemente, invocabile dal compratore come fonte di responsabilità del venditore che non lo abbia dichiarato nel contratto (Cass., Sez. II, 18 aprile 2000, n. 4977).”

© massimo ginesi 16 settembre 2019 

 

 

 

l’assemblea non ha titolo a disporre degli spazi a parcheggio su area altrui.

Ancora una sentenza sulla complessa disciplina dei parcheggi previsti dalla disciplina vincolistica.

Cass.Civ. II sez. 30 marzo 2018, n. 8014 rel. Giusti affronta una ipotesi in cui il costruttore si era riservato la proprietà dell’area esterna al fabbricato: “P.A. ricorreva al Tribunale di Savona, sezione distaccata di Albenga, al fine di sentire dichiarare nulla la delibera in data 9 marzo 2003 del condominio (omissis) , al quale egli apparteneva essendo proprietario di un appartamento nell’edificio F e di un box nell’edificio E.
Con tale delibera veniva stabilito che i posti macchina “disegnati… sul cortile” dal costruttore – il medesimo P.A. – fossero assegnati ai condomini che non avevano acquistato un box.
Deduceva il ricorrente che, essendosi egli riservato, al momento della costituzione del condominio, la proprietà esclusiva del terreno sul quale erano situati i suddetti posti auto, l’assemblea non poteva disporre del suo diritto.
Costituendosi in giudizio, il condominio resisteva.”

Il Tribunale di Savona sez. disse. Albenga e poi la Corte di Appello di Genova  respingevano la domanda, sull’assunto che ““l’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942 comporta che il contratto di compravendita con il quale il costruttore-venditore si riservi la proprietà esclusiva di aree destinate al parcheggio, è affetto da nullità parziale, con automatica sostituzione della clausola nulla ed integrazione del contratto, ex art. 1419, secondo comma, cod. civ..
La Corte di Genova ha quindi affermato che la delibera assembleare si è limitata ad assegnare i posti auto, senza in alcun modo qualificare la natura del diritto in contestazione. Ad ogni modo – ha sottolineato la Corte distrettuale – la giurisprudenza di legittimità individua tale diritto come reale ed assoluto, avente ad oggetto l’utilizzo delle aree destinate a parcheggio.
Infine, la Corte territoriale ha escluso la retroattività del principio stabilito dall’art. 12, comma 9, della legge n. 246 del 2005, che consente di trasferire gli spazi per parcheggio in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari.”

Tesi totalmente bocciata dal giudice di legittimità che cassa la sentenza, dichiarando nulla la delibera impugnata ben quindici anni fa: “Occorre premettere che nel fabbricato condominiale di nuova costruzione ed anche nelle relative aree di pertinenza, ove il godimento dello spazio per parcheggio – nella misura fissata dalla norma imperativa ed inderogabile di cui all’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall’art.18 della legge n. 765 del 1967 – non sia assicurato in favore del singolo condomino, essendovi un titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio stesso, si ha nullità di tale contratto, nella parte in cui sia omessa tale inderogabile destinazione, con integrazione ope legis del contratto tramite riconoscimento di un diritto reale di uso di detto spazio in favore del condomino, nella misura corrispondente ai parametri della disciplina normativa applicabile per l’epoca dell’edificazione (Cass., Sez. II, 27 dicembre 2011, n. 28950).

Questa Corte (Cass., Sez. U., 17 dicembre 1984, n. 6602) ha altresì precisato che la citata normativa, nel disporre che nelle nuove costruzioni debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi, ha istituito inderogabilmente un vincolo pertinenziale permanente di natura pubblicistica tra tali aree e il fabbricato, con riflessi anche di carattere civilistico, consistenti nella possibilità di far dichiarare la nullità parziale, ai sensi degli artt. 1418 e 1419 cod. civ., dei contratti di alienazione delle singole unità immobiliari dell’edificio, in quanto escludenti dal trasferimento il diritto di proprietà o di uso del parcheggio, salva la corresponsione all’alienante del relativo compenso, in quanto non compreso nei prezzi delle vendite.

Si tratta di distinti diritti, spettanti non alla collettività condominiale, ma separatamente a ognuno dei singoli compratori delle varie porzioni dello stabile, in base ai rispettivi titoli di acquisto (Cass., Sez. II, 11 febbraio 2009, n. 3393).

Erroneamente pertanto – in fattispecie nella quale il costruttore P. ha venduto gli appartamenti e i box siti nel fabbricato (fatto salvo un appartamento ed un box che sono rimasti di sua proprietà), riservandosi la proprietà esclusiva dell’area residuata dalla costruzione all’esterno dei muri perimetrali del fabbricato – la Corte d’appello ha ritenuto che l’assemblea condominiale, con l’impugnata delibera, avesse titolo a disciplinare il godimento di un’area non condominiale, assegnando direttamente i posti macchina insistenti sulla detta area esterna di proprietà dell’originario costruttore ai condomini che non avevano acquistato un box nel caseggiato dove si trova il loro alloggio, e ciò tra l’altro senza che, su iniziativa degli acquirenti degli immobili (in ipotesi) illegittimamente privati del diritto all’uso dell’area pertinente a parcheggio e con onere della prova a loro carico, sia stata accertata giudizialmente la nullità dei negozi da loro stipulati, nella parte in cui è stata omessa tale inderogabile destinazione, con conseguente loro integrazione ope legis.

Infatti, l’assemblea di condominio non può adottare delibere che, nel predeterminare ed assegnare le aree destinate a parcheggio delle automobili, incidano sui diritti individuali di proprietà esclusiva di uno dei condomini, dovendosi tali delibere qualificare nulle (cfr., da ultimo, Cass., Sez. II, 31 agosto 2017, n. 20612).”

© massimo ginesi 9 aprile 2018 

nel condominio minimo sono ammesse solo delibere unanimi.

La Cassazione ( Cass.civ. sez. II 7 luglio 2017, n. 16901 rel. Giusti)  ribadisce un  principio consolidato: ove il condominio sia composto da due soli partecipanti si applicano le norme sul condominio ma le decisioni – non potendo operare per ovvie ragioni numeriche il disposto dell’art. 1136 cod.civ. – possono essere  assunte solo con il voto  favorevole di entrambi i condomini.

“nel condominio c.d. minimo (formato, cioè, da due partecipanti con diritti di comproprietà paritari sui beni comuni), le regole codicistiche sul funzionamento dell’assemblea si applicano allorché quest’ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione “unanime”, tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari;

ove, invece, non si raggiunga l’unanimità, o perché l’assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché, come nella specie, alla riunione benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l’altro resti assente, è necessario adire l’autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 cod. civ., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass., Sez. II, 2 marzo 2017, n. 5329).”

© massimo ginesi 12 luglio 2017

compossesso e usucapione: la cassazione ribadisce il proprio orientamento.

Il fenomeno acquisitivo delineato dagli art. 1158 e s.s. cod.civ., denominato usucapione,  prevede che un soggetto che usi di fatto un bene come se fosse proprio e per un certo periodo di tempo, previsto dalla legge,  ne diventi proprietario.

LA situazione di fatto corrispondete all’esercizio di un diritto è denominata possesso dal codice civile , ed è il fondamento – insieme al protrarsi di tale situazione per un tempo apprezzabile, dell’usucapione.

LA Suprema Corte ha sempre sottolineato che la situazione di fatto deve essere oggetto di valutazione decisamente rigorosa laddove l’usucapione riguardi beni condominiali, poiché il potere di fatto esercitato dal singolo condomino sul bene comune può non avere il carattere della assolutezza e individualità, ma essere semplice manifestazione di un esercizio riconducibile all’art. 1102 cod.civ.

Il condomino che pretenda di aver usucapito un bene comune dovrà dunque dimostrare di aver compiuto atti idonei ad escludere il compossesso degli altri condomini.

L’orientamento è confermato da una recente  pronuncia (Cass.civ. sez. II  4 luglio 2017 n. 16414 rel. Giusti): “La Corte territoriale si è attenuta al principio di diritto, costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell’interessato attraverso un’attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che in-vochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass., Sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478; Cass., Sez. II, 20 maggio 2008, n. 12775; Cass., Sez. II, 2 settembre 2016, n. 17512).”

© massimo ginesi 11 luglio 2017 

parcheggi: se il costruttore non li realizza i condomini possono solo agire per il risarcimento.

La materia dei parcheggi pertinenziali, a fronte della legislazione vincolistica che si è succeduta nel corso degli ultimi 50anni, ha dato luogo a notevole contenzioso, con una coacervo interpretativo di non facile lettura.

La corte di legittimità torna sul tema ( Corte di Cassazione, sez. II Civile,  25 maggio 2017, n. 13210 Rel. Giusti), chiarendo  che – ove il costruttore non abbia materialmente realizzato le aree che a la legislazione vincolistica impone, a coloro compete un mero diritto risarcitorio ma non possono agire per richiedere il ripristino degli spazi mancanti.

I fatti e il giudizio di merito: “Con atto di citazione del 28 maggio 1984, la società CI-DI Edilizia Immobiliare a r.l. conveniva in giudizio Bo.Gi. , G.G. , L.S. , D.M. , B.T. , Ca.Ri. , Ca.Em. , D.P.F. , V.L. , D.M.M. e Ce.Br. , tutti condomini dello stabile in (omissis) , nonché il Condominio del medesimo edificio, per sentirli condannare all’immediato rilascio della spazio adibito a parcheggio antistante il fabbricato, nonché al pagamento di una indennità di occupazione, dichiarando che i convenuti non hanno diritto di comproprietà, di servitù, di parcheggio o comunque di uso dello spazio antistante il fabbricato. L’attrice chiedeva in subordine di condannare il Condominio al pagamento del valore dell’area sulla base delle spese sostenute per attrezzarla, da determinare a mezzo di consulenza.

I convenuti resistevano in giudizio, chiedendo il rigetto delle pretese avversarie e formulando domanda riconvenzionale affinché fossero riconosciuti i parcheggi vincolati ai sensi della 6 agosto 1967, n. 765, poiché realizzati in forza di licenza edilizia rilasciata dopo il 1 settembre 1967, come richiesto dall’art. 18 della citata legge.

All’esito del giudizio, il Tribunale di Roma rese la sentenza n. 10488 dell’8 agosto 1988, con cui condannò i convenuti al rilascio dell’area e al pagamento per ciascuno di Lire due milioni, con gli interessi dalla domanda. Contestualmente dichiarò il B. comproprietario del detto terreno con diritto ad utilizzarla a posto auto, poiché soltanto questi aveva dimostrato in giudizio di avere acquistato l’appartamento con le pertinenze prima del 4 giugno 1973, data di vendita dell’area dalla costruttrice a Cu.Ul. .

La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 1004 del 1995, rimetteva la causa al Tribunale di Roma quale giudice di primo grado, stante la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di Cu.Ul. .

Con sentenza in data 16 giugno 2003, il Tribunale di Roma, a parziale modifica della precedente sentenza, dichiarava l’area in questione, di proprietà della CI.DI., soggetta al vincolo legale di destinazione a parcheggio in favore del G. e degli altri litisconsorti, determinando in dodici metri quadri per ciascuno di essi la superficie assoggettata al diritto d’uso, condannando i predetti, con esclusione di B.T. , al pagamento del corrispettivo per il predetto diritto di uso da liquidarsi in separato giudizio, rigettando le ulteriori domande e confermando le altre statuizioni della precedente sentenza n. 10488 del 1988 del medesimo Tribunale.”

La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 23 novembre 2011, in parziale accoglimento dell’appello principale ed in riforma, sul punto, della sentenza gravata, ha condannato il G. , il L. , il D. , il D.P. , il B. , la Ca. , la Ce. , il Bo. , la Ca. , il V. e il D.M. a rilasciare in favore dell’appellante il suolo edificatorio per cui è giudizio, ha rigettato l’appello incidentale, ha confermato nel resto la pronuncia appellata e compensato integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

La Corte d’appello ha rilevato che, secondo le risultanze dell’indagine peritale, il provvedimento concessorio prevedeva la localizzazione degli spazi destinati a parcheggio al piano ingresso dell’edificio, parte in corrispondenza del fabbricato, in una sorta di piano pilotis, e parte in due zone laterali sulle testate dell’edificio.
La Corte distrettuale ha poi evidenziato che il fabbricato realizzato risultava diverso da quello rappresentato negli elaborati relativi alla concessione e non presentava aree di sosta veicolare al piano ingresso, e ciò per l’intervento di modifiche in corso d’opera, in assenza, peraltro, di concessioni in variante.
La Corte di Roma ha quindi ricordato che, in tema di disciplina legale delle aree destinate a parcheggio, interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, ove lo spazio da adibire a parcheggio, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a tal fine in corso di costruzione e sia stato impiegato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura (diversamente dall’ipotesi in cui allo spazio realizzato conformemente al progetto sia stata data una diversa destinazione in sede di vendita), se possono ravvisarsi a carico del costruttore responsabilità di vario genere, non possono, per contro, individuarsi responsabilità d’ordine privatistico né oneri di ripristino dello status quo ante. Infatti, in tale caso, il bene soggetto ex lege al vincolo pertinenziale (il parcheggio) non è mai venuto ad esistenza e il contratto di trasferimento delle unità immobiliari non ha avuto ad oggetto alcuna porzione di esso né può farsi ricorso alla tutela ripristinatoria di un rapporto giuridico mai venuto ad esistenza, ma semmai solo ad una tutela risarcitoria, in ragione dell’ampio campo applicativo proprio degli artt. 871 e 872 cod. civ., in favore degli acquirenti delle singole unità immobiliari.
Per questo, la Corte d’appello ha giudicato errata la sentenza gravata nella parte in cui ha, diversamente, ritenuto di poter individuare l’area asservita sulla scorta di unilaterali manifestazioni di volontà della società costruttrice espresse per il rilascio di ulteriori provvedimenti concessori aventi ad oggetto opere diverse dall’edificio cui l’area avrebbe dovuto essere asservita.”

La Corte di legittimità conferma integralmente i principi di diritto espresso dalla Corte di Appello: “La Corte d’appello si è correttamente attenuta al principio secondo cui, in tema di spazi riservati a parcheggio nei fabbricati di nuova costruzione, il vincolo previsto al riguardo dall’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della legge n. 765 del 1967, è subordinato alla condizione che l’area scoperta esista e non sia stata adibita a un uso incompatibile con la sua destinazione: qualora lo spazio, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a parcheggio in corso di costruzione e sia stato invece utilizzato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura, non può farsi ricorso alla tutela ripristinatoria di un rapporto giuridico mai sorto, ma semmai a quella risarcitoria, atteso che il contratto di trasferimento delle unità immobiliari non ha avuto ad oggetto alcuna porzione dello stesso (Cass., Sez. II, 22 febbraio 2006, n. 3961; Cass., Sez. II, 7 maggio 2008, n. 11202).

I ricorrenti contestano l’applicazione di questo principio, negando che nella licenza del 1968 i parcheggi fossero al piano pilotis e sostenendo che il provvedimento abilitativo era subordinato alla realizzazione dei parcheggi.
Ma si tratta di deduzione generica, che non tiene conto della circostanza che il riconoscimento giudiziale del diritto reale di uso degli spazi destinati a parcheggi può avere ad oggetto soltanto le aree che siano destinate allo scopo di cui si tratta nei provvedimenti abilitativi all’edificazione, senza possibilità di ubicazioni alternative (Cass., Sez. Il, 11 febbraio 2009, n. 3393).
E, sotto questo profilo, il motivo non spiega come il terreno esterno al lotto ove è avvenuta l’edificazione, acquistato da parte dell’impresa costruttrice nell’agosto del 1970, avesse una destinazione riservata a parcheggio già secondo la licenza del 1968: non spiega, cioè, come la suddetta area risultasse vincolata in base al progetto definitivo relativo alla licenza di costruzione del 1968.
D’altra parte, la Corte d’appello ha escluso, con congruo e motivato apprezzamento delle risultanze di causa, privo di mende logiche e giuridiche, che l’asservimento di tale area possa derivare da unilaterali dichiarazioni del costruttore rivolte al rilascio di ulteriori provvedimenti abilitativi aventi ad oggetto nuove opere, diverse dall’edificio cui l’area avrebbe dovuto essere funzionalmente destinata; e ciò dopo avere accertato, in punto di fatto, sulla scorta dell’indagine compiuta dal tecnico incaricato, che il progetto originario per la costruzione dell’edificio ed il provvedimento concessorio prevedevano la localizzazione degli spazi destinati a parcheggio all’interno dello stesso lotto edificando (in una sorta di piano pilotis e, in parte, in due zone laterali sulle testate dell’edificio).”

© massimo ginesi 29 maggio 2017

ciascun condomino può agire a tutela delle distanze rispetto al fabbricato condominiale.

Lo afferma, recependo un consolidato orientamento, Corte di Cassazione, sez. II Civile,  26 aprile 2017, n. 10304, rel. Giusti con una pronuncia in cui chiarisce anche che la cotruzione in aderenza no  è ammessa ove non sia espressamente prevista dai regolamenti locali.

La vicenda nasce come una delle classiche liti di vicinato:” PI.Io. , quale procuratrice speciale di PI.Ma.Lu., Z.A., M.G. , D.F.M. , D.F.B. e Pa.An. , premesso di essere proprietari degli appartamenti costituenti l’edificio di via (omissis), convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio, P.E., per sentirlo condannare all’arretramento del terrazzo, costituente copertura dei locali sottostanti, realizzato a ridosso della parte condominiale in violazione della normativa in tema di distanze, oltre al risarcimento del danno.
Si costituiva il convenuto, resistendo e spiegando domanda di condanna degli attori al risarcimento dei danni per lite temeraria.”

Il Tribunale respingeva la domanda degli attori, condannati anche ex art. 96 c.p.c., pronuncia ribaltata in secondo grado dalla Corte di Appello di Roma, che condannava il convenuto all’arretramento della costruzione.

Giunto il giudizio in sede di legittimità, la Corte afferma, quanto alla legittimazione e alla inesistenza idi litisconsortio:

Ciascun condomino è legittimato a ricorrere per la violazione delle distanze fra costruzioni con riguardo all’edificio condominiale, senza che sia necessaria la integrazione del contraddittorio con la chiamata in causa degli altri condomini, trattandosi di azione a tutela del diritto di proprietà dalla quale nessun nocumento può derivare agli altri con titolari (Cass., Sez. II, 11 marzo 1992, n. 2940; Cass., Sez. II, 22 maggio 1995, n. 5612).”

Quanto alle costruzioni in aderenza: “La decisione impugnata è corretta, avendo fatta puntuale applicazione del condiviso principio di diritto, costantemente affermato da questa Corte (Cass., Sez. II, 9 settembre 1998, n. 8945; Cass., Sez. II, 12 settembre 2000, n. 12045), secondo cui, quando, come nel caso in esame, il piano particolareggiato esecutivo prescrive le distanze dal confine, non è consentita – salvo concreta, diversa previsione della norma regolamentare – la costruzione in aderenza, perché dette norme regolamentari sono integrative del codice civile per tutta la loro disciplina, tal che la norma di cui all’art. 873 cod. civ. cede alla norma regolamentare, che, prescrivendo l’osservanza, per le costruzioni, di una determinata distanza dal confine, implica il divieto di costruire in appoggio od in aderenza, in deroga alla disciplina del codice civile.”

Osserva ancora la Corte che la circostanza dirimente in ordine al divieto di costruire in aderenza è che il piano locale preveda una distanza minima dal confine: “Non viene in gioco nella specie il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, a composizione di contrasto, con la sentenza 19 maggio 2016, n. 10318, perché nella presente fattispecie il regolamento edilizio locale non si limita a stabilire un distacco minimo fra le costruzioni maggiore rispetto a quello contemplato dall’art. 873 cod. civ., ma prescrive proprio una distanza minima delle costruzioni dal confine.”

Sottolinea infine che tali norme sono inderogabili, come è ovvio, in via negoziale, rimanendo irrilevante che  sia stata comunque rilasciata concessione edilizia: “la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui, in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati, e tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l’avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Cass., Sez. II, 23 aprile 2010, n. 9751).”

© massimo ginesi 2 maggio 2017

titolare diritto reale di abitazione: quali oneri condominiali?

Il titolare del diritto reale di abitazione risponde degli oneri condominiali alla stregua dell’usufruttuario, sarà dunque tenuto a corrispondere le sole spese ordinarie, competendo al proprietario quelle di natura straordinaria.

Lo ha stabilito la Cass Civ. II sez.  19 aprile 2017, n. 9920 Rel. Giusti: “Qualora un appartamento sito in condominio sia oggetto di diritto reale di abitazione, il titolare del diritto di abitazione è tenuto al pagamento delle spese di amministrazione e di manutenzione ordinaria del condominio, applicandosi, in forza dell’art. 1026 cod. civ., le disposizioni dettate in tema di usufrutto dagli artt. 1004 e 1005 cod. civ., che si riflettono anche, come confermato dall’art. 67 disp. att. cod. civ., sul pagamento degli oneri condominiali, costituenti un’obbligazione propter rem (cfr. Cass., Sez. II, 16 febbraio 2012, n. 2236; Cass., Sez. II, 28 agosto 2008, n. 21774).”

La pronuncia attiene a rapporti nati anteriormente alla L. 220/2012, poiché oggi la responsabilità fra usufruttuario e proprietario – a mente dell’art. 67 disp.att. cod.civ. – ha natura solidale e quindi il Condominio ben può agire indifferentemente contro l’uno o l’altro.

La pronuncia risulta assai interessante per gli aspetti processuali: la controversia sorge come opposizione a decreto ingiuntivo da parte del titolare del diritto di abitazione, il quale lamenta che con decreto ingiuntivo il condominio abbia richiesto anche il pagamento di spese straordinarie. Il condominio, costituendosi nella opposizione, limita la domanda alle sole spese ordinarie: La Corte ha statuito che tale condotta non costituisce domanda nuova ma solo lecito mutamento di quella già proposta in via monitoria.

si ha mutatio libelli quando la parte immuti l’oggetto della pretesa ovvero quando introduca nel processo, attraverso la modificazione dei fatti giuridici posti a fondamento dell’azione, un tema di indagine e di decisione completamente nuovo, fondato su presupposti totalmente diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo e tale da disorientare la difesa della controparte e da alterare il regolare svolgimento del contraddittorio (Cass., Sez. V, 20 luglio 2012, n. 12621; Cass., Sez. II, 28 gennaio 2015, n. 1585).
Poiché in relazione al pagamento degli oneri condominiali la qualità di debitore dipende dalla titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa e anche le spese dovute dall’habitator si configurano come obbligazioni propter rem (cfr. Cass., Sez. II, 27 ottobre 2006, n. 23291), costituisce mera emendatio libelli, consentita, la richiesta, precisata da parte del condominio opposto in sede di comparsa di costituzione e risposta, di un importo minore rispetto a quello ingiunto, corrispondente alle sole spese condominiali di manutenzione e di amministrazione ordinaria, con esclusione di quelle di straordinaria amministrazione, in ragione della titolarità, in capo all’obbligato, non del diritto di proprietà, come esposto nel ricorso per decreto ingiuntivo, ma del diritto reale di abitazione sulla stessa unità immobiliare, il quale rappresenta, rispetto al diritto di proprietà, una situazione derivata minore.”

© massimo ginesi 26 aprile 2017

Trasformazione di cantina in garage da parte del singolo: è consentita se non lede statica e decoro dell’edificio.

Un condomino procede alla trasformazione della propria cantina in autorimessa e, a tale scopo, trasforma anche una finestra che si apre sul muro perimetrale in varco di accesso al  garage appena creato.

La vicenda giunge alla Suprema Corte, che con recente sentenza (Cass.Civ. II sez.  21 febbraio 2017, n. 4437 Rel. Giusti), ha occasione di riaffermare principi ormai consolidati.

Due condomini non avevano gradito  l’intervento sul muro perimetrale e avevano fatto ricorso al Tribunale di Catania: “Premesso di essere condomini dello stabile sito in (omissis) , gli attori deducevano: che lo S. aveva provveduto alla trasformazione in autorimessa di un vano di sua proprietà, sito al piano terra dell’edificio condominiale; che tale innovazione era stata eseguita mediante l’allargamento di una finestra prospiciente la via (…), trasformata in porta carraia di accesso al garage; che le opere eseguite avevano determinato il parziale abbattimento del muro condominiale, pregiudicando la stabilità e la sicurezza dell’edificio e ledendo il decoro architettonico dello stabile. Lamentavano, inoltre, l’illegittima appropriazione, da parte dello S. , di parte del muro perimetrale. Esponendo di aver promosso ricorso ex art. 1172 cod. civ., accolto in sede di reclamo, chiedevano la condanna del convenuto a ripristinare la situazione preesistente, nonché al risarcimento dei danni subiti.”

Il Tribunale ritiene fondata la richiesta con riferimento alla lesione del decoro architettonico e accoglie la domanda degli attori, ma la sentenza è completamente ribaltata in appello: merita leggere compiutamente le argomentazioni del Giudice di secondo grado, poiché costituiscono ormai un orientamento stabile che tuttavia, ancora con troppa frequenza appare ignorato dai condomini.

 “Con sentenza depositata il 16 maggio 2013, la Corte d’appello di Catania, in accoglimento dell’appello proposto dallo S. , in parziale riforma della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda formulata dai G. di condanna del convenuto ad eliminare le opere abusivamente realizzate obbligandolo a ripristinare la situazione preesistente all’effettuazione delle opere stesse, e li ha condannati a rifondere allo S. le spese di entrambi i gradi del giudizio.
La Corte territoriale ha rilevato che, pur ampliata l’originaria finestra (della larghezza di ml. 1,80) in passo carraio (della larghezza di ml. 2,80), leggermente più ampio rispetto al portone recante civico 193, e pur apparentemente modificata la sequenza “finestra-portone-finestra”, non sussiste alcuna significativa alterazione del decoro architettonico. La Corte territoriale ha evidenziato che la nuova apertura è stata munita di una porta con caratteristiche del tutto simili al vicino portone (con bugne, riquadri e colore del tutto simili) che, all’evidenza, richiama sotto il profilo estetico; che nessun deprezzamento può ritenersi sussistente, con riferimento all’intero fabbricato e alle singole unità immobiliari, avuto riguardo all’aspetto architettonico complessivo dello stabile (edificato nel 1947, e dotato di non particolare pregio) e al contesto nel quale esso è inserito (presenza di altri palazzi costruiti in aderenza, secondo lo stile di quello oggetto di causa, sede stradale di ordinarie dimensioni, zona estremamente appetibile per la strategica posizione centrale nella città di Catania), sicché non è dato notare in maniera significativa l’alterazione eseguita, e comunque essa non provoca un risultato esteticamente sgradevole, apparendo anzi immutato lo stile architettonico della facciata.
Infine, la Corte di Catania ha rilevato come tale alterazione si accompagni ad una utilità estremamente rilevante per lo S. , costituita dalla possibilità di usufruire di un garage in una zona trafficatissima, caratterizzata notoriamente da enormi difficoltà di parcheggio.”

Da sottolineare come una modesta modificazione delle linee complessive del prospetto sia ammissibile, laddove da ciò derivi  una rilevante utilità per chi ha posto in essere l’intervento, a fronte della modestissima compressione del diritto degli altri condomini (criterio che la Suprema Corte ha spesso espresso in tema di installazione di ascensore da parte del singolo, ove l’occupazione dell’androne e della tromba delle scale comuni è compensata dall’utilità che l’impianto apporta al singolo e – in prospettiva ex art. 1121 cod.civ. – all’intero fabbricato).

I condomini non si danno per vinti e ricorrono in cassazione, per veder accertata l’illegittimità dell’intervento sulla facciata. LA Corte, con motivazione puntuale, che costituisce ottima sintesi dei prinpci in tema di uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. ritiene il motivo di doglianza infondato:

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., Sez. II, 25 settembre 1991, n. 10008; Cass., Sez. II, 26 gennaio 1987, n. 703; Cass., Sez. II, 27 ottobre 2003, n. 16097; Cass., Sez. VI-2, 14 novembre 2014, n. 24295), in tema di condominio, il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro – ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi – e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale.

Si è anche precisato (Cass., Sez. II, 29 aprile 1994, n. 4155; Cass., Sez. II, 26 marzo 2002, n. 4314) che l’apertura di varchi e l’installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell’edificio condominiale, eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva, non integrano, di massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell’art. 1102, primo comma cod. civ., e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non già alla necessità di ovviare ad una interclusione dell’unità immobiliare al cui servizio il detto accesso è stato creato, ma all’intento di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo proprietario. Negli edifici in condominio, i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad esse corrispondenti, sempre che l’esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 cod. civ., non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato.
A tale principio si è correttamente attenuta la Corte di merito.
Invero, la Corte di Catania – nel giungere alla conclusione che l’allargamento dell’apertura da parte dello S. al fine di trasformare la finestra in accesso carraio ha semplicemente comportato un uso più intenso della cosa comune, come tale consentito dall’art. 1102 cod. civ., senza con questo alterare il rapporto di equilibrio con gli altri comproprietari – ha per un verso rilevato che lo S. era l’unico fra i condomini a poter usufruire, per le proprie esigenze, del varco in questione, siccome proprietario esclusivo dell’unità immobiliare comunicante con l’esterno; per l’altro ha sottolineato che il realizzato allargamento ha lasciato immutato lo stile architettonico della facciata, non comportando alcuna significativa alterazione del relativo decoro, e ciò considerando in concreto le linee e le strutture che connotano il fabbricato stesso.
La Corte territoriale ha compiuto un congruo accertamento di fatto nel quadro dei principi dettati da questa Corte regolatrice.”

Anche i timori circa la statica risultano infondati: “I ricorrenti finiscono con il sollecitare un diverso esame delle risultanze di causa e un differente apprezzamento di merito, il che fuoriesce dai limiti del sindacato devoluto alla Corte di cassazione.
Essi muovono dal presupposto che nella specie vi sia stato “l’abbattimento di un muro portante” dell’edificio, ma non considerano che nella specie si è avuta soltanto una riduzione del “maschio murario” (pilatro) in corrispondenza dell’allargamento della precedente apertura.
E prospettano l’esistenza di un pregiudizio attuale alla stabilità e alla sicurezza del fabbricato, ma non tengono conto della circostanza che già il Tribunale di Catania, definendo il primo grado di giudizio con la sentenza n. 4671 del 2009, ha affermato che il pregiudizio sismico – pur inizialmente sussistente per effetto dell’intervento effettuato dallo S. – era stato eliminato a seguito dell’effettuazione, da parte dello stesso convenuto, delle opere disposte in sede di reclamo cautelare; né dal testo del ricorso si ricava come la questione dell’attualità del rischio per la stabilità del fabbricato (pur dopo che lo S. aveva realizzato, ottemperando all’ordinanza resa in rese di reclamo cautelare, tutti gli interventi diretti all’eliminazione del pregiudizio sismico) sia stata riproposta dai G. in appello.”

osserva infine la Corte che “nel giudizio di merito promosso una volta esaurito il procedimento cautelare, il Tribunale di Catania ha escluso il denunciato pregiudizio attuale alla stabilità dell’edificio, avendo dato atto della eliminazione della situazione di pericolo a seguito della effettuazione delle opere disposte in sede cautelare. Va ribadito che dal testo del ricorso per cassazione non risulta come – una volta che lo S. ha provveduto, mediante l’esecuzione degli opportuni interventi, a rimuovere l’originaria situazione di non conformità alle prescrizioni della normativa antisismica – la questione del pregiudizio attuale alla stabilità sia stata riproposta in appello dai G. “

LA vicenda ha anche avuto un risvolto non lieve sotto il profilo delle spese poiché la Corte ha  rilevato che, seppur il Tribunale di Catania avesse in sede cautelare riconosciuto al sussistenza di pregiudizio statico e dettato i rimedi  per ovviarvi, il condomino che stava procedendo aveva adempiuto a quanto previsto dal giudice mentre le fasi successive di merito lo avevano visto vittorioso;  l’esito complessivo della controversia non vedeva dunque un soccombente principale: per tale ragione il giudice di legittimità ha disposto integrale compensazione delle spese di tutti gradi di giudizio.

Quando litigare a lungo davvero non ha un senso…

© massimo ginesi 25 febbraio 2017 

rumori in condominio: un tema caldo nelle pronunce recentissime della cassazione.

La Cassazione affronta, in breve lasso di tempo, il tema delle immissioni rumorose in diverse pronunce, dettando  principi che è opportuno conoscere per azionare correttamente le tutele contro attività disturbanti.

  1. tutela pubblica e privata non coincidono –   la Suprema Corte (Cass. civ.  VI sez.   18 gennaio 2017, n. 1069 – Rel. Scalisi) afferma  che tutto ciò che supera i limiti pubblici del rumore deve ritenersi civilisticamente illecito a mente dell’art. 844 cod.civ., ma non tutto ciò che rientra in quei limiti è necessariamente consentito anche sotto il profilo nella norma codicistica, che invece richiede singola indagine di fatto da svolgere di volta in volta da parte del giudice di merito: “Va qui premesso che sussistono due livelli di tutela di fronte all’immissione rumorosa, da una parte il regime amministrativo deputato alla P.A. (disciplinato dalla Legge n. 447 del 1995, e dal D.P.C.M. del 1991 con successive modifiche ed integrazioni) e dall’altro vigono i principi civilistici che regolano i rapporti tra privati riconducibili nell’ambito del codice agli articoli 844 e 2043 c.c., dotati di fondamento costituzionale e comunitario.
    Tuttavia, come ha avuto modo di affermare questa Corte in altra occasione (cfr. sent. n. 1151del 2003; n. 5697 del 2001), il superamento dei livelli massimi di tollerabilità determinati da leggi e regolamenti integrano senz’altro gli estremi di un illecito anche se l’eventuale non superamento non può considerarsi senz’altro lecito, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità essere effettuato alla stregua dei principi stabiliti dall’art. 844 cod. civ..
    Tale principio, nella sua prima parte, si basa sull’evidente considerazione che, se le emissioni acustiche superano, la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela di interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione le stesse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino, ancor più esposto degli altri, in ragione della vicinanza, ai loro effetti dannosi, devono per ciò solo considerarsi intollerabili, ai sensi dell’art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico. Tanto non è stato considerato dal giudice di merito, che, pur avendo rilevato che il livello di rumorosità, di cui si dice, in alcuni spazi temporali (ore notturne, a finestre aperte e con uso dello scarico del WC), superava il valore previsto dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 Marzo 1991, quale livello massimo, tuttavia, ha ritenuto che quell’inquinamento acustico fosse “modestissimo” e non superasse la normale tollerabilità.”
  2. il danno da rumore non è in re ipsa – una volta accertato che sussistono immissioni illecite ex art. 844 cod.civ. non consegue automaticamente un diritto al risarcimento del danno nei confronti della parte che le lamenta. Incombe infatti a costei l’onere di provarne la sussistenza e l’ammontare. Lo afferma in maniera ellittica la Suprema Corte in una recentissima pronuncia (Cass. civ. II sez. 18 gennaio 2017 n. 1363 rel. Giusti ), che in realtà risolve in rito l’impugnazione: “Non sussiste la  lamentata contraddittorietà, perché ben  può il giudice del merito, senza con ciò incorrere in  alcun vizio logico, rigettare la proposta domanda ex articolo 844 codice civile, per la cospirante  convergenza di una duplice ragione giustificativa, sia perché i rumori e le missioni non raggiungono il limite della intollerabilita, sia perché manca la prova sull’esistenza del patito danno“.
  3. niente risarcimento se il danno è ascrivibile allo stato ansioso del danneggiato: pur sussistendo immissioni illecite dall’appartamento del custode, che superano la normale tollerabilità ex art. 844 cod.civ. , ed essendo pertanto tenuto il condominio a fare cessare mediante insonorizzazione, non può essere riconosciuto risarcimento a chi quelle immissioni ha subito se lo stato ansioso in cui versa è ascrivibile ad una sua patologia ansiosa piuttosto che all’evento rumoroso, poiché in tal caso viene meno il nesso causale fra l’evento e il danno lamentato. Così ha statuito Cass. civ. II sez. 12 gennaio 2017 n. 667 rel. Giusti : “La corte di Milano ha ritenuto che dalle risultanze processuali emerge che la X e il Y pur non essendo soggetti  psicotici affetti da altre malattie diagnosticabili secondo la nosografia psichiatrica, sono individui dalla personalità disturbata, con difficoltà nelle relazioni interpersonali che sono la causa di una reazione abnorme a modeste sollecitazioni disturbanti, quali lo scorrere dell’acqua dei sanitari o le immissioni acustiche provenienti dal televisore delle persone presenti nell’appartamento adiacente, e non certo l’effetto di questi fattori ambientali, fermo restando che ove le imimissioni rumorose fossero state prodotte attraverso comportamenti emulativi,  la tutela risarcitoria avrebbe dovuto essere evocata non contro l’incolpevole condominio ma contro gli autori delle specifiche condotte illecite disturbanti. ” La sentenza, per l’ampia disamina della decisione di merito impugnata e le argomentazioni svolte, merita integrale lettura.

© massimo ginesi 20 gennaio 2017

è legittima l’istituzione di fondi cassa deliberata dalla assemblea

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Lo ha stabilito la Suprema Corte con sentenza del 11 agosto 2016 n. 17035, (rel. Giusti) affermando che:

“Questa Corte ha già statuito che appartiene al potere di­screzionale dell’assemblea e non pregiudica né l’interesse dei condomini alla corretta gestione del condominio, né il loro diritto patrimoniale all’accredito della proporzionale somma – perché compensata dal corrispondente minor addebito, in anti­cipo o a conguaglio – l’istituzione di un fondo-cassa per le spese di ordinaria manutenzione e conservazione dei beni comuni (Sez. II, 28 agosto 1997, n. 8167).

Si è anche precisato che l’onere per la costituzione di un fondo speciale per le spese di manutenzione straordinaria va ripartito tra i condomini in base ai criteri fissati nell’art. 1123 cod. civ. se per la realizzazione di interventi non anco­ra specificati è possibile ripartire provvisoriamente la somma destinata alla costituzione del fondo in base ai millesimi di proprietà (Sez. II, 29 gennaio 1974, n. 244)”

La sentenza, per le argomentazioni difensive delle parti e la disamina effettuata dalla corte, merita lettura integrale.

© massimo ginesi 17 agosto 2016