Un condominio propone diversi esposti alla Asl e ai Nas per segnalare le immissioni provenienti da una pizzeria, nei cui confronti la Pubblica Amministrazione adotta provvedimenti interdettivi dell’attività sino a che non siano installate apposite canne fumarie.
Nella successiva causa civile, con la quale il condominio lamenta le immissioni e la contrarietà dell’attività esercitata nel fondo al regolamento di condominio, i titolari della pizzeria chiedono il risarcimento del danno al Condominio per il periodo di chiusura subito in conseguenza degli esposti presentati.
La Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI-2 13 novembre 2020 25679 rel. Scarpa) evidenzia che l’infondatezza dell’esposto e la sua calunniosità sono idonei a fondare una richiesta di risarcimento ex art 2043 c.c., mentre ove all’esposto sia conseguito un provvedimento dell’autorità, si interrompe il nesso causale fra condotta del privato e danno lamentato, poiché la conseguenza pregiudizievole diventa diretta conseguenza dei poteri della P.A.
“La Corte d’appello di Salerno ha affermato che la chiusura del locale commerciale dove la s.a.s. Lo sfizio svolgeva l’attività di pizzeria e rosticceria, e le correlate perdite patrimoniali occorse, non fossero causalmente riferibili ad un comportamento non iure e contra ius, e perciò contrario al principio del neminem laedere, di cui all’art. 2043 c.c., imputabile al Condominio (omissis). Nella sostanza, l’attività degli organi di gestione condominiale si era sostanziata nella presentazione di esposti amministrativi all’amministrazione comunale ed ai NAS e nel contenzioso giudiziario davanti al Tribunale di Nocera Inferiore, sul presupposto dell’esercizio del potere di curare l’osservanza del regolamento di condominio (e, in particolare, del divieto posto dall’art. 28, nella lettura che ne dava il Condominio, condivisa anche dal giudice di primo grado), nonché di tutelare l’edificio dalle immissioni di calore, odori e rumori.
Secondo la sentenza impugnata, l’impossibilità della prosecuzione dell’attività commerciale era piuttosto da riferire al provvedimento sindacale che aveva inibito l’utilizzo della friggitrice fino all’installazione di un’apposita canna fumaria.
È conforme all’orientamento di questa Corte la conclusione secondo cui la presentazione di una denuncia, come di un esposto, all’autorità giudiziaria o amministrativa, seppur rivelatasi infondata, non può essere fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante o dell’esponente, ai sensi dell’art. 2043 c.c., se non quando possano considerarsi calunniosi. Al di fuori, infatti di tale ipotesi, l’attività pubblicistica dell’organo titolare della funzione giurisdizionale o della potestà provvedimentale si sovrappone in ogni caso all’iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato (arg. da Cass. Sez. 3, 13/01/2005, n. 560; Cass. Sez. 3, 30/11/2018, n. 30988; Cass. Sez. 3, 10/06/2016, n. 11898). D’altro canto, più in generale, in tema di illecito civile, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti: il primo è volto ad identificare il nesso di causalità materiale o “di fatto” che lega la condotta all’evento di danno; il secondo è, invece, diretto ad accertare, secondo la regola dell’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.), il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili. Tale giudizio circa la sussistenza del nesso causale fra condotta antigiuridica ed evento dannoso involge un apprezzamento di fatto che, se, come nel caso in esame, compiutamente motivato, non è sindacabile nel giudizio di cassazione.”
Una recente pronuncia di legittimità (Cass. civ. sez. II ord. 6 febbraio 2020 n. 2757) affronta un tema molto sentito, a fronte di sempre più numerose attività commerciali, destinate a bar, ristorazione e intrattenimento che vedono spazi esterni, dehors o pergolati posti alla base del condomini che rendono invivibili ai condomini le ore notturne, specie nella stagione estiva.
“Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 2302 del 2014, accogliendo la domanda proposta da F.G. , confermava l’ordinanza cautelare del 18.02.2011, con condanna dell’Immobiliare Silce a una serie di adempimenti al fine di cessare le immissioni rumorose lamentate dal ricorrente provenienti dall’attività “Al Bacaro”, integrandola con l’obbligo di intercludere ogni forma di accesso all’area scoperta della pergola agli avventori del bar, a partire dalle ore 24. A seguito di appello proposto dall’Immobiliare Silce, la Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 2695 del 2016, rigettava il gravame, confermandola sentenza di primo grado.”
osservano i giudici di legittimità che “Per quanto riguarda le censure che, sotto i diversi versanti, traggono spunto dalla relazione del c.t.u. – per essere la decisione basata su immissioni rilevate in una situazione ambientale in cui già nell’ordinario erano superiori alla normalità – si osserva che la logica sottesa alla scelta decisoria muove proprio dalla natura delle immissioni rumorose che sono, proprio per la fonte da cui discendono, discontinue, difficilmente verificabili e riproducibili nella stessa misura, per la loro spontaneità.
Ne consegue che se, da un lato, non può non tenersi conto delle entità delle immissioni rumorose verificate nel corso dell’apertura dell’attività di ristorazione, superiori a quelle verificabili nel corso della giornata (con l’attività commerciale chiusa), trattandosi di uso non eccezionale rispetto alla destinazione del locale, per cui la tollerabilità o meno delle immissioni deve essere valutata, avuto riguardo proprio alla loro discontinuità ed incidenza maggiore nella fase notturna.
In altri termini, il giudice distrettuale ha limitato l’utilizzazione degli spazi esterni al locale ad orari che non sono destinati al riposo o in cui le esigenze di tranquillità degli occupanti della vicina abitazione possono ragionevolmente cedere alle opposte esigenze di tipo ricreativo. Si rammenta che la domanda di cessazione delle immissioni che superino la normale tollerabilità non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata, ben potendo egli ordinare l’attuazione di quegli accorgimenti che siano concretamente idonei ad eliminare la situazione pregiudizievole, senza essere vincolato dal petitum (cfr. Cass. 5 agosto 2011 n. 17051; Cass. 17 gennaio 2011 n. 887; Cass. 21 novembre 1973, n. 3138).
Nella specie la misura individuata dai Giudici del gravame è congrua e frutto di un ponderato bilanciamento delle risultanze di causa, sicché la ricorrente non può pretendere in questa sede l’imposizione di diversi accorgimenti, vedendo, almeno, ampliati gli orari di accesso agli spazi aperti nello spazio aperto di proprietà della Immobiliare Silce, in termini già stigmatizzati nella decisione impugnata perché troppo restrittivi. Invero, al di là della astratta deduzione di plurimi vizi di violazione di legge e/o motivazionale, la ricorrente mira ad una revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata. Ma una simile revisione, in realtà, non è altro che un giudizio di fatto, risolvendosi sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità;…
Del resto la domanda di cessazione delle immissioni, che superino la normale tollerabilità, non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata, potendo egli ordinare motu proprio l’attuazione di accorgimenti che evitino la situazione pregiudizievole, tanto più quando debbono contemperarsi le ragioni della proprietà e quelle della produzione (Cass. 5 agosto 1977 n. 3547; conf. Cass. 17 gennaio 2011 n. 887 cit.).
In proposito, la Corte territoriale ha limitato l’uso dello spazio esterno al locale pubblico proprio in concomitanza con l’orario notturno, accorgimento che consente di assicurare le esigenze di tranquillità degli occupanti della vicina abitazione proprio nella fascia oraria dedicata solitamente al riposo, adozione di misura inibitoria implicante l’attuazione di accorgimenti che così evitano il ripetersi della situazione pregiudizievole”
La Cassazione ( Cass.civ. sez. II ord. 28 agosto 2017 n. 20445) ribadisce un principio già più volte affermato, esaminando il caso di un locale adibito a falegnameria e dal quale derivavano immissioni di polveri, vapori e rumori nell’appartamento posto sopra al laboratorio.
Il Tribunale di Roma aveva condannato i falegnami rumorosi al pagamento di diecimila euro alla condomina danneggiata, mentre la Corte di Appello capitolina ” ha riformato con sentenza depositata il 13/03/2013 la decisione del tribunale, rigettando la domanda risarcitoria, affermando che il danno da immissioni sarebbe risarcibile solo ove ne sia derivata comprovata lesione della salute, non essendo risarcibile la minore godibilità della vita, nonché – quanto al profilo probatorio – espressamente “dissente(ndo) dall’indirizzo giurisprudenziale recepito dal primo giudice, secondo cui quando venga accertata la non tollerabilità delle immissioni la prova del danno deve considerarsi in re ipsa” e rilevando che l’attrice avrebbe dovuto produrre “idonea documentazione sanitaria… e… chiedere l’espletamento di una c.t.u. medico-legale“
Il Giudice di legittimità censura la pronuncia di secondo grado e statuisce nel merito, riconoscendo all’attrice il risarcimento di diecimila euro già individuato in prime cure: “al di là di remoti precedenti citati dalla corte d’appello e rimontanti a epoca in cui né la materia del danno alla salute né quella dei rimedi in tema di immissioni avevano conosciuto l’attuale sistemazione sorretta dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, vada data continuità al principio da reputarsi oramai sufficientemente consolidato nella giurisprudenza di questa corte (Cass. Sez. U. 01/02/2017, n. 2611, in relazione alla trattazione anche di una questione di giurisdizione; ma v. anche ad es. Cass. 19/12/2014, n. 26899 e 16/10/2015, n. 20927), secondo il quale il danno non patrimoniale conseguente a immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita personale e familiare all’interno di un’abitazione e comunque del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi (vedi Cass. 16/10/2015, n. 20927); ne consegue che la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni o sulla base delle nozioni di comune esperienza”
La Cassazione ( Cass.civ. sez. II 4 luglio 2017 n. 16407) esamina una vicenda che – con l’arrivo dell’estate – è frequente in condominio: il pub a piano terra dell’edificio tiene musica ad alto volume sino a tarda notte e turba i sonni dei condomini.
Due di costoro promuovono azione giudiziale sia nei confronti del proprietario dei locali che verso il conduttore, che è il soggetto titolare dell’attività commerciale molesta.
Il Tribunale di Sondrio condanna proprietario e locatore a pagare a ciascuno dei condomini attori l’importo di 15.000 euro (diecimila per danno biologico e 5.000 per danno morale).
LA Corte d’appello di Milano, in riforma della sentenza, rigetta la domanda contro il proprietario dei fondi, lasciando integra la sola condanna in capo al conduttore dei locali, esercente l’attività commerciale.
La Corte milanese rilevava che dalla relazione dell’Arpa risultava che le immissioni intollerabili derivassero dalla musica tenuta ad alto volume all’interno dei locali fino a tarda notte, dal vociare degli avventori fuori dal locale e che il locatore avesse saputo della situazione solo poco prima del giudizio, che avesse più volte richiamato i conduttori e che nel contratto di locazione fosse stata inserita una clausola che vietava al conduttore attività rumorose. Riduceva inoltre il risarcimento a 6.000 euro per ciascun condomino, determinati in via equitativa, sull’assunto che non vi fosse prova del danno biologico nella misura lamentata.
“Occorre premettere che, secondo l’indirizzo interpretativo di questa corte, l’azione di natura reale, asperità per l’accertamento dell’illegittimità dell’immissione e per la realizzazione delle modifiche strutturali necessarie al fine di far cessare le stesse nei confronti del proprietario del fondo da cui tali immissioni provengono è distinta e può essere cumulata con la domanda verso altro convenuto, per responsabilità aquiliana ex articolo 2043 c.c., volta ad ottenere il risarcimento del pregiudizio di natura personale da quelle cagionate (Cass.civ. sez. un. 27 febbraio 2013 n. 4848).
Quest’ultima domanda risarcitoria va proposta secondo i principi della responsabilità aquiliana e cioè nei confronti del soggetto individuato da criterio di imputazione della responsabilità. E, quindi nei confronti dell’autore del fatto illecito (materiale o morale), allorché il criterio di imputazione è la colpa o il dolo (art. 2043) e nei confronti del custode della cosa allorché i criterio di imputazione è il rapporto di custodia (art. 2051).
Allorché le immissioni intollerabili originano da un immobile condotto in locazione, dunque, la responsabilità ex articolo 2043 cod.civ. per i danni da essi derivanti può essere affermata nei confronti del proprietario, locatore dell’immobile, solo se il medesimo abbia concorso alla realizzazione del fatto dannoso, non già per aver omesso di rivolgere al conduttore una formale diffida ad adottare gli interventi necessari ad impedire pregiudizio a carico di terzi (Cass.civ. sez. III 28/5/2015 n 11125)”
Abbiamo segnalato ieri una serie di pronunce sull’art. 844 cod.civ. in condominio e oggi se ne aggiunge un’altra, sempre in tema di immissioni.
La vicenda attiene ad una complessa controversia fra parenti, proprietari di due unità immobiliari vicine, in una delle quali viene svolta attività di fabbro che – sostengono gli altri – arreca grave pregiudizio alla vita quotidiana.
Cass. civ. II sez. 20 gennaio 2017 n. 1606 rel. Scarpa traccia i limiti probatori riguardo al giudizio relativo all’accertamento della tollerabilità: “Vertendosi in giudizio relativo ad immissioni (nella specie di rumori ed esalazioni provocati dallo svolgimento di attività di officina fabbrile), i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio con funzione “percipiente”, in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone. Mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi: cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1245 del 04/03/1981; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).”
Quanto alla intensità delle immissioni la Corte ribadisce un orientamento ormai consolidato, sulla rilevanza degli accertamenti sotto il profilo civilistico e pubblicistico, chiarendo con motivazione ineccepibile la larga autonomia di giudizio del Giudice chiamato a valutare nel merito la intollerabilità delle immissioni fra privati: “in tema, appunto, di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all’intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 2319 del 01/02/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5697 del 18/04/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del 17/01/2011).
I criteri dettati dal d.m. 16 marzo 1998 attengono, piuttosto, al superamento dei valori limite differenziali di immissione di rumore nell’esercizio o nell’impiego di sorgente di emissioni sonore, di cui all’art. 6, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, e sono volti a proteggere la salute pubblica mediante predisposizione di apposito illecito amministrativo (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28386 del 22/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).
Perciò la Corte d’Appello di Venezia ha definito irrilevante accertare per quante ore al giorno venissero utilizzati gli strumenti da lavoro rumorosi, ed ha invece stimato decisiva la verifica, confortata dalle risultanze peritali, che ogni singola macchina adoperata nell’officina fabbrile cagionasse un rumore percepito nell’abitazione dei vicini come eccedente di 3 db rispetto al rumore ambientale di fondo. La sentenza impugnata ha correttamente considerato, in sostanza, prive di significatività le disposizioni ministeriali sulle modalità di rilevamento dei rumori cosiddetti “a tempo parziale”, valutando comunque illecite le immissioni sulla base di un giudizio di tollerabilità formulato ai sensi dell’art. 844 c.c., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni.Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c, diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale. Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17051 del 05/08/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).”
La corte affronta poi il tema del risarcimento al danneggiato per le immissioni pregiudizievoli che il Giudice di merito abbia ritenuto sussistenti: “il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. “comunitarizzazione” della Cedu (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26899 del 19/12/2014). La Corte di Venezia ha proprio affermato l’esistenza di un pregiudizio alla libera e normale esplicazione della personalità ed alla qualità della vita di B.P., M. Z., G. P. e A. P., pregiudizio riconducibile allo stress ed al grave disagio provocato dalle immissioni sonore provenienti dalla vicina officina e percepibili nell’abitazione di quelli.”
La Corte si sofferma infine sulla rilevanza della riconoscibilità della situazione a fattispecie di rilevanza penale, ai fini del risarcimento del danno a norma dell’art. 2059 cod.civ. “Al riguardo, la Corte di Venezia ha ritenuto nella specie ravvisabili gli estremi del reato di cui all’art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone), sussistendo la potenzialità del rumore ad investire tutti coloro che ne sono a contatto, mentre ha escluso la configurabilità dell’art. 674 c.p. (Getto pericoloso di cose), non essendo verificata l’attitudine del materiale per la verniciatura utilizzato da E. P. a creare offesa o molestia. Il sesto motivo del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale sono infondati in quanto quel che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p., non è che il fatto illecito integri, in concreto, un reato piuttosto che un altro, né occorre una condanna penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia soltanto astrattamente previsto come reato, sicché è sufficiente a tal fine l’accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza, secondo la legge penale, degli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13085 del 24/06/2015; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22020 del 19/10/2007).”
La Cassazione affronta, in breve lasso di tempo, il tema delle immissioni rumorose in diverse pronunce, dettando principi che è opportuno conoscere per azionare correttamente le tutele contro attività disturbanti.
tutela pubblica e privata non coincidono – la Suprema Corte (Cass. civ. VI sez. 18 gennaio 2017, n. 1069 – Rel. Scalisi) afferma che tutto ciò che supera i limiti pubblici del rumore deve ritenersi civilisticamente illecito a mente dell’art. 844 cod.civ., ma non tutto ciò che rientra in quei limiti è necessariamente consentito anche sotto il profilo nella norma codicistica, che invece richiede singola indagine di fatto da svolgere di volta in volta da parte del giudice di merito: “Va qui premesso che sussistono due livelli di tutela di fronte all’immissione rumorosa, da una parte il regime amministrativo deputato alla P.A. (disciplinato dalla Legge n. 447 del 1995, e dal D.P.C.M. del 1991 con successive modifiche ed integrazioni) e dall’altro vigono i principi civilistici che regolano i rapporti tra privati riconducibili nell’ambito del codice agli articoli 844 e 2043 c.c., dotati di fondamento costituzionale e comunitario. Tuttavia, come ha avuto modo di affermare questa Corte in altra occasione (cfr. sent. n. 1151del 2003; n. 5697 del 2001), il superamento dei livelli massimi di tollerabilità determinati da leggi e regolamenti integrano senz’altro gli estremi di un illecito anche se l’eventuale non superamento non può considerarsi senz’altro lecito, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità essere effettuato alla stregua dei principi stabiliti dall’art. 844 cod. civ.. Tale principio, nella sua prima parte, si basa sull’evidente considerazione che, se le emissioni acustiche superano, la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela di interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione le stesse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino, ancor più esposto degli altri, in ragione della vicinanza, ai loro effetti dannosi, devono per ciò solo considerarsi intollerabili, ai sensi dell’art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico. Tanto non è stato considerato dal giudice di merito, che, pur avendo rilevato che il livello di rumorosità, di cui si dice, in alcuni spazi temporali (ore notturne, a finestre aperte e con uso dello scarico del WC), superava il valore previsto dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 Marzo 1991, quale livello massimo, tuttavia, ha ritenuto che quell’inquinamento acustico fosse “modestissimo” e non superasse la normale tollerabilità.”
il danno da rumore non è in re ipsa – una volta accertato che sussistono immissioni illecite ex art. 844 cod.civ. non consegue automaticamente un diritto al risarcimento del danno nei confronti della parte che le lamenta. Incombe infatti a costei l’onere di provarne la sussistenza e l’ammontare. Lo afferma in maniera ellittica la Suprema Corte in una recentissima pronuncia (Cass. civ. II sez. 18 gennaio 2017 n. 1363 rel. Giusti ), che in realtà risolve in rito l’impugnazione: “Non sussiste la lamentata contraddittorietà, perché ben può il giudice del merito, senza con ciò incorrere in alcun vizio logico, rigettare la proposta domanda ex articolo 844 codice civile, per la cospirante convergenza di una duplice ragione giustificativa, sia perché i rumori e le missioni non raggiungono il limite della intollerabilita, sia perché manca la prova sull’esistenza del patito danno“.
niente risarcimento se il danno è ascrivibile allo stato ansioso del danneggiato: pur sussistendo immissioni illecite dall’appartamento del custode, che superano la normale tollerabilità ex art. 844 cod.civ. , ed essendo pertanto tenuto il condominio a fare cessare mediante insonorizzazione, non può essere riconosciuto risarcimento a chi quelle immissioni ha subito se lo stato ansioso in cui versa è ascrivibile ad una sua patologia ansiosa piuttosto che all’evento rumoroso, poiché in tal caso viene meno il nesso causale fra l’evento e il danno lamentato. Così ha statuito Cass. civ. II sez. 12 gennaio 2017 n. 667 rel. Giusti : “La corte di Milano ha ritenuto che dalle risultanze processuali emerge che la X e il Y pur non essendo soggetti psicotici affetti da altre malattie diagnosticabili secondo la nosografia psichiatrica, sono individui dalla personalità disturbata, con difficoltà nelle relazioni interpersonali che sono la causa di una reazione abnorme a modeste sollecitazioni disturbanti, quali lo scorrere dell’acqua dei sanitari o le immissioni acustiche provenienti dal televisore delle persone presenti nell’appartamento adiacente, e non certo l’effetto di questi fattori ambientali, fermo restando che ove le imimissioni rumorose fossero state prodotte attraverso comportamenti emulativi, la tutela risarcitoria avrebbe dovuto essere evocata non contro l’incolpevole condominio ma contro gli autori delle specifiche condotte illecite disturbanti. ” La sentenza, per l’ampia disamina della decisione di merito impugnata e le argomentazioni svolte, merita integrale lettura.
la Cassazione ribadisce un concetto più volte espresso, applicandolo ad un caso peculiare.
La Seconda Sezione civile con sentenza 21307 del 20 ottobre 2016 ha statuito che “Le limitazioni previste espressamente possono reputarsi operative essendo il silenzio sintomatico più che di una volontà di porre dei limiti piuttosto della necessità di preservare integre le facoltà tipiche del diritto di proprietà”
Il caso riguardava un condominio in Napoli nel quale il regolamento contrattuale prevedeva la possibilità di usi commerciali per i piani terranei, nulla dicendo per quelli sovrastanti: i titolari di una pizzeria posta a livello strada avevano collegato all’esercizio commerciale una unità posta al primo piano, adibendola a sala di ristorazione.
Il condomino confinante aveva chiesto, senza successo, al Tribunale di dichiarare illegittimo l’uso per contrarietà al regolamento e per le immissioni intollerabili. La Corte di Appello aveva riformato la sentenza, ritenendo l’uso contrario al regolamento e non provate le immissioni rumorose.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza di secondo grado, con rinvio ad altra sezione della stessa Corte di Appello.
La pronuncia merita lettura integrale per l’ampia disamina sui criteri interpretativi del regolamento contrattuale.
Qualora da una attività industriale o commerciale derivino immissioni di fumi e rumori nelle proprietà esclusive dei vicini, per stabilire se le stesse si qualifichino come illecite ai sensi dell’art. 844 cod.civ. è indispensabile, oltre alla assunzione delle prove ordinarie in ordine alla loro sussistenza e alle modalità con cui si manifestano, che il Giudice disponga una consulenza tecnica che accerti il superamento dei limiti della loro tollerabilità.
Solo su tali presupposti potrà fondarsi una sentenza di condanna nei confronti del soggetto che produca rumori o fumi che arrecano pregiudizio al quotidiano vivere dei vicini.
Il principio è affermato da Cass. civ. II sez. nella sentenza 17685/2016 depositata il 7.9.2016.
La Suprema Corte ha censurato i giudici di merito che avevano respinto – in primo e in secondo grado – la domanda dei danneggiati, ritenendo la motivazione insufficiente; in particolare la corte di appello di Verona aveva affermato che “dalle deposizioni testimoniali e dalla documentazione amministrativa offerte da parte ricorrente emergeva che la situazione era certamente difficile a cagione dell’attività di sfasciacarrozze svolta dal convenuto … ma non vi era prova certa né del superamento dei limiti di tollerabilità cli cui all’art . 844 e.e., né dei danni al fabbricato nel quale tutte le persone coinvolte nella vicenda abitavano o lavoravano, e neppure che tutto quanto allegato e lamentato cagionasse con nesso eziologico certo, un danno alla salute. La Corte ha aggiunto che icertificati medici non fornivano la dimostrazione necessaria sul punto. Ha negato l’ammissione di accertamenti peritali relativi alla valutazione delle immissioni e al danno alla salute perché la ctu non è un mezzo istruttorio, ma sarebbe utilizzabile solo laddove la parte assolva il proprio onere probatorio”
La Cassazione ha ritenuto tale motivazione frettolosa e inadeguata, chiarendo un principio importante in tema di ammissione della consulenza tecnica: “La valutazione sintetica addotta dalla sentenza appare quindi apodittica nel concludere per l’insufficiente assolvimento dell’onere della prova. Trattasi di formula rinunciataria della decisione delle controversie civili, che deve essere preceduta e giustificata da un vaglio critico e da uno sforzo conoscitivo e valutativo appropriati, mediante opportuno uso delle presunzioni e dei mezzi istruttori che siano nella disponibilità del giudice. E’ opportuna in proposito la censura sviluppata nel secondo motivo, relativa alla mancata ammissione di consulenze tecniche volte ad accertare se i danni materiali agli immobili e le patologie cliniche alle persona istanti, circostanze documentate da risultanze di cui si è detto e da certificazioni mediche, fossero direttamente ricollegabili alle lavorazioni effettuate da controparte.
Il ricorso ha puntualmente ricordato (invocando Cass. 16256/04) che in casi siffatti la consulenza tecnica, che di regola non è mezzo di prova ma sempre è mezzo istruttorio (contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, che ha ripreso isolate massimazioni), è doverosa (cfr. Cass. 13401/05; 8297/05; 1120/06). La consulenza tecnica può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolva in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche (tra le tante Cass. 4792/2013; 1149/11; 6155/09; 1020/06): in tal senso la valutazione del rapporto eziologico tra i fatti documentati in causa e la loro rilevanza sulla solidità dell’immobile e sulla salute degli attori, che lamentano tra l’altro ipertensione e affezioni dermatologiche, appare senz’altro ipotesi ineludibile in cui è indispensabile il conforto specialistico”. Pertanto ha carattere di motivazione apparente quella del giudice che eluda la decisione di merito, rifiutando l ‘ammissione di consulenza tecnica in queste circostanze. Va aggiunto che la cessazione delle attività moleste non fa venir meno l’obbligatorietà dell’approfondimento istruttorio, che si impone al fine di verificare se sia possibile, mediante l’esame degli atti e adeguate indagini tecniche e anamnestiche, accertare la veridicità delle ipotesi di danno prospettate da chi agisce in giudizio, suffragate da riscontri presuntivi, descritti nel caso di specie dalle stesse sentenze di merito”
La sentenza di secondo grado è stata dunque cassata e il giudizio è stato rimesso alla corte di Appello di Trento affinché rinnovi il procedimento di secondo grado attendendosi ai principi di diritto enunciati.
Si tratta di materia di frequente applicazione in campo condominiale, ove i rumori, i fumi o gli odori provenienti dalle proprietà esclusive sono spesso oggetto di contendere dinanzi all’autorità giudiziaria: è bene a tal proposito sottolineare che per tali controversie sussiste legittimazione attiva dell’amministratore ove le immissioni riguardino (anche) parti comuni, mentre se le doglianze sono relative a disagi subiti da una unità di proprietà esclusiva rimane vicenda circoscritta alla sfera dei diretti interessati.
La Cassazione (Cass. Civ. III sezione, 27.6.2016 n. 13208) , con una stringatissima pronuncia, sottolinea un principio di rilievo.
Al primo piano del condominio era posta una discoteca che, per carenza degli accorgimenti insonorizzanti, è risultata superare ampiamente il limite della tollerabilità previsto dall’art. 844 cod.civ. a proposito di immissioni.
Diversi condomini avevano agito in giudizio per vedersi riconosciuto il danno derivante dalla esposizione ai rumori molesti. La Corte di Appello di Milano, accertata la intollerabilità delle immissioni, aveva condannato la società che gestiva la discoteca a risarcire ciascun condomino per l’importo di diecimila euro.
La causa approda in Cassazione, su ricorso della società condannata, che afferma che l’aver accertato l’esistenza di immissioni intollerabili non significa necessariamente aver anche acquisito la prova del danno conseguente.
LA Suprema corte rigetta il ricorso, affermando che – anche a non voler considerare che i danneggiati avevano prodotto certificazione medica a sostegno della propria domanda – il danno da superamento della soglia di tollerabilità delle immissioni può essere presunto e in ciò il Giudice di merito può avvalersi di regole di comune esperienza, secondo le quali l’esposizione ripetuta e prolungata a rumore e fonti sonore intollerabili è idonea a compromettere l’equilibrio psicofisico del soggetto interessato.
la norma regolamentare può diventare, per il Condominio, una ghigliottina più restrittiva di quanto prevede l’art. 844 cod.civ. in tema di immissioni. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano con sentenza n. 5465/2016 del 3 maggio 2016.
Un condomino (rectius, un conduttore di un condomino)lamentava disturbo da immissioni di rumori all’interno della propria unità e provenienti da parti comuni.
Il Giudice ha ritenuto che in questo caso la norma codicistica e il limite della normale tollerabilità fossero superati dalla previsione specifica del regolamento di condominio: la norma interna faceva «assoluto divieto di recare disturbo ai vicini con rumori di qualsiasi natura e, segnatamente, dalle ore 20,00 alle ore 8,00» . Tale prescrizione è stata ritenuta dal Giudice ben più restrittiva di quella posta dall’articolo 844 cod.civ. , che invece richiede all’attore di provare che i rumori superino la normale tollerabilità. Il Tribunale ha comunque ribadito che «non vi è la necessità di ricorrere ad una perizia fonometrica allorché il giudice, basandosi su altri elementi probatori acquisiti agli atti, si sia formato il convincimento (…) che vi sia stato il superamento dei limiti di tollerabilità» (Cassazione, sentenza 3000/97)”.