l’ascensore installato successivamente sfugge alla presunzione di condominialità ex art 1117 c.c.

E’ quanto riafferma la Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 8 giugno 2020 10850 rel. Scarpa)   richiamando orientamenti consolidati: laddove uno o più condomini installino  un impianto di ascensore successivamente alla costruzione del fabbricato, quel bene sfugge alla presunzione di condominialità prevista dall’art.. 1117 c.c. e sarà onere di chi – successivamente – intende rivendicarne la (com)proprietà dar prova che l’intervento fu effettuato con il consenso suo o dei suoi danti causa.

Le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata circa la ripartizione dell’onere probatorio sono perciò errate, sia quanto al funzionamento della “presunzione di condominialità”, sia quanto alle conseguenze tratte dalla mancata dimostrazione di un “asserito diritto di proprietà esclusiva” ad opera della convenuta Università degli Studi di Sassari.

La decisione della Corte d’appello di Sassari, come visto, ha affermato la condominialità dell’ascensore alla stregua dell’art. 1117 c.c., nonché della prova conseguita dell’utilizzo dell’ascensore al servizio altresì della unità immobiliare in proprietà Promozione Professionale s.r.l.

In tal modo, i giudici di secondo grado hanno risolto la questione di diritto affrontata senza tener conto del consolidato orientamento interpretativo di questa Corte. Si è infatti più volte affermato che l’installazione “ex novo” di un ascensore in un edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino: Cass. Sez. 2, 25/03/2004, n. 5975; Cass. Sez. 2, 17/02/2005, n. 3264) costituisce innovazione, che può essere deliberata dall’assemblea condominiale con le maggioranze prescritte dall’art 1136 c.c., oppure direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo l’impianto di proprietà comune.

Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata, proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa comune conseguente alla realizzazione dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (come si desume dallo stesso art. 1121 c.c., che, al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia “deliberata o accettata” l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art. 1102 c.c.), salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20713; Cass. Sez. 2, 18/08/1993, n. 8746; Cass. Sez. 2, 18/11/1971, n. 3314; Cass. Sez. 2, 13/03/1963, n. 614).

A differenza di quanto supposto nella impugnata sentenza della Corte d’Appello di Sassari, dunque, “l’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano impiantato a loro spese. Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art. 1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi. L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri condomini la facoltà di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale” (così Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20713).

Se l’art. 1117, n. 3, c.c., come sottolinea la Corte di Sassari, ricomprende gli ascensori fra gli oggetti della proprietà comune, è anche da considerare che la presunzione legale di comunione di talune parti dell’edificio condominiale, stabilita dall’art. 1117 c.c., si basa sulla loro destinazione all’uso ed al godimento comune, e deve risultare da elementi obiettivi, cioè dalla attitudine funzionale della parte di cui trattasi al servizio od al godimento collettivo.

Tale necessaria relazione strumentale tra la singola parte (nella specie, l’impianto di ascensore) e l’uso comune deve comunque sussistere sin dal momento della nascita del condominio, restando escluso che sia determinante il collegamento materiale tra le res, se eseguito successivamente.

In tal senso, ove dimostrato che l’impianto di ascensore sia stato realizzato per iniziativa ed a spese solo di uno o di alcuni condomini dopo la costituzione del condominio, trova applicazione il regime presupposto dall’art. 1121 c.c., e non assume rilievo giuridicamente determinante la circostanza che il bene sia stato poi di fatto utilizzato anche a servizio delle unità immobiliari di proprietà di quei condomini che non avevano inizialmente inteso trarre vantaggio dall’innovazione. Neppure rileva quanto dedotto dalla controricorrente circa l’esistenza dell’ascensore – installato, si assume nel medesimo controricorso, intorno al 1960 – al momento del subentro nelle rispettive proprietà ad opera delle parti in lite (risalente al 1996/1997 per l’Università degli Studi di Sassari ed al 1986 per la Promozione Professionale s.r.l.).

La mera circostanza che i successivi titoli d’acquisto delle singole unità immobiliari non contengano alcuna espressa menzione delle vicende delle parti altrimenti sorrette dalla presunzione posta dall’art. 1117 c.c., non comporta che essi possano validamente includere pro quota il diritto di comproprietà di beni originariamente sottratti alla presunzione e rientranti perciò nella proprietà esclusiva di uno o più condomini. Poiché, dunque, è l’attrice Promozione Professionale s.r.l. onerata di dar prova di un valido titolo di comproprietà del bene danneggiato, essa potrà anche avvalersi della presunzione ex art. 1117 c.c., ove però abbia dimostrato che l’ascensore destinato all’uso comune fosse già esistente al momento della nascita del condominio, ovvero che l’impianto, benché installato successivamente alla costruzione dell’edificio, fosse stato comunque realizzato con il consenso della medesima condomina Promozione Professionale s.r.l. o del suo dante causa.”

© massimo ginesi 11 giugno 2020 

 

regolamento contrattuale e innovazioni: quando la valutazione è rimessa ad un terzo.

un caso singolare giunge all’esame della corte di legittimità (Cass.Civ. II sez. 19 dicembre 2017 n. 30528 rel. Scarpa): un regolamento di natura contrattuale rimette al progettista del fabbricato (o ad altro architetto) la valutazione di ammissibilità delle  future innovazioni destinate ad incidere  sul prospetto dell’edificio.

Il motivo di contesa riguarda una serra solare realizzata sul giardino di proprietà esclusiva e in aderenza alla facciata condominiale dal condomino del piano terreno; la vicenda è stata decisa nel merito dal giudice di secondo grado di Milano “La Corte d’Appello ha affermato che l’art. 25 del Regolamento condominiale rimettesse ogni opera, che potesse variare le caratteristiche delle facciate, al “preventivo ed insindacabile benestare scritto” dell’architetto E. Z., progettista dell’edificio (ovvero in futuro ad altro architetto da nominare).

Ciò, secondo la Corte di Milano, significava rimettere, mediante scelta condivisa con l’accettazione del regolamento all’atto dell’acquisto delle singole unità, ad un “soggetto qualificato” la verifica “del rispetto del requisito che la legge impone”.

I giudici di appello definivano la serra realizzata “funzionale ad accrescere la vivibilità dell’appartamento e ad assicurare la fruibilità per qualsiasi occasione anche di svago e di tempo libero”, ed escludevano l’applicabilità dell’art. 907 c.c. in tema di distanze dalle vedute, come anche la violazione dell’art. 1102 c.c., trattandosi di opera realizzata a piano terra, nel giardino di proprietà esclusiva, in aderenza alla facciata condominiale e non preclusiva del pari uso del bene comune”.

in via preliminare il giudice di legittimità osserva che “L’omesso o errato esame di una disposizione del regolamento di condominio da parte del giudice di merito è, piuttosto, sindacabile in sede di legittimità soltanto per inosservanza dei canoni di ermeneutica oppure per vizi logici sub specie del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355).”

La Corte rileva che ad avviso del giudice di merito il regolamento non costituisce deroga alla disciplina codicistica: “A pagina 3, la sentenza impugnata ha spiegato di intendere l’art. 25 del Regolamento di condominio non come “deroga alla norma civilistica”, quanto come “scelta condivisa con l’accettazione del regolamento condominiale”, diretta a “rimettere ad un soggetto particolarmente qualificato” la constatazione della non alterazione del decoro architettonico riferibile agli interventi sulla facciata dell’edificio.

Questa Corte ha già spiegato in passato come la disposizione di cui al quarto comma dell’art. 1138 c.c., secondo cui le norme del regolamento di condominio (anche in ipotesi di cosiddetto regolamento contrattuale) non possono in nessun caso derogare, tra l’altro, a quanto stabilito nell’art. 1120 dello stesso codice, impedisce comunque l’esecuzione di opere e lavori lesivi del decoro dell’edificio condominiale o di parte di esso (Cass. Sez. 2, 26/05/1990, n. 4905; Cass. Sez. 2, 15/01/1986, n. 175).

Tuttavia, una clausola del regolamento condominiale, quale quella in esame, che, per le modifiche esterne ed interne delle proprietà individuali incidenti sulle facciate dell’edificio, richieda il benestare scritto dell’architetto progettista del fabbricato, ovvero di altro architetto da nominare, non costituisce deroga agli artt. 1120 e 1122 c.c., dando luogo, piuttosto, a vincoli di carattere reale tipici delle servitù prediali (e non a limitazioni di portata meramente obbligatoria), nel senso di specificare i limiti di carattere sostanziale delle innovazioni (cfr. Cass. Sez. 2, 16/10/1999, n. 11688), mediante predisposizione di una disciplina di fonte convenzionale, espressione di autonomia privata, che pone nell’interesse comune una peculiare modalità di definizione dell’indice del decoro architettonico.

E’ poi costante l’orientamento di questa Corte ad avviso del quale la disciplina dettata dall’art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute non trova applicazione in ambito condominiale (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14096; anche Cass. Sez. 2, 02/02/2016, n. 1989).

Più in generale, nell’applicare in materia di condominio le norme sulle distanze legali (nella specie con riferimento al diritto di veduta), spetta al giudice di merito, con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., tener conto in concreto della struttura dell’edificio, delle caratteristiche dello stato dei luoghi e del particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, verificando, nel singolo caso, come fatto dalla Corte di Milano, la compatibilità dei rispettivi diritti dei condomini (Cass. Sez. 2, 11/11/2005, n. 22838).

Così come la realizzazione da parte di un condomino di una modifica nella sua proprietà esclusiva (nella specie, realizzazione di una serra) in aderenza alla facciata dell’edificio quale pertinenza del rispettivo appartamento, ai fini dell’utilizzo delle parti comuni, rimane sottoposta, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al divieto di alterare la destinazione della cosa comune, nonché a quello di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; ma l’accertamento se l’opera del singolo condomino, mirante ad una intensificazione del proprio godimento della cosa comune, sia conforme o meno alla destinazione della cosa comune, è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (e la Corte d’Appello ha ben spiegato a pagina 4 della sentenza le ragioni per cui la realizzazione della serra potesse essere considerata esplicazione del normale uso della cosa comune).

sulle distanze la Corte osserva ancora che “la Corte di Milano ha invece affermato che l’art. 27 del Regolamento edilizio del Comune di Milano non trovasse applicazione al caso in esame, trattandosi comunque di nuova costruzione avvenuta all’interno di un edificio condominiale, con ciò facendo ancora una volta applicazione del principio giurisprudenziale per il quale le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale soltanto se compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale (Cass. Sez. 2, 18/03/2010, n. 6546).”

© massimo ginesi 20 dicembre 2017 

interventi sulla cosa comune: i diversi ambiti applicativi degli artt. 1102 e 1120 cod.civ.

Una vicenda relativa alla occupazione di una porzione del cortile da parte di un condomino, proprietario di unità al piano terra destinata ad uso commerciale, offre alla Suprema Corte l’occasione per tracciare il discrimine fra le innovazioni (previste dall’art. 1120 cod.civ., deliberate dalla maggioranza e destinate a soddisfare una esigenza comune) e il maggior uso della cosa comune, consentito in determinate ipotesi, al singolo condomino (disciplinato dall’art. 1102 cod.civ., posto in essere unilateralmente e destinato a soddisfare una esigenza individuale del singolo proprietario).

Si tratta di aspetto che non sempre trova lineare applicazione nella giurisprudenza di merito, che anche nel caso in questione aveva impropriamente richiamato l’art. 1120 cod.civ. e che, anche di recente, ha erroneamente applicato tali principi al caso della terrazza a tasca realizzata dal singolo.

Cass.civ. sez. II  4 settembre 2017 n. 20712 rel. Scarpa chiarisce che “Per quanto accertato in fatto, e non rivalutabile nel giudizio di legittimità, si ha riguardo ad uno spazio esterno adiacente al fabbricato del Condominio A.F., via L M., Lignano Sabbiadoro, astrattamente utilizzabile per consentire l’accesso allo stesso edificio, e dunque da qualificare come cortile, ai fini dell’inclusione nelle parti comuni dell’edificio elencate dall’art. 1117 c.c.

Il Condominio AF. ha sostenuto che la società convenuta AF. s.n.c. abbia stabilmente occupato tale area comune utilizzata in parte come passaggio pedonale di comunicazione con la pubblica via ed in parte come accesso all’edificio ed al parcheggio condominiale, così realizzando una sottrazione definitiva della medesima parte del suolo comune alla sua naturale destinazione ed all’altrui godimento.

Ciò configura, in astratto, non una violazione dell’art. 1120, comma 2, c.c. (testo antecedente alle modifiche introdotte con la legge n. 220/2012, qui operante ratione temporis), ma dell’art. 1102 c.c., disposizione invero applicabile a tutte le innovazioni che, come nella specie, non comportano interventi approvati dall’assemblea e quindi spese ripartite fra tutti i condomini.

L’art. 1102 c.c. implica che l’uso particolare o più intenso del bene comune da parte del condomino si configura come illegittimo quando ne risulta impedito l’altrui paritario uso e sia alterata la destinazione del bene comune, dovendosi escludere che l’utilizzo da parte del singolo della cosa comune possa risolversi nella compressione quantitativa o qualitativa di quella, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari (Cass. Sez. 2, 06/11/2006, n. 23608).

Va pertanto corretto il riferimento che la sentenza impugnata fa in motivazione all’art. 1120 c.c., ritenendo integrata, nella specie, una “innovazione additiva”.

L’art. 1102 c.c. e l’art. 1120 c.c. sono disposizioni non sovrapponibili, avendo presupposti ed ambiti di operatività diversi. Le innovazioni, di cui all’art. 1120 c.c., non corrispondono alle modificazioni, cui si riferisce l’art. 1102 c.c., atteso che le prime sono costituite da opere di trasformazione, le quali incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà del condomino in ordine alla migliore, più comoda e razionale, utilizzazione della cosa, facoltà che incontrano solo i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, 19/10/2012, n. 18052).

In realtà, tra le nozioni di modificazione della cosa comune e di innovazione (e, pertanto, tra le sfere di operatività delle norme di cui all’art. 1102 e dell’art. 1120 c.c.) corre una differenza che è di carattere innanzitutto soggettivo, giacché, fermo il tratto comune dell’elemento obiettivo consistente nella trasformazione della “res” o nel mutamento della destinazione, quel che rileva nell’art. 1120 c.c. (mentre è estraneo all’art. 1102 c.c.) è l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata dei partecipanti, espresso da una deliberazione dell’assemblea. Le modificazioni dell’uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c., non si confrontano con un interesse generale, poiché perseguono solo l’interesse del singolo, laddove la disciplina delle innovazioni segna un limite alle attribuzioni dell’assemblea.”

© massimo ginesi 6 settembre 2017

 

l’assemblea di condominio può solo regolamentare il parcheggio nel cortile comuni ma non può provvedere ad assegnazioni esclusive

Lo ha affermato la Cassazione, II sezione civile, con sentenza 27 maggio 2016 n. 11034, aderendo a princpio più volte espressi dalla stessa corte.

In particolare il Giudice di legittimità afferma che “si deve allora riconoscere che l’assegnazione, in via esclusiva e per un tempo indefinito (al di fuori, dunque, da ogni logica di turnazione), di posti macchina all’interno di un’area condominiale sia illegittima, in quanto determina una limitazione dell’uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune “

L’assemblea ha solo il potere di regolamentare l’uso, anche di natura turnaria, del bene comune senza possibilità di incidere sulla pari possibilità di godimento di tutti i condomin; osserva infatti la Corte come l’organo collegiale: “possa deliberare a semplice maggioranza l’uso a parcheggio di spazi comuni. In particolare, la delibera assembleare di destinazione del cortile condominiale a parcheggio di autovetture dei singoli condomini, in quanto disciplina le modalità di uso e di godimento del bene comune, è validamente approvata con la maggioranza prevista dall’art. 1136, 5 co. c.c., non essendo all’uopo necessaria l’unanimità dei consensi (per tutte: Cass. 15 giugno 2012, n. 9877; cfr. pure Cass. 29 dicembre 2004, n. 24146; Cass. 8 novembre 2004, n. 21287). Tuttavia, la proposizione in tanto vale in quanto la delibera regolamenti l’uso e il godimento nel senso di disporre una innovazione diretta al miglioramento, all’uso più comodo, o al maggior rendimento delle cose comuni a norma dell’art. 1120, 1 co. cod. civ.”

Utile la paradigmatica distinzione fra atti regolamentari e atti che finsicono per essere dispositivi: ” È lo stesso art. 1120 a marcare il limite che si frappone all’attuazione di innovazioni che abbiano un diverso effetto: il secondo (ora quarto) comma dell’articolo prevede infatti che sono vietate le innovazioni “che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino”. Il divieto di tali innovazioni ha proprio lo scopo di evitare che il singolo condomino veda contrarsi il suo diritto di godere, entro i limiti della propria quota, di parti del condominio che sono comuni, e quindi destinate alla fruizione collettiva. Sul punto, la disposizione replica il precetto, di carattere più generale, dettato in materia di comunione dall’art. 1102 c.c.: precetto che trae origine dalla medesima ragione ispiratrice e che fa infatti divieto a ciascun comunista di impedire agli altri partecipanti della comunione di fare parimenti uso della cosa secondo il loro diritto. In tal modo, deve negarsi che l’utilizzo che il singolo condomino faccia del bene comune possa risolversi in una compressione quantitativa o qualitativa di quello, attuale o potenziale, degli altri.”

qui  la sentenza per esteso

© massimo ginesi giugno 2016

il regolamento contrattuale e il decoro architettonico

Il regolamento di condominio di natura contrattuale, proprio per la sua idoneità ad incidere anche sui diritti dei singoli condomini, può porre limiti alle innovazioni o delineare un concetto di decoro architettonico più  restrittivo rispetto ai limiti usuali delle innovazioni.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, seconda sezione,  con sentenza  n. 10272, pubblicata il 18 maggio 2016 in cui ha affermato che  ai sensi dell’art. 1120 u.c. cod.civ. «sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino» e che ben può il re regolamento contrattuale di condominio imporre  il mantenimento delle linee estetiche e della regolarità dell’immobile, per come originariamente edificato.

La corte in particolare sottolinea come  “il regolamento del condominio abbia inteso limitare le innovazioni anche oltre la previsione di cui all’articolo 1120 del Codice civile avendo subordinato all’autorizzazione dell’assemblea ogni lavoro che interessasse “comunque” la stabilità, l’estetica e l’uniformità esteriore dei singoli fabbricati. La clausola in questione, che prescinde da una vera e propria alterazione del decoro architettonico, vieta ai condòmini, in assenza di autorizzazione assembleare, qualsiasi lavoro che interessi “comunque”, oltre all’estetica, anche l’uniformità esteriore dei singoli fabbricati”.

qui  la sentenza per esteso

© massimo ginesi giugno 2016