Si tratta di principio ribadito da Cass.Civ. sez. II 22 febbraio 2018 n. 4336.
La vicenda riguarda un terreno di proprietà di più soggetti, uno dei quali – pur nel manifesto dissenso di altro, detentore di una quota maggiore – agisce in giudizio contro il vicino per veder rimosse alcune opere abusivamente realizzate. La domanda è accolta dal Tribunale di Frosinone e riformata dalla Corte di Appello di Roma, “sul rilievo che T.S., titolare della quota di maggioranza del bene in comunione, non condivideva l’azione giudiziaria esperita dall’altro comproprietario”
La corte di legittimità cassa la sentenza di appello e rinvia ad altra sezione della stessa corte di merito che dovrà attenersi al principio di diritto espresso in motivazione: ” Come questa Corte ha ripetutamente affermato, ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l’intera cosa comune e non una frazione della stessa, è legittimato ad agire o resistere in giudizio, anche senza il consenso degli altri, per la tutela della cosa comune, nei confronti del terzo o di un singolo condomino (ex multis Cass.28.1.2015 n.1650; 19329/2009; 10219/2012).
Il dissenso dell’altro comproprietario, contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza, non era dunque idoneo a paralizzare la pretesa dell’odierna ricorrente, diretta al ripristino della cosa comune nella sua integrità, mediante demolizione del muro di confine e ripristino del fosso di scolo abusivamente eliminato.”
Si tratta di principio che, pur con le necessarie cautele interpretative, è stato ritenuto applicabile anche al condominio per le azioni a tutele del bene comune esperite nei conforti di terzi o di condomini: da ultimo Cass.Civ. sez. VI, 28/01/2015, n. 1650 “ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l’intera cosa comune, e non una frazione della stessa, è legittimato ad agire o resistere in giudizio, anche senza il consenso degli altri, per la tutela della cosa comune, nei confronti dei terzi o di un singolo condomino (così Cass. Sez. 6-1 ord 1009/2013; alla quale adde: Cass., Sez. 6-3 ord n. 1009/2013;Cass. Sez. 2 n. 19329/2009; Cass. Sez. 2 n. 10219/2002; Cass. Sez. 2 n. 8546/1998; Cass. Sez. 2 n. 1757/1987).”
E’ quanto afferma una recente sentenza della Suprema Corte (Cass.Civ. sez.VI-2 21 febbraio 2018 n. 4255 rel. Scarpa).
La disciplina vincolistica in tema di parcheggi pertinenziali ha visto una rilevante evoluzione legislativa e interpretativa e rappresenta una materia di non sempre semplice inquadramento.
La Suprema Corte rileva come la vigente normativa imponga il vincolo di destinazione ma non obblighi al trasferimento della proprietà della stessa area vincolata, sicché ove tali beni non siano stati oggetto di atti traslativi specifici fra il costruttore e i singoli condomini, vanno ascritti ai beni comuni.
“la Corte d’Appello di Palermo, negando la legittimazione ad agire dell’amministratore con riguardo allo scantinato gravato dal vincolo di destinazione a parcheggio, non si è uniformata alla consolidata interpretazione di questa Corte, secondo cui la speciale normativa urbanistica, dettata dall’art. 41 sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della legge n. 765 del 1967, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio, senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione.
Pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso qualsiasi riferimento, al riguardo, nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, le aree in questione, globalmente considerate, devono essere ritenute parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c., con conseguente legittimazione dell’amministratore di condominio ad esperire, riguardo ad esse, le azioni contro i singoli condomini o contro terzi dirette ad ottenere il ripristinodei luoghi ed il risarcimento dei danni, giacché rientranti nel novero degli “atti conservativi”, al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130, n. 4, c.c. (Cass. Sez. 6 – 2, 08/03/2017, n. 5831; Cass. Sez. 2, 16/01/2008, n. 730; Cass. Sez. 2, 18/07/2003, n. 11261).”
Ove sia stato stipulato contratto di appalto per opere di sistemazione delle aree verdi condominiali, l’amministratore è legittimato ad agire per far valere l’inadempimento dell’appaltatore mentre i singoli condomini possono intervenire, iure proprio, nello stesso giudizio per far valere il danno subito individualmente a causa di tale inadempimento.
E’ principio espresso da Cass.Civ. II sez. 14 dicembre 2017 n. 30038, che -nel decidere una vicenda nata in terra savonese e poi vagliata dalla Corte di appello di Genova – affronta anche il tema del potere del giudice di qualificazione della domanda in forza delle difese svolte dalle parti: il condominio che aveva inizialmente svolto domanda di adempimento, si è visto riconoscere il diritto al pagamento per equivalente, ad avviso della corte di legittimità in maniera perfettamente legittima.
La sentenza – seppur sintetica -merita lettura integrale.
La suprema corte (Cass.Civ. II sez. 12 dicembre 2017 n. 29748 rel. Scarpa) conferma un orientamento ormai consolidato: per le controversie attinenti alla gestione comune sussiste legittimazione esclusiva dell’amministratore, dovendosi esclude la concorrente facoltà del singolo condomino.
La vicenda trae origine, nel merito, dalla impugnativa di una delibera assembleare che, a detta dei condomini che hanno fatto ricorso al giudice, ripartiva erroneamente alcune spese. La Corte di Appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva annullato la delibera, con pronuncia resa nei conforti del condominio in persona dell’amministratore: avverso detta sentenza alcuni condomini propongono ricorso per cassazione.
Osserva la corte che: “Per consolidato orientamento di questa Corte, spetta in via esclusiva all’amministratore del condominio la legittimazione passiva a resistere nei giudizi promossi dai condomini per l’annullamento delle delibere assembleari, ove queste non attengono a diritti sulle cose comuni (Cass. Sez. 2, 20/04/2005, n. 8286; Cass. Sez. 2, 14/12/1999, n. 14037; Cass. Sez. 2, 19/11/1992, n. 12379).
Nella specie, si tratta di impugnativa di deliberazione dell’assemblea condominiale relativa alla ripartizione di spese per un servizio comune. L’impugnativa è fondata sull’assunta violazione dei criteri di suddivisione stabiliti dalla legge, ed è quindi volta ad ottenere una pronuncia di invalidità della deliberazione assembleare, per il cui accertamento sono legittimati, dal lato attivo, ciascun condomino, e, passivamente, come accennato, soltanto l’amministratore del condominio, senza necessità di partecipazione al giudizio dei singoli condomini (Cass. Sez. 2, 15/04/1994, n. 3542).
La legittimazione passiva esclusiva dell’amministratore del condominio nei giudizi relativi alla ripartizione delle spese per le cose ed i servizi collettivi promossi dal condomino dissenziente dalla relativa deliberazione assembleare discende dal fatto che la controversia ha per oggetto un interesse comune dei condomini, ancorché in opposizione all’interesse particolare di uno di essi (Cass. Sez. 2, 11/08/1990, n. 8198).
Da ciò consegue che, nelle controversie concernenti impugnativa ex art. 1137 c.c. delle deliberazioni dell’assemblea relative alla ripartizione delle spese per le cose e per i servizi comuni, nelle quali è unico legittimato passivo l’amministratore di condominio, non è ammissibile il gravame avanzato dal singolo condomino avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio.
Il potere di impugnazione del singolo condomino va, infatti, riconosciuto nelle controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, o anche nelle azioni personali, ma se incidenti in maniera immediata e diretta sui diritti di ciascun partecipante.
Mentre (secondo l’orientamento del tutto prevalente di questa Corte, che il collegio intende qui ribadire) non va consentita l’impugnazione individuale relativamente alle controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un bene o un servizio comune, bensì la gestione di esso, intese, dunque, a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, nelle quali non v’è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più condomini, quanto con un interesse direttamente plurimo e solo mediatamente individuale, giacché, nelle cause di quest’ultimo tipo, la legittimazione ad agire e, quindi, anche ad impugnare, spetta in via esclusiva all’amministratore, e la mancata impugnazione della sentenza da parte di quest’ultimo finisce per escludere la possibilità d’impugnazione da parte del singolo condomino (Cass. Sez. 2, 21/09/2011, n. 19223; Cass. Sez. 2, 04/05/2005, n. 9213; Cass. Sez. 2, 03/07/1998, n. 6480; Cass. Sez. 2, 12/03/1994, n. 2393).”
E’ di certo un principio pacifico che il condomino sia tenuto al pagamento delle quote alla scadenza, che si tratti di c.d. mora ex re e che sia facoltà dell’amministratore agire anche ex art. 63 disp.att. cod.civ. per ottenere decreto ingiuntivo semplicemente al verificarsi dell’inadempimento (la riforma del 2012 ha poi introdotto l’obbligo dell’amministratore di attivarsi per la riscossione delle quote entro 6 mesi dalla chiusura dell’esercizio) .
Eppure presso diversi uffici del giudice di pace accade che alla richiesta di decreto ingiuntivo si pretenda la produzione del preventivo sollecito o che il condomino ingiunto si dolga di non essere stato preventivamente avvisato.
La cassazione (Cass.civ. sez. II ord. 14 settembre 2017 n. 21313) ha ribadito che l’amministratore può agire direttamente alla scadenza delle quote dinanzi al giudice, senza necessità di alcun preventivo sollecito:
La sentenza contiene altre diverse interessanti statuizioni, poiché il litigioso condomino opponente ha avanzato una serie di censure decisamente fantasiose.
Il Giudice di legittimità sottolinea ancora un volta che le norme in tema di legittimazione processuale dell’amministratore prevedono autonomia dell’amministratore per le materie previste dall’art. 1130 cod.civ., atteso che il sistema non deve essere improntato ad un iperassemblearismo che condizioni ogni azione
La Corte, ancora una volta, delinea con precisione l’ambito applicativo della nota decisione delle Sezioni Unite del 2010
Curioso infine che l’opponente si dolga della illegittimità del decreto in quanto emesso dal Presidente del Tribunale, censura decisamente respinta dalla Cassazione che rileva che tale organo ben può provvedere – in quanto componente del Tribunale – assegnando il fascicolo a se stesso quale giudice monocratico.
La sentenza sottolinea infine l’inopponibilità al condominio dell’eventuale accordo di rateizzazione raggiunto con l’amministratore (punto su cui il giudice di merito non aveva ammesso la prova testimoniale).
La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II 31 agosto 2017 n. 20612 rel. Scarpa) affronta un tema assai complesso e di grande rilievo pratico in tema di assegnazione dei posti auto e dei conseguenti poteri dell’assemblea.
La corte osserva, in sintesi, che
è potere dell’assemblea regolamentare gli spazi esterni a parcheggio ma che lo stesso organo non ha titolo ad incidere sui diritti dei singoli,
l’area cortilizia esterna si presume comune ex art. 1117 cod.civ. salvo che il contrario risulti dal titolo e che è onere che incombe a chi avanzi pretese esclusive su quell’area provare il proprio diritto,
nel giudizio di impugnazione di delibera, che si assume abbia violato quei diritti, l’accertamento svolto sulla loro esistenza ha mero carattere incidentale e strumentale ed è inidoneo a formare giudicato sul punto, posto che legittimato passivo nella impugnazione è l’amministratore del condominio mentre la domanda di accertamento del proprio diritto deve essere svolta nel contraddittorio di tutti i condomini
il negozio di mero accertamento è inidoneo – in assenza di titolo traslativo – a vincere la presunzione di condominialità del bene ex art. 1117 cod.civ. e – tanto meno – può riconoscersi natura di negozio di accertamento alla delibera adottata a maggioranza, poiché il negozio ricognitivo deve vedere l’accordo di tutti gli aventi titolo.
la sentenza passata in giudicato che abbia – in sede di impugnativa di delibera – statuito incidentalmente sulla estensione dei diritti dei singoli, al solo fine di accertare la nullità della deliberazione, è inidonea a fare stato sulla esistenza di quei diritti.
la mera indicazione contenuta nella tabella millesimale di un bene quale proprietà esclusiva di un condomino non costituisce titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità prevista dall’art. 1117 cod.civ.
Attesa la complessità dei temi e l’interesse e puntualità degli argomenti resi dalla suprema Corte, è comunque opportuno esaminare il testo della pronuncia per esteso, almeno con riguardo ai punti salienti.
I fatti e il processo: “La Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello formulato da RB., A.P. A. e L. A. contro la sentenza n. 21405/2007 del Tribunale di Roma, la quale aveva rigettato l’impugnazione per nullità o annullabilità, dovuta ad eccesso di potere, della deliberazione assembleare del Condominio di via G. D. 7, Roma, del 27 ottobre 2004, che aveva deciso di “assegnare nei cortili una autovettura per condomino, senza assegnazione specifica in modo precario e senza recare pregiudizio e/o intralcio ai proprietari dei box, ponendo tutti i condomini in condizione di esercitare la facoltà concessa dandone esecuzione”. Gli attori avevano sostenuto che tale delibera ledesse il loro diritto di proprietà e di uso esclusivo delle rampe carrabili che conducevano ai box, diritto già accertato da precedenti sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello di Roma, nonché riconosciuto da un’anteriore deliberazione dell’assemblea del Condominio di via G. D. 7, approvata il 5 dicembre 1990 da otto condomini, e perciò in assenza dei soli due proprietari dei box, e da qualificare come negozio di accertamento.”
I principi di diritto affermati dal giudice di legittimità:
DELIBERA E NEGOZIO DI ACCERTAMENTO – “Questa Corte, invero, ha più volte ribadito che la delibera dell’assemblea condominiale che assegna i singoli posti auto ricavati nell’area cortiliva comune, senza però attribuire agli assegnatari il possesso esclusivo della porzione loro assegnata, è validamente approvata a maggioranza, non essendo all’uopo necessaria l’unanimità dei consensi, in quanto essa disciplina le modalità di uso del bene comune, e si limita a renderne più ordinato e razionale il godimento paritario (Cass. Sez. 2, 31/03/2015, n. 6573; Cass. Sez. 2, 19/07/2012, n. 12485; Cass. Sez. 2, 15/06/2012, n. 9877; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1004).
Diversamente, peraltro, l’assemblea di condominio non può adottare delibere che, nel predeterminare ed assegnare le aree destinate a parcheggio delle automobili, incidano sui diritti individuali di proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, dovendosi tali delibere qualificare nulle (Cass. Sez. U, 07/03/2005, n. 4806).
Deve ulteriormente partirsi dalla premessa (ancora di recente ribadita dalla giurisprudenza di questa Corte: Cass. Sez. 6 – 2, 08/03/2017, n. 5831) che l’area esterna di un edificio condominiale, della quale manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio e sia stato omesso qualsiasi riferimento nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, va ritenuta di presunta natura condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c.
Sicchè, il condomino che impugni una deliberazione dell’assemblea, la quale abbia individuato ed assegnato gli spazi da adibire a parcheggio delle autovetture condominiali, deducendo che tale assegnazione abbia comportato un’indebita ingerenza in aree del cortile antistante il fabbricato di sua proprietà esclusiva, deve dimostrarne il relativo titolo costitutivo, in modo da superare la presunzione di attribuzione di cui all’art. 1117 c.c.
Poiché, però, la legittimazione passiva nelle cause promosse da uno dei condomini per impugnare le deliberazioni assembleari spetta all’amministratore del condominio (rientrando il compito di difendere la validità delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini nel compito di eseguire le stesse, ex art. 1130, n. 1, c.c., per il cui espletamento nel successivo art. 1131 è riconosciuta all’aministratore la rappresentanza in giudizio del condominio), va sempre considerato che esula dai limiti della legittimazione passiva dell’amministratore medesimo una domanda che sia volta ad ottenere l’accertamento della proprietà esclusiva di un singolo su un bene altrimenti compreso fra le parti comuni ex art. 1117 c.c., imponendo una tale domanda il contraddittorio processuale di tutti i restanti condomini (cfr. da ultimo Cass. Sez. 6 – 2, 15/03/2017, n. 6649).
Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione di deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., per il quale all’amministratore di condominio spetta la legittimazione passiva, l’eventuale allegazione della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, può essere oggetto di accertamento di carattere meramente incidentale, funzionale alla decisione della causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli.
Ora, il primo ed il secondo motivo del ricorso di R. B. ed il primo ed il secondo motivo del ricorso di A.P. A. e L. A. intendono che, a dimostrazione della loro proprietà esclusiva sulle rampe di accesso ai garages, si prestasse la delibera del Condominio di via G. D.7 adottata in data 5 dicembre 1990, valendo questa quale negozio di accertamento o come confessione, facente prova legale.
Tali censure sono infondate per le seguenti ragioni. L’art. 1117 c.c. attribuisce ai titolari delle singole unità immobiliari dell’edificio la comproprietà di beni, impianti e servizi – indicati espressamente o per relationem – in estrinsecazione del principio “accessorium sequitur principale”, per propagazione ad essi dell’effetto del trasferimento delle proprietà solitarie, sul presupposto del collegamento strumentale, materiale o funzionale, con queste, se manca o non dispone diversamente il relativo titolo traslativo (cfr. ad esempio, Cass. Sez. 2, 15/06/1998, n. 5948).
Secondo principi generali, ai fini dell’acquisto a titolo derivativo della proprietà di un bene immobile, non è mai da ritenersi idoneo un negozio di mero accertamento, il quale può eliminare incertezze sulla situazione giuridica, ma non sostituire il titolo costitutivo, essendo necessario, invece, un contratto con forma scritta dal quale risulti la volontà attuale delle parti di determinare l’effetto traslativo, sicché è pure irrilevante che una delle parti, anche in forma scritta, faccia riferimento ad un precedente rapporto qualora questo non sia documentato (Cass. Sez. 2, 11/04/2016, n. 7055; Cass. Sez. 3, 18/06/2003, n. 9687).
Ciò significa che, già in astratto, un negozio di accertamento non può rilevare come titolo traslativo contrario all’operatività della presunzione di condominio ex art. 1117 c.c. E’ poi in ogni caso da negare che la deliberazione 5 dicembre 1990 del Condominio di via G.D. 7 possa valere come negozio di accertamento o come confessione stragiudiziale.
Una deliberazione dell’assemblea dei condomini non può accertare l’estensione dei diritti di proprietà esclusiva dei singoli in deroga alla presunzione di condominialità delle parti comuni posta dall’art. 1117 c.c., ciò richiedendo l’accordo di tutti i condomini (come ha spiegato pure la Corte d’Appello di Roma, rilevando l’assenza di alcuni partecipanti alla riunione del 5 dicembre 1990).
Questa Corte ha proprio affermato che non rientra nei poteri dell’assemblea condominiale la deliberazione che determini a maggioranza l’ambito dei beni comuni e delle proprietà esclusive, potendo ciascun condomino interessato far valere la conseguente nullità senza essere tenuto all’osservanza del termine di decadenza di cui all’art. 1137 c.c. (Cass. Sez. 2, 20/03/2015, n. 5657).
Né la dichiarazione di scienza contenuta in un verbale di assemblea condominiale, qualora comporti, come si assume nel caso di specie, il riconoscimento della proprietà esclusiva di alcuni beni in favore di determinati condomini, può avere l’efficacia di una confessione stragiudiziale, quanto meno attribuibile ai condomini presenti all’assemblea, non rientrando, ai sensi dell’art. 1135 c.c., nei poteri dell’assemblea, come visto, quello di stabilire l’estensione dei beni comuni e delle proprietà esclusive (Cass. Sez. 2, 09/11/2009, n. 23687).
IL REGOLAMENTO DI CONDOMINIO – “Il quinto motivo del ricorso di R.B. e il terzo motivo del ricorso censurano poi l’interpretazione degli artt. 1 e 6, lett. E, del regolamento condominiale, fatta dalla Corte d’Appello, potendosi da tali clausole trarre la prova, a dire dei ricorrenti, della loro proprietà delle rampe carrabili.
Ora, questa Corte ha spesso affermato in passato che il regolamento di condominio, che, come nella specie, individui i beni comuni ai fini della ripartizione delle spese tra i condomini, o includa un bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un condomino, non costituisce un titolo di proprietà, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012; Cass. Sez. 3, 13/03/2009, n. 6175; Cass. Sez. 2, 23/08/2007, n. 17928; Cass. Sez. 2, 18/04/2002, n. 5633).
IL GIUDICATO DERIVANTE DA PRECEDENTI SENTENZE – Il sesto motivo del ricorso di R. B. adduce che la deliberazione assembleare del 27 ottobre 1994 contrastasse col giudicato contenuto nelle sentenze n. 3425/2004 della Corte d’Appello di Roma e n. 8309/2001 del Tribunale di Roma, che, in relazione ad un precedente giudizio di impugnazione ex art. 1137 c.c., avevano accertato i diritti reali esclusivi spettanti ai titolari dei box.
Al riguardo, la Corte d’Appello ha tuttavia evidenziato come queste sentenze, nel rigettare l’impugnazione avanzata dalla Società I. E. L. contro la deliberazione assembleare del 28 luglio 1999, non avevano accertato con efficacia di giudicato i presunti diritti reali spettanti in via esclusiva ai titolari dei box, ma solo verificato la compatibilità del contenuto di quella delibera con i diritti vantati dalla società.
Questa interpretazione è corretta, in quanto, come già affermato in precedenza, la sentenza resa all’esito di un giudizio di impugnazione di una deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., svoltosi nei confronti dell’amministratore di condominio, può contenere un’accertamento meramente incidentale in ordine alla sussistenza, o meno, della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, senza rivestire efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli, in quanto enunciazione soltanto strumentale alla decisione sulla validità della delibera.
Può pure aggiungersi che se le sentenze n. 3425/2004 della Corte d’Appello di Roma e n. 8309/2001 del Tribunale di Roma, rivestissero quell’autorità di giudicato sulla proprietà delle rampe che il B. vi scorge, non avrebbe senso la proposizione di nuovo giudizio tendente ad un identico accertamento, giudizio culminato nella sentenza di primo grado del 19 maggio 2011, sulla quale si fondano poi il terzo ed il quarto motivo di ricorso.”
La Cassazione conferma un orientamento consolidato ed espresso dalle Sezioni Unite con la nota pronuncia 18331/2010.
Un avvocato che aveva assistito il Condominio promuove decreto ingiuntivo per le propri competenze, l’amministratore – senza alcuna delibera sottostante – propone opposizione a detto decreto e l’avvocato eccepisce il difetto di jus postulanti dell’amministratore per non essere stato autorizzato dalla assemblea.
Cass.civ. sez. II 1 agosto 2017 n. 19151 chiarisce che “Secondo il più recente indirizzo di questa Corte, inaugurato dalla pronuncia delle Ss.UU. 18331/2010, non può ritenersi che l’amministratore del condominio sia titolare di una legittimazione processuale illimitata: l’amministratore può, in via generale, costituirsi in giudizio ed impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma in tale ipotesi, onde evitare una pronuncia di inammissibilità, deve ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte della assemblea stessa.
Si è peraltro precisato che giusto il disposto dell’articolo 1131 commi 2 e 3 cod.civ., autorizzazione e ratifica sono necessarie nelle sole cause che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore (cass. 1451/2014), mentre esse non sono necessarie per quelle controversie che hanno ad oggetto parti o servizi condominiali e comunque riconducibili alle attribuzioni di cui all’articolo 1130 c.c. (Cass. 10865/2016).
Da ciò consegue che l’amministratore può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ed altresì impugnare la decisione di primo grado, senza necessità di autorizzazione alla ratifica dell’assemblea, nella controversia avente ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio dal terzo creditore in adempimento dell’obbligazione assunta dall’amministratore, nell’esercizio delle sue funzioni, in rappresentanza dei partecipanti al condominio, ovvero dando esecuzione a delibere dell’assemblea per l’esercizio dei servizi condominiali, e dunque limiti di cui all’articolo 1130 c.c. (Cass. 16260/2016).
Orbene, nel caso di specie, il credito fatto valere in giudizio si riferiva a prestazioni professionali per l’assistenza legale svolta nell’interesse del condominio, come risulta dallo stesso contenuto del ricorso, in cui gli avvocati ingiungenti hanno evidenziato che l’attività da essi posta in essere è consistita nell’aver curato per conto del condominio diverse procedure giudiziarie.
La causa in oggetto, trovando il suo fondamento nella gestione di servizi comuni e dell’erogazione delle spese relative a tale gestione (art. 1130 commi 2 e 3), si riferisce certamente ad obbligazioni assunte per l’esercizio di servizi condominiali e dunque nei limiti di cui all’articolo 1130 c.c., onde non era necessaria l’autorizzazione, nella successiva ratifica da parte dell’assemblea condominiale.”
Nel procedimento che riguarda l’impugnazione di una delibera condominiale il principio della ragione più liquida, in forza del quale il giudice può decidere sulla base di un motivo assorbente, parrebbe non potersi applicare in maniera piana.
Lo ha stabilito la Suprema Corte ( Corte di Cassazione, sez. II Civile, 14 giugno 2017, n. 14806) specificando che “se un condomino, impugnando una delibera assembleare, denuncia una pluralità di vizi che ne possono determinare l’invalidità, propone contestualmente una pluralità di domande giudiziali, con in comune il petitum (la declaratoria di nullità e/o la pronuncia di annullamento della deliberazione assembleare) ma con distinte causae petendi, corrispondenti a ciascuno dei vizi dedotti (cfr. Cass. n. 2758/2012, in materia di impugnazione di delibera di assemblea societaria). L’omissione di pronuncia perpetrata, in violazione dell’art. 112 c.p.c., dalla corte d’appello impone, quindi, la cassazione della sentenza impugnata, in relazione ai motivi esposti, con rinvio della causa alla medesima corte, in differente composizione.”
Nell’occasione la Corte ha anche ribadito l’orientamento secondo il quale legittimati proporre appello nella sentenza resa contro il condominio sono anche i singoli condomini: “Il collegio ritiene di dar seguito, sul punto, a quanto, di recente, affermato da questa Sezione, vale a dire che “… essendo il Condominio un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa di diritti connessi alla detta partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel giudizio per il quale tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi d’impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunziata nei confronti dell’amministratore stesso che non l’abbia impugnata” (Cass. n. 16562/2015; in senso conf., Cass. n. 10717/2011; Cass. n. 14765/2012; Cass. n. 12588/2002; Cass. n. 9206/2006; Cass. n. 13716/1999; Cass. n. 2392/1994).
Cass. civ. II sez. 16 febbraio 2017 n. 4183. La Corte si trova ad affrontare un caso decisamente interessante, ovvero l’individuazione del criterio di riparto delle spese da adottare per gli esborsi relativi ad una terrazza che in parte svolge funzione di copertura (terrazza a livello) ed in parte costituisce terrazza aggettante.
I rari precedenti giurisprudenziali si sono orientati sulla funzione preminente fra le due, che determinerebbe il criterio applicabile.
Putroppo però la vicenda processuale non consente una statuzione su tale principio, poichè la corte riconosce applicabile la disciplina convenzionale dettata nel regolamento.
Nel pervenire a tali concluioni è però chiamata a statuire su una eccezione di inammissibilità dell’impugnativa per non aver il condominio, a detta del ricorrente, espressamente deliberato sul punto ed avendo l’amministratore agito in via autonoma.
La corte chiarisce che “in base al disposto degli artt. 1130 e 1131 codice civile, l’amministratore del condominio è legittimato ad agire in giudizio per l’esecuzione di una deliberazione assembleare o per resistere alla impugnazione della delibera stessa da parte del condomino senza necessità di una specifica autorizzazione assembleare, trattandosi di una controversia che rientra nelle sue normali attribuzioni, con la conseguenza che in tali casi egli neppure deve premunirsi di alcuna autorizzazione dell’assembela per proporre le impugnazioni nel caso di soccombenza del condominio (cass. 15.5.1998 n. 4900, CAss. 20.4.2005 n. 8286). A questa conclusione non è di ostacolo il principio, enunciato dalle Sezioni Unite (sentenza 6 agosto 2010 n. 18331) , secondo cui l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia alla assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131 commi 2 e 3, ben può costituirsi in giudizio e impugnare sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzaizone dell’assembela, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte della assemblea stessa, per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.
L’ambito applicativo del dictum delle Sezioni Unite – con la regola, da esse esplicitata, della necessità dell’autorizzazione assembleare, sia pure in sede di successiva ratifica – si riferisce, espressamente, a quesi giudizi che esorbitano dai poteri dell’amministratore ai sensi dell’art. 1131 commi 2 e 3 cod.civ. Ma non è questo il caso, posto che eseguire le deliberazioni dell’assemblea e difiendere le stesse dalle impugnative giudiziali del singolo condomino rientra nelle attribuzioni proprie dell’amminsitratore.
Il Collegio ricorda che esiste qualche pronuncia di segno contrario anche successiva alle Sezioni Unite del 2010, ma se ne allontana allineandosi ai principi espressi dalla adunanza plenaria .
“Il collegio è invece dell’avviso che, nella propria sfera di competenza (ordinarie o incrementate dalla assemblea), l’amministratore è munito di poteri di rappresentanza processuale ad agire e resistere senza necessità di alcuna autorizzazione. Sarebbe, infatti, veramente defatigatorio, nell’ottica di un assurdo “iperassembelarismo”, che l’amministratore fosse costretto a convocare ogni volta i condomini al fine di ottenere il nulla osta, ad esempio, per agire o resistere al monitorio sul pagamento degli oneri condominiali, o al giudizio per far osservare il regolamento, o all’impugnativa di una statuizione assembleare, oppure al fine di sperare nella ratifica riguardo ad un procedimento cautelare volto a conservare le parti comuni dello stabile (v. in termini Cass. 23.1.2014 n. 1451). “
L’istituto del Trust è sempre più diffuso e anche il Condominio deve ormai rapportavisi con frequenza, sia per quel che attiene alle modalità di convocazione del trustee, sia – soprattutto – per quel che attiene alle modalità di esecuzione ove sorgano morosità relative a tali beni.
La Cassazione ( Cass. civ. III sez. 27 gennaio 2017 n. 2043) affronta il problema in maniera approfondita: Questa premessa consente di affrontare la tematica delle modalità del pignoramento di beni conferiti in trust alla stregua della giurisprudenza già consolidata di questa Corte in ordine alla natura di quest’ultimo e che non si vede alcun valido motivo di modificare: istituto che è ivi costantemente definito non già quale ente dotato di personalità giuridica, ma quale semplice insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’Interesse di uno o più beneficiari, formalmente intestati al trustee.
Infatti, con il trust alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un fiduciario, il trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato. Secondo quanto prevede l’art. 2 della Convenzione dell’Aja dell’lluglio 1985, resa esecutiva in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 364, il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di ‘amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee’ ; benché il trust non abbia personalità giuridica, dunque, il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione” (Cass. 22 dicembre 2015, n. 25800).
Di conseguenza, è il trustee l’unica persona di riferimento con i terzi e non quale legale rappresentante, ma quale soggetto che dispone del diritto (Cass. 18 dicembre 2015, n. 25478; Cass. 20 febbraio 2015, n. 3456): e ciò in quanto l’effetto proprio del trust non è quello di dare vita ad un nuovo soggetto di diritto, ma quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105), sulla base delle ampie argomentazioni sviluppate nel precedenti di questa Corte, ai quali stima il Collegio opportuno dare continuità mediante un mero richiamo
Quale ulteriore conseguenza, va escluso che possa ritenersi in alcun modo il trust titolare di diritti e tanto meno destinatario di un pignoramento che abbia ad oggetto i medesimi: e l’applicazione di tale pacifica conclusione della giurisprudenza di questa Corte al campo delle esecuzioni civili porta all’ulteriore corollario che i beni conferiti nel trust debbono essere pignorati nei confronti del trustee, perfino a prescindere dall’espressa spendita di tale qualità, relegando ad una valutazione di mera opportunità – e quindi di mera facoltatività – un’apposita menzione dell’appartenenza di quelli ad una massa separata o segregata, quale in genere viene ricostruito il patrimonio che il trust compone.
Al contrario, un pignoramento che colpisca beni che si prospettano nella – formale e separata – titolarità di un trust prospetta una fattispecie giuridicamente impossibile secondo il vigente ordinamento interno e, quindi, insanabilmente nulla per impossibilità di identificare un soggetto esecutato giuridicamente possibile, siccome inesistente e quindi insuscettibile tanto di essere titolare di diritti che – soprattutto e per quanto rileva ai fini della proseguibilità del relativo processo esecutivo – di subire espropriazioni (cioè coattivi trasferimenti) del medesimi.”
Le argomentazione spese sulla pignorabilità dei beni forniscono anche chiara ed inequivocabile riposa su chi sia il soggetto legittimato a partecipare attivamente alla vita condominiale.