l’apertura nel muro condominiale che consente a terzi il passaggio è illecita ed esula dalle previsione dell’art. 1102 cod.civ.

Ormai da tempo la Corte di legittimità ha chiarito come, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.,  sia  consentito un uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche per trarne utilità esclusive, e che a tale uso possa essere anche manifestarsi nell’apertura di ulteriori varchi su muri perimetrali per accedere dalla parte comune alla proprietà esclusiva, sempre fatti salvi i limiti previsti dalla norma (decoro, statica e diritti degli altri condomini).

Allo stesso modo la Cassazione afferma con costanza che ove tale apertura sia volta a mettere in comunicazione la parte comune con una unità estranea al condominio, seppur di proprietà del singolo condomino, si tratta invece di uso non consentito in quanto idoneo a creare una servitù sul bene comune a favore di un fondo terzo, sì che la fattispecie non può essere ricondotta all’art. 1102 cod.civ.

Cass.Civ. sez.II ord. 2 ottobre 2018 23858  ribadisce tale orientamento, seppur in una fattispecie particolare in cui il diritto di passo era comunque destinato ad essere fruito da terzi estranei al condominio.

Alcuni condomini si erano dunque attivati dinanzi al Tribunale di Venezia contro gli autori della nuova apertura: deducendo che costoro avevano trasformato senza il consenso di tutti i condomini una finestra esistente sul muro perimetrale dello stabile condominiale in una porta, mettendo in tal modo in comunicazione un locale destinato a bar con altro spazio esterno di proprietà dei medesimi convenuti.
Ad avviso degli attori, in tal modo era stata realizzata un’opera illegittima idonea a costituire una servitù a carico del bene comune a tutti i condomini”

Gli esiti di merito erano stati contrastanti: il Tribunale respingeva la domanda ritenendo che gli attori non avessero adeguatamente dimostrato che l’area scoperta non facesse parte dello stesso condominio.
Interponevano appello gli attori in prime cure e la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata n. 2534/2013, riformava la prima sentenza ritenendo che la trasformazione della finestra in porta alterasse la destinazione e la funzione dell’apertura e costituisse evento idoneo a costituire una nuova servitù a carico del condominio. Riteneva inoltre che l’intervento costituisse una possibile via di accesso di terzi estranei, avventori del bar, agli spazi condominiali, attraverso l’area esterna ed il bar degli appellati.”

La corte di legittimità, adita dai soccombenti in appello, ha così statuito: “Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art.1102 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché il vizio della motivazione, perché la Corte di Appello avrebbe configurato un uso abnorme del bene comune, rappresentato dal muro di cinta, sul presupposto che una delle due proprietà dei ricorrenti (in particolare, lo spazio aperto) non fosse compreso nello stesso condominio del quale faceva parte il locale ad uso commerciale, mentre avrebbe dovuto piuttosto ritenere i due beni compresi nel medesimo condominio e configurare pertanto un uso più intenso della cosa comune, ammesso dall’art. 1102 c.c.. Inoltre, i ricorrenti deducono che l’apertura da loro praticata non sarebbe idonea a costituire una nuova servitù a carico del condominio, da un lato poiché il possesso del diritto non poteva essere esercitato dal gestore del bar e dai suoi avventori, e dall’altro lato perché l’uso più intenso della cosa comune ammesso dall’art. 1102 c.c. non si riferirebbe necessariamente al solo proprietario del bene, ma riguarderebbe anche i terzi utilizzatori autorizzati dal proprietario medesimo.

Le due censure, che vanno esaminate congiuntamente poiché tra loro connesse, sono infondate.

Contrariamente a quanto ritenuto dai ricorrenti, infatti, la questione della ricomprensione o meno nel medesimo condominio delle due proprietà poste in comunicazione tra loro ha costituito oggetto del giudizio di secondo grado, come si evince dalla lettura del fatto contenuta a pag. 4 della sentenza impugnata. Anche dall’esame dell’atto di impugnazione, del resto, emerge che gli appellanti avevano lamentato proprio che gli odierni ricorrenti, mediante la trasformazione della finestra in porta, avessero creato una servitù di passaggio a favore di terzi estranei al condominio, con ciò evidentemente sottointendendo l’estraneità di una delle due proprietà poste in comunicazione dalla predetta apertura alla compagine condominiale in cui ricadeva invece l’altra.

Non essendosi formato quindi alcun giudicato interno sull’appartenenza o meno delle due proprietà di cui è causa allo stesso condominio, la Corte di Appello ha correttamente statuito sul punto, ritenendo – all’esito di un giudizio di fatto non utilmente censurabile in questa sede – che nel caso di specie una delle due predette proprietà fosse estranea al condominio e che quindi la nuova apertura praticata dagli odierni ricorrenti nel muro perimetrale dello stabile costituisse uso non consentito del bene comune, idoneo tra l’altro a costituire una nuova servitù a carico del condominio.

Né assume alcun rilievo, al riguardo, il fatto che il locale commerciale dei ricorrenti, posto certamente all’interno del condominio, sia stato concesso in locazione a terzi, giacché il titolo legittimante la detenzione in capo a costoro è soltanto idoneo ad escludere il loro diritto di possedere la servitù di passaggio ad usucapionem nei confronti degli odierni ricorrenti, proprietari del bene locato, ma non impedisce in termini assoluti la possibilità di questi ultimi di usucapire il predetto diritto di passaggio, anche per effetto del possesso mediato, nei confronti del condominio, né vale comunque a rendere lecita una condotta oggettivamente risolventesi in un uso abnorme e non autorizzato del bene comune.

Del pari irrilevante è la deduzione secondo cui l’uso più intenso della cosa comune non postula l’utilizzazione esclusiva della stessa da parte del solo condomino, ma ammette anche un uso da parte di terzi, autorizzati dal primo, posto che quel che rileva, nel caso di specie, è in ultima analisi la natura illecita dell’utilizzazione, che rende superflua qualsiasi considerazione relativa alla sua effettiva estensione, oggettiva o soggettiva.”

© massimo ginesi 4 ottobre 2018 

Abbattimento barriere architettoniche e condominio: una interessante pronuncia del Consiglio di Stato.

Un soggetto, portatore  di handicap, intende realizzare un varco di accesso su un muro perimetrale del fabbricato condominiale e presenta a tal fine  DIA  alla pubblica amministrazione: ne nasce una complessa vicenda dapprima amministrativa e poi giudiziale in cui il TAR “Ravvisò l’assenza del titolo di legittimazione a richiedere la DIA per le opere di straordinaria manutenzione in mancanza del nulla osta condominiale”.

Dopo due passaggi dinanzi la Tribunale amministrativo regionale la vicenda finisce dinanzi al Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sez. IV, 27/01/2017, n. 353) che ha occasione di sottolineare due importanti principi.

Non occorre il consenso degli altri condomini per l’ottenimento di titolo amministrativo volto alla realizzazione di opere riconducibili alla L. 13/1989: “se è vero che nella DIA manca ogni esplicito richiamo alla legge n. 13 del 1989, è innegabile che altrettanto esplicitamente la richiesta è effettuata da un condòmino invalido al 100% per risolvere il problema dell’accesso con l’auto alla sua abitazione. Inoltre, è innegabile che la sentenza del 2013, che aveva condannato l’amministrazione a concludere la verifica dell’istanza presentata dal privato, aveva espressamente chiesto di fare la verifica alla luce della disciplina “di portata derogatoria ed ispirata ad inequivoco favor nei confronti dei soggetti portatori di handicap”, di cui alla legge in argomento.
Dalla erronea mancata riconduzione dell’intervento alla legge di favore è derivata, poi, l’illegittimità erroneamente ravvisata per non avere il provvedimento verificato la disponibilità dell’immobile in capo al richiedente mediante l’esibizione dei nulla osta rilasciati dai due condomìni. Infatti, se – all’esito della valutazione della documentazione presentata dal privato da parte della Amministrazione -l’intervento rientrava nell’ambito delle opere che non sono sottoposte a titolo abilitativo (art. 6, comma 1, lett. b, TUE, nella versione applicabile ratione temporis), ogni verifica della disponibilità dell’immobile in capo all’istante sotto il profilo del nulla osta dei condomìni A e B al fine di avanzare istanza per il rilascio del titolo abilitativo è superflua e, correttamente, pertanto, l’Amministrazione non l’ha compiuta.
Comunque, in presenza di un’istanza all’Amministrazione era sufficiente verificare – come è stato fatto richiamando la qualità di condòmino con disabilità al 100% – l’esistenza di una posizione qualificata con la cosa, idonea – fermi restando i diritti dei terzi – a legittimare il portatore di handicap, proprietario dell’appartamento di cui fa parte il condominio, ad avanzare una richiesta per lavori volti ad eliminare barriere architettoniche. Posizione qualificata sicuramente esistente per una richiesta di titolo abilitativo non necessario (art. 6 cit.), se si considera che, ai sensi di legge (art. 78, comma 2, TUE, riproduttivo dell’art. 2 della l. n. 13 del 1989), il portatore di handicap può financo realizzare a proprie spese alcune opere per le quali il titolo abilitativo sia richiesto (es. allargamento porta di accesso all’immobile) se non ottiene il nulla osta del condominio.
Resta da precisare che le opere in argomento, per l’identificazione delle quali non vi è discussione tra le parti, consistono nella realizzazione di un varco di accesso con cancello scorrevole nel muro perimetrale comune. Esse rientrano, all’evidenza, tra quelle di edilizia libera si cui all’art. 6 in argomento, nella formulazione applicabile ratione temporis, essendo escluse dalle opere libere solo quelle che comportano la realizzazione di rampe, di ascensori esterni, di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio.
Né vi è nella specie alterazione della sagoma dell’edificio. Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata, la sagoma è la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (ex plurimis, C.d.S, VI, n. 1564 del 2013); conseguente è l’esclusione dell’alterazione della sagoma in caso di aperture che, come nel caso di specie, non prevedano superfici sporgenti (Cass. pen., n. 19034 del 2004)”.

Il giudice amministrativo non può effettuare valutazioni sulla lesività della innovazione: “il giudice ha omesso di fermarsi al confine della valutazione del rapporto privato/amministrazione, l’unico rilevante nell’ottica del giudizio di annullamento di un atto emanato all’esito della conclusione del procedimento di verifica delle condizioni della DIA. Invece, ha invaso il campo, riservato al giudice civile, dei rapporti tra privati, soffermandosi sull’art. 1120, ultimo comma c.c., in riferimento al divieto, anche per il portatore di handicap, di opere su bene comune che limitino l’uso comune degli altri condomini. Quindi, quanto il giudice dice circa l’oggettiva impossibilità di utilizzo a favore di tutti i condomini (sia del varco, sia della parte retrostante al varco), con conseguente divieto dell’opera ex art. 1120 c.c., non poteva essere oggetto di esame, essendo il giudice amministrativo chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’atto che qualifica di edilizia libera le opere per le quali era stato richiesto un inutile titolo abilitativo. Se il condominio ritiene che le opere realizzate ledano l’uso comune di parti comuni agli altri condòmini, potrà, eventualmente, rivolgersi al giudice civile.”

© massimo ginesi 14 febbraio 2017