La Cassazione ( Cass. civ. II sez. 18 gennaio 2017 n. 1210 rel. Scarpa) affronta un tema complesso e che tocca il cuore della disciplina dei diritti reali: come va qualificata l’azione di colui che agisce per vedersi riconosciuto proprietario di un bene e per far cessare attività di terzi che ne pregiudicano l’utilizzazione esclusiva ?
La vicenda riguarda un lastrico solare conteso fra più condomini: “Con citazione del 20 aprile 2004 F.G. e Bo.Ro. convenivano davanti al Tribunale di Milano B.S. e il Condominio di via (omissis) , chiedendo che fosse accertato il diritto di proprietà indivisa, in capo agli attori stessi ed al B. , della terrazza costituita dal lastrico solare, soprastante una porzione al piano terreno dello stabile condominiale, terrazza alla quale avevano accesso, attraverso le rispettive porte finestre, gli attori e il convenuto B. , proprietari di unità immobiliari ad essa adiacenti”
Osserva la corte che “F.G. e Bo.Ro. hanno invocato nel presente giudizio la loro qualità di comproprietari, insieme al convenuto B.S. , del terrazzo esistente tra le unità immobiliari di loro rispettiva titolarità esclusiva, comprese nell’edificio condominiale di via (omissis) . Su tale terrazzo gli attori hanno lamentato che il convenuto avesse costruito arbitrariamente un lucernaio che pregiudicava il loro utilizzo del bene comune, e perciò ne chiedevano la demolizione con il ripristino dell’originaria pavimentazione.”
in forza di tale qualificazione viene tratteggiato il principio di diritto applicabile. Pare che la Suprema Corte si orienti verso una disciplina probatoria unitaria (e restrittiva) per ogni azione che presupponga una controversia sul diritto di proprietà, sfumando pressoché completamente il labile confine fra accertamento e rivendica: “Secondo, quindi, l’orientamento di questa Corte, erroneamente ritenuto non applicabile nel caso di specie dalla Corte d’Appello di Milano, gli attori dovevano soggiacere all’onere di offrire la prova rigorosa prescritta in tema di azione di rivendica della proprietà ex art. 948 c.c., avendo agito per ottenere – previo accertamento della comunione – il recupero della piena utilizzazione della terrazza, mediante demolizione del lucernaio costruito dal convenuto che pregiudicava il loro utilizzo del bene comune e ripristino della situazione dei luoghi, ovvero allo scopo di conseguire un provvedimento che consentisse loro l’esercizio dei poteri spettanti ai comunisti nell’uso del bene e quindi disponesse la modifica dello stato di fatto (cfr. da ultimo Cass. 11 maggio 2016, n. 9656, non massimata; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3648).
È stato effettivamente affermato in passato da questa Corte che colui il quale proponga un’azione di mero accertamento della proprietà di un bene non abbia l’onere della “probatio diabolica”, ma soltanto quello di allegare e provare il titolo del proprio acquisto, quando l’azione non miri alla modifica di uno stato di fatto, bensì unicamente all’eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito (Cass. 14 aprile 2005, n. 7777; Cass. 9 giugno 2000, n. 7894; Cass. 4 dicembre 1997, n. 12300). In altre pronunce, viceversa, si è negata ogni attenuazione dell’onere probatorio del titolo del preteso dominio della proprietà, rispetto all’azione di rivendica, per chi proponga un’azione di accertamento della proprietà di un bene (Cass. 22 gennaio 2000, n. 696). Quest’ultima più rigorosa interpretazione potrebbe ora trovare corroborazione pure negli argomenti posti da Cass. sez. un. 28 marzo 2014, n. 7305, nel senso di non ammettere alcuna elusione dall’onere della probatio diabolica ogni qual volta sia proposta un’azione, quale appare pure quella di accertamento, che trovi il proprio fondamento comunque nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione.
Rimane comunque che F.G. e Bo.Ro. , sia perché chiedono l’accertamento della (com)proprietà del terrazzo, sia perché comunque mirano ad ottenere una modifica dello stato di compossesso del bene, con ordine al convenuto B. di demolire un manufatto da questo realizzato, essendo soggetti al medesimo onere probatorio prescritto per l’azione di rivendica, debbano dare la prova della proprietà del bene, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, con la sequela degli acquisti a titolo derivativo (inter vivos o mortis causa) fino a chi abbia acquistato in via originaria (ovvero dimostrando il compimento dell’usucapione, mediante il cumulo dei successivi possessi uti dominus).”
© massimo ginesi 20 gennaio 2016