tettoia da demolire se il regolamento contrattuale vieta modifiche

è quanto statuisce Cass.civ. sez. II  13.9.2023 n. 26424, censurando la Corte di Appello di Catanzaro  che aveva invece ritenuto il manufatto legittimo in quanto inidoneo ad arrecare nocumento al decoro dell’edificio.

Osserva la suprema corte che La Corte d’appello ha infatti affermato che l’art. 13 del regolamento condominiale non ha limitato le facoltà riconosciute al singolo condomino, così che, non avendo l’installazione recato nocumento al decoro architettonico dello stabile, andava confermato il rigetto della domanda del Condominio.

L’affermazione della Corte si pone in contrasto con la lettera dell’art. 13 del regolamento condominiale che non … dispone “ogni condomino è obbligato a non apportare modifiche di alcun genere alle unità immobiliari di sua proprietà e alle relative pertinenze interne ed esterne”

© MG 10.10.2023

asilo in condominio:quando il regolamento lo vieta

La Corte di legittimità, con ampia ed interessante pronuncia (Cass.civ. sez. II 30.5.2023 n. 15222 rel. Scarpa) ha affrontato il complesso tema delle azioni esperibili contro il conduttore che violi il regolamento contrattuale del condominio, destinando l’immobile a lui locato ad attività di asilo, laddove la stessa debba intendersi vietata  dal testo regolamentare.

La pronuncia contiene numerose riflessioni attinenti al profilo sostanziale e processuale dell’azione, avuto riguardo alla legittimazione passiva del conduttore, al litisconsorzio necessario con il locatore condomino nonché all’eventuale azione del singolo volta a far accertare la nullità della clausola contrattuale (che vede  la legittimazione necessaria di tutti gli altri condomini): per l’ampiezza e finezza di analisi merita lettura integrale.

Sul tema specifico del divieto di destinazione ad asilo, la corte – che cassa con rinvio – suggerisce una lettura restrittiva delle clausole limitative, così che l’attività di asilo dovrà essere attentamente valutata dal giudice di merito con riguardo alle espressioni utilizzate nel testo regolamentare:

“Nella interpretazione, invece, del divieto di “destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni”, occorre preservare il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, avendo riguardo alle limitazioni enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, e cioè alla elencazione delle attività vietate risultanti dall’atto scritto, non potendosene desumere ulteriori e diverse in ragione delle possibili finalità pratiche perseguite dai condomini contraenti in rapporto ai pregiudizi che si aveva intenzione di evitare (quale, ad esempio, evitare tutte le attività parimenti “rumorose”).

3. Alla stregua dei principi enunciati, dovrà procedersi in sede di rinvio ad accertare se l’art. 9 del regolamento condominiale fosse opponibile alla condomina locatrice Talvera s.a.s. e se lo stesso rechi un divieto chiaro ed esplicito di destinare le unità immobiliari di proprietà esclusiva ad asilo nido.”

DA parte della giurisprudenza di merito si è altresì  ritenuto di recente (Trib. Bergamo 20 giugno 2023, n. 1326)  che, ove il regolamento  contrattuale vieti tout court usi diversi da quello di civile abitazione, debba ritenersi vietata anche la destinazione a home schooling: “Il regolamento condominiale vieta di adibire le unità immobiliari a destinazione diversa dall’abitazione.Tale regolamento, formato dal costruttore, ha natura contrattuale, essendo richiamato nei titoli di acquisto, ed è stato debitamente trascritto (do cc. 5 – 6 attore).L’attività di scuola parentale ricade indubbiamente nel divieto, trattandosi di una destinazione diversa da quella di civile abitazione.Non rileva che essa sia lecita dal punto di vista scolastico ed espletata a titolo gratuito, interessa soltanto l’aspetto condominiale.La previsione regolamentare è chiara ed esplicita, e non dà adito ad alcun dubbio o ince1tezza: essendo vietate tutte le attività diverse dall’uso abitativo, non pare necessaria l’elencazione analitica delle stesse. Infatti, è del tutto evidente l’intento di prevedere una destinazione esclusivamente abitativa delle unità collocate all’interno dell’edificio condominiale.

Non vi è, pertanto, la necessità di procedere ad un’interpretazione della norma, giacché in claris non fit interpretatio (arg. ex Cass. n. 21307/2022: “I divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti.”

Taluni interpreti hanno ritenuto che il giudice lombardo si sia discostato dalla recente pronuncia di legittimità, ma così non è, poiché le due statuizioni perseguono piani contigui ma non coincidenti: la pronuncia di legittimità esclude interpretazione estensive,  a fronte di una elencazione generica della clausola regolamentare che indichi le attività espressamente vietate; il giudice di merito si limita a rilevare che l’attività di asilo non può esser ricondotta all’uso di civile abitazione, unico ammesso in quel fabbricato  per accordo negoziale fra i condomini (si veda, in tema di  uso per civile  abitazione  niente bed & breakfast se il regolamento vieta attività commerciali ).

Cass_15222_2023

© MG 5.9.2023

 

regolamento contrattuale, modifiche apportate dal singolo e sindacato dell’autorità giudiziaria.

E’ noto che il singolo condomino, ai sensi dell’art. 1102 c.c., può apportare alla cosa comune ogni modifica che renda più comodo o proficuo il suo utilizzo, purché non alteri la destinazione e non impedisca l’altrui pari uso.

Ove l’intervento rimanga entro tali parametri, il condomino può intervenire in autonomia e l’assemblea non ha alcun titolo ha rilasciare autorizzazioni, previsione che invece può essere contenuta in un regolamento di natura contrattuale.

Ove il regolamento negoziale preveda la preventiva autorizzazione dell’assemblea all’intervento del singolo, è consentito al Giudice (che per costante orientamento non può intervenire sulle valutazioni discrezionali dell’organo collegiale) sindacare la sussistenza della violazione del decoro opposto dall’assemblea per negare il consenso.

E’ quanto emerge da una recente pronuncia di legittimità (Cass.civ. sez. II  28.12.2022 n. 37852 rel. Scarpa) che, per ampiezza e accuratezza dell’analisi, merita integrale lettura e che giunge ad affermare il seguente principio di diritto: “allorché una clausola del regolamento di condominio, di natura convenzionale, obblighi i condomini a richiedere il parere vincolante della assemblea per l’esecuzione di opere che possano pregiudicare il decoro architettonico dell’edificio, la deliberazione che deneghi al singolo partecipante il consenso all’intervento progettato, ritenendo lo stesso lesivo della estetica del complesso, può essere oggetto del sindacato dell’autorità giudiziaria, agli effetti dell’art. 1137 c.c., soltanto al fine di accertare la situazione di fatto che è alla base della determinazione collegiale, costituendo tale accertamento il presupposto indefettibile per controllare la legittimità della delibera.”

Cass_2022_37852

© Massimo Ginesi 9.1.2023

regolamento contrattuale: quando non vincola tutti i condomini

Il regolamento di condominio, di natura contrattuale, che stabilisca limitazioni e vincoli al godimento delle parti comuni o individuali non vincola coloro che abbiano acquistato prima della sua predisposizione e allegazione ai singoli atti di acquisto.

E’ quanto statuisce Cass. civ. II, 4 maggio 2022 n. 141230

14130

© massimo ginesi 11 maggio 2022 

clausola compromissoria e regolamento condominiale

Cass.civ. sez. II  17 marzo  2022 n. 8698 rel. Scarpa: «la clausola compromissoria per arbitrato irrituale contenuta in un regolamento di condominio, la quale stabilisce che siano definite dagli arbitri le controversie che riguardano la interpretazione e la qualificazione del regolamento che possano sorgere tra l’amministratore ed i singoli condomini, deve essere interpretata, in mancanza di volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le cause in cui il regolamento può rappresentare un fatto costitutivodella pretesa o comunque aventi causa petendi connesse con l’operatività del regolamento stesso, il quale, in senso proprio, è l’atto di autorganizzazione a contenuto tipico normativo approvato dall’assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell’art. 1136 c.c. e che contiene le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione (art. 1138, comma 1, c.c.)».

La Suprema Corte, ad opera di raffinato relatore, oltre a chiarire la natura e portata della clausola compromissoria che riguardi l’applicazione del regolamento,  ribadisce l’ammissibilità di clausole arbitrali in materia condominiale, ricordando che “È anche uniforme l’orientamento di questa Corte secondo cui l’art. 1137 c.c., comma 2, nel riconoscere ad ogni condominio assente, dissenziente o astenuto la facoltà di ricorrere all’autorità giudiziaria avverso le deliberazioni dell’assemblea del condominio, non pone una riserva di competenza assoluta ed esclusiva del giudice ordinario e, quindi, non esclude la compromettibilità in arbitri di tali controversie, le quali, d’altronde, non rientrano in alcuno dei divieti sanciti dagli artt. 806 e 808 c.p.c. (Cass. Sez. 2, 20/06/1983, n. 4218; Cass. Sez. 2, 05/06/1984, n. 3406; Cass. Sez. 1, 10/01/1986, n. 73; Cass. Sez. 6 – 2, 15/12/2020, n. 28508).”

©  massimo ginesi 19 marzo 2022 

niente bed & breakfast se il regolamento vieta attività commerciali

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  ord. 7 ottobre 2020 n. 21562), con pronuncia particolare  e che pare apparentemente porsi in contrasto con precedente orientamento, afferma che l’attività di affittacamere deve ritenersi vietata nel condominio in cui il regolamento di natura contrattuale vieti la destinazione di unità immobiliari ad esercizio commerciale.

La pronuncia trae spunto dalla peculiare motivazione con cui il giudice di merito aveva accolto la domanda e – per le motivazioni addotte – pare in realtà assai più convincente delle precedenti che riconducevano l’attività al perimetro della civile abitazione, consentendone l’esercizio anche in quei fabbricati in cui era vietata la destinazione degli appartamenti ad esercizi commerciali: non vi è dubbio che tale attività ricettiva finisca per introdurre nel contesto condominiali parametri di frequentazione del tutto diversi dalla civile abitazione e decisamente assimilabili, ormai, per estensione e diffusione nelle località turistiche, a quelle delle attività alberghiere.

-la corte d’appello ha riconosciuto che l’attività svolta nell’unità immobiliare era contraria alla previsione del regolamento condominiale alla stregua di una valutazione oggettiva, condotta esclusivamente in base al confronto fra la stessa attività e la previsione regolamentare;
– è evidente che la teorica conformità al regolamento condominiale dell’uso dichiarato nel contratto di locazione non esclude che il regolamento possa poi essere di fatto ugualmente violato;

..

-l’art. 28 del regolamento Condominiale dispone: “gli appartamenti potranno essere destinati esclusivamente a civili abitazioni, studi o gabinetti professionali, restando espressamente vietati destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale, a uffici pubblici, dispensari sanatori, case di salute di qualsiasi genere, gabinetti per cure di malattie infettive, contagiose o ripugnanti, ad agenzie di qualunque specie, a ufficio depositi di pompe funebri, a ufficio di collocamento, ristoranti, cinematografi, magazzini, scuole di qualunque specie, chiese, accademie (..).”;
– la ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la destinazione per civile abitazione prevista dalla norma regolamentare è pienamente compatibile con l’attività di affittacamere, costituendone anzi un suo presupposto (Cass. n. 24707/2014; n. 16972/2015);
– il rilievo non tiene conto che la corte d’appello ha riconosciuto la violazione del regolamento condominiale anche in base a un argomento diverso e ulteriore rispetto a quello addotto dal giudice di primo grado;
– secondo il tribunale il riferimento all’espressione “uso abitativo” sottintendeva l’utilizzo dell’immobile come dimora stabile e abituale, con esclusione della prestazione di alloggio per periodi più o meno brevi in vista del soddisfacimento di esigenze abitative di carattere transitorio;
– la corte d’appello ha seguito una logica diversa;
-ciò che rende l’attività ricompresa fra le attività vietate è il suo caratterizzarsi quale attività commerciale, assimilabile a quella alberghiera, “esplicantesi a scopo di lucro da parte di società di capitali mediante la prestazione sul mercato di alloggio dietro corrispettivo per periodi più o meno brevi”;
-una simile attività, secondo la corte d’appello, è in contrasto con l’art. 28, “essendo tale destinazione commerciale incompatibile con l’uso abitativo ed espressamente vietata”;
– la ricorrente pretende di riferire il divieto di svolgere attività commerciali a quelle attività espressamente vietate dalla norma del regolamento;
-secondo la ricorrente, il “divieto di destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale” non avrebbe quindi alcuna autonomia, ma introdurrebbe l’esemplificazione proposta di seguito dalla norma regolamentare, mentre ogni altra e diversa attività commerciale dovrebbe ritenersi lecita;
– così identificato l’autentico significato della censura è chiaro che il problema che si pone nel caso in esame è un problema squisitamente interpretativo della previsione regolamentare, laddove fa divieto di destinare gli appartamenti “ad esercizio o ufficio industriali o commerciale”;
– è pacifico che l’interpretazione del regolamento condominiale integra un giudizio di fatto, rimesso alla competenza esclusiva del giudice di merito; – al pari di qualsiasi giudizio di fatto è soggetto, in sede di cassazione, a controllo, e quindi a censura, non per la sua sostanziale esattezza o erroneità, da verificarsi in base a rinnovata interpretazione della dichiarazione considerata, bensì soltanto per ciò che attiene alla sua legittimità, e cioè alla conformità a legge dei criteri ai quali è adeguato e alla compiutezza, coerenza e conformità a legge della giustificazione datavi (Cass. n. 5393/1999; n. 9355/2000; n. 20712/2017);
– la corte di merito ha riconosciuto che il divieto di svolgere attività commerciali, posto dal regolamento, si riferiva alle attività suscettibili di essere considerati tali secondo il significato giuridico della espressione, così attribuendo al divieto un ambito di applicazione specifico e autonomo e non meramente introduttivo della susseguente elencazione di specifiche attività vietate;
-tale rilievo, di per sé, non rileva errori giuridici o vizi logici, tenuto conto che il divieto di attività commerciali e i divieti susseguenti sono posti letteralmente sullo stesso piano (restando espressamente vietati destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale, a uffici pubblici, dispensari sanatori, case di salute di qualsiasi genere (…)) e che, fra le specifiche attività oggetto di espresso divieto, ve ne sono alcune che non hanno certamente carattere commerciale: uffici pubblici, uffici di collocamento, chiese, accademie;
-d’altronde il ricorrente censura tale interpretazione ma non indica il canone ermeneutico in concreto violato, risolvendosi la censura nella proposta di una diversa interpretazione del regolamento, inammissibile in questa sede (Cass. n. 641/2003; n. 11613/2004);
-ciò posto la seconda considerazione da farsi è che la assimilazione dell’attività di affittacamere a quella imprenditoriale alberghiera, proposta dalla corte d’appello, è coerente con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale “tale attività, pur differenziandosi da quella alberghiera per sue modeste dimensioni, presenta natura a quest’ultima analoga, comportando, non diversamente da un albergo, un’attività imprenditoriale, un’azienda ed il contatto diretto con il pubblico”;
-essa, infatti, richiede non solo la cessione in godimento del locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno (Cass. n. 704/2015);
– il ricorrente richiama il Regolamento n. 8 della Regione Lazio del 7 agosto 2015, in base al quale gli appartamenti da destinare a affittacamere non sono soggetti a cambio di destinazione d’uso a fini urbanistici;
– neanche tale richiamo è idoneo a rilevare un errore della corte d’appello nella riconduzione dell’attività svolta dalla conduttrice a quelle commerciali vietate dal regolamento, posto che la stessa previsione regionale, invocata dalla ricorrente, definisce l’affittacamere come “strutture gestite in forma imprenditoriale” (art. 4);
– insomma, rinterpretazione del regolamento contrattuale di condominio, operata nel caso di specie da parte del giudice del merito, non rileva nel suo complesso errori giuridici o vizi logici: essa è perciò insindacabile in questa sede (Cass. n- 17893/2009; n. 1306/2007)”

© massimo ginesi 13 ottobre 2020

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il termine per impugnare la delibera è inderogabile

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI-2 21 settembre 2020 n. 19714 rel. Scarpa)  conferma un orientamento di legittimità consolidato  e ribadisce come le norme a presidio della dinamica della gestione condominiale e della amministrazione dell’edificio non possano essere derogate  neanche in via contrattuale, secondo quanto prevede l’art. 1138  ultimo comma  c.c.

Fra tali precetti certamente rientra l’art. 1137 c.c., che stabilisce  un termine di 30 giorni per proporre impugnativa della delibera annullabile.

Secondo consolidato orientamento di questa Corte, che la sentenza impugnata ha ignorato, il regolamento di condominio, anche se contrattuale, approvato cioè da tutti i condomini, non può derogare alle disposizioni richiamate dall’art. 1138, comma 4, c.c., né può menomare i diritti che ai condomini derivano dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni (ad esempio, Cass. Sez. 2, 09/11/1998, n. 11268).

In particolare, l’art. 1138, ultimo comma, c.c., disposizione che regola la materia di causa e della quale la Corte d’appello non ha tenuto conto, contiene, invero, due diverse norme, di cui una generica e l’altra specifica. La prima esclude che i regolamenti condominiali possano menomare i diritti spettanti a ciascun condomino in base agli atti di acquisto o alle convenzioni. La seconda dichiara inderogabili le disposizioni del codice concernenti l’impossibilita di sottrarsi all’onere delle spese, l’indivisibilità delle cose comuni, il potere della maggioranza qualificata di disporre innovazioni, la nomina, la revoca ed i poteri dell’amministratore, la posizione dei condomini dissenzienti rispetto alle liti, la validità e l’efficacia delle assemblee, l’impugnazione delle relative delibere.

La prima di tali norme riguarda, dunque, i principi relativi alla posizione del condominio rispetto ai diritti dei condomini sulle parti comuni e sui beni di proprietà individuale e la disciplina di tali diritti, se non è modificabile da un regolamento comune, deliberato a maggioranza, può essere, invece, validamente derogata da un regolamento contrattuale.

La seconda norma, invece, concerne le disposizioni relative alla dinamica dell’amministrazione e della gestione condominiale. L’inderogabilità di queste ultime disposizioni è assoluta e, pertanto, la relativa disciplina non può subire modifiche neppure in base a regolamenti contrattuali o ad altre convenzioni intercorse fra le parti (cfr. Cass. Sez. 2, 03/08/1966, n. 2155).

Nel valutare la tempestività della impugnazione della deliberazione assembleare del Condominio di via (omissis…), approvata il 18 novembre 2014, avendo in particolare Mi. Pr. notificato la sua citazione il 15 dicembre 2014, la Corte d’appello di Milano avrebbe perciò dovuto rilevare la nullità della richiamata clausola contenuta nell’art. 25 lettera D del regolamento condominiale contrattuale, che stabilisce un termine di decadenza di quindici giorni, visto che l’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. vieta che con regolamento condominiale siano modificate le disposizioni relative alle impugnazioni delle deliberazioni condominiali di cui all’art. 1137 c.c. (così Cass. Sez. 2, 06/05/1964, n. 1082). Non ha fondamento la considerazione sulla novità della questione della nullità della clausola regolamentare, in quanto la stessa è rilevabile, ai sensi dell’art. 1421 c.c., anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, e quindi pure in sede di legittimità, purché siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l’esistenza (cfr. Cass. Sez. U, 12/12/2014, n. 26243).

Deve pertanto enunciarsi il seguente principio:
E’ nulla la clausola del regolamento di condominio che stabilisce un termine di decadenza di quindici giorni per chiedere all’autorità giudiziaria l’annullamento delle delibere dell’assemblea, visto che l’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. vieta che con regolamento condominiale siano modificate le disposizioni relative alle impugnazioni delle deliberazioni condominiali di cui all’art. 1137 c.c.”

© massimo ginesi 23 settembre 2020

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distacco dall’impianto di riscaldamento, regolamento e sostituzione caldaia

una recente e articolata sentenza  della suprema corte (Cass.civ. sez. II  31 agosto 2020 n. 18131 rel. Scarpa) affronta temi ricorrenti in tema di riscaldamento e chiarisce due aspetti fonte di frequente contenzioso:

a) è nulla la clausola del regolamento – anche di natura contrattuale – che vieti tour court il distacco del singolo dall’impianto centralizzato

b) ove si provveda a sostituire la caldaia e da tale intervento derivi – pre invalicabili ragioni tecniche – che talune unità non sono più servite dall’impianto comune (né risulta possibile fruire in futuro), non si verterà più in tema di distacco o rinuncia ma cessa la contitolarità dell’impianto, sì che quei condomini non saranno ptenuti a contribuire in alcun modo e la delibera che addebiti loro alcuna spesa sarà affetta da nullità

La Corte d’appello di Torino ha deciso la questione di diritto ad essa devoluta senza tener conto del consolidato orientamento giurisprudenzlale in base al quale, già prima dell’entrata in vigore del novellato art. 1118 c.c., comma 4, introdotto dalla L. n. 220 del 2012, si riconosce a ciascun condomino il diritto di rinunziare legittimamente all’uso del riscaldamento centralizzato e di distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto termico comune, senza necessità di autorizzazione od approvazione degli altri condomini, se sia provato che dal distacco non derivano nè un aggravio di spesa per gli altri condomini nè uno squilibrio di funzionamento, restando in tal caso fermo soltanto l’obbligo del concorso nel pagamento delle spese occorrenti per la conservazione e la manutenzione straordinaria dell’impianto.

Sono conseguentemente nulle, per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune, la clausola del regolamento condominiale, come la Delib. assembleare che vi dia applicazione, che vietino in radice al condomino di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento e di distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto termico comune, seppure il distacco non cagioni alcun notevole squilibrio termico nè aggravio di gestione per gli altri partecipanti. Secondo l’interpretazione giurisprudenziale di questa Corte, infatti, la disposizione regolamentare che contenga un incondizionato divieto di distacco si pone in contrasto con la disciplina legislativa inderogabile emergente dall’art. 1118 c.c., comma 4, L. n. 10 del 1991, art. 26, comma 5 e D.Lgs. n. 102 del 2014, art. 9, comma 5, (come modificato dal D.Lgs. 18 luglio 2016, n. 141, art. 5, comma 1, lett. i, punto i), diretta al perseguimento di interessi sovraordinati, quali l’uso razionale delle risorse energetiche ed il miglioramento delle condizioni di compatibilità ambientale, e sarebbe perciò nulla o “non meritevole di tutela” (Cass. Sez. 2, 11/12/2019, n. 32441; Cass. Sez. 2, 02/11/2018, n. 28051; Cass. Sez. 2, 12 maggio 2017, n. 11970; Cass. Sez. 6 – 2, 03/11/2016, n. 22285; Cass. Sez. 2, 29 settembre 2011, n. 19893; Cass. Sez. 2, 13 novembre 2014, n. 24209; Cass. Sez. 2, 30/03/2006, n. 7518).

E’ altrimenti incomprensibile la conclusione cui perviene la Corte d’appello di Torino, quando afferma che il condomino V. non poteva essersi legittimamente distaccato dall’impianto centralizzato di riscaldamento, e doveva perciò continuare a sostenerne le spese di funzionamento, in quanto, a seguito della sostituzione della caldaia avvenuta nel 2001, la proprietà V. non era proprio più collegata con il rinnovato impianto centrale condominiale: in sostanza, si legge nella sentenza impugnata: “l’impianto di riscaldamento V. non fu mai collegato “prima” (a caldaia sostituita) e distaccato “dopo” (sempre a caldaia sostiuita) dall’impianto di riscaldamento centrale”.

Di regola, si spiega che il condomino rimane obbligato a pagare le sole spese di conservazione dell’impianto di riscaldamento centrale (ad esempio, proprio quelle per la sostituzione della caldaia), anche quando sia stato autorizzato a rinunziare all’uso del riscaldamento centralizzato e a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune, atteso che l’impianto centralizzato costituisce un accessorio di proprietà comune, al quale il predetto potrà comunque, in caso di ripensamento, riallacciare la propria unità immobiliare (Cass. Sez. 2, 29/03/2007, n. 7708).

Se, tuttavia, in seguito ad un intervento di sostituzione della caldaia dell’impianto termico centralizzato, il mancato allaccio di un singolo condomino non si intenda quale volontà unilaterale dello stesso di rinuncia o distacco, ma appaia quale conseguenza della impossibilità tecnica di fruizione del nuovo impianto condominiale a vantaggio di una unità immobiliare, restando impedito altresì un eventuale futuro riallaccio, deve ritenersi che tale condomino non sia più titolare di alcun diritto di comproprietà sull’impianto, e non debba perciò nemmeno più partecipare ad alcuna spesa ad esso relativa, essendo nulla la Delib. assembleare che addebiti le spese di riscaldamento ai condomini proprietari di locali cui non sia comune l’impianto centralizzato, nè siano serviti da esso (Cass. Sez. 2, 03/10/2013, n. 22634; Cass. Sez. 2, 10/05/2012, n. 7182).”

© massimo ginesi 3 settembre 2020

 

Foto di Peter H da Pixabay

il regolamento non può vietare il distacco dall’impianto centralizzato

E’ nulla la clausola regolamentare, anche di natura contrattuale che vieti tout court al singolo di distaccarsi dall’impianto centralizzato di riscaldamento, ove da tale operazione non derivi squilibrio o aggravio di consumi.

E’ quanto afferma una recente ordinanza di legittimità (Cass.civ. sez. II  21 maggio 2020 n. 9387):

Il regolamento di condominio, anche se contrattuale, non può, invero, derogare alle disposizioni richiamate dall’art. 1138 c.c., comma 4 e non può menomare i diritti che ai condomini derivino dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni.

La clausola del regolamento condominiale, come la deliberazione assembleare che vi dia applicazione, che vieti “in radice” al condomino di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento e di distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto termico comune, è nulla, per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune, se il distacco non cagioni alcun notevole squilibrio di funzionamento (Cassazione civile sez. II, 02/11/2018, n. 28051; Cassazione civile sez. II, 12/05/2017, n. 11970; Cassazione civile sez. II, 29/09/2011, n. 19893).

Le condizioni per il distacco dall’impianto centralizzato, vanno quindi ravvisate, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, nell’assenza di pregiudizio al funzionamento dell’impianto e comportano il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123 c.c., comma 2, dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato; in tal caso, il condomino che opera il distacco è tenuto solo a pagare le spese di conservazione dell’impianto stesso.

Inoltre, l’ordinamento ha mostrato di privilegiare un favor per il distacco dall’impianto centralizzato, al preminente fine di interesse generale rappresentato dal risparmio energetico e, nei nuovi edifici, ha previsto l’esclusione degli impianti centralizzati e la realizzazione dei soli individuali.

Non trascurabile è il richiamo alle previsioni di cui alla L. n. 10 del 1991, art. 26 (che al comma 5, prevede che “Per le innovazioni relative all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato, l’assemblea di condominio Delibera con le maggioranze previste dall’art. 1120 c.c., comma 2″) nonché della L. n. 102 del 2014, che impongono la contabilizzazione dei consumi di ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi (art. 9, comma 5); emerge da tale quadro normativo l’intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento all’effettivo consumo.”

© Massimo Ginesi 26 maggio 2020

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condominio: aumento delle unità e uso turnario dei posti auto

Una recente sentenza dei giudici romani (Trib. Roma sez. V 13/12/2019,n.23958) recepisce un principio già diffuso nella giurisprudenza di legittimità (l’uso turnario dei posti auto, laddove siano in misura non sufficiente a soddisfare le esigenze di tutti i condomini) e lo applica anche alle ipotesi in cui la carenza sia sopravvenuta all’aumento dei condomini, conseguente al frazionamento di unità immobiliari

“È a questo punto da considerare che il frazionamento non è vietato dal regolamento condominiale.

Vale ulteriormente precisare che il divieto di frazionamento, essendo una limitazione del diritto alla proprietà, deve necessariamente essere espresso e che il regolamento del condominio edilizio, solamente qualora rivesta natura c.d. contrattuale, ossia sia stato redatto dall’originario unico proprietario dell’edificio, sia stato fatto oggetto di trascrizione nei pubblici registri immobiliari e sia stato richiamato nei singoli atti di alienazione delle unità immobiliari, ovvero sia stato adottato con deliberazione assunta all’unanimità dei consensi dei componenti la collettività condominiale o, infine, sia effetto di accordo negoziale intervenuto tra tutti i condomini, in ragione di tali modalità formative, può validamente imporre limiti alle facoltà d’impiego ordinariamente spettanti al singolo condomino sui beni comuni o prevedere limiti alle forme d’utilizzo degli immobili oggetto di proprietà solitaria dovendosi escludere, in difetto del rispetto di tali condizioni, la validità e cogenza di eventuali restrizioni all’esercizio del diritto dominicale, di condominio ovvero individuale, aventi titolo in un testo regolamentare.

Ciò premesso, la questione cui si deve avere riguardo per la decisione è quella della perdurante validità, o meno, di una disciplina che, pur legittimamente emessa all’epoca, non sia più rispondente alla situazione di fatto modificatasi successivamente e quella della rilevanza dei frazionamenti che accrescono il numero delle unità immobiliari e, quindi, astrattamente dei possibili fruitori dei diritti condominiali.

È al riguardo da considerare che l’uso del posto auto è stata assegnato ai singoli condomini come concessione di natura personale – e non reale – senza alcuna implicazione riguardo alla quota millesimale di partecipazione sulle cose comuni.

Diverso sarebbe stato se l’autorimessa comune fosse stata divisa tra tutti i condomini in via definitiva con l’attribuzione del posto auto come proprietà individuale. L’attribuzione di un tale diritto avrebbe dovuto, tra l’altro, anche essere sottoscritta da tutti i condomini per il perfezionamento sotto il profilo formale, stante, com’ è noto, l’obbligo della forma scritta per tutti i trasferimenti.

Ne deriva che, in assenza di alcuna limitazione legale o convenzionale che vieti o limiti il frazionamento e quindi la proliferazione delle unità immobiliari, devono essere riconosciuti ai proprietari dei nuovi appartamenti, i quali concorrono anch’essi pro-quota negli oneri afferenti alle parti comuni, gli stessi diritti di cui godevano in precedenza tutti gli altri.

Il definitiva, proprio in ragione della mutata situazione di fatto, deve riconoscersi il diritto anche alla T.G. all’uso del posto auto e ciò proprio alla luce del principio che si richiama alla parità di tutti i condomini nell’uso della cosa comune sancito dall’art. 1102 c.c, – nel caso di specie nell’uso dello spazio comune, attraverso la suddivisione in più posti auto in modo turnario nel caso in cui il numero dei posti auto complessivo sia insufficiente a fronteggiare tutte le richieste – dovendo al riguardo essere considerato che l’art. 1102 c.c., stabilisce che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro dirittoTale uso è specificamente disciplinato dall’articolo 26 del regolamento condominiale che, con specifico riguardo all’ipotesi in cui i posti auto siano inferiori rispetto al numero dei condomini, prevede espressamente la turnazione nel loro utilizzo.”

© massimo ginesi 16 gennaio 2020