interpretazione del regolamento contrattuale: la delibera del condominio non vincola il giudice.

Qualora nel condominio sia in vigore un regolamento di natura contrattuale,, il giudice è tenuto ad interpretarlo secondo le ordinarie regole ermeneutica in tema di contratti e non potrà limitarsi a recepire la lettura che di tali norme sia stata data in sede di successive delibere condominiali.

Nella fattispecie il regolamento vietava innovazioni lesive del decoro e il Condominio aveva  ritenuto conforme alla clausola un intervento di recupero del sottotetto effettuato da un condomino.

La Corte di legittimità ( Cass.civ. sez. II  ord. 27 maggio 2020 n. 9957), nel ribadire nozioni ormai consolidate in tema di decoro, rileva che il giudice di merito era tenuto a valutare se quell’intervento fosse effettivamente in contrasto con la clausola regolamentare, non potendo limitarsi a prendere atto del consenso espresso dalla maggioranza assembleare.

“Questa Corte ha affermato, con orientamento consolidato al quale il collegio intende dare continuità, che costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (Cassazione civile sez. II, 28/06/2018, n. 17102).
L’alterazione di tale decoro è integrata, quindi, da qualunque intervento che alteri in modo visibile e significativo la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono all’edificio una sua propria specifica identità (Cass. 1076/05 e Cass. 14455/09).

Ne consegue che, attesa la sostanziale identità della domanda basata sulla lesione del decoro architettonico o sull’art. 8 del regolamento condominiale, sia in relazione all’art. 1120 c.c., il motivo dedotto non è decisivo perché basato sui medesimi presupposti fattuali.

Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa interpretazione dell’art. 1362 c.c., in relazione al regolamento condominiale ed agli artt. 1120, 1137, 1138, 1350, 1372 e 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., commi 2 e 3, per avere la corte distrettuale interpretato il regolamento condominiale, facendo riferimento alla volontà dei condomini manifestata nella Delib. 25 febbraio 2003, con la quale i medesimi nulla obiettavano in ordine al progetto di modifica delle parti comuni; la corte di merito non avrebbe tenuto conto che, trattandosi di regolamento di natura contrattuale, non avrebbe potuto essere modificato a semplice maggioranza, ma con il consenso unanime dei condomini, in quando incidente sul decoro architettonico. Contestava, inoltre, che si fosse formato il giudicato per assenza di opposizione alla citata Delib. condominiale in quanto l’oggetto della Delib. era limitato al riconoscimento della legittimità degli interventi purché conformi al regolamento condominiale.

Il motivo è fondato sotto diversi profili.
È incontestato che il regolamento del Condominio (omissis) abbia natura contrattuale e che la domanda dal medesimo proposta fosse diretta alla declaratoria di illegittimità dei lavori eseguiti dai convenuti, consistenti nel recupero, ai fini abitativi, del sottotetto, perché lesivi del decoro architettonico.
Nell’interpretare il regolamento contrattuale, il giudice deve utilizzare i canoni ermeneutici previsti dal codice civile e quindi leggere le clausole complessivamente e non limitarsi alla singola disposizione (art. 1363 c.c.) e cercare di ricostruire la volontà e l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c. (Cassazione civile sez. VI, 03/05/2018, n. 10478).

L’art. 1362 c.c., allorché nel comma 1, prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cassazione civile sez. II, 22/08/2019, n. 21576).

La corte di merito ha interpretato l’art. 8 del regolamento contrattuale e, in particolare della volontà delle parti, non sulla base dei citati criteri ermeneutici, ovvero tenendo conto del dato letterale e delle altre clausole contrattuali, ma sulla base del comportamento successivo, costituito dal contenuto della Delib. 22 maggio 2003, nella quale il condominio nulla obiettava in relazione al progetto di realizzazione del recupero dell’abitabilità dei sottotetti, secondo il progetto presentato.
Tale deliberazione , che non risulta essere stata adottata all’unanimità, non poteva costituire l’unico parametro interpretativo per l’individuazione della volontà dei condomini espressa nel regolamento contrattuale, nè era idonea a modificarlo perché attinente ad innovazioni incidenti sul decoro architettonico.
In tale ipotesi, infatti, esula dai poteri istituzionali dell’assemblea dei condomini la facoltà di deliberare o consentire opere lesive del decoro dello edificio condominiale, alla stregua dell’art. 1138 c.c., comma 4 (Cassazione civile sez. VI, 18/11/2019, n. 29924).
Ne consegue che l’interpretazione del regolamento contrattuale, erroneamente basato, sulla Delib. Condominiale 22 maggio 2003, non poteva avere autorità di giudicato.”

© massimo ginesi 3 giugno 2020

casa di riposo in condominio: non è consentita se il regolamento vieta usi diversi dalla civile abitazione.

Il termine civile abitazione contenuto nei regolamenti condominiali di natura contrattuale, con ogni evidenza volto a impedire quelle attività che possano recare disturbo alla quiete dell’edificio, è inteso in senso decisamente ampio dalla giurisprudenza.

E’ noto l’orientamento in tema di bed&breakfast, oggi la Suprema Corte (Cass.Civ. sez.VI-2 14 maggio 2018 n. 11609 rel. Scarpa) si occupa invece di casa di ricovero  per anziani, con una sentenza che – pur ribadendo l’esclusiva competenza del giudice di merito nella interpretazione delle clausole regolamentari – apre interessanti spiragli sulla accezione “civile abitazione ” e sulla sua compatibilità con le destinazioni delle unità poste in condominio.

“Il Tribunale di Catania, sezione distaccata di Giarre, accolse la domanda del Condominio di via T…. 9, Giarre, contenuta nelle citazioni del 2 e del 13 settembre 2011 e volta alla cessazione dell’attività di comunità alloggio per anziani svolta da P. P. e dalla Cooperativa A. nelle rispettive unità immobiliari site nell’edificio condominiale, perché contrastante con la clausola n. 32 del regolamento di condominio. Tale clausola contempla, fra l’altro, l’obbligo di destinare gli appartamenti ad uso di civile abitazione o di studi o uffici professionali privati, nonché il divieto di adibire gli stessi a stanze ammobiliate d’affitto, pensioni e locande.

La Corte d’Appello ha così ritenuto non consentita l’attività di accoglienza per anziani esercitata da P. P. e dalla Cooperativa A., trattandosi di struttura ricettiva socio assistenziale qualificabile come di tipo residenziale (e non di civile abitazione), ovvero di un “pensionato”

 

Osserva in proposito la corte di legittimità, cui hanno fatto ricorso gli esercenti la casa di riposo:“Le medesime ricorrenti lamentano l’errore della Corte d’Appello di Catania, avendo la stessa operato un’interpretazione analogica, o estensiva, dell’art. 32 del regolamento condominiale, finendo per vietare l’attività di comunità alloggio per anziani espressamente prevista dalla normativa regionale siciliana. E’ tuttavia da ribadire come l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi, è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393).

Nella specie, l’interpretazione dell’art. 32 del regolamento del Condominio di via T….9, Giarre, non rivela le denunciate violazioni dei canoni di ermeneutica.

In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente la prescrizione di adibire gli appartamenti ad uso di civile abitazione o di studi o uffici professionali privati, nonché il divieto di destinare gli stessi a stanze ammobiliate d’affitto, pensioni e locande, come intesa a consentire le sole abitazioni private, e non anche l’uso ad abitazioni collettive di carattere stabile, ivi comprese le residenze assistenziali rivolte agli anziani, in forma di case di riposo, case famiglia o anche comunità alloggio, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’intepretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica possibile, né la migliore in astratto.

Il dato che le comunità alloggio per anziani debbano possedere i requisiti edilizi previsti proprio per gli alloggi destinati a civile abitazione non contrasta con la diversa considerazione che le medesime comunità alloggio si connotano come strutture a ciclo residenziale, le quali prestano servizi socioassistenziali ed erogano prestazioni di carattere alberghiero.”

© massimo ginesi 14 maggio 2018

inagibilità dell’appartamento, esonero dalle spese di riscaldamento ed interpretazione del regolamento contrattuale.

Un caso peculiare impegna i giudici di legittimità, chiamati a verificare le modalità di interpretazione di un regolamento contrattuale alla luce del mancato utilizzo di una unità abitativa per un apprezzabile lasso di tempo.

Cass.Civ.  sez. VI 3 maggio 2018, n. 10478 richiama gli ordinari canoni di interpretazione del contratto per verificare l’effettiva portata di clausole regolamentari di natura convenzionale, mettendo in luce come la ratio delle clausole regolamentari debba essere intesa in ottica ampia e complessiva e non alla luce del significato circoscritto della singola disposizione.

Nel caso in esame il regolamento prevedeva due norme distinte: l’una che , in caso di temporanea inagibilità del bene individuale, prevedeva una riduzione delle spese del 50% e l’altra che, viceversa, impediva al singolo di sottrarsi alla contribuzione in caso di omessa costante  utilizzazione del bene (disposizione peraltro in linea con quanto disposto dall’art. 1118 cod.civ.)

Nel caso di specie accade che “C.G. impugnava davanti al Tribunale di Roma la delibera del 14.10.2010 del Condominio (omissis) con cui erano stati approvati il bilancio consuntivo del 2009 e il bilancio preventivo del 2010, relativamente alle spese di riscaldamento e ad altri oneri condominiali. Affermava che, a seguito di un incendio sviluppatosi nell’appartamento di sua proprietà in data 19.04.2005, il Comando dei VV.FF. aveva dichiarato l’appartamento inagibile sino al ripristino delle condizioni di sicurezza, sicché aveva diritto alla riduzione del 50% della quota inerente alle spese di riscaldamento, come previsto dall’art. 5 del regolamento condominiale”

Il Tribunale di Roma accoglie la domanda e  la Corte d’Appello capitolina respinge la successiva impugnazione del Condominio, che ricorre in cassazione.

Il giudice di legittimità osserva che “Il Condominio lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto l’inagibilità dell’appartamento temporanea e dipendente dall’incendio.
La Corte d’appello ha ritenuto la fattispecie inquadrabile nell’art. 5 del regolamento condominiale secondo cui “se un’unità rimanesse disabitata durante il periodo invernale per un periodo superiore a due mesi il condomino interessato potrà ottenere una riduzione del 50 % della quota a suo carico facendone richiesta con lettera raccomandata chiudendo i corpi radianti e facendolo constatare all’amministrazione o a un suo incaricato”.
Secondo il Condominio tale disposizione andava coordinata con l’art. 13 del regolamento, secondo cui “nessun condomino può sottrarsi al pagamento della quota parte di spese che gli compete, nemmeno mediante abbandono o rinunzia delle proprietà comuni”.
Parte ricorrente sostiene che secondo una valutazione alla luce del principio di buona fede contrattuale la persistente mancata riattivazione dell’impianto di riscaldamento aveva mutato l’iniziale temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni” ai sensi dell’art. 13 del regolamento e non temporanea inagibilità ai sensi dell’art. 5 del medesimo atto.
Parte ricorrente sostiene, in definitiva, che le disposizioni del regolamento condominiale e, in particolare, l’art. 5 e l’art. 13 dovevano essere interpretate in modo sistematico alla stregua dei canoni di ermeneutica contrattuale ex artt. 1362 e 1363 c.c..

Con il secondo mezzo, il Condominio deduce la violazione degli artt. 281 sexies, 132 n. 4 e 277, comma 1, c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c..

La Corte d’appello avrebbe omesso di confrontarsi con la circostanza della inagibilità permanente per scelta del condomino, obliterando così la valutazione su tale specifico punto.

I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro attinenza alla medesima problematica interpretativa del regolamento condominiale, sono fondati nei termini che seguono.

In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. nn. 14460/2011;4670/09, 18180/07, 4176/07 e 28479/05).

Di qui l’erroneità dell’esegesi fissata esclusivamente su di una singola parola o frase, astratta dal resto della stessa o di altre clausole del contratto, cui pure deve applicarsi il medesimo canone interpretativo.

Nello specifico la sentenza impugnata ha adoperato in modo non conforme agli enunciati anzidetti i canoni ermeneutici dell’interpretazione complessiva della clausole (1363 c.c.) e dell’interpretazione secondo l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c.).

L’interpretazione isolata dell’art. 5 del regolamento conduce a qualificare erroneamente il caso di specie come provvisoria sospensione dell’utilizzo dell’impianto di riscaldamento.

Dal complesso delle clausole contrattuali, artt. 5 e 13 del regolamento, raccordate tra loro, si evince chiaramente che lo scopo delle previsioni era nel senso di tutelare il singolo condomino in caso di temporaneo non utilizzo dell’impianto e, al contempo, salvaguardare le ragioni del Condominio da una eventuale mancata contribuzione alle spese condominiali per una scelta prolungata, si potrebbe dire “strutturale”, della proprietà quale l’abbandono o la rinuncia alla proprietà comune di un impianto.

In tale prospettiva, risulta operazione contraria alle regole di ermeneutica contrattuale sancite dagli artt. 1362 e 1363 c.c. ricondurre il caso in esame all’ambito di applicazione dell’art. 5 del regolamento condominiale, quando in base ai fatti accertati nei giudizi di merito, risultava all’evidenza integrata l’ipotesi contemplata dall’art. 13.

In tale operazione di qualificazione giuridica e esegesi sistematica occorreva tenere conto del fatto per cui la mancata riattivazione dell’impianto, perdurante nel tempo già per quattro anni al momento della delibera, alla stregua del principio di buona fede contrattuale, mutava l’iniziale situazione di temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente.

Il limite alla qualificabilità di una sospensione temporanea con pagamento ridotto ex art. 5 Reg., era da trarre dalla connessione con l’art. 13 che negava la facoltà di trasformare la transitorietà di utilizzo in condizione permanente di esonero totale dal pagamento, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni”.

Significativamente il ricorso evidenzia che in citazione la richiesta principale del condomino era di esonero totale ex art. 13, circostanza che è verificabile perché emerge dalla sentenza del tribunale 10 ottobre 2013.

Il tutto trova conferma anche nel comportamento complessivo tenuto posteriormente dal condomino. Condotta rilevante ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c..

A tal proposito, parte ricorrente deduce che già in appello aveva denunciato il fatto che dopo otto anni dal risarcimento assicurativo l’appartamento era ancora disusato per scelta, sicché se l’iniziale inagibilità non era imputabile al C. , non altrettanto poteva dirsi a seguito del risarcimento del danno che lo metteva nella condizione di ripristinare l’agibilità dell’appartamento.

Simile circostanza, acclarata nella sentenza di secondo grado, riscontra che già nel 2009 il comportamento di mancato ripristino dell’impianto equivaleva ad abbandono o rinunzia, con conseguente applicabilità dell’art. 13 del regolamento condominiale, nel cui perimetro ricade la fattispecie in esame.”

© massimo ginesi 7 maggio 2018 

regolamento contrattuale e innovazioni: quando la valutazione è rimessa ad un terzo.

un caso singolare giunge all’esame della corte di legittimità (Cass.Civ. II sez. 19 dicembre 2017 n. 30528 rel. Scarpa): un regolamento di natura contrattuale rimette al progettista del fabbricato (o ad altro architetto) la valutazione di ammissibilità delle  future innovazioni destinate ad incidere  sul prospetto dell’edificio.

Il motivo di contesa riguarda una serra solare realizzata sul giardino di proprietà esclusiva e in aderenza alla facciata condominiale dal condomino del piano terreno; la vicenda è stata decisa nel merito dal giudice di secondo grado di Milano “La Corte d’Appello ha affermato che l’art. 25 del Regolamento condominiale rimettesse ogni opera, che potesse variare le caratteristiche delle facciate, al “preventivo ed insindacabile benestare scritto” dell’architetto E. Z., progettista dell’edificio (ovvero in futuro ad altro architetto da nominare).

Ciò, secondo la Corte di Milano, significava rimettere, mediante scelta condivisa con l’accettazione del regolamento all’atto dell’acquisto delle singole unità, ad un “soggetto qualificato” la verifica “del rispetto del requisito che la legge impone”.

I giudici di appello definivano la serra realizzata “funzionale ad accrescere la vivibilità dell’appartamento e ad assicurare la fruibilità per qualsiasi occasione anche di svago e di tempo libero”, ed escludevano l’applicabilità dell’art. 907 c.c. in tema di distanze dalle vedute, come anche la violazione dell’art. 1102 c.c., trattandosi di opera realizzata a piano terra, nel giardino di proprietà esclusiva, in aderenza alla facciata condominiale e non preclusiva del pari uso del bene comune”.

in via preliminare il giudice di legittimità osserva che “L’omesso o errato esame di una disposizione del regolamento di condominio da parte del giudice di merito è, piuttosto, sindacabile in sede di legittimità soltanto per inosservanza dei canoni di ermeneutica oppure per vizi logici sub specie del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355).”

La Corte rileva che ad avviso del giudice di merito il regolamento non costituisce deroga alla disciplina codicistica: “A pagina 3, la sentenza impugnata ha spiegato di intendere l’art. 25 del Regolamento di condominio non come “deroga alla norma civilistica”, quanto come “scelta condivisa con l’accettazione del regolamento condominiale”, diretta a “rimettere ad un soggetto particolarmente qualificato” la constatazione della non alterazione del decoro architettonico riferibile agli interventi sulla facciata dell’edificio.

Questa Corte ha già spiegato in passato come la disposizione di cui al quarto comma dell’art. 1138 c.c., secondo cui le norme del regolamento di condominio (anche in ipotesi di cosiddetto regolamento contrattuale) non possono in nessun caso derogare, tra l’altro, a quanto stabilito nell’art. 1120 dello stesso codice, impedisce comunque l’esecuzione di opere e lavori lesivi del decoro dell’edificio condominiale o di parte di esso (Cass. Sez. 2, 26/05/1990, n. 4905; Cass. Sez. 2, 15/01/1986, n. 175).

Tuttavia, una clausola del regolamento condominiale, quale quella in esame, che, per le modifiche esterne ed interne delle proprietà individuali incidenti sulle facciate dell’edificio, richieda il benestare scritto dell’architetto progettista del fabbricato, ovvero di altro architetto da nominare, non costituisce deroga agli artt. 1120 e 1122 c.c., dando luogo, piuttosto, a vincoli di carattere reale tipici delle servitù prediali (e non a limitazioni di portata meramente obbligatoria), nel senso di specificare i limiti di carattere sostanziale delle innovazioni (cfr. Cass. Sez. 2, 16/10/1999, n. 11688), mediante predisposizione di una disciplina di fonte convenzionale, espressione di autonomia privata, che pone nell’interesse comune una peculiare modalità di definizione dell’indice del decoro architettonico.

E’ poi costante l’orientamento di questa Corte ad avviso del quale la disciplina dettata dall’art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute non trova applicazione in ambito condominiale (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14096; anche Cass. Sez. 2, 02/02/2016, n. 1989).

Più in generale, nell’applicare in materia di condominio le norme sulle distanze legali (nella specie con riferimento al diritto di veduta), spetta al giudice di merito, con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., tener conto in concreto della struttura dell’edificio, delle caratteristiche dello stato dei luoghi e del particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, verificando, nel singolo caso, come fatto dalla Corte di Milano, la compatibilità dei rispettivi diritti dei condomini (Cass. Sez. 2, 11/11/2005, n. 22838).

Così come la realizzazione da parte di un condomino di una modifica nella sua proprietà esclusiva (nella specie, realizzazione di una serra) in aderenza alla facciata dell’edificio quale pertinenza del rispettivo appartamento, ai fini dell’utilizzo delle parti comuni, rimane sottoposta, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al divieto di alterare la destinazione della cosa comune, nonché a quello di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; ma l’accertamento se l’opera del singolo condomino, mirante ad una intensificazione del proprio godimento della cosa comune, sia conforme o meno alla destinazione della cosa comune, è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (e la Corte d’Appello ha ben spiegato a pagina 4 della sentenza le ragioni per cui la realizzazione della serra potesse essere considerata esplicazione del normale uso della cosa comune).

sulle distanze la Corte osserva ancora che “la Corte di Milano ha invece affermato che l’art. 27 del Regolamento edilizio del Comune di Milano non trovasse applicazione al caso in esame, trattandosi comunque di nuova costruzione avvenuta all’interno di un edificio condominiale, con ciò facendo ancora una volta applicazione del principio giurisprudenziale per il quale le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale soltanto se compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale (Cass. Sez. 2, 18/03/2010, n. 6546).”

© massimo ginesi 20 dicembre 2017 

è nulla la clausola del regolamento che vieta il distacco o che obbliga comunque alle spese di consumo

Lo ha stabilito Cass. civ. Sez. II 12 maggio 2017 n. 11970 rel. Criscuolo.

il regolamento contrattuale che vieti il distacco del singolo dall’impianto centralizzato o che preveda, ove lo consenta, che costui rimanga comunque obbligato a pagare le spese di consumo deve ritenersi nulla per contrarietà a norme inderogabili e superata sia dalla L. 220/2012 che dalla L. 10(1991 e succ. mod.) nonché dalle norme sulla contabilizzazione del calore.

A fronte della sussistenza dei presupposti della assenza di squilibrio e di maggiori consumi dovuto al distacco, il condomino è esonerato ex legge dalle spese di consumo.

Nè può rilevare, in senso impediente, la disposizione eventualmente contraria contenuta nel regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo quest’ultimo contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell’ordinamento.

Deve quindi ritenersi che la condivisibile valutazione di nullità della clausola regolamentare impeditivo del distacco del singolo condomino, si estenda anche alla correlata previsione che obblighi il condomino al pagamento delle spese di gestione malgrado il distacco, dovendosi ragionevolmente sostenere che la permanenza di tale obbligazione di fatto assicuri la sopravvivenza della clausola affetta da nullità, impedendo il prodursi di quello che è il principale ed  auspicato beneficio che il condomino intende trarre dalla decisione di distaccarsi dall’impianto comune.”

osserva ancora la Corte: “Valga poi richiamo alla novellata previsione di cui all’articolo 1118 codice civile che, in relazione all’ipotesi che deve reputarsi ricorre anche nel caso di specie, di assenza di squilibrio termico in conseguenza del distacco, prevede l’obbligo di contribuzione alle sole spese di manutenzione straordinaria, conservazione e messa a norma, previsione che riveste chiara portata ricognitiva dello stato della giurisprudenza sul punto.

Inoltre non trascurabile, sempre al fine supportare la soluzione in esame, è il richiamo alle previsioni di cui all’articolo 26 della legge 10 del 1991 ( che al comma 5 prevede che “per l’innovazione relativa all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e del conseguente riparto degli oneri  di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato”, l’ assemblea di condominio delibera con le maggioranze previste dal secondo comma dell’articolo 1120 del codice civile”) nonché della legge n.102/2014, che impongono la contabilizzazione dei consumi per ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base consumi effettivi (articolo 9 comma 5, ancorché la relativa violazione preveda l’irrogazione di una sanzione amministrativa), atteso che emerge un quadro normativo che denota l’intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento l’effettivo consumo, consumo che chiaramente non sussiste nel caso di legittimo distacco.”

Da osservare che la soluzione della corte assume particolare rilevanza e significato laddove giunge a dichiarare la nullità della clausola regolamentare in forza di principi generali dell’ordinamento, pur essendo dichiarato inderogabile dall’art. 138 cod.civ. il solo secondo comma dell’art. 1118 cod.civ.

© massimo ginesi 15 maggio 2017

ascensore e regolamento di condominio: le spese vanno ripartite in forza dell’art. 1124 cod.civ.

Una interessante e recentissima pronuncia della Cassazione (Cass. civ. VI – 2 sez. 28 marzo 2017 n. 8015, rel. Scarpa) affronta un caso bizzarro: in un fabbricato in condominio sussiste regolamento di natura contrattuale in cui è previsto che le spese per la manutenzione delle scale avvenga ai sensi dell’art. 1124 cod.civ.; negli atti di acquisto dei condomini è altresì previsto che “la ripartizione delle spese condominiali verrà fatta in proporzione ai millesimi di proprietà e in conformità a quanto disposto dal regolamento di condominio”.

Nulla si dice in tema di ascensore, sicchè il Condominio ha ritenuto che ciò costituisse deroga convenzionale ai criteri di riparto ed ha attribuito le spese di ascensore in ragione dei millesimi generali  ex art. 1123 I comma cod.civ.: la tesi è  quantomeno singolare, eppure  ha trovato avvallo sia dal Tribunale di Verona che dalla Corte di Appello di Venezia, che hanno respinto nel merito  l’impugnativa di uno dei condomini.

Costui ricorre in Cassazione, rilevando anche un altro vizio della decisione di secondo grado relativo alla celebrazione della assemblea e alla partecipazione per delega dei condomini: in quel fabbricato il regolamento prevedeva che i partecipanti non potessero recare più di due deleghe, mentre nella delibera impugnata l’amministratore era portatore di tre deleghe (i fatti sono anteriori al 2012 e quindi non vedono diretta applicazione dell’art. 67 disp. att. cod.civ. oggi in vigore). I giudici di merito hanno ritenuto che, poichè il voto espresso da colui che portava deleghe in numero superiore non risultava decisivo, la doglianza era infondata (c.d. prova di resistenza).

La Suprema Corte riconosce invece fondati entrambi i motivi, con argomentazioni che è opportuno riportare per esteso.

SUL RIPARTO DELLE SPESE DI ASCENSORE: “Secondo l’orientamento del tutto consolidato di questa Corte, la regola posta dall’art. 1124 c.c. relativa alla ripartizione delle spese di manutenzione e di ricostruzione delle scale (per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzione di piano, per l’altra metà in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo) in mancanza di criteri convenzionali, è applicabile per analogia, ricorrendo l’identica “ratio” (e poi proprio ex lege, a seguito della riformulazione dell’art. 1124 c.c. operata della legge n. 220/2012, qui non operante ratione temporis), alle spese relative alla conservazione e alla manutenzione dell’ascensore già esistente (su cui incide il logorio dell’impianto, proporzionale all’altezza dei piani). Pertanto l’impianto di ascensore è di proprietà comune – secondo la presunzione di cui all’art. 1117 n. 3 c.c., in mancanza di titolo contrario – fra tutti i condomini in proporzione al valore dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva (art. 1118 c.c.) e la ripartizione delle spese relative all’ascensore è regolata dai criteri stabiliti dall’art. 1124 c.c. e dall’art. 1123 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3264 del 17/02/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5975 del 25/03/2004; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2833 del 25/03/1999).

Anche il criterio di ripartizione delle spese condominiali stabilito dall’art. 1124 c.c., e quindi operante per la manutenzione dell’ascensore, può essere derogato, come prevede l’art. 1123 c.c., e il relativo accordo modificatore della disciplina legale di ripartizione può essere contenuto sia nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “di natura contrattuale”), sia in una deliberazione dell’assemblea che venga approvata all’unanimità, ovvero col consenso di tutti i condomini. La deroga ai criteri legali di ripartizione delle spese condominiali suppone, tuttavia, un’espressa convenzione (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16321 del 04/08/2016, non massimata; Cass. Sez. 2, Sentenza n.28679 del 23/12/2011).

Proprio perche, in base all’art. 1124 c.c., le spese di manutenzione e ricostruzione delle scale e degli ascensori vanno assimilate e assoggettate alla stessa disciplina, senza alcuna distinzione tra le une e le altre, la clausola del regolamento condominiale che dispone che le spese di manutenzione delle scale vadano ripartite secondo l’art. 1124 c.c. non può affatto essere intesa come convenzione contraria alla suddivisione delle spese di manutenzione degli ascensori secondo lo stesso criterio; né tanto meno vale quale deroga all’art. 1124 c.c. la clausola contenuta nell’atto di acquisto che prevede che la ripartizione delle spese condominiali avvenga secondo i millesimi e in conformità a quanto disposto dal regolamento.”

SULLE DELEGHE: “La Corte d’Appello, invocando la cosiddetta prova della resistenza, ha escluso l’invalidità della deliberazione impugnata, nella quale l’amministratore ha esercitato il diritto di voto munito di tre deleghe, in violazione dell’art. 18 del regolamento condominiale, che stabilisce che nessuno possa rappresentare in assemblea più di due condomini.

Secondo, però, l’orientamento di questa Corte, la clausola del regolamento di condominio volta a limitare il potere dei condomini di farsi rappresentare nelle assemblee, riducendolo, come nella specie, a non più di due deleghe, regola l’esercizio del diritto di ciascun condomino di intervenire in questa a mezzo di delegati (art. 67, comma 1, disp. att. c.c., anch’esso modificato dalla legge n. 220/2012 con riformulazione qui non applicabile ratione temporis), inderogabile (secondo quanto si evince dal successivo art. 72) giacchè posto a presidio della superiore esigenza di garantire l’effettività del dibattito e la concreta collegialità delle assemblee, nell’interesse comune dei partecipanti alla comunione, considerati nel loro complesso e singolarmente (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5315 del 29/05/1998).

Sicchè la partecipazione all’assemblea condominiale di un rappresentante fornito di un numero di deleghe superiore a quello consentito dal regolamento di condominio, comportando un vizio nel procedimento di formazione della relativa delibera, dà luogo ad un’ipotesi di annullabilità della stessa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7402 del 12/12/1986), senza che possa rilevare il carattere determinante del voto espresso dal delegato per il raggiungimento della maggioranza occorrente per l’approvazione della deliberazione stessa.”

© massimo ginesi 4 aprile 2017

 

 

per l’azione di nullità del regolamento contrattuale non vi è legittimazione passiva dell’amministratore

Il regolamento di natura contrattuale è una convenzione intercorsa fra più soggetti, nei cui unici confronti – e non dell’amministratore del condominio – va introdotta l’azione per farne dichiarare la nullità.

Quel tipo di regolamento, proprio per la sua natura contrattuale, è idoneo anche ad identificare le parti comuni ai partecipanti al condominio, anche in deroga all’art. 1117 cod.civ., sicché anche un corpo di fabbrica esterno al condominio – che abbia in comune con questo solo un cortile – ben potrà essere soggetto alle spese per la manutenzione delle parti comuni, anche ove quelle non siano strumentali all’uso di quella unità, se così  sia previsto da quel tipo di regolamento.

Sono i due principi espressi da Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 n. 4432 rel. Scarpa: un regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12850 del 21/05/2008).”

“la costituzione di un condominio, che comprenda eventualmente anche soggetti i quali non fossero già comproprietari dei beni che lo stesso art. 1117 c.c. attribuisce automaticamente per la loro accessorietà alle proprietà esclusive, è comunque possibile per effetto del consenso unanime di quelli, ovvero quale conseguenza dell’espressione di autonomia privata, che determini ex contractu l’insorgenza del diritto di comproprietà, e quindi anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlate. Perciò, con il regolamento di condominio di fonte e contenuto contrattuale ben può essere attribuita la comproprietà delle cose, incluse tra quelle elencate nell’art. 1117 cod. civ., a coloro cui appartengono alcune determinate unità immobiliari, indipendentemente dalla sussistenza di fatto del rapporto di strumentalità che determina la costituzione ex lege del condominio edilizio (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1366 del 10/02/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15794 del 11/11/2002)”.

© massimo ginesi 24 febbraio 2017 

mutamento di destinazione d’uso e regolamento contrattuale: due giri in cassazione.

Una vicenda davvero particolare, se non altro per il tortuoso iter processuale, quella affrontata da Corte di Cassazione, sez. I Civile  7 febbraio 2017, n. 3221.

Un soggetto trasforma dei vani tecnici posti in condominio in unità abitative,   tale attività viene ritenuta dal Condominio contraria al regolamento contrattuale che vieta il mutamento di destinazione in talune ipotesi.

La vicenda processuale ha inizio nel lontanissimo 1992 e  oggi ritorna ancora una volta, dopo 25 anni, al giudice di merito che dovrà nuovamente pronunciarsi.

“Con citazione notificata il 5 ottobre 1992, il Condominio dello stabile di via (…), lotti (…), di (omissis) , denominato “(omissis) “, costituito da due edifici per civile abitazione con sottostante zona adibita a parcheggio, conveniva dinanzi al tribunale di Bari il costruttore del fabbricato, signor A.M. , lamentando come costui avesse modificato talune porzioni immobiliari ad uso non abitativo rimaste in sua proprietà – e precisamente dieci piccole cantine (o “cantinole”) al piano seminterrato e due volumi tecnici sul lastrico solare – trasformandole in appartamentini ammobiliati, corredati da servizi igienici collegati all’impianto idrico e fognario del complesso condominiale; il Condominio chiedeva, quindi, che l’A. fosse condannato alla demolizione delle opere abusivamente eseguite e, in subordine, che gli fosse vietato di adibire ad abitazione i menzionati locali scantinati e volumi tecnici, con condanna del medesimo convenuto al risarcimento dei danni conseguenti all’uso illegittimo dí detti locali.

Nel 2000 Il Tribunale di Bari “ accoglieva la domanda subordinata del Condominio e, per l’effetto, inibiva all’A. di destinare le dieci cantinette interrate e i due volumi tecnici insistenti sul lastrico solare ad uso diverso da quello proprio di deposito, quanto alle prime, e di sede per impianti di interesse generale, quanto ai secondi”, sentenza confermata dalla Corte di Appello di Bari che osservava “la concessione in sanatoria ottenuta dall’A. concerneva solo il rapporto con la pubblica amministrazione e quindi era ininfluente nel rapporto fra í condomini, nel quale trovavano applicazione le disposizioni del codice civile e delle leggi speciali in materia di edilizia – argomentava che il cambio di destinazione delle dieci cantinette e dei due vani insistenti sul lastrico solare contrastava con le disposizioni del regolamento condominiale di natura contrattuale e, per altro verso, aggravava le servitù a carico degli impianti condominiali”

Si perviene una prima volta a giudizio di Cassazione, che ritiene le pronunce infondate e nel 2012, con sentenza n. 16119/12, la Suprema Corte rinvia al giudice di merito  affinché pronunci nuovamente, attendendosi ai criteri dettati in sede di legittimità e che vale la pena riportare, poiché costituiscono significativa disamina della rilevanza del regolamento contrattuale che – ad avviso di tale giurisprudenza – deve essere interpretato in senso restrittivo e puntuale: “In tale situazione regolamentare, dunque, la Corte d’appello, lungi dal potersi limitare ad una mera elencazione di disposizioni regolamentari, avrebbe dovuto indicare le ragioni per le quali dal regolamento condominiale potesse desumersi il divieto di mutamento di destinazione delle cantinole e dei volumi tecnici sul lastrico solare. Ciò tanto più sarebbe stato necessario in presenza di una disposizione regolamentare, quale quella di cui all’art. 13, che, sotto la rubrica Osservanze, divieti e limitazioni, individua specifici divieti di mutamenti di destinazione sia per gli appartamenti che per il locale seminterrato stabilendo che: È vietato ai Condomini ed eventuali locatori: a) di destinare gli appartamenti ad uso di laboratorio, officine di qualsiasi azienda industriale o commerciale, anche se artigiana, di ambulatori o gabinetti per la cura di malattie infettive o contagiose, casa di salute di qualsiasi specie, dispensari, sanatori, magazzini, scuole di musica, di canto o di ballo, ed in genere a qualsiasi altro uso che possa turbare la tranquillità del Condominio e sia contrario all’igiene, alla decenza, o a buon nome del fabbricato; b) di destinare il locale seminterrato o anche parte di esso ad industrie rumorose o emananti esalazioni sgradevoli o nocive, ad opifici e stabilimenti In funzionamento notturno, a deposito di polveri piriche o di altri materiali facilmente infiammabili e comunque a qualsiasi destinazione che turbi il pacifico godimento singolo o collettivo degli appartamenti.”La Corte d’appello avrebbe quindi dovuto specificare le ragioni in base alle quali la disposizione relativa al locale seminterrato poteva ritenersi significativa nel senso del divieto di mutamento di destinazione dello stesso ad abitazione, espressamente non contemplato, e non dovesse piuttosto essere interpretata in un senso non preclusivo di un siffatto mutamento di destinazione, secondo un canone ermeneutico restrittivo che, come prima ricordato, deve ispirare l’interprete in considerazione della diretta incidenza delle norme regolamentari sul diritto di proprietà esclusiva dei singoli condomini interessati. Ed ancora, la Corte d’appello avrebbe dovuto chiarire se la destinazione in concreto data al locale seminterrato e ai volumi tecnici integrasse una destinazione idonea a turbare il pacifico godimento singolo o collettivo degli appartamenti, ovvero ancora se una siffatta destinazione potesse turbare la tranquillità del Condominio o fosse contraria all’igiene, alla decenza e al buon nome del fabbricato. Ma tali valutazioni sono del tutto assenti nella sentenza impugnata, non potendosi ritenere che le stesse siano state assorbite dal riferimento alla violazione della norma regolamentare in tema di servitù, attesa la non pertinenza della stessa rispetto alla questione oggetto del giudizio.
La Corte d’appello avrebbe inoltre dovuto illustrare le ragioni per le quali dalle singole norme richiamate in motivazione, quand’anche esaminate nel loro complesso e le une per mezzo delle altre, si poteva pervenire alla conclusione della esistenza, nel regolamento condominiale, del divieto di mutamento di destinazione dei locali di proprietà esclusiva dell’A. in abitazioni

Sostanzialmente, afferma la Corte, i divieti contenuti nel regolamento contrattuale devono essere interpretati in maniera restrittiva, onde non comprimere il diritto dominicale dei singoli in misura superiore a quanto il patto regolamentare  effettivamente esprime  e, soprattutto, in assenza di una previsione specifica sul mutamento dei fondi in abitazione, il giudice deve espressamente indicare le ragioni che lo inducono a ravvisare tale limitazione nella disposizione contrattuale.

Il giudizio perviene ad una nuova sentenza della Corte d’appello di Bari nel 2015, che nuovamente ritiene sussistente tale divieto, sulla scorta di nuove argomentazioni, che tuttavia attengono unicamente alla legittimità urbanistica dei beni trasformati: “a) Le “cantinole” ed i volumi tecnici adibiti ad abitazione non avevano ottenuto – né, per le loro caratteristiche, avrebbero potuto ottenere – la certificazione di abitabilità di cui all’articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie, vigente all’epoca dei fatti e successivamente sostituito dall’articolo 24 del d.p.r. 380/01. In proposito la corte barese evidenzia, sulla scorta dei rilievi del consulente tecnico di ufficio, come tali unità immobiliari difettino dei requisiti fissati dal decreto ministeriale 5/7/75 in ordine alle caratteristiche dimensionali e, quanto alle cantinette, in ordine alla presenza di finestre apribili. Nella sentenza gravata si argomenta altresì che il mancato rilascio del certificato di abitabilità non risulta superato dal rilascio della concessione in sanatoria, giacché tale concessione consentirebbe di derogare solo ai requisiti abitabilità o agibilità fissati da norme regolamentari e non, quindi, al requisito della salubrità fissato dall’articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie.
b) Il pregiudizio per l’igiene dei singoli appartamenti si rifletterebbe inevitabilmente, negativamente, sul profilo dell’igiene dell’intero condominio, determinando il peggioramento delle condizioni di igiene e salubrità dello stabile, per il maggior carico umano imprevisto e per il sovraccarico, fra l’altro, dell’impianto fognario.”

Nuovo giro in Cassazione che, ancora una volta, cassa con rinvio anche tale pronuncia; fra i diversi motivi di ricorso la Corte ritiene fondato il quarto” La corte barese argomenta, in primo luogo, che le “cantinole”, in quanto interrate, sarebbero prive di finestre e, in secondo luogo, che tutte le unità immobiliari in questione, ossia le cantinole e gli appartamentini sul lastrico, risulterebbero difformi dalle prescrizioni del D.M. 5/7/75 sotto il “profilo concernente il numero massimo di abitanti”.
L’affermazione della corte territoriale secondo cui il mancato rispetto dei requisiti fissati dal D.M. 5/7/75 implicherebbe non solo l’insalubrità delle unità immobiliari in questione, ma anche un pregiudizio per l’igiene dell’intero fabbricato, contiene effettivamente un salto logico, in quanto sovrappone la nozione di salubrità di una unità immobiliare con la nozione, che è quella rilevante ai fini dell’articolo 13 del regolamento condominiale, di contrarietà all’igiene dell’attività a cui l’unità immobiliare venga destinata (si veda l’elenco esemplificativo di tali attività contenuto nel detto articolo 13: “laboratorio, officine…, ambulatori o gabinetti…, casa di salute…, dispensari, sanatori, magazzini, scuole di musica, di canto o di ballo”)”.

LA suprema Corte “cassa la sentenza gravata e rinvia dunque alla corte d’appello di Bari, altra sezione, che regolerà anche le spese del giudizio di cassazione”.

Che al terzo giro di rinvio le sezioni del giudice di appello pugliese comincino a scarseggiare?

© massimo ginesi 9 febbraio 2017