alla cessazione dell’incarico l’amministratore è obbligato alla materiale consegna della documentazione

La corte di legittimità (Cass.Civ. sez.VI-2 8 marzo 2019 n. 6760)  sottolinea un principio ovvio e pacifico, chiarendo che l’amministratore cessato dall’incarico è tenuto materialmente. restituire al condominio quanto ricevuto per l’espletamento del mandato, non essendo sufficiente che i documenti condominiali vengano messi a disposizione.

“il secondo motivo di doglianza, con il quale il C. lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, 4, 5, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., per aver la Corte territoriale erroneamente ritenuto che lo stesso, a seguito della cessazione dell’incarico di amministratore condominiale, non aveva proceduto alla consegna della documentazione condominiale, avvenuta solo dietro espresso ordine del Tribunale di Napoli, è infondato.

Il ricorrente nell’asserire di aver lui stesso consegnato spontaneamente al Condominio la documentazione contabile, fonda la sua affermazione su un assunto del tutto erroneo.

Infatti, la semplice messa a disposizione della stessa, non equivale ad una materiale consegna, cui peraltro l’amministratore è obbligato a norma dell’art. 1129 c.c., comma 8, come modificato dalla L. n. 220 del 2012, secondo cui “alla cessazione dell’incarico l’amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi”.

Del resto, anche prima della riforma, l’obbligo di restituzione, sebbene non previsto espressamente dalla legge, veniva desunto dalla giurisprudenza dai principi generali, costituendo uno dei momenti più delicati quello del “passaggio di consegne” fra vecchio e nuovo amministratore, dato che all’interesse di chi subentra nell’incarico di prendere il prima possibile possesso di tutta la documentazione inerente al condominio acquisito, può corrispondere il disinteresse dell’amministratore uscente a occuparsi di un condominio con il quale si è interrotto definitivamente il rapporto professionale.

E d’altro canto il ritardo nel passaggio di consegne può essere fonte per il condominio di rilevanti danni.

Vieppiù, secondo l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, il mancato adempimento di tale dovere rientra tra le ipotesi per cui si può richiedere legittimamente l’adozione di un provvedimento di urgenza, finanche a norma dell’art. 700 c.p.c. (Cass. n. 11472 del 1991). Nello stesso atto di ricorso, la difesa di parte ricorrente, nel riportare un estratto delle dichiarazioni rese dal C. in sede di interrogatorio formale, si legge che la documentazione che quest’ultimo procedeva a depositare nel corso del giudizio di primo grado, era stata sempre presso lo stesso. E ciò a dimostrazione che il deposito è avvenuto solo a seguito di un preciso ordine del giudice di prime cure.

Del resto la messa a disposizione della documentazione, riferita dal ricorrente, parrebbe più attinente all’obbligo di rendiconto di cui all’art. 1130 bis c.c., comma 1, u.p.. Pertanto, anche in quest’ultimo caso la Corte territoriale nel rideterminare il governo delle spese, dichiarando il ricorrente soccombente anche con riferimento all’originaria domanda afferente la consegna dei documenti, rettamente ha fondato la sua statuizione.”

© massimo ginesi 12 marzo 2019 

rendiconto e responsabilità dell’amministratore cessato dalla carica

Cass.Civ. sez.VI ord. 17 gennaio 2019 n. 1186  rel. Scarpa si pronuncia su una fattispecie perculiare. affrontando funzione e natura dell rendiconto e la sua attitudine a ratificare l’attività svolta dall’amministratore uscente: “La Corte d’Appello di Roma ha confermato la pronuncia di primo grado del Tribunale di Rieti, che, dopo aver accolto la domanda del Condominio (OMISSIS) volta ad ottenere dal proprio ex amministratore R.S. la consegna della documentazione contabile-amministrativa riguardante il periodo del suo incarico gestorio negli anni 1992-1995, aveva comunque respinto l’ulteriore pretesa del Condominio (OMISSIS) diretta alla condanna di R.S. a restituire la somma di Euro 54.912,28. La Corte di Roma ha ritenuto provata, o altrimenti pacifica, la circostanza dell’incasso della somma di Euro 54.912,28 da parte del Condominio, ricavata da un’esecuzione immobiliare e versata sul conto corrente di gestione condominiale intestato all’amministratore. Secondo la sentenza impugnata, il teste G. aveva comunque dichiarato che tale importo era stato utilizzato per coprire le passività del Condominio per gli anni 1992, 1994 e 1995, come appariva pure dal “rendiconto importo funivia” e dal libro giornale.”

Il Condominio non si da per vinto e ricorre, senza successo, in cassazione, ove i giudici di legittimità osservano che: “Gli artt. 1130, 1130-bis (quest’ultimo introdotto dalla L. n. 220 del 2012, nella specie inapplicabile ratione temporis), art. 1135, n. 3, e art. 1137 c.c., regolamentano l’obbligo dell’amministratore del condominio di predisporre e di presentare il rendiconto condominiale annuale all’approvazione dell’assemblea; la competenza dell’assemblea in ordine alla verifica ed all’approvazione del rendiconto, concernente il bilancio consuntivo; i poteri dei singoli condomini relativi al controllo dell’operato dell’amministratore, che si sostanziano nella partecipazione e nel voto in assemblea e, eventualmente, nell’impugnazione delle deliberazioni. L’amministratore di un edificio condominiale è, quindi, tenuto a dare il conto della gestione alla fine di ciascun anno; l’assemblea dei condomini è legittimata a verificare e ad approvare il rendiconto annuale dell’amministratore; i condomini assenti o dissenzienti possono impugnare la deliberazione, che approva il rendiconto, rivolgendosi all’autorità giudiziaria nel termine di trenta giorni.

Se il rendiconto viene approvato, all’operato dell’amministratore il singolo condomino non può più rivolgere censure: questi può soltanto impugnare la deliberazione non per ragioni di merito, ma nei soli casi e secondo i modi fissati dall’art. 1137 c.c.. Per di più, l’approvazione assembleare dell’operato dell’amministratore e la mancata impugnativa delle relative deliberazioni precludono l’azione di responsabilità dello stesso per le attività di gestione dei beni e dei servizi condominiali (cfr. Cass. Sez. 2, 04/03/2011, n. 5254; Cass. Sez. 2, 20/04/1994, n. 3747).

L’assimilazione tra l’incarico di amministrazione condominiale e il mandato con rappresentanza ha comunque portato la giurisprudenza ad affermare, tra l’altro che, a norma dell’art. 1713 c.c., alla scadenza l’amministratore è tenuto a restituire ciò che ha ricevuto nell’esercizio del mandato per conto del condominio, vale a dire tutto ciò che ha in cassa, indipendentemente dalla gestione annuale alla quale le somme si riferiscono (Cass. Sez. 6-2, 17/08/2017, 20137; Cass. Sez. 2, 16/08/2000, n. 10815).

Dunque, il condominio (come avvenuto nel presente giudizio tra il Condominio (OMISSIS) e l’ex amministratore R.S.) può convenire l’amministratore cessato dall’incarico per ottenere sia la presentazione del bilancio sia la restituzione delle somme detenute dall’amministratore, ma spettanti al condominio. Poichè l’amministratore, come visto, è tenuto anno per anno a predisporre il bilancio preventivo ed a far approvare dall’assemblea il bilancio consuntivo, egli ogni anno, alla scadenza dell’esercizio, deve rispondere della sua gestione. In ogni caso, alla scadenza dell’incarico, l’amministratore deve restituire tutte le somme che detiene in cassa per conto del condominio.

Costituendo il rendiconto la principale fonte di prova di ogni rapporto mandato, ad esso deve farsi essenzialmente capo per accertare quanto l’amministratore abbia incassato e debba perciò restituire alla cessazione dell’incarico, dovendosi intendere l’obbligo di rendiconto comunque legittimamente adempiuto quando il mandatario abbia fornito la relativa prova attraverso i necessari documenti giustificativi non soltanto delle somme incassate e dell’entità e causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi di fatto funzionali alla individuazione ed al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire (anche in relazione ai fini da perseguire ed ai risultati raggiunti) se il suo operato si sia adeguato, o meno, a criteri di buona amministrazione (cfr. Cass. Sez. 1, 23/04/1998, n. 4203; Cass. Sez. 3, 14/11/2012, n. 19991).

Nella specie, la Corte d’Appello, con apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha accertato, sulla base del rendiconto prodotto, del libro giornale e delle deposizioni testimoniali, l’incasso della somma di Euro 54.912,28, il versamento di tale importo sul conto corrente utilizzato dall’amministratore per la gestione del Condominio (OMISSIS) e l’impiego della medesima provvista per coprire passività condominiale.

Lo stesso ricorrente espone in ricorso che la somma oggetto di lite venne incassata su un conto corrente bancario intestato al R. (non applicandosi alla vicenda in esame ratione temporis il vigente art. 1129 c.c., comma 7, introdotto dalla L. n. 220 del 2012), e da questo utilizzato proprio per la gestione del Condominio (OMISSIS), sicchè non ha senso dolersi di un mancato distinto atto di ritrasferimento dell’importo riscosso dall’amministratore sul conto condominiale in favore dei singoli condomini, restando piuttosto i rapporti tra amministratore e condominio disciplinati dalla ripartizione delle attribuzioni tra amministratore ed assemblea in ordine all’erogazione delle spese per le parti comuni, dal dovere di rendiconto annuale e dall’obbligo di restituzione di quanto rimanga in cassa alla cessazione dell’incarico.”

© massimo ginesi 21 febbraio 2019 

il comodato non sempre è precario.

 

Il contratto di comodato assume, nella accezione comune, il significato di una mera concessione in uso di un determinato bene, che avviene solitamente a titolo gratuito, che consente al beneficiario di godere del bene e al proprietario di averne la restituzione a semplice richiesta.

E’ in effetti questa la configurazione delineata dall’art. 1803 cod.civ.: “[I] Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta.”[II]. Il comodato è essenzialmente gratuito.”

Tuttavia, ove il contratto sia destinato a soddisfare esigenze abitative del nucleo familiare del comodatario, la giurisprudenza è costantemente orientata a fornire della fattispecie una lettura meno favorevole al comodante, interpretazione che va ricondotta all’art. 1809 cod.civ.

In tal senso si è espressa anche di recente la giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile, sezione III, sentenza 31 maggio 2017, n. 13716) che ritiene del tutto “: condivisibile l’assunto dei Giudici di merito, secondo cui il comodato, quando caratterizzato da vincolo di destinazione quale quello riscontrato nel caso in esame (destinazione dell’immobile alle esigenze abitative di un nucleo familiare), non può ritenersi “precario”. Va, infatti, sul punto data continuità all’orientamento secondo cui il comodato di un bene immobile, stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha un carattere vincolato alle esigenze abitative familiari, sicché il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento, anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno ai sensi dell’art. 1809, secondo comma, cod. civ., ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante”

 

Anche molta della giurisprudenza di merito segue tale linea interpretativa fra cui, di recente,  Tribunale Massa 15 maggio 2017, che si sofferma anche sulla prova della esigenza sottesa alla pattuizione, in un caso emblematico  dei delicati, sofferti e difficili equilibri (rectius, squilibri) familiari che spesso rendono l’applicazione delle norme di diritto un esercizio non meramente scientifico.

LA vicenda attiene ad un contratto di comodato in cui non si fa menzione  della esigenza  abitativa familiare, stipulato da un nonno – che ha appena acquistato il bene  immobile riservando a se l’usufrutto e intestando la nuda proprietà al nipote – che  concede contestualmente al proprio figlio detta abitazione  in comodato. Nel frattempo la famiglia del figlio si disgrega, il nipote vive nell’immobile con la madre, il padre viene allontanato dal Tribunale dei minori per condotte violente e, pochi anni dopo, muore improvvisamente. Il nonno lascia ancora diversi anni il nipote – e la di lui madre – a vivere nell’immobile, salvo richiederne improvvisamente la restituzione appena il nipote diviene maggiorenne.

Osserva il Tribunale apuano che: “Il contratto intercorso fra le parti deve essere ricondotto alla fattispecie di cui all’art. 1809 II comma c.c.,anche a mente di quanto statuito da Cass. SS.UU. 20448/2014.

E’ pur vero che l’onere della prova circa l’esistenza di un’esigenza abitativa deve essere assolto, ove non risulti esplicitamente dall’atto, da colui che la invoca e quindi –in questo caso – dai convenuti. 

Così come è vero quanto stabilito dalla suprema corte, nella sentenza citata, che non “ogni qualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorchè disgregata”.

Non sarà tuttavia inutile sottolineare che la stessa pronuncia evidenzia come, tuttavia, “la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti. Ciò significa che il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desumibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento. La prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato nè prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all’uso familiare e non solo personale. Trattasi sempre di un mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.) che sono sottoponili al suo giudizio. Spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto.”

 

… Appare a tal proposito improbabile che il nonno che si determina ad acquistare un immobile per il nipote minore, riservando a se l’usufrutto, e che stipula contratto di comodato relativo a quello stesso immobile con il proprio figlio, padre di quel minore, non conosca a sufficienza la situazione sociofamilare dei propri più stretti congiunti e che tali elementi non sottendano la causa del contratto di godimento.

Vi è, a tal proposito, un altro fondamentale elemento, che consente di trovare ulteriore indizio di quanto testè prospettato e che induce vieppiù ad ascrivere la fattispecie contrattuale a quella delineata dall’art. 1809 II comma c.c.in ossequio a quella indagine sugli elementi connotativi che richiama la Corte di legittimità a sezioni unite “(epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.)”: le parti, seppure nell’ambito di una stesura contrattuale che è certamente approssimativa e atecnica, danno inequivocabilmente atto – all’art. 2 del contratto –che il “B. C. si obbliga a restituire detto immobile al termine del contratto”, di talchè le stesse parti mostrano di voler esulare dallo schema dell’art. 1810 cc per accedere ad un contratto che ha un termine che – a mente di quanto sopra evidenziato –appare del tutto ragionevolmente determinato per relationem alle esigenze abitative del nucleo familiare del comodatario B. C..

Non appare dirimente la dicitura “non appena ne verrà fatta richiesta”, contenuta nella stessa norma contrattuale, che è riferita comunque, per la sua stessa formulazione letterale, a richiesta da avanzare dopo la scadenza del termine contrattuale.

… Qualificato dunque il contratto nei limiti sopra evidenziati, ritenuto che per quanto emerso in giudizio (anche ex art. 115 c.p.c.) il B. G. – che ha oggi solo vent’anni –non sia ancor autosufficiente e conviva con la madre e che, pertanto, si debba  ritenere che il contratto non abbia ancor raggiunto il termine di scadenza in rapporto al fine per cui è stato stipulato, va analizzata la domanda relativa alle mutate condizioni dell’attore, che lo inducono a richiedere una risoluzione anticipata a mente dell’art. 1809 II comma c.c.

Va, a tal proposito, evidenziato quanto sostenuto dalle sezioni unite più volte richiamate: “il comodato a tempo determinato, soprattutto se con le connotazioni della lunga durata di cui ci si è occupati supra, nasce nella convinzione della piena stabilità del rapporto, anche tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno.

Questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e costituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamentale importanza per il beneficiario.

Con l’implicazione che il comodante, contrariamente a quanto ipotizzato da una risalente dottrina, ritiene di poter rispettare il contratto per tutto il tempo di durata prevedibile.

A fronte di questa scelta, che fa ritenere che il comodante non prevedesse di volere o dovere alienare il bene, non può trovare tutela la sua intenzione, verosimilmente ritorsiva, di rimuovere l’occupante rimastone beneficiario. Trova invece tutela il sopravvenire di un urgente e impreveduto bisogno.

La giurisprudenza, significativamente, non ha dovuto occuparsi spesso di questa disposizione. Si conviene generalmente tuttavia, in dottrina e nei precedenti noti (Cass. 1132/87; 2502/63), che la portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente. L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, nè capriccioso o artificiosamente indotto.Pertanto non solo la necessità di uso diretto, ma anche il  sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare.

E’ da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario.”

Sarà in proposito sufficiente notare che l’attore ha stipulato il contratto dieci anni fa, quando era già in età fortemente avanzata, riservando a sé l’usufrutto ma con l’ovvia prospettiva di far pervenire infine al nipote l’intera proprietà ed assicurando nel frattempo a costui, tramite il proprio figlio (e padre dell’allora nipote minore), un’adeguata abitazione.  L’attore non adduce improvvisi mutamenti nelle proprie condizioni economiche, ma solo uno stato di deterioramento fisiologico che gli imporrebbe maggiori spese. Si tratta peraltro di situazione non improvvisa né imprevedibile, atteso che il B. L. si è determinato alle proprie scelte contrattuali ad ottantrè anni, quando una simile evoluzione era più che prevedibile, mentre non risultano provate le ulteriori necessità né – soprattutto – i relativi maggiori esborsi necessari, atteso che per le testimonianze assunte, l’attore da tempo immemore vive con altri familiari che lo accudiscono quotidianamente.

Non risulta dunque raggiunta la prova della sussistenza dei requisiti di cui all’art. 1809 II comma c.c.”

Il Tribunale ha  rigettato la richiesta di risoluzione, ritenendo non provato il raggiungimento dello scopo contrattuale, il cui onere della prova era a carico dell’attore che domandava la restituzione del bene.

© massimo ginesi 6 giugno 2017