il diritto alla riduzione in pristino non si prescrive.

E’ quanto sottolinea Cass.Civ. sez. VI ord. 6 giugno 2018 n. 14622 rel. Scarpa, evidenziando come si tratti di facoltà connessa al diritto di proprietà e che – come tale – non subisce effetti pregiudizievoli dal mero decorso del tempo (salvo il sorgere di eventuali altri diritti per usucapione).

I fatti ed il processo: “B.A. aveva convenuto davanti al Tribunale di Roma il Condominio di via (omissis) , e L.m.P. , per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla propria unità immobiliare, con chiamata in garanzia operata dal Condominio nei confronti di C.G. e V.B. in forza di “clausola di manleva” contenuta nella scrittura del 14 ottobre 1986. In tale scrittura C.G. , la quale aveva eseguito opere di rimozione del tetto, si prendeva carico di tutte le riparazioni dovute al piano sottostante per eventuali cause di infiltrazioni. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 25334/2009, preso atto che erano state eseguite in corso di causa le opere necessarie a far cessare le infiltrazioni, dichiarò cessata la materia del contendere tra l’attrice B.A. , il Condominio e L.m.P. , mentre rigettò le domande di manleva proposta dal Condominio nei confronti di L.P. , C.G. e V.B.”

la corte di legittimità osserva che “La Corte d’Appello di Roma ha respinto la domanda di rimessione in pristino osservando che il decorso di vent’anni dalla dichiarazione di manleva dimostrasse “l’atteggiamento di tolleranza del Condominio che, evidentemente, ha fatto acquiescenza al mutamento dello stato dei luoghi contro l’assunzione di ogni possibile conseguenza negativa da parte degli esecutori dei lavori”.

Questo ragionamento contravviene al consolidato principio giurisprudenziale per cui l’azione, con la quale il condominio di un edificio chiede la rimozione di opere che un condominio abbia effettuato sulla cosa comune, oppure nella propria unità immobiliare, con danno alle parti comuni, in violazione degli artt. 1102, 1120 e 1122 c.c., ha natura reale, e, pertanto, giacché estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà, non è suscettibile di prescrizione, in applicazione del principio per cui “in facultativis non datur praescriptio”.

L’imprescrittibilità, piuttosto, può essere superata dalla prova della usucapione del diritto a mantenere la situazione lesiva (arg. da Cass. Sez. 2, 07/06/2000, n. 7727; Cass. Sez. 2, 29/02/2012, n. 3123; Cass. Sez. 2, 16/03/1981, n. 1455; Cass. Sez. 2, 13/08/1985, n. 4427).

Vanno quindi accolti il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, mentre viene rigettato il primo e viene dichiarato assorbito il terzo motivo del ricorso principale. La sentenza impugnata va cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, che deciderà la causa uniformandosi ai richiamati principi e tenendo conto dei rilievi svolti, e regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.”

© massimo ginesi 12 giugno 2018 

 

il giudice può ridurre la penale quando diventa vessatoria o usuraria

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lo ha stabilito la Cassazione con sentenza 13902/2016.

Il caso riguarda un contratto d’appalto per lavori straordinari in condominio, nel quale le parti avevano stabilito una clausola penale che prevedeva il versamento di € 19,22 dalla data della domanda al saldo effettivo.

Il risultato concreto della applicazione secca di tale previsione contrattuale finiva per comportare un esborso per il condominio di oltre 33 mila euro, decisamente sproporzionato rispetto alla prestazione pattuita e assolutamente squilibrato rispetto ai concreti interessi delle parti e alla funzione stessa della clausola.

La suprema Corte ha dunque ritenuto che il Giudice – in applicazione dell’art. 1384 cod.civ. –  debba e possa introdurre correttivi che consentano di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, adeguando la prestazione alla lesione effettivamente subita dalla parte adempiente  ed evitando effetti che, in concreto, travalicano il limite dell’usura. Per tali ragioni si deve considerare: “il riferimento all’interesse del creditore contenuto nella norma e considerato che la possibilità della riduzione ad una misura equa trova la sua ragion d’essere nell’interesse del debitore inadempiente, consente di identificare quel criterio nell’equo contemperamento degli interessi contrapposti, che assicuri, cioè, il posizionamento del soggetto adempiente sulla curva di indifferenza più vicina a quella su cui si sarebbe co0llocato qualora il contratto fosse stato adempiuto… D’altra parte, tenuto conto che dal nuovo e moderno sistema contrattuale, quale viene sempre più emergendo, anche dalla normativa europea, corollario di un liberismo che al contempo è anche solidaristico, emerge una maggiore attenzione per la giustizia contrattuale, cioè per un contratto che non presenti né uno squilibrio strutturale, né e soprattutto uno squilibrio tra prestazioni o di contenuto, appare ragionevole che anche la clausola penale debba essere espressione di un corretto equilibrio degli interessi contrattuali contrapposti”

© massimo ginesi 14 luglio 2016

 

installazione ascensore, innovazione agevolata ma attenzione alle scale…

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E’ noto che, sino dalla L. 13/1989, l’installazione di ascensore è vista con favore dal legislatore, che ha in quel testo normativo  predisposto strumenti agevolati di decisione, ove tale intervento debba essere effettuato  in condominio.

Si tratta infatti di un impianto che è volto a soddisfare interessi di rilevanza costituzionale, poiché agevola la mobilità di soggetti sfavoriti e pertanto attua principi che hanno riguardo alla eguaglianza e al diritto alla salute (artt. 3 e 32 Cost.)

LA normativa è stata rivista, con un discutibile senso peggiorativo, dalla L. 220/2012 che ha modificato l’art. 1120 cod.civ. e la L. 13/1989, innalzando i quorum deliberativi.

Sin dal 1989, tuttavia, rimangono  vietate le installazioni che urtano  il divieto di cui all’ultimo comma dell’art. 1120 cod.civ. (decoro e  stabilità dell’edificio, pari uso degli altri condomini)

Uno dei casi che, con grande frequenza, comporta contenzioso è la riduzione del piano di calpestio delle scale, che viene tagliato  per far posto alla installazione della cabina ascensore.

La giurisprudenza negli anni ha  mostrato di considerare lecita una modesta compressione dei diritti degli altri condomini in favore della installazione, con limiti che tuttavia – oltre una certa misura – divengono invalicabili.

Due recenti sentenze di merito affrontano il tema .

Il Tribunale di Torino, con la sentenza 14.6.2016, Giudice unico dr.ssa Paola Ferrero (decisamente ridondante nelle motivazioni), riperorre l’ampio dibattito giurisprudenziale sul punto: “Passando all’esame delle ulteriori doglianze attoree, va innanzitutto osservato che le stesse appaiono riconducibili al disposto dell’art. 1120, ultimo comma c.c. (nel testo applicabile ratione temporis), nella parte in cui vieta le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio (nel caso di specie le scale), inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, ovvero che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato. Il riferimento ai limiti stabiliti dalla norma richiamata appare pertinente, atteso che: a) secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, l’installazione di un ascensore in un edificio in condominio che ne sia sprovvisto costituisce, ai sensi dell’art. 1120, comma 1, c.c., un’innovazione (cfr. Cass. n. 20902 del 08/10/2010; Cass. n. 9033 del 04/07/2001; Cass. n. 1529 del 11/2/2000); b) anche nel caso in cui l’innovazione sia diretta ad eliminare le barriere architettoniche, ai sensi dell’art. 2, comma 3 legge n. 13/89 resta fermo quanto disposto dall’art. 1120 c.c. nella parte sopra richiamata; c) nel caso di specie, si osserva incidentalmente, il Condominio convenuto ha comunque espressamente affermato (cfr pag. 6 comparsa di risposta) che l’aspetto relativo all’eliminazione delle barriere architettoniche non é inerente all’oggetto di causa. Ciò premesso, con specifico riguardo al limite costituito dall’inservibilità all’uso o al godimento anche di un solo condomino, si osserva quanto segue. Secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, “l’accertare se lo stato di fatto posto in essere in conseguenza della innovazione renda o meno talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino si risolve in un accertamento di fatto, di esclusiva competenza del giudice di merito……” (Cass. n. 614/63). Quanto al concetto di “inservibilità”, lo stesso non coincide con il pregiudizio, ove questo sia tollerabile; deve invero, ad esempio, “riitenersi consentita l’innovazione utile a tutti i condomini eccetto uno al quale arrechi un pregiudizio tollerabile, come quello costituito dall’occupazione di una parte minima del cortile condominiale” (così, in motivazione, Cass. n. 10445/1998 che richiama Cass. n. 697/77 e Cass. n. 954/67). Più in generale, il limite qui in esame “é costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità” (Cass. n. 15308/2011) e la fattispecie di cui all’art. 1120, ultimo comma c.c. é quindi integrata solo nel caso in cui “l’innovazione produca una sensibile menomazione dell’utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene” (Cass. n. 20639/2005). Anche recentemente (Cass. n. 18334/2012, in motivazione), il Supremo Collegio ha riaffermato che: “nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune, disciplinato dall’art. 1120 c.c., comma 2, il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione – coessenziale al concetto di innovazione – ma é costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità” e che “si può tener conto di specificità – che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condominio – solo se queste costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo”. Nello svolgere l’accertamento de quo, pertanto, dovrà essere inevitabilmente effettuato un confronto tra le condizioni e modalità di fruizione del bene comune anteriore e successive all’innovazione (come si desume, altresì, dal successivo passaggio motivazionale della citata Cass. n. 18334/2012, secondo cui: “con riguardo alla questione della sicurezza con riferimento alla ipotesi di necessità di passaggio di mezzi di soccorso….il giudice di secondo grado é incorso nella omissione denunciata…consistita nel mancato confronto delle condizioni di sicurezza anteriori al restringimento delle scale con quelle conseguenti alla realizzazione dell’ascensore”).”

Osserva dunque nello specifico che: “In tale prospettiva, nel caso di specie, appare rilevante evidenziare quanto segue: – allo stato attuale, anche se le dimensioni delle scale – di m. 1,11 (m. 1,08 nel primo e ultimo gradino di ogni piano) – sono inferiori a quelle – di m. 1,20 – previste dalla normativa sopra richiamata (comunque non applicabile nel caso di specie), “il fatto….che il parapetto e il corrimano siano posti all’esterno della rampa comporta che la luce di passaggio di allarghi, sopra il cordolo, di alcuni centimetri”, consentendo “di fatto il passaggio di due persone” (pag. 13 relazione peritale); – con la realizzazione dell’ascensore e il ripristino del corrimano (che, come condivisibilmente osservato dal CTU a pag. 15 della relazione peritale, oltre ad essere previsto dalla normativa sulle barriere architettoniche, “é indispensabile qualora la scala debba essere utilizzata da persone con scarsa capacità motoria o con problemi di equilibrio”), la luce libera di passaggio sarebbe invece ridotta a soli 83 centimetri (80 centimetri in corrispondenza del primo e dell’ultimo gradino di ogni piano), risultando così impedito il passaggio contemporaneo di due persone… né può sostenersi che la presenza dell’ascensore eviterebbe l’utilizzo delle scale, atteso che, come osservato dal CTU, “l’ascensore in progetto é molto piccolo e potrebbe risultare claustrofobico” (cfr. pag. 5 relazione); inoltre, come é noto, l’ascensore può subire dei guasti e, infine, non é ipotizzabile un’obbligatoria rinuncia all’utilizzo delle scale quale conseguenza dell’assenza del mancorrente, atteso che in questa ipotesi sarebbe integrata in modo ancor più evidente l’impossibilità di utilizzo del bene comune; – non solo: la drastica riduzione della larghezza delle scale renderà impossibile il trasporto di un malato o di un ferito su barella attraverso le scale (esclusa, pacificamente, la possibilità di utilizzo a tale fine dell’installando ascensore), se non con manovre potenzialmene rischiose per la salute del trasportato (cfr. pag. 14 dell’elaborato peritale, laddove si legge: “Attualmente la barella può passare, anche se con alcune difficoltà. Il punto critico é il pianerottolo intermedio n corrispondenza del quale é necessario sollevare la barella per farla passare sopra il corrimano, senza necessità di inclinarla lungo l’asse longitudinale. A seguito della realizzazione dell’ascensore, il punto di passaggio più critico sarebbe il pianerottolo di piano: in questo caso non sarebbe più possibile fare passare la barella sopra il mancorrente a causa dell’ingombro del castelletto; per fare passare la barella occorrerebbe inclinarla notevolemente…di circa 40° sull’asse del beccheggio o su quello del rollio”); – né rileva che, secondo quanto prospettato dal CTU, il passaggio della barella potrebbe essere mantenuto “se il progetto venisse modificato arretrando il castelletto di circa 30 cm.”; atteso che la delibera qui in esame ha approvato un preventivo relativo ad un progetto che non prevede tale arretramento”

il Tribunale dunque ritiene viziata, per violazione dell’art. 1120 u.c. cod.civ. la delibera che ha deciso l’installazione, da ricondursi alla fattispecie delle iniezioni vietate: “il limite di cui all’art. 1120, ultimo comma c.c. qui in esame non possa dirsi rispettato e che il mutamento delle condizioni di utilizzo delle scale condominiali, quale esito dell’installazione dell’ascensore per cui é causa, esorbiti dal limite della tollerabilità. Ad avviso della scrivente invero, i cambiamenti sopra evidenziati influiscono in modo rilevante sulla naturale fruibilità delle scale. In tale naturale fruibilità (e con tale affermazione la scrivente si pone in consapevole contrasto con Cass. n. 15308/2011, secondo cui l’eventuale ostacolo all’ingresso di barelle fa riferimento ad una “mera eventualità d’uso.. come tale ininfluente nella determinazione dell’innovazione tollerabile”) rientra altresì l’uso delle scale in situazioni di emergenza, anche se potenziale o comunque non frequente; ciò in quanto la funzione naturale delle scale é quella di consentire l’accesso e il recesso da ogni unità immobiliare per tutte le necessità di vita dei suoi occupanti, tra cui non può essere esclusa quella di ricorrere ad interventi sanitari d’urgenza e di poter accedere tempestivamente alle cure mediche anche in caso di impossibilità di deambulazione, non potendo gli incidenti domestici o i malori, soprattutto in caso di persone anziane, essere considerati eventi eccezionali. Né, infine, può indurre a diversa conclusione l’ulteriore insegnamento della Corte di Cassazione, secondo cui, al fine della valutazione di tollerabilità della compressione del diritto di uso sulla cosa comune, è necessario tenere conto “del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che é propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche” (così la massima di Cass. n. 18334/2012) e, pertanto, “l’impossibilità di osservare, in ragione delle particolari caratteristiche dell’edificio…..tutte le prescrizioni della normativa speciale diretta al superamento delle barriere architettoniche non comporta la totale disapplicabilità delle disposizioni di favore, finalizzate ad agevolare l’accesso agli immobili dei soggetti versanti in condizioni di minorazione fisica….qualora l’intervento (nella specie installazione di un ascensore…), produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione” (così la massima di Cass. ord. 18147/2013). Nel caso di specie, infatti (e ciò si osserva nell’ottica di contemperamento degli interessi sollecitata dalla richiamata giurisprudenza del Supremo Collegio), l’impianto oggetto di deliberazione non determinerebbe l’eliminazione delle barriere architettoniche ma, al più, un loro mero ridimensionamento fruibile da limitate categorie di soggetti; e ciò in assenza nell’immobile, per quanto consta dagli atti, di persone permanentemente non in grado di deambulare. Il CTU ha invero evidenziato: che la cabina avrebbe dimensioni interne di 90 cm. di profondità, 68 cm. di larghezza ed accesso con luce netta di soli 60 centimetri (cfr. pag. 5 relazione peritale); che per raggiungere l’ascensore sarebbe comunque necessario percorrere una breve rampa di scale; che l’apertura delle porte di piano sarebbe manuale e non automatica; che, conseguentemente, “l’impianto non sarebbe fruibile autonomamente da persone non dotate di mobilità autonoma, in particolare da utenti su sedia a ruote (che dovrebbero al limite ricorrere a sedie a ruote pieghevoli che richiedono l’ausilio di un accompagnatore)” (cfr. pag. 7 relazione peritale). Sempre nell’ottica di contemperamento degli interessi e dei sacrifici, non può non rilevarsi come in data 25.11.2009 (cfr. doc. 8 parte attrice) il Condominio avesse deliberato l’installazione dell’ascensore all’esterno e come l’assunto secondo cui tale diversa collocazione sarebbe stata abbandonata perché non praticabile non sia stato in alcun modo provato da parte convenuta. In ultimo, sotto il profilo della sicurezza, non può non considerarsi come allo stato attuale la larghezza delle scale rispetti la larghezza minima prescritta per gli edifici della sua tipologia dalla normativa antincendio; mentre con l’installazione dell’ascensore le scale avrebbero un’ampiezza inferiore a quella minima di ben 22-25 centimetri. Pertanto, a prescindere dalla possibilità di ottenere il nulla osta dei Vigili del Fuoco (possibilità che il CTU non ha escluso), l’adeguato deflusso per il caso di evacuazione ne risulterebbe pregiudicato. Sempre sotto il profilo della sicurezza va ancora evidenziato che, secondo il CTU, non il taglio delle scale (perché “le lastre si sorreggono autonomamente grazie all’incastro nella muratura”, per cui “il taglio della loro estremità per l’alloggiamento del castelletto non pregiudica, dal punto di vista della scienza delle costruzioni, la stabilità”), ma le “vibrazioni prodotte dal taglio, potrebbero aggravare eventuali fessure o cricche già presenti nelle lastre lapidee oppure punti di debolezza della muratura nel punto di incastro” (cfr. pag. 8 relazione peritale) e che il preventivo approvato non risulta avere preso in considerazione tale eventualità, omettendo di prevedere, in fase esecutiva, le indagini e gli eventuali consolidamenti prospettati dal CTU come potenzialmente necessari. Per le ragioni sin qui esposte la scrivente ritiene che l’intervento come deliberato dall’assemblea integri gli estremi di una innovazione vietata e che, pertanto la proposta impugnativa debba essere accolta con le statuizioni di cui in dispositivo (ritenuta assorbita, per il principio della ragione più liquida, ogni considerazione in punto pregiudizio al decoro architettonico e conseguente deprezzamento).”

Anche il Tribunale di Roma, con sentenza 27 maggio 2016, Giudice unico dr. Silvio Cinque,  ha affrontato il tema, con argomentazioni decisamente più sintetiche e pervenendo  a conclusioni  diverse dal giudice sabaudo:  la riduzione delle scale alla larghezza di 80 centimetri appare astrattamente legittima pur comportando un lieve aumento delle difficoltà di transito o di trasporto con barella.

La delibera viene comunque annullata per difetto delle maggioranze necessarie.

Afferma il Giudice capitolino: “È di tutta evidenza che le modificazioni apportabili alla cosa comune in forza dell’art. 1102 c.c. possono costituire anche una innovazione – nell’accezione tecnico-giuridica usata nella richiamata norma dell’art. 1120 c.c. – ed in tal caso sono consentite anche al singolo condomino, che se ne assuma l’onere, se non alterano la destinazione e non impediscono il pari uso della cosa comune agli altri partecipanti al condominio (Cass., sez. II, 27.12.2004, n. 24006). 

In primo luogo, per ciò che concerne l’impianto, nel caso di innovazioni a vecchi edifici i lavori per l’installazione di un ascensore non sono soggetti alle prescrizioni del DM 236/89, né per quanto riguarda le dimensioni minime delle scale, né per quanto riguarda le dimensioni minime dell’ascensore (pag. 9 e 10 relazione peritale). Il fabbricato non ricade, inoltre, tra quelli per i quali è necessario ottenere dai VV.FF. il certificato di prevenzione incendi (pag. 10). Quanto agli standard edilizi, questi prevedono, per il passaggio di una persona sulle scale, un modulo di larghezza minima di 60 cm. Il regolamento del Comune di Roma non impone nessuna misura minima riguardo la riduzione di larghezza delle rampe e la dimensione dell’ascensore (pag. 11). La nota del Ministero dell’Interno, C.N.V.FF. del 9.11.2005, ha recepito la posizione dei Vigili del Fuoco, secondo cui è necessaria una larghezza residua delle scale di almeno 80 cm. La larghezza residua delle scale nel progetto di parte convenuta, pari proprio a 80 cm., è pertanto conforme alla suddetta regolamentazione. Ancora, nessuna particolare lesione del decoro architettonico del fabbricato si verificherebbe, mentre si pongono, obiettivamente, inconvenienti alla concreta fruibilità delle parti comuni (le rampe), come l’aumento di difficoltà di transito per le scale di due individui affiancati o il trasporto di un soggetto su una lettiga. Al di là di detti inconvenienti, il progetto è comunque conforme alla normativa vigente in materia.”

ascensore sicurezza sentenza 1

ascensore sicurezza sentenza 2

 

© massimo ginesi 12 luglio 2016