Una recente pronuncia di legittimità (Cass. civ. sez. II ord. 6 febbraio 2020 n. 2757) affronta un tema molto sentito, a fronte di sempre più numerose attività commerciali, destinate a bar, ristorazione e intrattenimento che vedono spazi esterni, dehors o pergolati posti alla base del condomini che rendono invivibili ai condomini le ore notturne, specie nella stagione estiva.
“Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 2302 del 2014, accogliendo la domanda proposta da F.G. , confermava l’ordinanza cautelare del 18.02.2011, con condanna dell’Immobiliare Silce a una serie di adempimenti al fine di cessare le immissioni rumorose lamentate dal ricorrente provenienti dall’attività “Al Bacaro”, integrandola con l’obbligo di intercludere ogni forma di accesso all’area scoperta della pergola agli avventori del bar, a partire dalle ore 24. A seguito di appello proposto dall’Immobiliare Silce, la Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 2695 del 2016, rigettava il gravame, confermandola sentenza di primo grado.”
osservano i giudici di legittimità che “Per quanto riguarda le censure che, sotto i diversi versanti, traggono spunto dalla relazione del c.t.u. – per essere la decisione basata su immissioni rilevate in una situazione ambientale in cui già nell’ordinario erano superiori alla normalità – si osserva che la logica sottesa alla scelta decisoria muove proprio dalla natura delle immissioni rumorose che sono, proprio per la fonte da cui discendono, discontinue, difficilmente verificabili e riproducibili nella stessa misura, per la loro spontaneità.
Ne consegue che se, da un lato, non può non tenersi conto delle entità delle immissioni rumorose verificate nel corso dell’apertura dell’attività di ristorazione, superiori a quelle verificabili nel corso della giornata (con l’attività commerciale chiusa), trattandosi di uso non eccezionale rispetto alla destinazione del locale, per cui la tollerabilità o meno delle immissioni deve essere valutata, avuto riguardo proprio alla loro discontinuità ed incidenza maggiore nella fase notturna.
In altri termini, il giudice distrettuale ha limitato l’utilizzazione degli spazi esterni al locale ad orari che non sono destinati al riposo o in cui le esigenze di tranquillità degli occupanti della vicina abitazione possono ragionevolmente cedere alle opposte esigenze di tipo ricreativo. Si rammenta che la domanda di cessazione delle immissioni che superino la normale tollerabilità non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata, ben potendo egli ordinare l’attuazione di quegli accorgimenti che siano concretamente idonei ad eliminare la situazione pregiudizievole, senza essere vincolato dal petitum (cfr. Cass. 5 agosto 2011 n. 17051; Cass. 17 gennaio 2011 n. 887; Cass. 21 novembre 1973, n. 3138).
Nella specie la misura individuata dai Giudici del gravame è congrua e frutto di un ponderato bilanciamento delle risultanze di causa, sicché la ricorrente non può pretendere in questa sede l’imposizione di diversi accorgimenti, vedendo, almeno, ampliati gli orari di accesso agli spazi aperti nello spazio aperto di proprietà della Immobiliare Silce, in termini già stigmatizzati nella decisione impugnata perché troppo restrittivi. Invero, al di là della astratta deduzione di plurimi vizi di violazione di legge e/o motivazionale, la ricorrente mira ad una revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata. Ma una simile revisione, in realtà, non è altro che un giudizio di fatto, risolvendosi sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità;…
Del resto la domanda di cessazione delle immissioni, che superino la normale tollerabilità, non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata, potendo egli ordinare motu proprio l’attuazione di accorgimenti che evitino la situazione pregiudizievole, tanto più quando debbono contemperarsi le ragioni della proprietà e quelle della produzione (Cass. 5 agosto 1977 n. 3547; conf. Cass. 17 gennaio 2011 n. 887 cit.).
In proposito, la Corte territoriale ha limitato l’uso dello spazio esterno al locale pubblico proprio in concomitanza con l’orario notturno, accorgimento che consente di assicurare le esigenze di tranquillità degli occupanti della vicina abitazione proprio nella fascia oraria dedicata solitamente al riposo, adozione di misura inibitoria implicante l’attuazione di accorgimenti che così evitano il ripetersi della situazione pregiudizievole”
Un condomino provvede a recintare una parte del cortile retrostante l’edificio condominiale e a destinarlo a dehor dell’attività di ristorazione che esercita nel fondo di sua proprietà, posto al piano terra.
Il condominio agisce in Tribunale per vedere restituito il bene alla funzione comune ma, del tutto inopinatamente, la domanda viene respinta.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza 7 febbraio 2018 n. 214 ribalta il verdetto e osserva: “Con la sentenza impugnata, il Tribunale della Spezia ha respinto la domanda proposta dal Condominio di via R. 37 La Spezia diretta a sentir accertare la proprietà condominiale dell’area cortilizia retrostante il fabbricato, cui si accedeva anche dall’androne condominiale e identificata al N.C.E.U. del Comune della Spezia al fg. 30 part. 531 e 533 e a sentir condannare i convenuti I. D. e D.C., proprietari del fondo sito in via R. 31, in ragione della indebita occupazione dell’area, a rimuovere le opere realizzate, quali la recinzione in rete e canniccio, la pavimentazione cementizia. Il Tribunale qualificava la domanda come azione di rivendicazione, e affermava che nonostante il rigoroso onere probatorio gravante sul Condominio (cd. probatio diabolica), nessuna prova era stata da questi fornita della proprietà condominiale dell’area. Neppure la disposta CTU aveva fornito elementi utili per attribuire la proprietà dell’area all’una o all’altra parte, avendo anche accertato che altri proprietari confinanti avevano accesso all’area e che l’area non poteva essere ritenuta solo condominiale. Condannava quindi parte attrice al pagamento delle spese di lite e di CTU”
Il giudice di secondo grado accoglie l’appello con ampia motivazione, ritenendo fondate le ragioni del Condominio: “Seppure, l’azione si caratterizzi come azione di rivendica, posto che l’area oggetto della domanda non si trova nel possesso del rivendicante e seppure, anche volendo qualificare l’azione come di mero accertamento, secondo la giurisprudenza della Corte Suprema, l’onere probatorio non muti anche per chi agisce con azione di accertamento (tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla “probatio diabolica” della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione, inclusa quella di accertamento, che fonda sul diritto di proprietà tutelato “erga omnes” Cass. n. 1210/2017), occorre considerare che la vicenda di cui è causa si caratterizza per il fatto che il bene rivendicato è di natura condominiale e che la domanda, sulla base delle difese iniziali dei convenuti fatte proprie dal Condominio, risulta essere stata proposta contro un condomino.
Sul punto, come è stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema (cfr. 2016/9035) “In tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumere la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova”.
Ciò in quanto la comunione condominiale dei beni di cui all’art. 1117 c.c., è presunta e, tale presunzione legale può essere superata dalla prova di un titolo contrario, che si identifica nella dimostrazione della proprietà esclusiva del bene in capo ad un soggetto diverso.
Si è poi anche affermato che al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata a uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni”.
Nel caso di specie, occorre considerare, in primo luogo, che l’area di cui è causa, descritta con planimetria nella CTU del geom. T e visibile nelle fotografie ivi allegate, può essere considerata un cortile, rientrante quindi nella previsione di cui all’art. 1117 c.c., a nulla rilevando che si trovi in posizione esterna al Condominio. Sul punto infatti secondo la Corte Suprema (cfr. Cass. n. 2532/2017) “il cortile, tecnicamente, è l’area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti. Ma avuto riguardo all’ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – che, sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione” (Cass. n. 7889 del 09/06/2000).
L’area in questione, infatti, risponde alle caratteristiche delineate dalla giurisprudenza per essere considerata comune, trattandosi di area posta all’esterno dell’edificio condominiale, e destinata a dare aria e luce al predetto, oltre che funzionale all’accesso al condominio: “Ai fini dell’inclusione nelle parti comuni dell’edificio elencate dall’art. 1117 c.c., deve qualificarsi come cortile lo spazio esterno che abbia la funzione non soltanto di dare aria e luce all’adiacente fabbricato, ma anche di consentirne l’accesso” (cfr. Cass. n. 16241/2003).
A nulla rileva il fatto che anche altri fondi e fabbricati abbiano accesso su tale area posto che, come sempre chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema, la presunzione legale di comunione di talune parti di un edificio, stabilita dell’art. 1117 cc, senz’altro applicabile quando si tratti di parti dello stesso edificio, può ritenersi applicabile in via analogica anche quando si tratti di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, purché si tratti di beni oggettivamente e stabilmente destinati all’uso o al godimento degli stessi, come nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano (Cass. II nn. 7630/91; 4881/93; 9982/96), e più di recente (cfr. Cass. n. 17993/2010 e 21693/2014): “In tema di condominio degli edifici, la presunzione legale di comunione di talune parti, stabilita dall’art. 1117 cod. civ., trova applicazione anche nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano”
Rispondendo, pertanto, il cortile in contestazione alla presunzione di cui all’art. 1117 c.c., erroneamente il Tribunale non ha ritenuto che il cortile oggetto della controversia fosse comune, ai sensi dell’art. 1117 cc, anche in ragione del fatto che le parti convenute non avevano fornito alcuna convincente prova contraria atta a superare la presunzione di comproprietà, prova che doveva consistere o in un titolo contrario oppure in elementi oggettivi, certi ed univoci, atti a far ritenere che il cortile era destinato a loro servizio esclusivo, ma anzi ammettendo esplicitamente la natura comune dell’area.
Risulta dagli accertamenti peritali che gli appellati hanno occupato un’area di circa mq 67, nella zona sud ovest, a ridosso del fondo degli appellati, ed ove gli stessi hanno una porta di accesso al locale stesso e dove è collocato, altresì, un servizio igienico in muratura (cfr. foto 8 e 11). La Corte ritiene che la stabile occupazione di detta ampia parte dell’area comune da parte degli appellati, delimitata in parte da fioriere in plastica, in parte da un muretto in mattoni pieni a vista piastrellata con quadroni in calcestruzzo prefabbricato non possa considerarsi espressione di un uso intensivo della cosa comune, ai sensi dell’art. 1102 c.c., tale da attrarre il bene nella sfera della proprietà esclusiva degli appellati e legittimare questi ultimi ad opporsi alla sua utilizzazione da parte del Condominio.
… poiché l’uso della cosa comune è sottoposto dall’art. 1102 c.c. ai due limiti fondamentali consistenti nel divieto per ciascun partecipante di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, esso non può estendersi alla occupazione di una parte del bene comune, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, alla usucapione della parte occupata (Cass. 14-12-1994 n. 10699; Cass. 5-2-1982 n. 693).
Le limitazioni poste dall’art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, inoltre, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini (Cass. 28-4-2004 n. 8119; Cass. n. 4372/2015).
Se pertanto deve ritenersi indiscussa la possibilità di utilizzo del cortile da parte degli appellati, tali utilizzo non può di certo spingersi fino ad impedire un pari utilizzo dell’area da parte degli altri condomini, impedimento attuato con la materiale delimitazione ben descritta dalla ctu. Ne consegue che in riforma della sentenza impugnata, dato atto della proprietà comune dell’area cortilizia retrostante il fabbricato e censita al NCEU della Spezia F. , della inesistenza di alcun diritto di uso esclusivo degli appellati su detta area, gli appellati debbono essere condannati a rimuovere le opere realizzate a servizio del loro fondo, e segnatamente recinzione in rete e canniccio meglio descritte nella relazione CTU Geom. T., pavimentazione cementizia ed ogni altra opera che impedisca l’uso comune.”
Anche se l’impianto di scarico dei fumi a sevizio di un ristorante risulta essere a norma, ove nel cortile condominiale (o in altre parti comuni) si diffondano odori sgradevoli, la condotta può ritenersi penalmente illecita ove superi soglie di stretta tollerabilità.
Lo ha stabilito di recente la Suprema Corte (Cass.pen. VII sez. 26 settembre 2017 n. 44257) che ha ritenuto legittima la condanna di un ristoratore per getto pericoloso di cose, ai sensi dell’art. 674 cod.pen.
Nel 2016 il tribunale di Roma aveva condannato il ristoratore alla pena di 500 euro di ammenda, ritenendolo colpevole del reato contravvenzione previsto dall’art. 674 cod.pen., “per aver provocato l’emissione di fumi e vapori maleodoranti nel cortile condominiale, atti a molestare i soggetti di cui al capo di imputazione”
Osserva la Corte di legittimità che
il criterio fondante è quello della stretta tollerabilità: “nel caso in esame trovano applicazione i seguenti principi, enunciati dalla giurisprudenza sopra richiamata:
a) l’evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità;
b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l’intensità delle emissioni, il giudizio sull’esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti”