art. 63 disp.att. cod.civ.: dalla Cassazione un’accurata disamina della natura dell’obbligazione e del suo operare fra venditore ed acquirente

E’ noto che l’art. 63 disp.att. cod.civ., sia nella formulazione anteriore alla novella del 2012 che in quella attuale, prevede solidarietà fra acquirente e venditore dell’unità immobiliare  per le somme dovute al condominio in forza dell’esercizio  in corso e di quello precedente all’atto del trasferimento.

Si tratta di norma che ha valenza nei conforti del condominio, ma non rileva nei rapporti interni fra venditore ed acquirente, che potranno regolare nell’atto le rispettive obbligazioni e che comunque saranno tenuti in forza di meri criteri cronologici legati al trasferimento, avendo riguarda – per le spese straordinarie – a chi era proprietario al momento della delibera che ne ha deciso l’esecuzione.

Tale rilevanza rimane  interna  anche riguardo ai rapporti con il terzo creditore, che non potrà fra conto sul vincolo di solidarietà fra venditore ed acquirente dell’unità condominiale .

La Suprema  Corte chiarisce inoltre che il vincolo previsto  dall’art. 63 disp.att. cod.civ. opera anche in caso di acquisto in sede di esecuzione immobiliare, ribadendo  una tesi abbastanza pacifica in dottrina e diffusa nella giurisprudenza di merito, ma che non aveva ancora trovato un recente e netto riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità, sì che non è raro trovare coloro che ancora sostengono la leggenda metropolitana dell’effetto purgativo dell’asta immobiliare.

Cass.Civ. sez. VI 25 gennaio 2018 n.   1847 rel. Scarpa sottolinea, con la consueta capacità di sintesi e approfondimento del relatore, alcuni passaggi essenziali della materia.

il motivo del contendere: “C. B., titolare di omonima impresa edile, aveva domandato tale ingiunzione di pagamento per ottenere dal condomino I. il pagamento del residuo corrispettivo (C 2.080,00) dei lavori di ristrutturazione del fabbricato condominiale di via F., Pozzuoli, approvati con deliberazione assembleare del 7 febbraio 2008. Lo Iacuaniello si era opposto al decreto ingiuntivo, deducendo di aver acquistato l’unità immobiliare compresa nel condominio di via F. solo per effetto di decreto di trasferimento del Tribunale di Napoli in data 23 gennaio 2009. Il Tribunale ha riformato la sentenza di primo grado, osservando come il vincole solidale  tra precedente e attuale  proprietario, previsto dall’art. 63 disp. att. c.c., riguardi soltanto le somme dovute al condominio, mentre nei confronti del terzo creditore, trattandosi nella specie di spese di manutenzione straordinaria, doveva ritenersi debitore unicamente chi fosse proprietario al momento della deliberazione di approvazione dell’assemblea.”

I principi di diritto affermati dalla Cassazione: quanto alla natura di lavoro straordinario, la corte rileva che si tratta di valutazione rimessa al giudice di merito, insindacabile in cassazione e tuttavia ribadisce che “questa Corte ha già spiegato come il criterio discretivo tra atti di ordinaria amministrazione ed atti di amministrazione straordinaria riposa sulla “normalità” dell’atto di gestione rispetto allo scopo dell’utilizzazione e del godimento dei beni comuni, sicché gli atti implicanti spese che, pur dirette alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere economico rilevante, necessitano della delibera dell’assemblea condominiale (Cass. Sez. 2, 25/05/2016, n. 10865). Trattasi, peraltro, di valutazione da compiersi avendo riguardo non alla singola voce di spesa, ma all’intervento complessivamente approvato, sicchè non appare dubitabile che un intervento edilizio di ristrutturazione del fabbricato, quale quello oggetto della vicenda per cui è lite, si connoti come manutenzione straordinaria. L’accertamento della straordinarietà o ordinarietà dell’attività gestoria discende, in ogni modo, dall’apprezzamento di fatto rimesso ai giudici del merito”

Sulla natura dell’obbligazione ex art. 63 disp.att. cod.civ. e sul suo operare: “Trova applicazione ratione temporis, attesa l’epoca di insorgenza dell’obbligo di spesa per cui è causa, l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220. In forza di tale norma, chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo al pagamento dei contribut relativi all’anno in corso e a quello precedente.

Dovendosi individuare, ai fini dell’applicazione dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale)”, deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento, avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. Sez. 6 – 2, 22 giugno 2017, n. 15547; Cass. Sez 6 – 2, 22 marzo 2017, n. 7395; Cass. Sez. 2, 03/12/2010, n. 24654).  

Tale momento rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, se gli stessi non si siano diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro.

L’obbligo del cessionario nei confronti del condominio si configura in capo a chiunque, sia pure, come nel caso in esame, in dipendenza di aggiudicazione forzata, succeda nella proprietà dell’immobile condominiale, non trovando applicazione il disposto dell’art. 2919 c.c. (Cass. Sez. 2, 09/07/1964, n. 1814).

Si tratta, quindi, di obbligazione solidale, ma autonoma, in quanto non propter rem, e, piuttosto, costituita ex novo dalla legge esclusivamente in funzione di rafforzamento dell’aspettativa creditoria dell’organizzazione condominiale, sicchè essa non opera in favore del terzo creditore del condominio.

La costruzione giurisprudenziale del principio della diretta riferibilità ai singoli condomini della responsabilità per l’adempimento delle obbligazioni contratte verso i terzi dall’amministratore del condominio per conto del condominio, tale da legittimare l’azione del creditore verso ciascun partecipante, poggia comunque sul collegamento tra il debito del condomino e la appartenenza di questo al condominio, in quanto è comunque la contitolarità delle parti comuni che ne costituisce il fondamento e l’amministratore può vincolare i singoli comunque nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli (Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148).

Non può pertanto essere obbligato in via diretta verso il terzo creditore, neppure per il tramite del vincolo solidale ex art. 63, disp. att. c.c., chi non fosse condomino al momento in cui sia insorto l’obbligo di partecipazione alle relative spese condominiali, nella specie per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni, ossia alla data di approvazione della delibera assembleare inerente i lavori.”

© massimo ginesi 26 gennaio 2018 

 

decreto ingiuntivo non opposto e principio del giudicato esterno discedente: in tema di spese di riscaldamento condominiali.

La mancata opposizione a decreto ingiuntivo e il suo divenire definitivo, con effetto di cosa giudicata, comporta che non possa più essere oggetto di successivo giudizio quanto poteva e doveva essere dedotto in quella sede.

Il principio, in materia condominiale, è ribadito da Cass.Civ. sez. VI 22 gennaio 2018 n. 1502 rel. Scarpa: “È fondato anche il secondo motivo di ricorso, non avendo il Tribunale di Verbania preso in esame l’eccezione di giudicato esterno formulata dal Condominio di (omissis) con riferimento ai decreti ingiuntivi n. 256/14 e n. 363/15.

Il ricorrente aveva posto in evidenza come tali decreti ingiuntivi fossero stati richiesti dal medesimo Condominio per ottenere dal M. il pagamento di spese ordinarie comprensive delle spese di riscaldamento.

Il Tribunale avrebbe pertanto dovuto verificare se i decreti ingiuntivi non opposti avessero dato luogo alla formazione tra le parti di un giudicato involgente altresì la ragione e la misura dell’obbligazione del condomino M. di concorrere alle spese di uso del riscaldamento centrale, nonché l’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi, non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione, quali quelli atti a prospettare l’insussistenza, totale o parziale, del credito azionato in sede monitoria sul presupposto dell’esonero da tali spese del condomino che abbia distaccato le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune.

Ove quei decreti recassero l’accertamento della sussistenza dell’obbligo di M.L. di contribuire alle spese d’uso del riscaldamento centralizzato, la situazione ivi accertata non potrebbe in radice formare oggetto di valutazione diversa nel presente giudizio, permanendo immutati gli elementi di fatto e di diritto preesistenti.

Occorre infatti considerare come il giudice, nell’indagine volta ad accertare l’oggetto ed i limiti del giudicato esterno discendente da un decreto ingiuntivo non opposto, debba dare rilievo non unicamente al contenuto precettivo del provvedimento monitorio pronunziato, quand’anche agli elementi di fatto ed alle ragioni di diritto su cui era fondata la domanda di ingiunzione.

Questa Corte ha sostenuto, del resto, che il giudice che emette il decreto ingiuntivo, accogliendo le ragioni del ricorrente, ne fa propri i motivi, per cui il riferimento a questi – portati a conoscenza dell’ingiunto mediante la notificazione sia del ricorso che del decreto, prevista dal secondo comma dell’art. 643 c.p.c. – è sufficiente ad integrare per relationem la motivazione del provvedimento, necessaria ai sensi del combinato disposto degli artt. 641, comma 1, e 135, comma 2, dello stesso codice di rito (Cass. Sez. L, 16/06/1987 n. 5310; Cass. Sez. 5, 20/08/2004, n. 16455).

Ne consegue che il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo si estende pure alla causa petendi indicata a sostegno del credito azionato, abbracciando i fatti costitutivi esposti nel ricorso per ingiunzione come l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al medesimo ricorso e non dedotti con l’opposizione, mentre non si estende soltanto ai fatti successivi al giudicato, ovvero a quelli che comportino un mutamento del petitum e della causa petendi articolati in seno alla domanda accolta.

Ove si tratti di decreto ingiuntivo per le rate maturate di un’obbligazione periodica, l’autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo, il quale, pertanto, esplica la propria efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l’unico limite di una sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento (cfr. Cass. Sez. 2, 2016, 06/06/2016, n. 11572; Cass. Sez. L, 23/07/2015, n. 15493; Cass. Sez. 3, 11/05/2010, n. 11360).”

LA sentenza affronta anche altro tema ormai più che consolidato, ribadendo principi ferrei e condivisibili in ordine all’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, nel quale non si potranno far valere vizi della  delibera posta a fondamento della richiesta monitoria, non tempestivamente impugnata, salvo che gli stessi risultino tutt’ora idonei ad incidere sulla sua efficacia (ed esempio la nullità della stessa): “Occorre peraltro ribadire che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. Sez. 2, 29 agosto 1994, n. 7569).

Il Tribunale di Verbania non si è uniformato al costante orientamento di questa Corte, secondo il quale, nello stesso giudizio di opposizione, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione (nella specie, per aver l’assemblea posto a carico anche del condomino che si era distaccato dall’impianto di riscaldamento centralizzato le spese di gestione dello stesso), ma solo questioni riguardanti l’efficacia di quest’ultima.

Per quanto detto, tale delibera costituisce, infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non soltanto la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è, dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629; Cass. Sez. 2, 23/02/2017, n. 4672).

Il giudice deve quindi accogliere l’opposizione solo qualora la delibera condominiale (nella specie, quelle approvate dal Condominio di (omissis) nelle assemblee dell’ottobre 2009, del marzo e del maggio 2010) abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137, comma 2, c.c., o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la deliberazione (Cass. Sez. 2, 14/11/2012, n. 19938).

La dedotta mancata comunicazione delle delibere assembleari di approvazione e ripartizione delle spese ai condomini assenti ex art. 1137 c.c. al condomino M. , in quanto vicenda del tutto estranea al procedimento formativo della volontà collegiale, può essere ragione che abbia impedito il decorso del termine di impugnazione stabilito da detta norma, ma non comunque motivo di invalidità da introdurre per la prima volta nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei relativi oneri, ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c. (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 11/08/2017, n. 20069; Cass. Sez. 2, 22/05/1974, n. 1507).

Né il condomino M. potrebbe lamentare l’annullabilità delle deliberazioni poste a fondamento dell’ingiunzione di pagamento per non essere stato proprio convocato a quelle riunioni, trattandosi di vizio invocabile comunque con l’impugnazione ex art. 1137 c.c., e non di doglianza che possa formare oggetto di eccezione nel giudizio di opposizione (Cass. Sez. 2, 07/11/2016, n. 22573; Cass. Sez. 2, 01/08/2006, n. 17486). ” 

© massimo ginesi 25 gennaio 2018

nella causa fra condomino e condominio, se quest’ultimo soccombe non può ripartire le spese di lite anche al vittorioso.

Sembrerebbe un principio ovvio:  se tuttavia la Suprema Corte è costretta ancora una volta a ribadirlo ( Cass.Civ. sez.  II 23 gennaio 2018 n. 1629 Rel. Scarpa),  vi è evidentemente qualche amministratore e qualche assembela che ancora non lo hanno recepito.

Il Condomino che è contrapposto in una causa contro il condominio e la vince, con il favore delle spese. non può essere chiamato a partecipare pro quota alle spese di lite, cui il condominio è stato condannato dal giudice in virtù del principio  di soccombenza previsto dall’art. 91 c.p.c.

La ragione è ovvia sotto il profilo pratico, ancor prima che giuridico: il condomino vittorioso rappresenta la controparte processuale  vittoriosa del condominio, controparte  che ha diritto di vedersi rimborsare le spese di lite dal condominio che, in tal caso, ne risponderà nei limiti di tutti coloro che hanno partecipato alla lite quali condomini, tranne il condomino controparte.

la Corte d’Appello di Trento ha fatto corretta applicazione dell’orientamento secondo cui è nulla la deliberazione dell’assemblea condominiale che, all’esito di un giudizio che abbia visto contrapposti il condominio ed un singolo condomino, disponga anche a carico di quest’ultimo, pro quota, il pagamento delle spese sostenute dallo stesso condominio per il compenso del difensore nominato in tale processo, non trovando applicazione nella relativa ipotesi, nemmeno in via analogica, gli artt. 1132 e 1101 c.c.

Questo orientamento spiega come nell’ipotesi di controversia tra condominio e uno o più condomini, la compagine condominiale viene a scindersi di fronte al particolare oggetto della lite, per dare vita a due gruppi di partecipanti al condominio in contrasto tra loro, nulla significando che nel giudizio il gruppo dei condomini, costituenti la maggioranza, sia stato rappresentato dall’amministratore (Cass. Sez. 2, 18/06/2014, n. 13885; Cass. Sez. 2, 25/03/1970, n. 801).

E’ quindi da considerare nulla per impossibilità dell’oggetto la deliberazione dell’assemblea che, con riferimento ad un giudizio che veda contrapposti il condominio ed un singolo condomino, ponga anche a carico di quest’ultimo, pro quota, l’obbligo di contribuire alle spese sostenute dallo stesso condominio per il compenso del difensore o del consulente tecnico di parte nominati in tale processo, trattandosi di spese per prestazioni rese a tutela di un interesse comunque opposto alle specifiche ragioni personali del singolo condomino, e neppure, perciò, trovando applicazione in tale ipotesi l’art. 1132 c.c.”

La corte ribadisce anche un altro principio  importate in tema di spese: non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, ma la misura della compensazione – in caso di reciproca soccombenza – rimane una valutazione di esclusiva competenza del giudice di merito.

“la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, ovvero la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbano eventualmente ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, e restano perciò sottratte al sindacato di legittimità, essendo questo limitato ad accertare soltanto che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (cfr. Cass. Sez. 2, 31/01/2014, n. 2149).”

© massimo ginesi 24 febbraio 2018

 

il decoro architettonico dell’edificio e la sua alterazione

Un condomino realizza sul proprio terreno, antistante l’edificio condominiale, una piattaforma di oltre trenta metri quadri,  dotata di ombrelloni posta  in adiacenza all’ingresso condominiale e ancorata alla facciata dell’edificio, tale da inserirsi  quindi nell’equilibrio architettonico del prospetto.

La Corte di appello di Roma ha ritenuto tale opera lesiva della simmetria del fabbricato e ne ha ordinato la rimozione.

La vicenda giunge al giudice di legittimità che – ritenendo corretto l’operato del giudice di merito – coglie l’occasione per ripercorrere la disciplina in tema di decoro del fabbricato, confermando principi ormai consolidati (Cass.Civ. VI sez. 18 gennaio 2018 n. 1235 rel. Scarpa) .

Osserva la Cassazione che “ai fini della tutela prevista dall’art. 1120 cod.civ.  in materia di divieto di innovazioni sulle parti comuni dell’edificio condominiale, non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed evidentemente compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità.

La tutela del decoro architettonico – di cui all’art. 1120 cod.civ. – attiene a tutto ciò che nell’edificio è visibile ed apprezzabile dall’esterno, posto che esso si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, per cui il proprietario della singola unità immobiliare non può mai, senza autorizzazione del condominio, esercitare una autonoma facoltà di modificare quelle parti esterne, a prescindere da ogni considerazione sulla proprietà del suolo su cui venga realizzata l’opera innovativa (Cass. Sez. 2, 19/06/2009, n. 14455; Cass. Sez. 2,
14/12/2005, n. 27551; Cass. Sez. 2, 30/08/2004, n. 17398).

Si configura, in astratto, peraltro, non una violazione dell’art. 1120, comma 2, cod.civ.  (testo antecedente alle modifiche introdotte con la legge n. 220/2012, qui operante ratione temporis), ma dell’art. 1102 cod.civ., disposizione invero applicabile a tutte le innovazioni che, come nella specie, non comportano interventi approvati dall’assemblea e quindi spese ripartite fra tutti i condomini; dovendosi del pari riaffermare che, in tema di condominio, è illegittimo l’uso particolare o più intenso del bene comune, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio condominiale (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Sez. 2, 22/08/2012, n. 14607).

Né, ai fini della verifica del danno estetico alla facciata dell’edificio condominiale, determinante agli effetti degli artt. 1102 e 1120 e.e., assume rilievo il fatto che la piattaforma sia stata realizzata “in aderenza” al muro comune.

Al riguardo, il ricorrente propone anche una questione di applicabilità dell’art. 877 cod.civ. , questione che però non viene affrontata nella sentenza impugnata, e che risulta quindi inammissibile in questa sede, non essendo stato indicato, ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., in quale atto del giudizio di merito essa venne posta, e trattandosi peraltro di questione di diritto implicante il necessario svolgimento di indagini ed accertamenti di fatto.

In ogni caso, per il giudizio sull’alterazione dello stile architettonico della parete esterna di un fabbricato condominiale, è privo di decisività il dato che il manufatto ivi realizzato si innesti nel muro comune o coesista con esso,rimanendone autonomo.

Del pari privo di significato determinante è che il manufatto non impedisse l’accesso allo stabile condominiale né la visibilità del suo numero civico (circostanze che la ricorrente assume nel suo quinto motivo come accertate in primo grado e non oggetto di specifica devoluzione al giudice d’appello, e perciò ormai coperte da giudicato), in quanto gli artt. 1120 e 1102 cod.civ.  individuano, quali limiti per la legittimità delle modificazione di uno stabile condominiale, la stabilità o la sicurezza del fabbricato, il decoro architettonico dell’edificio, appunto, nonché l’uso o il godimento delle parti comuni ad opera dei singoli condomini, limiti operanti, tuttavia, in via pure alternativa e non necessariamente concorrente.

Neppure è infine decisiva la doglianza sulla mancata specificazione della diminuzione di valore economico correlata alla modifica, in quanto, avendo la Corte d’Appello accertato una alterazione della fisionomia architettonica dell’edificio condominiale, per effetto della realizzazione di una piattaforma di oltre trenta metri quadrati ancorata alla facciata, il pregiudizio economico risulta conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico, che, costituendo una qualità del fabbricato, è tutelata – in quanto di per sé meritevole di salvaguardia – dalle norme che ne vietano l’alterazione (così Cass. Sez. 2, 31/03/2006, n. 7625; Cass. Sez. 2, 24/03/2004, n. 5899).”

© massimo ginesi 19 gennaio 2018

L’accettazione della nomina: una interessante ed esaustiva analisi della disciplina vigente

Sul numero di gennaio 2018 della rivista  “immobili&proprietà” appare un interessante articolo di Antonio Scarpa, finissimo studioso della materia condominiale e magistrato della seconda sezione civile della Corte di Cassazione,  su un tema che ha destato non pochi dubbi e riflessioni all’entrata in vigore della riforma del 2012: la nomina dell’amministratore e l’obbligo della sua accetazione oggi previsto dal novellato art. 1129 c.c.

Aldilà dei molti riflessi legati al compenso, che la norma riconnette alla accettazione, sotto il profilo meramente dogmatico non si è potuto non rilevare sin dallla approvazione della L. 220/2012  che il termine  accettazione – usato dal legislatore della novella –   introduce una specifca notazione relativa a momento perfezionativo del negozio, con riguardo alla disciplina generale dei contratti.

La lettura dell’intero articolo è di grande interesse, giova tuttavia rilevare un passaggio – del tutto condivisibile – che evidenzia proprio l’aspetto relativo al perfezionamento della nomina:

La nomina dell’amministratore è da ritenere realizzata, con la derivante efficacia nei confronti dei terzi, anche ai fini della rappresentanza processuale dell’ente, solo dal momento in cui sia adottata la rispettiva deliberazione dell’assemblea nelle forme di cui all’art. 1129 c.c. e ad essa consegua l’accettazione dell’amministratore designato.

Non rileva, quanto meno sotto l’aspetto dei rapporti con i terzi, il dato che l’amministratore possa anche essere nominato pure mediante una manifestazione di volontà diversa dall’espressa investitura nell’ufficio da parte dell’assemblea: la formale deliberazione di nomina, nelle modalità supposte dall’art. 1129, comma 1, c.c., e la sua conforme accettazione soddisfano le esigenze di certezza e di affidamento avvertite dagli estranei che debbano negoziare con il  condominio o agire in giudizio nei suoi confronti.”

 

© massimo ginesi 15 gennaio 2018

regolamento contrattuale e innovazioni: quando la valutazione è rimessa ad un terzo.

un caso singolare giunge all’esame della corte di legittimità (Cass.Civ. II sez. 19 dicembre 2017 n. 30528 rel. Scarpa): un regolamento di natura contrattuale rimette al progettista del fabbricato (o ad altro architetto) la valutazione di ammissibilità delle  future innovazioni destinate ad incidere  sul prospetto dell’edificio.

Il motivo di contesa riguarda una serra solare realizzata sul giardino di proprietà esclusiva e in aderenza alla facciata condominiale dal condomino del piano terreno; la vicenda è stata decisa nel merito dal giudice di secondo grado di Milano “La Corte d’Appello ha affermato che l’art. 25 del Regolamento condominiale rimettesse ogni opera, che potesse variare le caratteristiche delle facciate, al “preventivo ed insindacabile benestare scritto” dell’architetto E. Z., progettista dell’edificio (ovvero in futuro ad altro architetto da nominare).

Ciò, secondo la Corte di Milano, significava rimettere, mediante scelta condivisa con l’accettazione del regolamento all’atto dell’acquisto delle singole unità, ad un “soggetto qualificato” la verifica “del rispetto del requisito che la legge impone”.

I giudici di appello definivano la serra realizzata “funzionale ad accrescere la vivibilità dell’appartamento e ad assicurare la fruibilità per qualsiasi occasione anche di svago e di tempo libero”, ed escludevano l’applicabilità dell’art. 907 c.c. in tema di distanze dalle vedute, come anche la violazione dell’art. 1102 c.c., trattandosi di opera realizzata a piano terra, nel giardino di proprietà esclusiva, in aderenza alla facciata condominiale e non preclusiva del pari uso del bene comune”.

in via preliminare il giudice di legittimità osserva che “L’omesso o errato esame di una disposizione del regolamento di condominio da parte del giudice di merito è, piuttosto, sindacabile in sede di legittimità soltanto per inosservanza dei canoni di ermeneutica oppure per vizi logici sub specie del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355).”

La Corte rileva che ad avviso del giudice di merito il regolamento non costituisce deroga alla disciplina codicistica: “A pagina 3, la sentenza impugnata ha spiegato di intendere l’art. 25 del Regolamento di condominio non come “deroga alla norma civilistica”, quanto come “scelta condivisa con l’accettazione del regolamento condominiale”, diretta a “rimettere ad un soggetto particolarmente qualificato” la constatazione della non alterazione del decoro architettonico riferibile agli interventi sulla facciata dell’edificio.

Questa Corte ha già spiegato in passato come la disposizione di cui al quarto comma dell’art. 1138 c.c., secondo cui le norme del regolamento di condominio (anche in ipotesi di cosiddetto regolamento contrattuale) non possono in nessun caso derogare, tra l’altro, a quanto stabilito nell’art. 1120 dello stesso codice, impedisce comunque l’esecuzione di opere e lavori lesivi del decoro dell’edificio condominiale o di parte di esso (Cass. Sez. 2, 26/05/1990, n. 4905; Cass. Sez. 2, 15/01/1986, n. 175).

Tuttavia, una clausola del regolamento condominiale, quale quella in esame, che, per le modifiche esterne ed interne delle proprietà individuali incidenti sulle facciate dell’edificio, richieda il benestare scritto dell’architetto progettista del fabbricato, ovvero di altro architetto da nominare, non costituisce deroga agli artt. 1120 e 1122 c.c., dando luogo, piuttosto, a vincoli di carattere reale tipici delle servitù prediali (e non a limitazioni di portata meramente obbligatoria), nel senso di specificare i limiti di carattere sostanziale delle innovazioni (cfr. Cass. Sez. 2, 16/10/1999, n. 11688), mediante predisposizione di una disciplina di fonte convenzionale, espressione di autonomia privata, che pone nell’interesse comune una peculiare modalità di definizione dell’indice del decoro architettonico.

E’ poi costante l’orientamento di questa Corte ad avviso del quale la disciplina dettata dall’art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute non trova applicazione in ambito condominiale (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14096; anche Cass. Sez. 2, 02/02/2016, n. 1989).

Più in generale, nell’applicare in materia di condominio le norme sulle distanze legali (nella specie con riferimento al diritto di veduta), spetta al giudice di merito, con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., tener conto in concreto della struttura dell’edificio, delle caratteristiche dello stato dei luoghi e del particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, verificando, nel singolo caso, come fatto dalla Corte di Milano, la compatibilità dei rispettivi diritti dei condomini (Cass. Sez. 2, 11/11/2005, n. 22838).

Così come la realizzazione da parte di un condomino di una modifica nella sua proprietà esclusiva (nella specie, realizzazione di una serra) in aderenza alla facciata dell’edificio quale pertinenza del rispettivo appartamento, ai fini dell’utilizzo delle parti comuni, rimane sottoposta, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al divieto di alterare la destinazione della cosa comune, nonché a quello di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; ma l’accertamento se l’opera del singolo condomino, mirante ad una intensificazione del proprio godimento della cosa comune, sia conforme o meno alla destinazione della cosa comune, è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (e la Corte d’Appello ha ben spiegato a pagina 4 della sentenza le ragioni per cui la realizzazione della serra potesse essere considerata esplicazione del normale uso della cosa comune).

sulle distanze la Corte osserva ancora che “la Corte di Milano ha invece affermato che l’art. 27 del Regolamento edilizio del Comune di Milano non trovasse applicazione al caso in esame, trattandosi comunque di nuova costruzione avvenuta all’interno di un edificio condominiale, con ciò facendo ancora una volta applicazione del principio giurisprudenziale per il quale le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale soltanto se compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale (Cass. Sez. 2, 18/03/2010, n. 6546).”

© massimo ginesi 20 dicembre 2017 

impugnativa di delibera e legittimazione processuale: se l’amministratore non agisce, non è consentito farlo ai singoli condomini.

La suprema corte (Cass.Civ. II sez. 12 dicembre 2017 n. 29748 rel. Scarpa) conferma un orientamento ormai consolidato: per le controversie attinenti alla gestione comune sussiste legittimazione esclusiva dell’amministratore, dovendosi esclude la concorrente facoltà del singolo condomino.

La vicenda trae origine, nel merito, dalla impugnativa di una delibera assembleare che, a detta dei condomini che hanno fatto ricorso al giudice, ripartiva erroneamente alcune spese. La Corte di Appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva annullato la delibera, con pronuncia resa nei conforti del condominio in persona dell’amministratore: avverso detta sentenza alcuni condomini propongono ricorso per cassazione.

Osserva la corte che: “Per consolidato orientamento di questa Corte, spetta in via esclusiva all’amministratore del condominio la legittimazione passiva a resistere nei giudizi promossi dai condomini per l’annullamento delle delibere assembleari, ove queste non attengono a diritti sulle cose comuni (Cass. Sez. 2, 20/04/2005, n. 8286; Cass. Sez. 2, 14/12/1999, n. 14037; Cass. Sez. 2, 19/11/1992, n. 12379).

Nella specie, si tratta di impugnativa di deliberazione dell’assemblea condominiale relativa alla ripartizione di spese per un servizio comune. L’impugnativa è fondata sull’assunta violazione dei criteri di suddivisione stabiliti dalla legge, ed è quindi volta ad ottenere una pronuncia di invalidità della deliberazione assembleare, per il cui accertamento sono legittimati, dal lato attivo, ciascun condomino, e, passivamente, come accennato, soltanto l’amministratore del condominio, senza necessità di partecipazione al giudizio dei singoli condomini (Cass. Sez. 2, 15/04/1994, n. 3542).

La legittimazione passiva esclusiva dell’amministratore del condominio nei giudizi relativi alla ripartizione delle spese per le cose ed i servizi collettivi promossi dal condomino dissenziente dalla relativa deliberazione assembleare discende dal fatto che la controversia ha per oggetto un interesse comune dei condomini, ancorché in opposizione all’interesse particolare di uno di essi (Cass. Sez. 2, 11/08/1990, n. 8198).

Da ciò consegue che, nelle controversie concernenti impugnativa ex art. 1137 c.c. delle deliberazioni dell’assemblea relative alla ripartizione delle spese per le cose e per i servizi comuni, nelle quali è unico legittimato passivo l’amministratore di condominio, non è ammissibile il gravame avanzato dal singolo condomino avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio.

Il potere di impugnazione del singolo condomino va, infatti, riconosciuto nelle controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, o anche nelle azioni personali, ma se incidenti in maniera immediata e diretta sui diritti di ciascun partecipante.

Mentre (secondo l’orientamento del tutto prevalente di questa Corte, che il collegio intende qui ribadire) non va consentita l’impugnazione individuale relativamente alle controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un bene o un servizio comune, bensì la gestione di esso, intese, dunque, a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, nelle quali non v’è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più condomini, quanto con un interesse direttamente plurimo e solo mediatamente individuale, giacché, nelle cause di quest’ultimo tipo, la legittimazione ad agire e, quindi, anche ad impugnare, spetta in via esclusiva all’amministratore, e la mancata impugnazione della sentenza da parte di quest’ultimo finisce per escludere la possibilità d’impugnazione da parte del singolo condomino (Cass. Sez. 2, 21/09/2011, n. 19223; Cass. Sez. 2, 04/05/2005, n. 9213; Cass. Sez. 2, 03/07/1998, n. 6480; Cass. Sez. 2, 12/03/1994, n. 2393).”

il ricorso è dunque dichiarato inammissibile.

© massimo ginesi 13 dicembre 2017

nomina di amministratore giudiziario e ricorso in cassazione.

una recente pronuncia  del giudice di legittimità (Cass.Civ. sez. VI 16 novembre 2017 n. 27165 rel. Scarpa) ribadisce un consolidato principio, ovvero l’inammissibilità del ricorso in cassazione contro il provvedimento che statuisca sulla nomina di amministratore giudiziario del condominio da parte del giudice di merito, per inidoneità dello stesso a divenire cosa giudicata.

Contro la decisione del Tribunale è dunque ammesso reclamo alla Corte di appello, ma la statuizione di quest’ultima non è ulteriormente ricorribile in cassazione, se non  per il capo relativo alla condanna alle spese.

La pronuncia coglie l’occasione per delineare anche gli stretti confini dell’azione in sede di volontaria giurisdizione, in cui non possono trovare ingresso tematiche riservate invece all’ordinario giudizio contenzioso.

Secondo consolidato orientamento di questa Corte, infatti, è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo contro il decreto del tribunale in tema di nomina dell’amministratore di condominio, previsto dall’art. 1129, comma 1, c.c., attesa la carenza di attitudine al giudicato di quest’ultimo, non essendo diretto a risolvere un conflitto di interessi ma solo ad assicurare al condominio l’esistenza dell’organo necessario per l’espletamento delle incombenze ad esso demandate dalla legge.

La mancanza di decisorietà del decreto non viene meno neppure in ragione della dedotta violazione di norme strumentali preordinate alla sua emissione, in quanto il carattere non definitivo di esso si estende necessariamente alla definizione di ogni questione inerente al procedimento nel quale viene reso. Tale ricorso è invece ammissibile esclusivamente avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo rispetto a quello in esito al cui esame è stata adottata, e pertanto dotata dei connotati della decisione giurisdizionale con attitudine al giudicato, indipendentemente dalle caratteristiche del provvedimento cui accede (Cass. Sez. 2, 06/05/2005, n. 9516; Cass. Sez. 2, 11/04/2002, n. 5194;Cass. Sez. 2, 21/02/2001, n. 2517; Cass. Sez. 2, 13/11/1996, n. 9942).”

Quanto ai limiti del giudizio, la corte osserva che “Esulano, pertanto, dall’ambito del procedimento di nomina giudiziale dell’amministratore le questioni inerenti all’eventuale esistenza di conflitti, sia all’interno del condominio, da parte di quei condomini che ritengano che l’amministratore sia stato già eletto, sia all’esterno, da parte di chi sostenga di essere stato investito validamente dell’ufficio di amministratore, in quanto tali conflitti devono risolversi nell’appropriata sede assembleare, e lo strumento di tutela è quello giurisdizionale, secondo le regole ordinarie poste dall’art. 1137 c.c.

Né possono essere oggetto del procedimento di nomina giudiziale ex art. 1129 c.c. le irregolarità gestionali che si attribuiscano all’amministratore in carica.

Sono infine prive di ogni inerenza decisoria rispetto al proprium del procedimento ex art. 1129, comma 1, c.c., le questioni preliminari circa la configurabilità di un unico condominio, o di condomini separati ed autonomi seppur aventi parti comuni, sul modello attualmente contemplato dagli artt. 1117 bis c.c. e 67, commi 3 e 4, disp. att. c.c., trattandosi all’evidenza di questioni da risolvere in un giudizio contenzioso che veda quali legittimi contraddittori i comproprietari del bene.”

© massimo ginesi 27 novembre 2017

 

il condomino proprietario di due unità in edifici attigui non può collegarle.

E’ principio  consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il soggetto proprietario di due unità immobiliari – poste in distinti edifici condominiali – non possa porle in collegamento per determinazione unilaterale, anche ove gli edifici siano attigui, poiché tale attività comporta la costituzione di una servitù a carico delle parti comuni, che richiede necessariamente il consenso di tutti i condomini.

Il tema è ripreso da una recente pronuncia (Cass.Civ. sez. VI ord. 16 novembre 27164 rel. Scarpa), che applica il principio anche ad una ipotesi apparentemente innocua, ovvero la semplice eliminazione di un setto divisorio fra due balconi appartenenti allo stesso proprietario e che tuttavia sono posti in due edifici distinti.

La pronuncia si rivela interessante anche per la connotazione degli obblighi che incombono ex art. 1122 cod.civ. al singolo che intenda effettuare modifiche, seppur con riguardo alla formulazione della norma ante 2012 (la legge 22072012 ha reso ancor più stringenti gli oneri di comunicazione per il condomino che introduca modifiche nella propria unità, quando queste abbiano incidenza anche sulle pareti comuni).

il caso – “Il Tribunale di Ragusa ha rigettato la domanda di R.G., volta alla ricostruzione di un muretto e di una ringhiera di separazione dei balconi di due unità immobiliari, entrambe di proprietà di P. G. ma comprese in due distinti, seppur contigui, edifici condominiali (quello di via S. C. e quello di via M. S. 51), che il convenuto aveva posto in comunicazione rimuovendo gli indicati manufatti. Riformando la decisione del Giudice di pace, il Tribunale ha osservato che i balconi aggettanti non costituiscono parti comuni dei fabbricati condominiali, ma rientrano nelle rispettive proprietà esclusive, e sono perciò modificabili senza che possa sussistere violazione dell’art. 1102 c.c.”

i principi di diritto – il giudice di legittimità osserva che “E’ corretto evidenziare in premessa come, mentre l’art 1102 c.c. riguarda esclusivamente le opere compiute dal condomino sulla cosa comune, l’art. 1122 c.c. (nella formulazione qui applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge n. 220/2012) disciplina l’ipotesi in cui l’opera sia effettuata dal condomino sulla cosa propria (nella specie, i balconi aggettanti, costituenti un prolungamento dei due appartamenti di P. G.).

Anche peraltro la facoltà di eseguire opere sulle parti di proprietà esclusiva incontra, proprio nell’art. 1122 c.c., il limite consistente nel danno alle parti comuni dell’edificio, danno che comprende ogni diminuzione di valore riferito alla funzione della cosa, considerata nella sua unità (cfr. Cass. Sez. 2, 25/01/1995, n. 870; Cass. Sez. 2, 26/03/1963, n. 745).

Il ricorso di R.G. assume fondatamente che il Tribunale non ha preso in considerazione la sua specifica deduzione, riproposta nella comparsa di costituzione in appello, secondo cui l’aver reso i due edifici comunicanti, mediante la rimozione delle separazioni esistenti sui balconi di proprietà di P. G., ha comportato la illegittima costituzione di una servitù a favore dell’appartamento di via M S., se non a carico di quello di via S. C. (operando il principio nemini res sua servit), tuttavia a danno della proprietà condominiale di quest’ultimo fabbricato.

La sentenza del Tribunale di Ragusa non ha infatti valutato che anche un’opera su parte di proprietà esclusiva, che consenta ad un condomino la comunicazione tra il proprio appartamento ed altra unità immobiliare attigua, sempre di sua proprietà, ma ricompresa in un diverso edificio condominiale, può determinare la creazione di una servitù a carico di fondazioni, suolo, solai e strutture dell’edificio (per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i partecipanti al condominio), dando luogo ad un rapporto di pertinenzialità tra i beni comuni ex art. 1117 c.c. di ciascuno dei due condomìni messi in collegamento e un’unità immobiliare non partecipante in origine ad essi (arg. da Cass. Sez. 2, 14/12/2016, n. 25775 del; Cass. Sez. 2, 05/03/2015, n. 4501; Cass. Sez. 2, 14/06/2013, n. 15024 ; Cass. Sez. 2, 06/02/2009, n. 3035; Cass. Sez. 2, 26/09/2008, n. 24243; Cass. Sez. 2, 19/04/2006, n. 9036; Cass. Sez. 2, 07/03/1992, n. 2773 )”.

© massimo ginesi 22 novembre 2017

l’amministratore non può dar luogo a rimozione coattiva dell’auto dal cortile

Lo afferma, incidentalmente, una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass.Civ. VI  26 ottobre 2017 n. 25527 rel. Scarpa), che tuttavia cassa la sentenza di merito per una vizio di motivazione.

 L’assemblea delibera circa l’illegittimità della sosta nelle auto nel cortile condominiale e l’amministratore, con piglio decisamente energico, fa rimuovere l’autovettura di una condomina che viene materialmente spostata e abbandonata sulla via pubblica, ove subisce danni ad opera di ignoti. Per tale ragione la condomina propone azione contro il condominio per vedersi risarcita.

Il tribunale di Latina rigettava la domanda e così  Corte di Appello di Roma che, tuttavia, riteneva che la condotta dell’amministratore fosse comunque illegittima, poiché  il condominio non può agire in tale ipotesi in  via di autotutela spostando l’auto, ma l’attore non aveva dato sufficiente prova del nesso causale fra la condotta dell’amministratore e il danno lamentato.

“la Corte d’Appello di Roma, dopo aver osservato che la delibera del 12 luglio 2005 non era stata impugnata ex art. 1137 c.c. dalla P., affermava che l’amministratore non avrebbe comunque potuto, in via di autotutela, procedere personalmente alla rimozione coattiva dell’autovettura.

Tuttavia, pur dichiarata illegittima la condotta dell’amministratore T., la Corte d’Appello ha sostenuto che non fosse stata data prova del danno patrimoniale subito dalla P., né comunque “descritti danni che possano essere casualmente e direttamente riconducibili alla condotta posta inessere dalla parte appellata”.

 

il Condomino danneggiato ricorre per cassazione, lamentando il difetto di motivazione da parte del giudice di secondo grado.

Viene criticata dalla ricorrente anche la mancata motivazione sull’esistenza del nesso causale tra la condotta illecita dell’amministratore Telese, che aveva rimosso ed abbandonato l’auto sulla strada pubblica, ed il danneggiamento subito dalla stessa ed accertato il giorno successivo, danneggiamento che non si sarebbe verificato se il veicolo fosse rimasto all’interno dell’area privata condominiale”.

Motivo che fa centro: il giudice di legittimità,  sottolineando l’illiceità della condotta dell’amministratore, cassa con rinvio ad altra sezione della stessa Corte  di appello poiché la motivazione deve ritenersi solo apparente ” perché la Corte di merito ha così pretermesso del tutto l’indicazione degli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, rendendo impossibile ogni controllo in questa sede sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento, quanto al diniego della sussistenza di un nesso di causalità, materiale e giuridica, che leghi storicamente l’accertata condotta illecita del T. e i danni che si pretendono conseguenti a questa nella prospettiva dell’azionata obbligazione risarcitoria aquiliana (ferma la valutazione del giudice del merito in ordine all’eventuale eccessività delle spese occorrenti per la riparazione della vettura rispetto ai valori di mercato); dovendosi tuttavia a tal fine indicare le ragioni per cui la serie causale oggetto di lite appaia del tutto inverosimile, alla stregua dell’art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c. (cfr. Cass. Sez. 3, 31/05/2005, n. 11609).

© massimo ginesi 27 ottobre 2017