Lo afferma la Suprema Corte in una recente sentenza (Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 18 maggio 2017, n. 12579 Rel. Scarpa).
La pronuncia riafferma anche un consolidato principio anteriore alla riforma del 2012 e che deve ritenersi tutt’ora valido: l’attività di controllo del condomino deve essere esercitata senza costituire intralcio per l’attività dell’amministratore.
“a proposito di tale art. 16 del regolamento condominiale (che imponeva all’amministratore di trasmettere copia dei preventivi e dei rendiconti ad ogni condomino almeno dieci giorni prima del giorno fissato per la riunione e di tenere per lo stesso periodo a disposizione dei condomini documenti e giustificativi di cassa), la Corte di Messina ha accertato che lo stesso avesse avuto pratica attuazione da parte dagli amministratori succedutisi nel Condominio (omissis) nell’ultimo decennio nel senso di fissare nell’avviso di convocazione dell’assemblea una data, da concordare, finalizzata a consentire la visione della contabilità, prassi rispettata anche con riguardo all’assemblea del 18/19 febbraio 2009. Trattandosi di prescrizione di contenuto organizzativo, ovvero propriamente “regolamentare”, del regolamento di condominio (e, non quindi, di contenuto contrattuale, ovvero incidente sulla proprietà dei beni comuni o esclusivi), ha certamente rilievo a fini interpretativi, ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c., anche il comportamento posteriore al medesimo regolamento avuto dai condomini, così com’è ammissibile che la stessa norma regolamentare venga modificata per “facta concludentia”, sulla base di un comportamento univoco.”
“D’altro canto, se è vero che l’art. 1129, comma 2, c.c., dopo la Riforma introdotta con la legge n. 220 del 2012, prevede ora espressamente che l’amministratore debba comunicare il locale dove si trovano i registri condominiali, nonché i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta, possa, appunto, prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia firmata, è anche costante, e meritevole tuttora di conferma, l’orientamento di questa Corte secondo cui la vigilanza ed il controllo, esercitati dai partecipanti essenzialmente, ma non soltanto, in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, non devono mai risolversi in un intralcio all’amministrazione, e quindi non possono porsi in contrasto con il principio della correttezza, ex art. 1175 c.c. (Cass. Sez. 2, 21 settembre 2011, n. 19210; Cass. Sez. 2, 29 novembre 2001, n. 15159; Cass. Sez. 2, 19 settembre 2014, n. 19799).”
A pochi giorni dalla pronuncia con cui ha ritenuto nulla la clausola del regolamento contrattuale che vieti il distacco (o lo consenta obbligando comunque il condomino al pagamento delle spese di consumo), sull’assunto che la legislazione pubblica in tema di energia abbia carattere cogente anche per l’autonomia privata, la corte di legittimità offre una diversa chiave di lettura.
Una discrasia che dovrà necessariamente vedere nel prossimo futuro una composizione.
Cass. civ. Sez. VI-2 18 maggio 2017 n. 12580 rel. Scarpa riconosce la legittimità delle clausole convenzionali del regolamento che dispongano in materia di distacco.
Nel caso di specie il regolamento di natura contrattuale prevedeva che “del regolamento condominiale di natura contrattuale, il quale dispone che “la rinuncia al servizio di riscaldamento centrale può essere ammessa purché per un’intera stagione e con le opportune garanzie ed importa l’obbligo di pagare la metà del contributo che il rinunciante avrebbe dovuto pagare se avesse usufruito del servizio”.
Osserva la corte che “la disposizione regolamentare in esame, limitandosi ad obbligare il condomino rinunziante a concorrere parzialmente anche alle spese per l’uso del servizio centralizzato, non va intesa come clausola impeditiva del distacco (il che, ad avviso di precedenti decisioni di questa Corte, renderebbe il contratto non meritevole di tutela: Cass. Sez. 2, 29 settembre 2011, n. 19893; Cass. Sez. 2, 13 novembre 2014, n. 24209).
E’ stato, piuttosto, stabilmente affermato dalla giurisprudenza, con orientamento che deve trovare conferma e depone per l’infondatezza del ricorso, come sia legittima la delibera assembleare che disponga (proprio come nel caso in esame), in esecuzione di apposita disposizione del regolamento condominiale avente natura contrattuale posta in deroga al criterio legale di ripartizione delle spese dettato dall’art. 1123 c.c., che le spese di gestione dell’impianto centrale di riscaldamento siano a carico anche delle unità immobiliari che non usufruiscono del relativo servizio (per avervi rinunciato o essersene distaccati), tenuto conto che la predetta deroga è consentita, a mezzo di espressa convenzione, dalla stessa norma codicistica (Cass. Sez. 2, 23 dicembre 2011, n. 28679; Cass. Sez. 2, 20 marzo 2006, n. 6158; Cass. Sez. 2, 28 gennaio 2004, n. 1558).
E’ del resto derogabile dai condomini, nell’esercizio della loro autonomia privata, anche la disciplina dell’art. 1118 c.c., che correla diritti ed obblighi dei condomini al valore millesimale di contitolarità, prescegliendo un accordo di valore negoziale che si risolve in un impegno irrevocabile di determinare quantitativamente le quote di contribuzione alle spese in un certo modo (cfr. Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300).
Non è dunque ravvisabile nella previsione che il rinunziante all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento debba concorrere alle sole spese per la manutenzione straordinaria o alla conservazione dell’impianto stesso, una norma imperativa non derogabile nemmeno con accordo unanime di tutti i condomini, in forza di vincolo pubblicistico di distribuzione degli oneri condominiali dettato dall’esigenza dell’uso razionale delle risorse energetiche e del miglioramento delle condizioni di compatibilità ambientale, ed essendo perciò i condomini liberi di regolare mediante convenzione il contenuto dei loro diritti e dei loro obblighi mediante una disposizione regolamentare di natura contrattuale che diversamente suddivida le spese relative all’impianto, ferma l’indisponibilità del diritto al distacco“
La tesi oggi avanzata appare maggiormente condivisibile alla luce dei principi generali in tema di energia e riscaldamento, atteso che la normativa imperativa è indubitabilmente volta alla ottimizazione dei consumi e alla riduzione dell’inquinamento atmosferico, sicche quello appare lo scopo pubblico da doversi ritenere inscalfibile dalla autonomia privata, potendo invece rimanere nella disponibilità dei singoli la facoltà di statuire sui risvolti patrimoniali di vicende quali il distacco (che dovrà comunque rispondere alle norme tecniche in materia, anche e non solo per quanto stabilito dall’art. 1118 Iv comma cod.civ.).
Lo ribadisce Cass. civ. sez. VI-2 16 maggio 2017 12177 rel. Scarpa, confermando un orientamento già espresso in precedenza. Laddove il cortile condominiale funga da copertura a locali di proprietà esclusiva rimasti danneggiati da infiltrazioni, il criterio di ripetizione applicabile alle spese necessarie risulta quello di cui all’art. 1125 cod.civ.
Ove poi le infiltrazioni derivanti da detta copertura derivino da omessa manutenzione della struttura, il condominio ne risponde ai sensi dell’art. 2051 cod.civ., norma che – essendo ascrivibile all’area della responsabilità da fatto illecito – comporta solidarietà fra gli obbligati.
“Ora, questa Corte ha già precisato che, qualora si debba procedere, come nel caso di specie, alla riparazione del cortile o viale di accesso all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere ai criteri previsti dall’art. 1126 c.c., ma si deve, invece, procedere ad un’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., il quale costituisce ipotesi particolare del principio generale dettato dall’art. 1123, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10858 del 05/05/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18194 del 14/09/2005).
Aggiunge la corte: ” il risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale – trattandosi, nella specie, di infiltrazioni di acqua provenienti dalla corte comune a cagione della sua mancata manutenzione – soggiace alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, comma 1, c.c., norma che opera un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori “pro quota”, anche quando il danneggiato sia – come ancora nella specie – un condomino, equiparato a tali effetti ad un terzo danneggiato rispetto agli altri condomini, sicché i singoli condomini devono intendersi solidalmente responsabili rispetto ai danni derivanti dalla violazione dell’obbligo di custodia (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1674 del 29/01/2015).
Nello stesso senso, poi, Cass. Sez. U, Sentenza n. 9449 del 10/05/2016, ha sostenuto l’ “attrazione del danno da infiltrazioni nell’ambito della responsabilità civile”, con conseguente applicazione di tutte le disposizioni che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, ivi compreso l’art. 2055 c.c.“.
La Cassazione (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 10 aprile 2017, n. 9227 rel Scarpa) ribadisce un concetto già affermato un mese fa.
“In caso di frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento, dall’originario unico proprietario ad altri soggetti, di alcune unità immobiliari, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale di comunione “pro indiviso” di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso: ciò sempre che il contrario non risulti dal titolo, che ben può essere costituito, come nella specie, da un testamento, ove questo, cioè, dimostri una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di dette parti e di escluderne gli altri (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16292 del 19/11/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2328 del 27/06/1969).
Il lastrico solare, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è oggetto di proprietà comune dei diversi proprietari dei piani o porzioni di piano dell’edificio, ove, appunto, non risulti il contrario, in modo chiaro ed univoco, dal titolo.
La Corte d’Appello ha escluso la presunzione di proprietà comune del lastrico solare ex art. 1117 c.c., ritenendo che l’attribuzione fatta dal testatore M.P. all’erede M.I. dell’”area sovrastante il primo piano dove io abito” fosse comprensiva del lastrico solare sovrastante l’appartamento sito al secondo piano, attribuito alla stessa, ed ha perciò supposto che dal titolo che segnava la nascita del condominio emergesse un elemento testuale che negava l’esistenza di un diritto di comunione sul lastrico.
È noto, del resto, che lo spazio sovrastante il suolo o una costruzione non costituisce un bene giuridico suscettibile di autonomo diritto di proprietà, ma configura la mera proiezione verso l’alto delle suddette entità immobiliari e, formalmente, la possibilità di svolgimento delle facoltà inerenti al diritto dominicale sulle medesime (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25965 del 23/12/2015, non massimata). La qualificazione operata dalla Corte di merito ha ravvisato nell’espressione della volontà testamentaria l’intenzione di assegnare a M.I. anche la proprietà autonoma dell’area solare di calpestio.
E l’indagine diretta a stabilire, attraverso l’interpretazione dei titoli d’acquisto, se sia o meno applicabile, ad un determinato bene, la presunzione di comproprietà di cui all’art. 1117 c.c., costituisce un apprezzamento di fatto spettante alle prerogative esclusive del giudice di merito, rimanendo incensurabile in sede di legittimità se non per eventuali vizi di motivazione della sentenza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 40 del 07/01/1978; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3084 del 03/09/1976).”
Una interessante e recentissima pronuncia della Cassazione (Cass. civ. VI – 2 sez. 28 marzo 2017 n. 8015, rel. Scarpa) affronta un caso bizzarro: in un fabbricato in condominio sussiste regolamento di natura contrattuale in cui è previsto che le spese per la manutenzione delle scale avvenga ai sensi dell’art. 1124 cod.civ.; negli atti di acquisto dei condomini è altresì previsto che “la ripartizione delle spese condominiali verrà fatta in proporzione ai millesimi di proprietà e in conformità a quanto disposto dal regolamento di condominio”.
Nulla si dice in tema di ascensore, sicchè il Condominio ha ritenuto che ciò costituisse deroga convenzionale ai criteri di riparto ed ha attribuito le spese di ascensore in ragione dei millesimi generali ex art. 1123 I comma cod.civ.: la tesi è quantomeno singolare, eppure ha trovato avvallo sia dal Tribunale di Verona che dalla Corte di Appello di Venezia, che hanno respinto nel merito l’impugnativa di uno dei condomini.
Costui ricorre in Cassazione, rilevando anche un altro vizio della decisione di secondo grado relativo alla celebrazione della assemblea e alla partecipazione per delega dei condomini: in quel fabbricato il regolamento prevedeva che i partecipanti non potessero recare più di due deleghe, mentre nella delibera impugnata l’amministratore era portatore di tre deleghe (i fatti sono anteriori al 2012 e quindi non vedono diretta applicazione dell’art. 67 disp. att. cod.civ. oggi in vigore). I giudici di merito hanno ritenuto che, poichè il voto espresso da colui che portava deleghe in numero superiore non risultava decisivo, la doglianza era infondata (c.d. prova di resistenza).
La Suprema Corte riconosce invece fondati entrambi i motivi, con argomentazioni che è opportuno riportare per esteso.
SUL RIPARTO DELLE SPESE DI ASCENSORE: “Secondo l’orientamento del tutto consolidato di questa Corte, la regola posta dall’art. 1124 c.c. relativa alla ripartizione delle spese di manutenzione e di ricostruzione delle scale (per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzione di piano, per l’altra metà in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo) in mancanza di criteri convenzionali, è applicabile per analogia, ricorrendo l’identica “ratio” (e poi proprio ex lege, a seguito della riformulazione dell’art. 1124 c.c. operata della legge n. 220/2012, qui non operante ratione temporis), alle spese relative alla conservazione e alla manutenzione dell’ascensore già esistente (su cui incide il logorio dell’impianto, proporzionale all’altezza dei piani). Pertanto l’impianto di ascensore è di proprietà comune – secondo la presunzione di cui all’art. 1117 n. 3 c.c., in mancanza di titolo contrario – fra tutti i condomini in proporzione al valore dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva (art. 1118 c.c.) e la ripartizione delle spese relative all’ascensore è regolata dai criteri stabiliti dall’art. 1124 c.c. e dall’art. 1123 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3264 del 17/02/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5975 del 25/03/2004; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2833 del 25/03/1999).
Anche il criterio di ripartizione delle spese condominiali stabilito dall’art. 1124 c.c., e quindi operante per la manutenzione dell’ascensore, può essere derogato, come prevede l’art. 1123 c.c., e il relativo accordo modificatore della disciplina legale di ripartizione può essere contenuto sia nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “di natura contrattuale”), sia in una deliberazione dell’assemblea che venga approvata all’unanimità, ovvero col consenso di tutti i condomini. La deroga ai criteri legali di ripartizione delle spese condominiali suppone, tuttavia, un’espressa convenzione (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16321 del 04/08/2016, non massimata; Cass. Sez. 2, Sentenza n.28679 del 23/12/2011).
Proprio perche, in base all’art. 1124 c.c., le spese di manutenzione e ricostruzione delle scale e degli ascensori vanno assimilate e assoggettate alla stessa disciplina, senza alcuna distinzione tra le une e le altre, la clausola del regolamento condominiale che dispone che le spese di manutenzione delle scale vadano ripartite secondo l’art. 1124 c.c. non può affatto essere intesa come convenzione contraria alla suddivisione delle spese di manutenzione degli ascensori secondo lo stesso criterio; né tanto meno vale quale deroga all’art. 1124 c.c. la clausola contenuta nell’atto di acquisto che prevede che la ripartizione delle spese condominiali avvenga secondo i millesimi e in conformità a quanto disposto dal regolamento.”
SULLE DELEGHE: “La Corte d’Appello, invocando la cosiddetta prova della resistenza, ha escluso l’invalidità della deliberazione impugnata, nella quale l’amministratore ha esercitato il diritto di voto munito di tre deleghe, in violazione dell’art. 18 del regolamento condominiale, che stabilisce che nessuno possa rappresentare in assemblea più di due condomini.
Secondo, però, l’orientamento di questa Corte, la clausola del regolamento di condominio volta a limitare il potere dei condomini di farsi rappresentare nelle assemblee, riducendolo, come nella specie, a non più di due deleghe, regola l’esercizio del diritto di ciascun condomino di intervenire in questa a mezzo di delegati (art. 67, comma 1, disp. att. c.c., anch’esso modificato dalla legge n. 220/2012 con riformulazione qui non applicabile ratione temporis), inderogabile (secondo quanto si evince dal successivo art. 72) giacchè posto a presidio della superiore esigenza di garantire l’effettività del dibattito e la concreta collegialità delle assemblee, nell’interesse comune dei partecipanti alla comunione, considerati nel loro complesso e singolarmente (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5315 del 29/05/1998).
Sicchè la partecipazione all’assemblea condominiale di un rappresentante fornito di un numero di deleghe superiore a quello consentito dal regolamento di condominio, comportando un vizio nel procedimento di formazione della relativa delibera, dà luogo ad un’ipotesi di annullabilità della stessa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7402 del 12/12/1986), senza che possa rilevare il carattere determinante del voto espresso dal delegato per il raggiungimento della maggioranza occorrente per l’approvazione della deliberazione stessa.”
Se al momento in cui sorge il condominio l’originario unico proprietario dell’edificio si riserva la proprietà dell’area esterna, questa non diventa condominiale ai sensi dell’art. 1117 cod.civ.
Ove successivamente costui alieni a più soggetti quell’area, costoro ne godranno in forza del regime di comunione e non di condominio, ivi compresa la presunzione di uguaglianza delle quote.
Lo ha stabilito Corte di Cassazione, sez. VI Civile 24 marzo 2017, n. 7743, Rel. Scarpa: “Secondo le emergenze documentali di giudizio invocate dalla stessa ricorrente, il Condominio (omissis) , deve intendersi sorto con l’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà di V.S.I. mediante alienazione, per atto del 27 luglio 1973, dell’unità immobiliare al secondo piano a S.M. e D.P.L. . Originatasi a tale data la situazione di condominio edilizio, dallo stesso momento doveva intendersi operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di comunione “pro indiviso” di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014). Va detto che il cortile fa parte delle cose comuni di cui all’art. 1117 c.c., per tale intendendosi qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ma anche comprensivo dei vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate degli edifici – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7889 del 09/06/2000).
Tuttavia, dal titolo del 27 luglio 1973 risultava, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente alla venditrice V.S.I. la proprietà dello scoperto. La negazione della condominialità dell’area scoperta risale, quindi, irreversibilmente al momento costitutivo del condominio stesso.
Ne consegue che, nel caso in esame: 1) essendo sorto “ipso iure et facto” il condominio (omissis) al momento dell’atto del 27 luglio 1973, quando l’originaria unica proprietaria V.S.I. ebbe ad alienare a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata; 2) ed essendosi la medesima venditrice, in quello stesso momento, riservata la qualità di proprietaria esclusiva dell’area scoperta; 3) V.S.I. ha poi disposto della stessa area scoperta come proprietaria unica di detto bene con la compravendita del 17 marzo 1981, la quale comprendeva nella comproprietà ceduta a S.G. anche lo scoperto.
Non avendo tale atto costitutivo della comproprietà sull’area scoperta determinato la quota spettante a ciascuno dei due comproprietari sulla cosa comune, opera in questa ipotesi la presunzione di pari entità delle quote dei partecipanti alla comunione, fissata dall’art. 1101, comma 1, c.c..”
E’ il caso affrontato da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 23 marzo 2017 n. 7605, Relatore Scarpa.
I fatti “La Corte d’Appello di Roma, sulla scorta delle richiamate risultanze della CTU, ha affermato che una porzione dell’appartamento di LF, ubicato al piano attico dell’edificio di via QN 152, si estende anche sul corpo di fabbrica dell’adiacente edificio condominiale di via delle TC15. In particolare, i solai di calpestio dell’unità immobiliare di proprietà F. costituiscono la copertura del sottostante fabbricato di via TC, per un’estensione di mq 148,26 di area coperta e di mq 42,81 di area scoperta. Il CTU ha quindi evidenziato conclusivamente che tale appartamento sia “parte integrante” di entrambi i condominii.”
Propone ricorso la condomina, ritenendo che la propria unità immobiliare debba essere ricondotta ad un solo fabbricato e propone ricorso incidentale il Condominio, che si duole della compensazione delle spese applicata dal Giudice di merito.
Osserva la Corte che “Al fine di stabilire se un appartamento sia compreso in un condominio edilizio, è infatti necessario verificare, con riferimento al momento della nascita del condominio (salvo eventuale titolo negoziale contrario, il cui apprezzamento è comunque affidato alle prerogative del giudice di merito: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3084 del 03/09/1976), se, con riguardo alla struttura ed alla conformazione di esso, e, dunque, in base ad elementi obiettivamente rilevabili, sussista il presupposto della permanente ed oggettiva destinazione al suo servizio ed al suo godimento dei beni di quell’edificio elencati nell’art. 1117 c.c., restando escluso che sia determinante pure l’esistenza di un collegamento materiale o di una via diretta di accesso tra parti condominiali e singola unità immobiliare.
E’ d’altro canto certamente ammissibile, per quanto si desume dall’art. 61 disp. att. c.c., che, pur in presenza di fabbricati che presentino elementi di congiunzione materiale, allorchè vengano costituiti condominii separati per le parti aventi i connotati di autonomi edifici, uno dei titolari di porzioni esclusive si ritrovi proprietario di un appartamento ricadente in entrambi i condominii (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2324 del 01/03/1995; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4439 del 07/08/1982).
Il ricorso di L.F., pur deducendo una censura per violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c., si sostanzia, in realtà, nella prospettazione di una ricostruzione degli elementi materiali della fattispecie diversa da quella accolta dalla Corte del merito, e dunque invoca un giudizio di mero fatto, del tutto estraneo al sindacato di legittimità.”
Quanto alle spese: “La Corte d’Appello di Roma ha compensato le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, ponendo a carico delle parti la metà ciascuno delle spese di CTU, “stante l’opinabilità della questione, che peraltro ha necessitato di accertamenti tecnici”. Il Condominio di via delle TC 15, Roma, denuncia al riguardo la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. per difetto delle “gravi ed eccezionali ragioni” ex art. 92, comma 2, c.p.c.
Tuttavia, nei giudizi, quale quello in esame, instaurati anteriormente all’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, la compensazione delle spese può essere disposta – ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 45, comma 11, di detta legge – per “giusti motivi esplicitamente indicati dal giudice nella motivazione della sentenza”, e non per “gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”. Nella vigenza di tale formulazione dell’art. 92, comma 2, c.p.c., la scelta di compensare le spese processuali rimane riservata al prudente, ma comunque motivato, apprezzamento del giudice di merito, la cui statuizione può essere censurata in sede di legittimità soltanto quando siano illogiche o contraddittorie le ragioni poste alla base della motivazione, ipotesi nella specie certamente non sussistente.”
Una recentissima pronuncia (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 22 marzo 2017, n. 7395, Relatore Scarpa) affronta un tema inedito.
L’art. 63 Iv comma disp.att. cod.civ. prevede che “Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente.”.
Accade con grande frequenza che sorga contenzioso su quali importi debbano essere ascritti – in via solidale – a colui che diventa proprietario di una unità immobiliare in condominio, poiché l’individuazione di spesa riferibile all’anno precedente è espressione che può dar luogo ad interpretazioni contrastanti.
La vicenda giunta all’esame della Suprema Corte attiene a spese relative a lavori di manutenzione straordinaria della facciata, in ordine alle quali il collegio rileva che “Dovendosi individuare, ai fini dell’applicazione dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. (nella formulazione ante L. 220/2012, n.d.r.) al caso in esame, quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale)”, deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento (30 giugno 2008), avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24654 del 03/12/2010).
Questo momento rileva sia per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, se gli stessi non si siano diversamente accordati, sia per accertare l’inclusione del medesimo obbligo nel periodo biennale di responsabilità solidale di entrambi verso il condominio.
L’obbligo del cessionario dell’unità immobiliare, invero, è solidale, ma autonomo, in quanto non propter rem, e, piuttosto, costituito ex novo dalla legge in funzione di rafforzamento dell’aspettativa creditoria dell’organizzazione condominiale; ma il meccanismo del subentro dell’acquirente nei debiti condominiali del suo dante causa opera unicamente nel rapporto tra il condominio ed i soggetti che si succedono nella proprietà della singola porzione immobiliare, e non anche nel rapporto interno tra alienante ed acquirente, proprio per la natura personale (e non reale) delle rispettive obbligazioni.
Sicchè il compratore risponde verso il venditore soltanto per le spese condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui egli sia divenuto condomino, mentre ha diritto di rivalersi nei confronti del suo dante causa allorché sia stato chiamato dal condominio a rispondere di obbligazioni nate in epoca anteriore all’acquisto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1956 del 22/02/2000).
L’anno, cui fa riferimento l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., deve, peraltro, essere di sicuro inteso con riferimento al periodo annuale costituito dall’esercizio della gestione condominiale, non necessariamente, perciò, coincidente con l’anno solare.
La conclusione raggiunta è coerente col principio, elaborato da questa Corte, della cosiddetta “dimensione annuale della gestione condominiale” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7706 del 21/08/1996; ma anche Cass. Sez. 6 – 2, Sentenza n. 21650 del 20/09/2013), annuali essendo la durata dell’incarico dell’amministratore (art. 1129 c.c.), il preventivo delle spese ed il rendiconto (art. 1135, comma 1, n. 2 e 3 c.c.), e trova conferma in via interpretativa anche dal comma 9 dell’art. 1129 c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012, ove si fa espresso riferimento alla “chiusura dell’esercizio”.
La questione è affrontata da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 15 marzo 2017, n. 6653, Relatore Scarpa: fra diversi condominii palermitani esiste un diritto di servitù a favore di alcuni edifici e a carico del fondo di proprietà di altro condominio, la strada su cui si esercita tale passaggio necessita di manutenzione e sorge fra le parti contrasto su chi debba assumerne gli oneri.
La vicenda passa all’esame del Tribunale e poi della Corte di Appello di Palermo: “Tale domanda era volta ad ottenere dai Condomini convenuti il rimborso della quota, pari ad Euro 21.172,54, loro spettante, delle spese sostenute (pari ad Euro 31.750,80) per la manutenzione della stradella rientrante nella proprietà del Condominio di via (omissis) ma gravata di servitù di passaggio a vantaggio dei medesimi condomini convenuti, e danneggiata dal continuo transito di mezzi meccanici ad opera dei partecipanti a questi ultimi. La Corte d’Appello di Palermo ha posto in evidenza come, agli effetti dell’art. 1069 c.c., il titolare del fondo servente non ha alcun obbligo di legge ad eseguire sul proprio immobile le opere necessarie per l’esercizio della servitù, e che lo stesso non può, peraltro, servirsi di tale norma per far gravare sul titolare del fondo dominante(che pur ne tragga vantaggio) le spese di manutenzione della sua proprietà. La Corte d’Appello ha pure aggiunto che, nel caso di specie, le opere eseguite dal Condominio di via (omissis) riguardavano un complessivo risanamento dell’edificio condominiale, a causa di suoi difetti costruttivi-progettuali, risanamento che, a dire dell’espletata CTU, avvantaggiava solo in minima parte i Condomini di (omissis)”
La Suprema Corte censura la decisione del giudice siciliano, richiamando un orientamento risalente ma ancora attuale: “ La Corte d’Appello di Palermo ha deciso la questione di diritto ad essa sottoposta in maniera difforme dalla giurisprudenza di questa Corte, espressa in orientamento risalente, ma che comunque va qui confermato, non sussistendo elementi per mutare lo stesso.
Un conto, invero, è affermare, come fanno i giudici di appello, che il proprietario del fondo dominante ha il diritto di eseguire le opere necessarie per conservare la servitù, operando a sue spese, mentre non ha l’obbligo ex lege di eseguire sul fondo servente le opere necessarie per l’esercizio della servitù (così Cass. 22/11/1978, n. 5449).
Altro conto è escludere quel che afferma espressamente il comma 3 dell’art. 1069 c.c., ovvero che, se le opere necessarie per conservare la servitù giovano a entrambi i fondi, servente e dominante, le relative spese debbano essere ripartite in proporzione dei rispettivi vantaggi. Dalle norme di cui all’art. 1069 c.c. si desume, perciò, in via di interpretazione estensiva, per il caso in cui l’esercizio della servitù si attui solo per mezzo del fondo servente, e senza l’ausilio di opere autonome, l’obbligo del proprietario del fondo dominante di contribuire alle spese di manutenzione del fondo servente, in misura proporzionale all’uso (Cass. Sez. 2, 12/01/1976, n. 72, proprio relativa a fattispecie di servitù di passaggio gravante su parti di un edificio condominiale e di obbligo del titolare della servitù di concorrere nelle spese di manutenzione di tali beni condominiali insieme con i partecipanti al condominio, in misura proporzionale all’uso).
Si è pure affermato che l’art. 1069, comma 3, c.c. (allorché stabilisce che, nel caso in cui le opere necessarie alla conservazione della servitù, eseguite dal proprietario del fondo dominante sul fondo servente, giovano anche a quest’ultimo, le relative spese debbano essere sostenute da entrambi i soggetti del rapporto giuridico di servitù in proporzione dei rispettivi vantaggi), non costituisce una norma eccezionale, ma, al contrario, rappresenta l’applicazione di un più generale principio di equità ispirato all’esigenza di evitare indebiti arricchimenti. Pertanto, tale norma è applicabile anche nel caso, da essa non specificamente contemplato, in cui sia stato il proprietario del fondo servente ad eseguire su quest’ultimo, sia pure nel proprio interesse, opere necessarie alla conservazione della servitù (Cass. Sez. 2, 05/07/1975, n. 2637; Cass. 15/02/1982, n. 949). Il ricorso va pertanto accolto, va cassata la sentenza impugnata e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo, che deciderà uniformandosi al seguente principio di diritto: “Agli effetti dell’art. 1069, comma 3, c.c., allorché il proprietario del fondo servente abbia eseguito su quest’ultimo, sia pure nel proprio interesse, opere necessarie alla conservazione della servitù, le relative spese devono essere sostenute sia dal proprietario del fondo dominante che da quello del fondo servente in proporzione dei rispettivi vantaggi”.
Ove l’amministratore proponga un0azione a tutela delle parti comuni contro un condomino e costui, in via riconvenzionale, opponga l’intervenuta usucapione del bene comune e ne chieda l’accertamento, deve necessariamente essere integrato il contraddittorio nei conforti degli altri condomini, non sussistendo legittimazione passiva dell’amministratore per la domanda relativa all’accertamento di diritti reali.
L’orientamento è consolidato e riaffermato da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 15 marzo 2017 n. 6649, Rel. Scarpa: “Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ove un condomino, convenuto dall’amministratore con azione di rilascio di uno spazio di proprietà comune, proponga (non un’eccezione riconvenzionale di usucapione, al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, ma) una domanda riconvenzionale, ai sensi degli artt. 34 e 36 c.p.c., diretta a conseguire la dichiarazione di proprietà esclusiva del bene, viene meno la legittimazione passiva dell’amministratore rispetto alla controdomanda, dovendo la stessa, giacchè incidente sull’estensione del diritto dei singoli, svolgersi nei confronti di tutti i condomini, in quanto viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico e inscindibile su cui deve statuire la richiesta pronuncia giudiziale. Nell’ipotesi in cui una siffatta domanda riconvenzionale venga proposta e decisa solo nei confronti dell’amministratore, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, e, in difetto di giudicato esplicito o implicito sul punto, tale invalida costituzione del contraddittorio può essere denunciata o essere rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità (arg. da Cass. 22/02/2013, n. 4624; Cass. 03/09/2012, n. 14765; Cass. 08/09/2009, n. 19385; Cass. 24/08/1991, n. 9092; arg. anche da Cass. Sez. U, 13/11/2013 n. 25454).”