cortile fra due edifici: comunione o condominio?

Una ponderosa pronuncia della Corte suprema ( Cass.civ. sez. II  21 ottobre 2019 n. 26807 rel. Scarpa) affronta un tema interessante, ovvero la natura della relazione che lega l’area posta fra  due edifici in condominio ed i condomini stessi.

Ove si accerti che non  sussista collegamento funzionale ex artt. 1117 e 1117 bis c.c. fra tale area e gli edifici circostanti, la relazione andrà ascritta al genus della comunione e non sarà possibile, per i singoli, aprire vedute prospicienti  su quel cortile, se non osservando le norme di cui all’art. 905 c.c.

Il sesto motivo del ricorso di C.S. e B.C. (numerato come “III f”) denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 905, 1102 e 1139 c.c., non operando nella fattispecie di causa l’art. 905 c.c., quanto l’art. 1102 c.c. in tema di uso di bene comune in ambito condominiale.

Al riguardo, la Corte d’Appello di Torino ha affermato come gli immobili delle parti non dessero luogo ad un condominio edilizio, ma alla mera “comunione di un cortile”, sicché devono essere rispettate le norme in tema di distanze legali per l’apertura di vedute (in particolare, l’art. 905 c.c.). I ricorrenti sostengono l’errore della Corte d’Appello, in quanto l’art. 1102 c.c. è applicabile al condominio, in forza dell’art. 1139 c.c., ed è comunque applicabile alla comunione.

Il sesto motivo del ricorso di C.S. e B.C. è infondato.
Deve dapprima precisarsi che l’indagine dei giudici del merito diretta a stabilire se la situazione obbiettiva dia luogo alla presenza di più unità immobiliari o più edifici aventi parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c. e dell’art. 1117 bis c.c. (se, cioè, sussista la relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega le unità immobiliari di proprietà esclusiva a talune cose, impianti e servizi comuni, i quali siano contestualmente legati, attraverso la relazione di accessorio a principale, con più edifici o immobili, in modo che l’uso del bene comune non sia suscettibile di autonoma utilità, ma solo correlato al godimento del bene individuale) si risolve in un apprezzamento di fatto, che esula dal sindacato di legittimità della Corte di cassazione quando sia sorretto da motivazione logica ed immune da errori di diritto.

Va allora osservato come sia stato talvolta effettivamente affermato in giurisprudenza che, quando un cortile è comune a distinti corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102 c.c., comma 1, in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari uso agli altri comunisti.

In tal senso, l’apertura di vedute su area di proprietà comune ed indivisa tra le parti costituirebbe opera sempre inidonea all’esercizio di un diritto di servitù di veduta, sia per il principio “nemini res sua servir, che per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono ben fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta, pertanto, anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva, con il solo limite, posto dall’art. 1102 c.c., di non alterare la destinazione del bene comune o di non impedirne l’uso da parte degli altri comproprietari (Cass. Sez. 2, 14/06/2019, n. 16069; Cass. Sez. 2, 26/02/2007, n. 4386; Cass. Sez. 2, 19/10/2005, n. 20200).

È tuttavia corretta la diversa interpretazione, cui il Collegio intende dare continuità, secondo cui, ove sia accertata, come nel caso in esame, la comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi (ed allorché, come nella specie accertato in fatto, fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell’area scoperta, ai sensi dell’art. 1117 c.c.), l’apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell’art. 905 c.c..

Il partecipante alla comunione del cortile non può, in sostanza, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell’immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all’art. 1102 c.c., il quale non è applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite (Cass. Sez. 2, 04/07/2018, n. 17480; Cass. Sez. 2, 21/05/2008, n. 12989; Cass. Sez. 2, 20/06/2000, n. 8397; Cass. Sez. 2, 25/08/1994, n. 7511; Cass. Sez. 2, 28/05/1979, n. 3092).

Nè vi è ragione di invocare, al fine di escludere la configurabilità di una servitù di veduta sul cortile di proprietà comune, il principio “nemini res sua servit”, il quale, in realtà, trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante, e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell’altro, giacché in tal caso l’intersoggettività del rapporto è data dal concorso di altri titolari del bene comune (Cass. Sez. 2, 03/10/2000, n. 13106; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5390; Cass. Sez. 2, 18/02/1987, n. 1755).”

© massimo ginesi 22 ottobre 2019 

solo la delibera dell’assemblea per spese straordinarie è idonea a far sorgere l’obbligazione del condomino

E’ quanto ha statuito una recente sentenza della Cassazione (Cass.Civ. Sez. II 14 ottobre 2019 n. 25839 rel. Scarpa), che ha cassato una sentenza della Corte d’appello di Genova.

Il Giudice di legittimità ha rilevato che, ove l’assemblea non abbia deliberato in ordine alle spese per la manutenzione straordinaria, limitandosi a dar incarico ad una commissione di valutare entità dell’intervento e scelta dell’appaltatore, non sorge il correlativo obbligo di contribuzione del singolo condomino che potrà pertanto, ove abbia versato Dali importi agire per la ripetizione dell’indebito nei confronti del condominio.

i fatti e la causa: “Con citazione del 20 maggio 2008 la Autoparco Colombo s.r.l., proprietaria di locali compresi nel condominio, aveva richiesto la restituzione della somma di Euro 86.460,00, versata a titolo di contributo, in misura di due terzi del totale, inerente ai lavori di manutenzione straordinaria del passaggio pedonale esterno di accesso ai portoni, deducendo che l’assemblea del 19 aprile 2007 non avesse approvato l’intervento, ma soltanto dato mandato ad una Commissione Tecnica di valutare ed approvare lo stesso, indicando in Euro 150.000,00 più IVA l’importo massimo e prescrivendo criteri sulla scelta dell’impresa appaltatrice.

La domanda di restituzione, accolta dal Tribunale, sul presupposto che l’assemblea non avesse deliberato nè l’esecuzione dei lavori nè il riparto delle spese, veniva invece respinta dalla Corte d’Appello.

I giudici di secondo grado, recependo il motivo di gravame del Condominio, ravvisavano il vizio di ultrapetizione in cui era incorso il Tribunale, in quanto la condomina Autoparco Colombo s.r.l. in citazione aveva contestato non l’approvazione dei lavori, ma il riparto della spesa, perché non approvato dall’assemblea. Aggiungeva la Corte d’Appello che la delibera dell’assemblea di approvazione dei lavori comunque esisteva ed il criterio di riparto fosse quello stabilito dal regolamento di condominio, con rinvio all’art. 1126 c.c.. Per di più, la sentenza impugnata riteneva tardiva la domanda di accertamento della nullità della delibera di ripartizione della spesa formulata dalla società attrice con la prima memoria istruttoria. La Corte di Genova sosteneva pure che la violazione dei criteri di ripartizione delle spese avrebbe implicato la annullabilità e non la nullità della delibera, con conseguente soggezione al termine di trenta giorni ex art. 1137 c.c.. Dunque, non essendo stata impugnata la delibera che aveva approvato l’intervento di manutenzione e ripartito le spese, non era concepibile per la Corte d’Appello un’azione di indebito arricchimento fondata sull’assunta mancanza di delibera. Conclude la sentenza impugnata che la difesa di Autoparco Colombo s.r.l. avesse ammesso di non aver voluto proporre alcuna domanda di accertamento del criterio di riparto delle spese”

la decisione di legittimità: “È pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, l’approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’art. 1135 c.c., comma 1, n. 4, e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 4, per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale (si vedano indicativamente Cass. Sez. 2, 21/02/2017, n. 4430; Cass. Sez. 2, 25/05/2016, n. 10865).

In difetto di preventiva approvazione assembleare dei lavori di manutenzione straordinaria (e al di fuori del caso dell’urgenza di cui allo stesso n. 4 dell’art. 1135 c.c.), non sussiste il diritto dell’amministratore del condomino a pretendere la riscossione dei relativi contributi dai singoli condomini.

La delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve in ogni caso determinare l’oggetto del contratto di appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi ed il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell’opera, ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa. Sono, peraltro, ammissibili successive integrazioni della delibera di approvazione dei lavori, pure inizialmente indeterminata, sulla base di accertamenti tecnici da compiersi. Mentre l’autorizzazione assembleare di un’opera può reputarsi comprensiva di ogni altro lavoro intrinsecamente connesso nel preventivo approvato (arg. da Cass., Sez. 2, 20/04/2001, n. 5889).

Le delibere assembleari del condominio devono comunque essere interpretate secondo i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 c.c. e segg., privilegiando, innanzitutto, l’elemento letterale, ed adoperando quindi, soltanto nel caso in cui esso si appalesi insufficiente, gli altri criteri interpretativi sussidiari indicati dalla legge (Cass. Sez. 2, 28/02/2006, n. 4501). In tal senso, la delibera adottata dall’assemblea dei condomini del Condominio (OMISSIS) il 19 aprile 2007 si limitava a “deliberare il lavoro totale, previo studio e capitolato d’appalto da predisporre” da parte di un geometra incaricato, con “mandato alla Commissione Tecnica di valutare e approvare lavorazione… per un importo massimo di Euro 150.000 più i.v.a.”, ed aggiungeva “la cifra è semplicemente indicata come tetto massimo insuperabile per l’attività autonoma della commissione tecnica. Permane l’obiettivo della scelta dell’Impresa più conveniente nel rapporto qualità-prezzo”.

Nel senso proprio delle parole adoperate, questa delibera, a differenza di quanto sostenuto dalla Corte d’Appello di Genova, non può spiegarsi come definitiva autorizzazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1135 c.c., comma 1, n. 4, delle riparazioni straordinarie del passaggio pedonale di accesso ai portoni dell’edificio condominiale, in quanto essa non determinava ancora l’oggetto del contratto di appalto, atteso che non individuava l’impresa prescelta, nè le opere da compiersi nè il prezzo dei lavori, in modo da limitarsi a delegare alla commissione ristrette scelte di mera gestione tecnico – economiche relative alle opere di manutenzione dello stabile condominiale.

Perché questa delega non si intenda come un esautoramento del condominio nell’amministrazione della cosa comune, e non comporti l’annullamento dei diritti della minoranza dei partecipanti al condominio, nel cui interesse è stabilita la competenza istituzionale dell’organo assembleare, occorre, come questa Corte ha già affermato, che le decisioni della commissione, incaricata di esaminare i preventivi di spesa, vengano poi rimesse all’approvazione, con le maggioranze prescritte, dell’assemblea (Cass. Sez. 2, 06/03/2007, n. 5130; Cass. Sez. 2, 23 novembre 2016, n. 23903; Cass. Sez. 2, 25 maggio 2016, n. 10865; Cass. Sez. 62, 15/03/2019, n. 7484).

Ove non sia configurabile, alla stregua dei richiamati principi, una deliberazione assembleare di approvazione delle opere di manutenzione straordinaria del passaggio pedonale di accesso ai portoni, deve perciò essere nuovamente esaminata la domanda della Autoparco Colombo s.r.l. di ripetizione di quanto si assume indebitamente versato al Condominio a tale titolo.

Per ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale, con riferimento alle spese attinenti a lavori condominiali di manutenzione straordinaria o che consistano in un’innovazione, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assume valore costitutivo della relativa obbligazione di contribuzione in capo a ciascun condomino.

In sostanza, l’obbligo dei singoli partecipanti di contribuire alle spese straordinarie necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni, postula la preventiva approvazione assembleare, la quale a sua volta suppone essenzialmente, come già detto, la determinazione completa dell’oggetto delle opere, non avendo rilievo ai fini dell’insorgenza del debito, e quindi dell’esigibilità del credito vantato dalla gestione condominiale, l’esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria (Cass. Sez. 2, 26 gennaio 1982, n. 517; Cass. Sez. 2, 02/05/2013, n. 10235; Cass. Sez. 2, 21 febbraio 2017, n. 4430; Cass. Sez. 6-2, 16 novembre 2017, n. 27235; Cass. Sez. 6-2, 17 agosto 2017, n. 20136; Cass. Sez. 2, 20 aprile 2001, n. 5889).

l versamento delle spese che il condomino esegua in favore del condominio prima che sia individuabile, nei termini indicati, una completa definitiva e deliberazione di approvazione dell’intervento di manutenzione straordinaria ben può, pertanto, configurare, un pagamento ab origine indebito, agli effetti dell’art. 2033 c.c. (arg. da Cass. Sez. U, 09/03/2009, n. 5624; Cass. Sez. 3, 19/06/2008, n. 16612; Cass. Sez. 3, 23/02/2006, n. 3994).

© massimo ginesi 16 ottobre 2019 

modifica del criterio di riparto e nullità della delibera: la questione alle sezioni unite?

Con ordinanza interlocutoria (Cass. civ. II 1 ottobre 2019 n. 24476 rel. Scarpa) è stata rimessa al Primo Presidente, affinchè valuti l’assegnazione alle sezioni unite,  la questione della nullità della delibera che disattenda i criteri legali di riparto, sia la rilevabilità di ufficio di tale vizio nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Il provvedimento è di significativo interesse, si inserisce in ampio dibattito giurisprudenziale e merita integrale lettura.

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© massimo ginesi 2 ottobre 2019

 

 

 

 

il giudice non può modellare il condominio, che nasce ipso iure in base ai criteri dell’art. 1117 c.c. (norma che non contempla le autorimesse…)

Una recente sentenza della Cassazione (Cass. civ. sez. II 16 settembre 2019 n. 23001 rel. Scarpa) riprende temi ormai consolidati in ordine alla nascita del condominio (e – nel caso di specie – del supercondominio), sottolineando come lo stesso nasca in fatto e diritto quando almeno due unità – poste all’interno di un medesimo complesso – inizino ad appartenere a due soggetti diversi e sussistano  beni o servizi  destinati a soddisfare esigenze comuni alle proprietà solitarie, ai sensi dell’art. 1117 c.c. (o dell’art. 1117 bis c.c. ove si tratti di supercondominio, come nel caso di specie).

La vicenda nasce in terra subalpina: “La Corte di Torino ritenne inammissibile la domanda ove diretta “a provocare una diversa conformazione dell’edificio condominiale, tale da escludere… da esso quei corpi di fabbrica che lo specifico condomino ritiene estranei”. Ad avviso dei giudici di secondo grado, invece, “la rimodellazione del Condominio, includendo od escludendo corpi di fabbrica, non può essere oggetto di domanda giudiziale, dal momento che essa è di competenza esclusiva dei condomini in sede di eventuale modifica della struttura condominiale, e quindi regolamentare.

Il giudice non ha alcun potere per ‘formarè il Condominio: il giudice, preso atto della scelta insindacabile dei costituenti il condominio, si limita alla verifica di legittimità delle decisioni assunte”. In fatto, peraltro, la Corte d’Appello aggiunse che l’unità immobiliare di proprietà esclusiva Coface, ubicata negli edifici (omissis) , alla stregua della planimetria allegata nel regolamento del 2005, fosse inclusa nell’edificio che comprende anche la galleria e le autorimesse sotterranee, a nulla rilevando che essa non utilizzasse tali spazi.”

La Corte di legittimità, a fronte di una alluvionale serie di motivi di impugnazione, ritiene fondati solo il quinto ed il sesto e rinvia alla corte di merito per nuova disamina alla luce del principio di diritto affermato nella sentenza: Il Giudice non può rimodellare l’edificio condominiale ma ben può accertare se un bene come le autorimesse, che non risultano essere assistite dalla presunzione di condominialità ex art 1117 c.c., debba ritenersi comune per titolo, non potendo peraltro ascriversi a tale genus il regolamento di natura non convenzionale, inidoneo ad incidere sui  diritti reali dei singoli condomini.

Erra la sentenza impugnata quando afferma che la domanda giudiziale della Coface non potesse tendere “a provocare una diversa conformazione dell’edificio condominiale” e che “la rimodellazione del Condominio, includendo od escludendo corpi di fabbrica, non può essere oggetto di domanda giudiziale, dal momento che essa è di competenza esclusiva dei condomini in sede di eventuale modifica della struttura condominiale, e quindi regolamentare”. Sicché “il giudice, preso atto della scelta insindacabile dei costituenti il condominio, si limita alla verifica di legittimità delle decisioni assunte”. Così come erra la ricorrente, peraltro, a cercare nei regolamenti di condominio il titolo costitutivo della condominialità della galleria commerciale e dell’autorimessa.

Al pari del condominio negli edifici, anche il c.d. supercondominio (la cui figura è ora riconducibile all’art. 1117 bis c.c., norma poi introdotta dalla L. n. 220 del 2012, e che quindi non regola la fattispecie in esame), viene in essere “ipso iure et facto”, senza bisogno d’apposite manifestazioni di volontà di tutti i proprietari o altre esternazioni e tanto meno d’approvazioni assembleari, sol che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati (quali, ad esempio, il viale d’ingresso, l’impianto centrale per il riscaldamento, i locali per la portineria, l’alloggio del portiere), attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, “pro quota”, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati, cui spetta altresì l’obbligo di corrispondere gli oneri condominiali relativi alla loro manutenzione (cfr. Cass. Sez. 2, 17/08/2011, n. 17332; Cass. Sez. 2, 31/01/2008, n. 2305; Cass. Sez. 2, 28/01/2019, n. 2279).

I regolamenti di supercondominio, di natura assembleare, quale quello del Centro i Giardini e poi del Condominio (omissis) , approvati a maggioranza, seppur “dalla quasi totalità dei condomini”, afferendo alla sfera della mera gestione, sono paradigmaticamente diretti a disciplinare la conservazione e l’uso delle parti comuni a più condominii, nonché l’apprestamento e la fruizione dei servizi comuni, e pertanto le loro disposizioni non possono incidere sull’estensione e sulla consistenza dei diritti di proprietà e di condominio di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni.

Le clausole che, eventualmente inserite nel loro contesto, tendano a delimitare tali diritti, sia in ordine alle parti comuni, sia in ordine a quelle di proprietà esclusiva, rivestono natura convenzionale e possono, quindi, trarre validità ed efficacia solo dalla specifica accettazione di ciascuno degli interessati, espressa in forma scritta (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612; Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012).

D’altro canto, essendo il giudizio in esame una impugnazione di deliberazione assembleare ex art. 1137 c.c., va considerato come esula dai limiti della legittimazione passiva dell’amministratore una domanda volta ad ottenere l’accertamento della condominialità, o meno, di un bene, ai fini dell’art. 1117 c.c., giacché tale domanda impone il litisconsorzio necessario di tutti i condomini; ne consegue che, nel giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, in cui la legittimazione passiva spetta all’amministratore, l’allegazione dell’appartenenza o dell’estraneità di un bene alle parti comuni di un condominio può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612).

Tuttavia, è altresì noto come il nesso di condominialità, presupposto dalla regola di attribuzione di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive, sia estese in senso verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti adiacenti orizzontalmente, purché le diverse parti siano dotate di strutture portanti e di impianti essenziali comuni, come appunto quelle res che sono esemplificativamente elencate nell’art. 1117 c.c., con la riserva “se il contrario non risulta dal titolo”.

Elemento indispensabile per poter configurare l’esistenza di una situazione condominiale è rappresentato dalla contitolarità necessaria del diritto di proprietà sulle parti comuni dello edificio, in rapporto alla specifica funzione di esse di servire per l’utilizzazione e il godimento delle parti dell’edificio medesimo. Anzi, la “condominialità” si reputa non di meno sussistente pur ove sia verificabile un insieme di edifici “indipendenti”, e cioè manchi un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, ciò ricavandosi dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., che consentono lo scioglimento del condominio nel caso in cui “un gruppo di edifici… si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi”, sempre che “restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dell’art. 1117 codice” (arg. ancora dal già citato art. 1117 bis c.c., introdotto dalla L. n. 220 del 2012).

Peraltro, verificare se un bene rientri, o meno, tra quelli necessari all’uso comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., ovvero appartenga ad un unico condominio complesso, costituito, come nella specie, da più fabbricati, in quanto gruppo di edifici che, seppur indipendenti, hanno in comune alcuni beni, suppone valutazioni in fatto, sottratte al giudizio di legittimità. Nella specie, la Corte d’Appello di Torino, nelle pagine 40 e 41 di sentenza, ha ravvisato l’applicabilità delle norme che disciplinano il condominio, perché il corpo di fabbrica, costituito dall’edificio (…) e all’edificio (…), dove è ubicata l’unità immobiliare della ricorrente, non è strutturalmente indipendente dalla galleria e dall’autorimessa.

Va tuttavia affermato che i locali sotterranei per autorimesse e la galleria commerciale non costituiscono parti dell’edificio condominiale soggette alla presunzione legale di proprietà comune di cui all’art. 1117 c.c. (nella formulazione di tale norma, ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 220 del 2012).
Le autorimesse ed i locali commerciali, infatti, anche se situati (come nella specie accertato dalla Corte di Torino) nel perimetro dell’edificio condominiale, non sono inclusi fra quelli di proprietà comune elencati nel citato art. 1117 c.c. (neppure sotto l’aspetto di “parte dell’edificio necessaria all’uso comune”) e il condominio non può perciò giovarsi della relativa presunzione al fine di pretendere il contributo di ogni condomino alle relative spese di manutenzione, così come al condomino che adduca di non essere tenuto al detto contributo per non essere comproprietario di tali locali non incombe l’onere della relativa prova negativa (onere probatorio positivo – che incombe invece al condomino il quale, in caso di parti dell’edificio comuni, per la presunzione stabilita dall’art. 1117 c.c., intenda vincere detta presunzione pretendendo la proprietà esclusiva).

Al fine di accertare l’obbligo del condomino di sostenere (in misura proporzionale) le spese di manutenzione di un locale non incluso fra quelli di proprietà comune elencati nell’art. 1117 c.c., occorre, quindi, che sia data la prova dell’appartenenza di detti locali in proprietà comune e al fine anzidetto determinante è l’esame dei titoli di acquisto e delle eventuali convenzioni (cfr. Cass. Sez. 2, 22/10/1997, n. 10371; Cass. Sez. 3, 17/08/1990, n. 8376). Nè, ai fini dell’accertamento dell’appartenenza al condominio di galleria ed autorimesse sotterranee, può assumere rilievo il regolamento di condominio di formazione assembleare, o la planimetria ivi riportata, non costituendo il regolamento un titolo di proprietà, ove non si tratti di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini (cfr. Cass. Sez. 2, 03/05/1993, n. 5125).”

© massimo ginesi 23 settembre 2019 

 

comodato simulato e costituzione diritto di abitazione dissimulato

Cass. civ. sez. II, ord. 22 agosto 2019 n.21583 rel. Scarpa affronta una fattispecie peculiare: padre e figlio stipulano un contratto di comodato simulato su immobile di proprietà del secondo ed in favore del primo, con l’intento effettivo – formalizzato in controscrittura – di dar luogo invece alla costituzione del diritto di abitazione sul medesimo compendio immobiliare.

La vicenda giudiziaria trae spunto dalla causa, intentata dal padre nei confronti della nuora e della nipote, per veder riconosciuto il proprio diritto di abitazione: “Con citazione del 4 marzo 2009 C.B. convenne la nuora P. T. e la nipote J B., domandando dì accertare la simulazione relativa del contratto di comodato immobiliare concluso in data 24 settembre 1993 col proprio figlio R. B., nonché l’esistenza in suo favore di un diritto di abitazione ex art. 1022 c.c. inerente allo stesso immobile di via P. in F.

L’adito Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, accertò il diritto di C. B. di abitare la porzione dell’immobile contraddistinta in rosso nella planimetria allegata alla scrittura privata inter partes e condannò l’attore a risarcire P.T. e J. B. della somma di € 12.000,00, quale danno figurativo dovuto a causa dell’indebito utilizzo degli spazi dell’immobile non compresi in quelli descritti nel contratto di comodato.

Proposto gravame da C.B., la Corte d’appello di Venezia accolse lo stesso limitatamente al risarcimento del danno, perché non provato e non configurabile come in re ipsa.

I giudici di secondo grado, invece, confermarono che sia dal contratto simulato di comodato sia dal contratto dissimulato fosse inequivocabile la delimitazione dell’oggetto del diritto di abitazione con riferimento alla medesima porzione dell’immobile contraddistinta in rosso nella planimetria sottoscritta dai contraenti e facente parte integrante dei contratti stessi. Trattandosi, per di più, di contratto costitutivo di diritto reale su bene immobile, nessun rilievo poteva svolgere, secondo la Corte d’Appello, una manifestazione di volontà delle parti in contrasto col documento. La dedotta inidoneità della porzione di immobile a soddisfare il diritto di abitazione poteva, invece, avere rilevanza soltanto al fine di ritenere non costituito lo stesso diritto di abitazione, e non ad estenderne l’oggetto.”

L’attore ricorre in Cassazione, articolando diversi motivi, tutti volti a vedere ricondotto un contenuto del diritto reale più ampio di quello accertato dai giudici di merito, ma il ricorso è rigettato dalla corte di legittimità, con argomentazioni di grande chiarezza e ispirate ai principi fondamentali in tema di trasferimento di diritti reali su beni immobili: “Avendo l’attore C. B. domandato l’accertamento della simulazione relativa del contratto di comodato intercorso col figlio R. B., per dimostrare la sussistenza di un contratto costitutivo di un diritto di  abitazione  ex  art.  1022 e.e., di per sé soggetto alla forma scritta “ad substantiam” in forza dell’art. 1350, n. 4, c.c., lo stesso ha l’onere di provare la simulazione della convenzione relativa al diritto personale di godimento, nonché l’esistenza e l’estensione del proprio diritto reale immobiliare.

L’accertamento della simulazione relativa costituisce, in ogni modo, indagine  di fatto riservata  al giudice  del merito, il quale deve   stabilire,   attraverso   una   corretta   interpretazione del contratto  condotta  alla  stregua  dei  criteri ermeneutici  dettati dal Codice Civile e con motivazione immune da vizi logici e giuridici, se, in contrasto con la volontà di costituire un determinato rapporto espressa nell’atto negoziale, esista una concorde volontà delle parti tendente a porre in essere un diverso negozio vero e reale destinato a rimanere occulto (Cass. Sez. 2, 09/04/1987, n. 3501).

La domanda di C. B., per l’accertamento della simulazione relativa con riguardo ai contratti di comodato e di abitazione, implicava, del resto, attraverso il duplice accertamento dell’apparenza del negozio simulato e dell’esistenza di quello effettivamente voluto dalle parti, il mutamento di una medesima situazione giuridica.

Nella controscrittura intercorsa tra C. e R. B. le parti dichiaravano che avevano sottoscritto “un contratto di comodato relativo ad una porzione dell’immobile sito in F.; che tale contratto doveva intendersi simulato; che “in relazione al contratto di comodato” era stata “loro effettiva e reale volontà quella di concludere un contratto di abitazione ex art. 1022 c.c. , valevole per la durata della vita del beneficiario”.

La Corte d’Appello di Venezia ha fondato, così, la propria indagine interpretativa sulle espressioni letterali usate dai contraenti nel rispetto dell’art. 1362 e.e., ricostruendo la comune intenzione delle parti sulla base delle espressioni usate e dello spirito della convenzione.

L’assunta identità dell’oggetto del contratto simulato di comodato e di quello dissimulato di abitazione (inteso come limitato, in sostanza, alla medesima porzione dell’immobile contraddistinta in  rosso  nella planimetria  sottoscritta  dai  contraenti),  appare  pure  frutto di logica  inferenza  dell’azione  di  simulazione  relativa  intentata, la quale,  giacché diretta ad  individuare e  far valere  la  reale   volontà  delle  parti,  ossia  il  negozio  dissimulato  e, con esso, i diritti che dal medesimo discendono, trae derivazione effettuale dalla negazione dell’efficacia di quella determinata attribuzione patrimoniale divisata nel negozio simulato.

Va quindi affermato che la controscrittura redatta allo scopo di rettificare le risultanze di un contratto simulato,  inerente  ad una determinata consistenza immobiliare, nonché di comprovare il negozio dissimulato – sottoposto, come nella specie, alla forma scritta necessaria a pena di invalidità – si presume logicamente destinata a regolamentare lo stesso bene oggetto del precedente accordo tra le  parti,  salvo  che  la seconda scrittura documenti espressamente  la comune  volontà di comprendere una porzione o un immobile del tutto diversi.

D’altro canto, la Corte di Venezia ha dato il giusto rilievo al richiamo, fatto in contratto, della planimetria  sottoscritta  dalle parti e facente parte integrante della  convenzione,  atteso  che, nei contratti in cui è richiesta la forma scritta ad substantiam,  quale è quello diretto  alla  costituzione  del  diritto  di  abitazione di una casa, l’oggetto può dirsi determinato o determinabile mediante ricorso ad elementi estranei al documento solo  se, come appunto si è ritenuto nella specie, la planimetria risulti allegata all’atto, sia firmata dai contraenti e sia anche espressamente indicata nel contratto come parte integrante del contenuto dello stesso (cfr. ad esempio Cass.  Sez.  2, 05/03/2007, n. 5028).

 Allo scopo di determinare quale fosse la porzione di casa oggetto del diritto di abitazione, neppure possono trarsi elementi dal comportamento successivo delle parti, sulla base della regola ermeneutica stabilita dall’art. 1362, comma 2, e.e., non rivestendo tale comportamento una funzione integrativa  del testo scritto con riguardo agli elementi essenziali dei contratti per i quali è prevista la forma scritta “ad substantiam” (Cass. Sez. 2, 07/03/2011, n. 5385).

Né a diverse conclusioni porta la considerazione del ricorrente secondo cui l’estensione del diritto di abitazione concesso non poteva intendersi ristretta ai due locali previsti nel comodato, essendo altrimenti l’immobile inidoneo a soddisfare le esigenze abitative dell’habitator. 

Invero,  i  “bisogni”  del  titolare  e  della sua famiglia, contemplati nell’art. 1022 e.e., costituiscono unicamente limitazioni quantitative delle facoltà di servirsi della cosa imposte al titolare del diritto di abitazione (a differenza della facoltà accordate all’usuario), e non minimi inderogabili che comportano un’automatica eterointegrazione del contratto. Deve in proposito riaffermarsi che il diritto di abitazione, di cui all’art 1022 e.e., si estende sia a tutto ciò che concorre ad integrare la casa che ne è oggetto, sotto forma di accessorio o pertinenza (balconi, verande, giardino, rimessa, ecc), giacché l’abitazione non è costituita soltanto dai vani abitabili, ma  anche da tutto quanto ne rappresenta la parte accessoria, sia, in virtù del combinato disposto degli artt. 983 e 1026 e.e., alle accessioni (così Cass. Sez. 2, 17/04/1981, n. 2335), fermo tuttavia il rilievo primario che assume quanto previsto dal titolo costitutivo, il quale richiede la forma scritta ex art. 1350, n. 4, c.c.”

© massimo ginesi 3 settembre 2019  

il lastrico che copre un solo fondo esterno non comporta partecipazione alla spesa del condominio.

Ove nel condominio esista un fondo commerciale posto in corpo di fabbrica attiguo al fabbricato principale, la copertura piana di cui è dotato, ove non raccolga e smaltisca acque piovane del condominio, non svolga alcuna altra funzione comune e non veda diritti di calpestio di terzi, rimane bene della cui manutenzione deve gravarsi unicamente il proprietario del fondo.

 E’ quanto ha stabilito di recente la suprema Corte (Cass.Civ. Sez. VI-2 ord. 20 giugno 2019 n. 16625 rel. Scarpa), rilevando che in tal caso l’applicazione dell’art. 1126 c.c. non potrà comportare responsabilità del condominio, non sussistendo nè funzione comune nè altre unità sottostanti la copertura nè, tantomeno, potrà ipotizzarsi una sua responsabilità come custode.

Secondo orientamento giurisprudenziale consolidato, la responsabilità concorrente del condominio con il proprietario o usuario esclusivo di un lastrico solare o di una terrazza a livello, per i danni da infiltrazione nell’appartamento sottostante, in base ai criteri di cui all’art. 1126 c.c., suppone che il lastrico o la terrazza – indipendentemente dalla sua proprietà o dal suo uso esclusivo -, per i suoi connotati strutturali e funzionali, svolga funzione di copertura del fabbricato, ovvero di più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a diversi proprietari (arg. da Cass. Sez. U, 07/07/1993, n. 7449; Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449).

L’obbligo del condominio di concorrere al risarcimento dei danni da infiltrazioni cagionate dal lastrico solare o dalla terrazza a livello che non sia comune, ex art. 1117 c.c., a tutti i condomini, è quindi correlato all’accertamento in concreto di tale funzione di copertura dell’intero edificio, o della parte di esso cui il bene «serve», in quanto superficie terminale del fabbricato.

Se, come accertato nel caso in esame, la terrazza a livello sovrasta soltanto un piano terraneo di proprietà esclusiva, costituendo un autonomo corpo di fabbrica rispetto all’edificio condominiale (a prescindere dalla questione della sua estraneità alla “presunzione” di condominialità, su cui si sofferma la Corte d’Appello di Napoli e che è invece irrilevate ai fini dell’art. 1126 c.c.), l’inconfigurabilità di una responsabilità risarcitoria concorrente del condominio, da quantificare secondo il criterio di imputazione previsto dall’art. 1126 c.c., discende dal difetto della funzione di copertura e protezione dell’edificio, che costituisce la ratio di tale disposizione.”

Su detto lastrico finivano anche scarichi abusivi di alcuni condomini, per i quali, parimenti, non può invocarsi alcuna responsabilità del condominio: “ La fattispecie di cui all’art. 2051 c.c., in tema di responsabilità civile per i danni cagionati da cose in custodia, postula la sussistenza di un rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo.

In tal senso, il condominio di un edificio può intendersi custode dei beni e dei servizi comuni, e perciò obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le parti comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, rispondendo dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini.

Viceversa, il singolo condomino non può pretendere di affermare la responsabilità del condominio, a norma dell’art. 2051 c.c., per il risarcimento dei danni sofferti a causa del cattivo funzionamento di tubazioni di scarico delle acque destinate a servizio esclusivo di proprietà individuali, di cui alcune (come nella specie, accertato in base a giudizio di fatto demandato al giudice del merito) pure estranee al complesso condominiale, essendo il condominio stesso tenuto alla custodia ed alla manutenzione unicamente delle parti e degli impianti comuni dell’edificio.

L’eliminazione delle caratteristiche di una cosa, che rendono questa atta a produrre danno, deve essere chiesta nei confronti del proprietario-possessore della cosa stessa, la cui responsabilità è presunta a norma dell’art. 2051 c.c.”

© massimo ginesi 2 luglio 2019 

 

sconfinamenti fra edifici condominiali contigui: il principio dell’accessione prevale sulla presunzione di comunione.

Una recentissima pronuncia della Cassazione ( Cass.civ. sez. VI-2 25 giugno 2019 n. 17022 rel. Scarpa) affronta un tema davvero singolare e che ben si attaglia ai tipici fabbricati liguri (anche se la vicenda di causa ha luogo in toscana).

In due edifici condominiali contigui (ma costituenti autonomi e distinti condomini) taluni condomini provvedono a sopraelevare e a modificare la consistenza delle proprie unità, sforando  nell’edificio vicino e quindi giovandosi di parti comuni dell’altro fabbricato (quali tetto e strutture): la causa origina dalla impugnazione di delibera del condominio “invaso” dall’ampliamento  con la quale si dava mandato all’amministratore di agire per il recupero delle quote di spesa nei confronti di uno di questi soggetti, sull’assunto che lo stesso fosse divenuto – in forza di dette modifiche – condomino anche di tale fabbricato.

Il Tribunale di Firenze ha annullato la delibera, rigettando la richiesta  avanzata dall’impugnante volta ad accertare che non era condomino di quel fabbricato che pretendeva di imputargli oneri di manutenzione;la Corte di Appello di Firenze – sul gravame proposto dalla società impugnante – ha invece ritenuto che questa fosse divenuta condomina di quel fabbricato in virtù delle opere svolte che, pacificamente, debordavano nel condominio vicino.

Il giudice di legittimità rileva in primo luogo che l’accertamento sulla qualità di condomino, ove richiesto con efficacia di giudicato, debba vedere litisconsorzio necessario fra gli altri condomini, difettando legittimazione passiva dell’amministratore in ordine a tali domande, mentre ben può costituire mero accertamento incidentale volto a statuire unicamente sulla validità della delibera impugnata: “ la  domanda  di accertamento  della  qualità di  condomino, ovvero dell’appartenenza, o meno, di un’unità immobiliare di proprietà esclusiva ad un condominio edilizio, in quanto inerente all’esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 e.e., non va proposta nei confronti della persona che svolga l’incarico di amministratore del condominio medesimo, imponendo, piuttosto, la partecipazione quali legittimati passivi di tutti condomini in una  situazione  di  litisconsorzio necessario.

La definizione della vertenza postula, invero, una decisione implicante un accertamento in ordine a titoli di proprietà confliggenti fra loro, suscettibile di assumere valenza solo se, ed in quanto, data nei confronti di tutti i soggetti, asseriti partecipi del preteso condominio in discussione (Cass. Sez.  6-2,  25/06/2018,  n. 16679;  Cass.  Sez. 6-2, 17/10/2017, n. 24431; Cass. Sez. 6-2, 22/06/2017, n. 15550; Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez.  2,  01/04/1999,  n. 3119). 

Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, ex art. 1137 e.e. (quale quello in esame, relativo alla deliberazione dell’assemblea 26 settembre 2003 del Condominio di Via dei N.) in cui la legittimazione passiva spetta all’amministratore, l’allegazione, ad opera della ricorrente, della estraneità degli immobili di sua proprietà esclusiva ad un condominio può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della  sola causa  sulla  validità  dell’atto  collegiale  ma  privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612).”

Quanto all’acquisto della qualità di condomino, la Cassazione evidenzia come la stessa possa operare solo ove le modifiche intervengano interiormente alla costituzione del condominio o comunque su area già comune anche ai condomini che effettuano la nuova costruzione, mentre ove lo sconfinamento avvenga su area che già appartiene pro indiviso solo ad altri soggetti, debba prevalere il regime dell’accessione: ” La presunzione legale di comunione di talune parti dell’edificio condominiale, stabilita dall’art. 1117 c.c., si basa sulla loro destinazione all’uso ed al godimento comune, destinazione che deve sussistere anche per le parti nominativamente elencate in detta norma e risultare da elementi obiettivi, cioè dalla  attitudine funzionale della parte di cui trattasi al servizio od al godimento collettivo, intesa come relazione strumentale necessaria tra questa parte e l’uso comune.

La presunzione di condominialità è applicabile (come conferma ora l’art. 1117 bis c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012) anche quando si tratti non di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, oggettivamente e stabilmente destinate alla conservazione, all’uso od al servizio di tali edifici, ancorché insistenti su un’area appartenente al proprietario  (o  ai proprietari) di uno solo degli immobili; in simile ipotesi, però, la presunzione è invocabile solo se l’area e gli edifici siano appartenenti ad una stessa persona – od a più persone “pro­ indiviso” – nel momento della costruzione della cosa o del suo adattamento o trasformazione all’uso comune, mentre, nel caso in cui l’area sulla quale siano state realizzate le opere destinate a  servire i due edifici  sia  appartenuta  sin dall’origine  ai proprietari di uno solo di essi, questi ultimi acquistano per accessione la proprietà esclusiva delle opere realizzate sul loro fondo, anche se poste in essere per un accordo intervenuto tra tutti gli interessati e/o col contributo economico dei  proprietari degli altri edifici.

Così, al fine di accertare se un fabbricato adiacente ad altro edificio faccia parte dei beni condominiali, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è necessario stabilire  se  siano sussistenti i presupposti per l’operatività della presunzione di proprietà comune con riferimento al momento della nascita del condominio, restando escluso che sia determinante il collegamento materiale tra i due immobili, se eseguito successivamente all’acquisto. 

  Alla stregua di tali criteri non può essere condivisa l’affermazione della Corte di  Firenze  secondo cui le fondazioni, i muri maestri ed il tetto  dell’edificio condominiale di Via dei N. siano divenuti comuni  ai proprietari  di  unità  immobiliari  comprese  nell’edificio   limitrofo di via della M.,  per il solo  fatto che alcuni condomini  di  via Dei N., sopraelevando il tetto e “sfondando” il muro perimetrale, avessero debordato, con le costruzioni, dall’area di loro spettanza ed invaso l’area di proprietà  del vicino edificio di  via della M, non avendo i costruttori in tal modo  conseguito l’attribuzione della proprietà  dello  spazio  occupato, né soccorrendo più al momento di tali opere la  presunzione  ex art. 1117 c.c., in quanto il suolo e gli edifici all’epoca della costruzione appartenevano ormai a proprietari diversi, sicché dovevano piuttosto trovare applicazione – in difetto di apposita convenzione scritta, o di maturata  usucapione    le  norme relative all’accessione e alla  forma  richiesta  ad substantiam  per il trasferimento dei diritti reali immobiliari (cfr. Cass. Sez. 2, 26/04/1993, n. 4881; Cass. Sez. 2, 26/04/1990,  n.  3483;  Cass. Sez. 2, 18/03/1968, n. 863; Cass. Sez.  2,  22/10/1975, n. 3501; Cass. Sez. 2, 23/09/2011, n. 19490).”

© massimo ginesi 27 giugno 2019 

 

autorimesse costruite sul cortile comune: prevale l’accessione ex art 934 c.c. e divengono comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Le autorimesse costruite su un cortile comune accedono all’area su cui sono costruite e, per tale ragione, divengono comuni pro quota fra i singoli condomini ai sensi dell’art. 1117 c.c., seguendo anche nei trasferimenti dell’unità immobiliare il particolare regime giuridico circolatorio che attiene ai beni condominiali. Non incide, nello specifico caso, la disciplina vincolistica sui parcheggi, ma la disciplina generale del condominio.

 E’ quanto afferma, con esaustiva ed interessante motivazione, una recente sentenza  di legittimità (Cass.civ. sez. II  14 giugno 2019 n. 16070 rel. Scarpa).

la Corte di Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, per raggiungere la conclusione che il box era stato trasferito a C.G.A. quale pertinenza dell’appartamento di cui all’atto pubblico del 16 giugno 1999, ha posto in evidenza che il cortile dove furono realizzati i nuovi box nel 1988 era di proprietà comune pro quota fra i condomini, sicché “tutti e ciascuno di essi appartenevano… ai singoli trentatrè titolari delle proprietà esclusive”.

Ora, secondo consolidato orientamento di questa Corte, il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dalla L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 sexies, in base al testo introdotto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 18 (e prima della modifica introdotta dalla L. n. 246 del 2005, art. 12, comma 9, nella specie inoperante ratione temporis) norma di per sé imperativa, non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa.

La normativa urbanistica, dettata dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per l’epoca dell’edificazione (parametri poi modificati dalla L. n. 122 del 1989, art. 2), verificati a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3393).

Questa Corte ha altresì spiegato come gli spazi che debbono essere riservati a parcheggio ex art. 41 sexies possono essere ubicati indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe idonee a soddisfare l’esigenza, costituente la ratio della norma, di deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22 febbraio 2006, n. 3961).

L’elaborazione giurisprudenziale ha anche chiarito come lo standard urbanistico prescritto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, pone un vincolo pubblicistico di destinazione degli spazi da utilizzare come parcheggio “a servizio delle singole unità immobiliari”, con la conseguenza che “il godimento di tale spazio, nell’ipotesi di fabbricato condominiale, deve essere assicurato in favore del proprietario del singolo appartamento” (Cass. 4 agosto 2017, n. 19647; Cass. 4 febbraio 1999, n. 973). Il vincolo non opera, quindi, genericamente a favore del fabbricato condominiale o dei condomini indistintamente, ma delle singole unità immobiliari di cui l’edificio si compone.

Nella specie, è tuttavia accertato in fatto che le autorimesse oggetto della concessione edilizia del 7 gennaio 1988 furono costruite in un cortile di proprietà condominiale.

I cortili (ed esplicitamente pure le stesse aree destinate a parcheggio, dopo l’entrata in vigore della L. n. 220 del 2012), rispetto ai quali manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio, rientrano tra le parti comuni dell’edificio condominiale, a norma dell’art. 1117 c.c. (Cass. 8 marzo 2017, n. 5831), e la loro trasformazione in un’area edificabile destinata alla installazione, con stabili opere edilizie, di autorimesse, a beneficio di alcuni soltanto dei condomini, seppur faccia venir meno la funzione dell’area comune, non ne comporta una sottrazione al regime della condominialità sotto il profilo dominicale (arg. da Cass. 9 dicembre 1988, n. 6673; Cass. 14 dicembre 1988, n. 6817; Cass. 16 febbraio 1977, n. 697).

Ciò a differenza del locale autorimessa, che, se anche situato entro il perimetro dell’edificio condominiale, non può ritenersi ex se incluso tra le “parti comuni dell’edificio” ai diretti effetti dell’art. 1117 c.c. (cfr. Cass. 22 ottobre 1997, n. 10371).

Essendo state costruite le autorimesse, assentite con concessione edilizia del 7 gennaio 1988, nel cortile comune, su richiesta di ventuno condomini del complesso di (OMISSIS), le stesse dovevano intendersi per accessione, ai sensi dell’art. 934 c.c., di proprietà comune pro indiviso a tutti i condomini dell’immobile, salvo contrario accordo, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam (arg. da Cass. Sez. Un. 16 febbraio 2018, n. 3873).

Giacché appartenenti in comunione ai singoli condomini, quali comproprietari ex art. 1117 c.c. del cortile sul cui suolo sono state costruite, ogni acquisto di un’unità immobiliare compresa nell’edificio condominiale comprende la quota di comproprietà delle autorimesse comuni e il diritto di usufruire della stessa, a nulla rilevando l’eventuale divergenza fra il numero delle autorimesse e quello dei partecipanti al condominio (divergenza su cui invece si sofferma la ricorrente), la quale può semmai incidere ai fini della regolamentazione dell’uso di esse (arg. da Cass. 16 gennaio 2008, n. 730; Cass. 18 luglio 2003, n. 11261; Cass. 28 gennaio 2000, n. 982).

Deve concludersi che l’acquisto del diritto sul box auto sito all’interno del Condominio di (OMISSIS), riconosciuto dalla Corte d’Appello in capo a C.G.A. a titolo di “pertinenza dell’appartamento” di cui all’atto pubblico 16 giugno 1999, discenda piuttosto quale automatica conseguenza dall’essere comprese le autorimesse realizzate nel complesso edilizio fra le parti comuni a tutti i partecipanti. Non rileva, cioè, in maniera decisiva, nella fattispecie di causa, il vincolo previsto dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, su cui si incentra il ricorso, quanto il regime circolatorio tipico delle parti comuni, proprio del condominio edilizio.

L’alienazione dell’unità immobiliare compresa nel Condominio di (OMISSIS) in favore di C.G.A. doveva per questo comportare il trasferimento della titolarità pro quota delle autorimesse costruite nel cortile condominiale.”

© massimo ginesi 20 giugno 2019 

 

obbligazioni condominiali: natura, applicazione dell’art. 63 disp.att. cod.civ. e un obiter dictum su fondo cassa morosità

Una interessante pronuncia della corte di legittimità (Cass.civ. sez. II  ord. 20 maggio 2019 n. 13505 rel. Scarpa) ripercorre la natura dell’obbligazione condominiale, rifacendosi  – con attenta ed efficacissima sintesi  – ad orientamenti ormai stabili ed  evidenziando l’insussistenza di solidarietà e l’obbligo di imputazione delle spese ai singoli condomini, sia in virtù del disposto di cui all’art. 63 disp.att. cod.civ. sia laddove taluno abbia anticipato somme per altro condomino insolvente.

La vicenda è soggetta, ragione temporis, all’applicazione dell’art. 63 disp.att. cod.civ. ante L. 220/2012, ma le riflessioni in tema di obbligazione condominiale sono comunque attualissime e perfettamente applicabili agli  scenari che vedano coinvolta la responsabilità patrimoniale dei condomini anche dopo l’entrata in vigore della novella del 2012.

i fatti “Con citazione del 12 ottobre 2001 la Tecna S.p.A. convenne davanti al Tribunale di Pisa C.S. , P.G. e il Condominio di (omissis) , deducendo di aver venduto con atto del 29 gennaio 2001 a C.S. due unità immobiliari comprese nel condominio; di aver versato a titolo di quote condominiali, prima del 29 gennaio 2001, una somma in eccesso pari a lire 70.403.854 (Euro 35.201,92) per lavori di ristrutturazione delle parti comuni del fabbricato, a causa della morosità del condomino P.G. ; di aver concordato nell’atto di vendita del 29 gennaio 2001 in favore di C.S. che “tutto quanto ancora fosse stato richiesto dal condominio per i suddetti titoli dopo la data odierna” dovesse far carico all’acquirente, fermo “il recupero di quanto sin qui anticipato dalla parte venditrice” lasciato alla competenza di quest’ultima mediante ripetizione dal condomino moroso. L’attrice Tecna S.p.A. chiese quindi la condanna dei convenuti C.S. , P.G. e Condominio (omissis) , al pagamento della indicata somma.”

i principi di diritto espressi dalla Cassazione  “Trova applicazione ratione temporis, attesa l’epoca di insorgenza dell’obbligo di spesa per cui è causa, l’art. 63 disp. att. c.c., comma 2, nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220.

In forza di tale norma, chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. Occorrendo individuare, ai fini dell’applicazione dell’art. 63 disp. att. c.c., comma 2, quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni, deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento, avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. Sez. 6 – 2, 25/01/2018, n. 1847; Cass. Sez. 6 – 2, 22 giugno 2017, n. 15547; Cass. Sez 6 – 2, 22 marzo 2017, n. 7395; Cass. Sez. 2, 03/12/2010, n. 24654).

Tale momento rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, sempre che gli stessi non si siano diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro.

Nel caso di specie, allora, è stato accertato in fatto come la venditrice Tecna S.p.A. e il compratore C.S. , nell’atto del 29 gennaio 2001, avessero concordato (art. 8) che “tutto quanto ancora fosse stato richiesto dal condominio per i suddetti titoli dopo la data odierna” restasse a carico all’acquirente, riconoscendo il medesimo compratore il diritto della Tecna S.p.a. al “recupero di quanto sin qui anticipato” al condominio per le quote facenti carico ad altri condomini morosi.

Come questa Corte ha di recente affermato (Cass. Sez. 6 – 2, 11/08/2017, n. 20073; Cass. Sez. 2, 09/01/2017, n. 199), ove si abbia riguardo ad obbligazione per l’esecuzione dei lavori inerenti parti comuni assunta dall’amministratore del condominio, o comunque, nell’interesse del condominio, nei confronti dell’appaltatore, trova applicazione il principio dettato da Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148 (non operando qui, ratione temporis, neppure il meccanismo di garanzia ex art. 63 disp. att. c.c., comma 2, introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220), di tal che la responsabilità per il corrispettivo contrattuale preteso dall’appaltatore è retta dal criterio della parziarietà, per cui l’obbligazione assunta nell’interesse del condominio si imputa ai singoli componenti nelle proporzioni stabilite dall’art. 1123 c.c., essendo tale norma non limitata a regolare il mero aspetto interno della ripartizione delle spese.

Dovendosi negare che l’obbligo di contribuzione alle spese per la manutenzione delle parti comuni si connotasse verso l’appaltatore, terzo creditore, ovvero verso il Condominio, come rapporto unico con più debitori, ovvero come obbligazione solidale per l’intero in senso proprio e quindi ad interesse comune, alla Tecna S.p.A., che ha assunto di aver adempiuto al pagamento delle quote spettanti ad altri condomini morosi, non poteva accordarsi alcun diritto di regresso, ex art. 1299 c.c., nè per l’intera somma dovuta dal Condominio, nè nei confronti degli altri condomini, sia pur limitatamente alla quota millesimale dovuta da ciascuno di essi.

In sostanza, solo se si parte dalla premessa, ormai smentita dalla giurisprudenza, che il singolo condomino, quale condebitore solidale, possa essere escusso dal terzo creditore per l’intero debito contratto dal condominio, può poi accordarsi a quello il diritto di regresso, altrimenti ravvisandosi nel pagamento dell’intero, o di importo comunque eccedente alla propria quota di contribuzione, effettuato da un condebitore, piuttosto, un indebito soggettivo “ex latere solventis”.

Un obbligo restitutorio del condominio nei confronti dei condomini che abbiano anticipato le somme dovute da altri condomini può sorgere, piuttosto, ove lo stesso condominio abbia approvato una deliberazione assembleare istitutiva di un fondo cassa finalizzato a sopperire alle morosità di alcuni partecipanti, ed a scongiurare l’aggressione in executivis da parte del creditore in danno di parti comuni dell’edificio (cfr. Cass. Sez. 2, 05/11/2001, n. 13631).

Al condomino, che abbia versato al terzo creditore anche la parte dovuta dai restanti condomini (sempre, beninteso, nel regime antecedente alla garanzia ex art. 63disp. att. c.c., comma 2, introdotta dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220), allo scopo di ottenere da costoro il rimborso di quanto da lui corrisposto, non può nemmeno consentirsi di avvalersi della surrogazione legale in forza dell’art. 1203 c.c., n. 3, giacché essa – implicando il subentrare del condebitore adempiente nell’originario diritto del creditore soddisfatto in forza di una vicenda successoria ha luogo a vantaggio di colui che, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse a soddisfarlo.

Al più, il pagamento da parte della condomina Tecna S.p.A. delle quote dei lavori di riparazione delle parti comuni dovute dai restanti condomini poteva legittimare la stessa ad agire, sempre nei confronti degli altri singoli partecipanti, per ottenere l’indennizzo da ingiustificato arricchimento, stante il vantaggio economico ricevuto dagli altri condomini (cfr. Cass. Sez. U, 29/04/2009, n. 9946).

Tuttavia, per quanto accertato dalla Corte d’Appello di Firenze, con apprezzamento immune dai vizi di violazione di legge ipotizzati nei primi due motivi di ricorso, e rispetto al quale nessuna decisività spiega il fatto dedotto nel terzo motivo, era appunto avvenuto, nel caso in esame, che il Condominio (omissis) , avesse recuperato dal condomino insolvente P.G. l’importo di Euro 35.201,92 dovuto per le quote insolute, adempiendo all’obbligo restitutorio in favore del condomino solvente Tecna S.p.a. mediante imputazione contabile alla impropria “quota unitaria Tecna/C. “, sicché il rapporto obbligatorio fra le parti restava delineato alla stregua di Cass. Sez. 2, 05/11/2001, n. 13631.

La domanda sin dall’inizio proposta dalla Tecna S.p.a. e la congrua decisione resa dalla Corte d’Appello di Firenze non appaiono, quindi, volte a regolamentare l’obbligo di partecipazione alla spesa per l’esecuzione dei lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni nei rapporti interni tra venditore e compratore (obbligo in ordine al quale le parti del contratto di vendita avevano, peraltro, convenuto di fare riferimento alla data di richiesta di pagamento proveniente dalla gestione condominiale, se antecedente o successiva a quella dell’alienazione), quanto a preservare alla medesima Tecna S.p.a. il diritto alla ripetizione della somma indebitamente rimborsata “ex latere accipientis” dal Condominio a C.S. .”

 

© massimo ginesi 22 maggio 2019

 

moto in cortile: possono violare l’art. 1102 cod.civ.

La sosta di motocicli nel cortile condominiale, laddove impedisca agli altri condomini di fare pari uso del bene, è vietata ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.

Si tratta di principio  evidente e pacifico, che una recente pronuncia della Cassazione (Cass.civ. sez. VI-2  ord. 18 marzo 2019 n. 7618 rel.Scarpa) richiama con una interessante precisazione: la circostanza che la sosta si protragga per pochi minuti non elimina la lesività della condotta, ove da quella circostanza derivi comunque una lesione del diritto degli altri condomini sul bene comune.

La causa ebbe inizio con citazione di (omissis), il quale convenne davanti al Giudice di Pace di Napoli (omissis),  chiedendo  che venisse vietato a questi ultimi di parcheggiare i loro motoveicoli nello spazio prospiciente l’immobile di proprietà del (omissis) nel fabbricato di (omissis), impedendo tale condotta all’attore di godere delle parti condominiali dell’edificio.

La domanda venne accolta dal Giudice di pace, anche alla luce del regolamento condominiale, che contiene divieto di ingombro del cortile, e considerate le deposizioni dei testimoni, i quali avevano confermato la circostanza del parcheggio dei veicoli ad opera dei convenuti con intralcio all’accesso nella proprietà (omissis) .

Il Tribunale di Napoli ha poi respinto gli appelli di (omissis) e (omissis)  richiamando le dichiarazioni dei testi  circa il  parcheggio dei motoveicoli compiuto dal (omissis) e le documentazioni fotografiche prodotte, e negando rilievo, ai fini della fondatezza della ravvisata violazione dell’art. 1102 c.c., al dato della saltuarietà o sporadicità delle soste denunciate, sia perché tale sporadicità non esclude la possibilità di una prolungata durata dei parcheggi illegittimi, sia perché  comunque non erano stati precisati dai testimoni indicati dai convenuti i limiti temporali delle medesime soste nel cortiletto.”

osserva la Suprema Corte che “I giudici di merito hanno accertato in fatto, con apprezzamento loro spettante e sindacabile in sede di legittimità solo nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., che la sosta dei mezzi        meccanici nel cortile comune antistante la proprietà (omissis)     ne pregiudichi la transitabilità, sì da impedire od ostacolare l’accesso all’unità immobiliare del singolo condomino, con correlata violazione del principio stabilito dall’art. 1102 c.c.

La decisione del Tribunale di Napoli è conforme all’interpretazione di questa Corte, secondo cui l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto.

Pertanto, deve ritenersi che la condotta del condomino, consistente nella stabile occupazione – mediante il parcheggio per lunghi periodi di tempo della propria autovettura – di una porzione del cortile comune, configuri un abuso, poiché impedisce agli altri condomini di partecipare all’utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l’equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà (Cass. Sez. 2, 24/02/2004, n. 3640).

E’ poi decisivo osservare che l’art 1102 c.c., sull’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante alla comunione, non pone alcun margine minimo di tempo e di spazio per l’operatività delle limitazioni del predetto uso, sicché può costituire abuso anche l’occupazione per pochi minuti di una porzione del cortile comune, ove comunque impedisca agli altri condomini di partecipare al godimento dello spazio oggetto di comproprietà (Cass. Sez. 2, 07/07/1978, n. 3400).”

© massimo ginesi 19 aprile 2019