canone per occupazione di suolo pubblico: è dovuto anche senza formale atto di concessione.

Se il Condominio occupa una porzione di suolo pubblico circostante l’edificio con griglie ed intercapedini, ai fini del versamento della relativo canone , a poco rileva che non vi sia stato un preventivo atto di assenso della P.A.

E’ quanto stabilito da Cass. civ. sez. II 15 novembre 2018 n. 29447, con una discutibile sentenza  decisamente orientata a favore della P.A.: “ La gravata decisione della Corte territoriale, al fine di affermare la non debenza, nella fattispecie, del canone per l’occupazione, ha valorizzato la circostanza della “esistenza o meno di un atto formale di concessione, dovendo comunque esaminarsi se vi sia stata o meno in concreto una occupazione di suolo pubblico”.

La medesima sentenza di secondo grado, muovendo – quindi- dal principio enunciato da questa Corte con la decisione n. 1611/2007 ha, poi, concluso per l’inesistenza di un obbligo a carico del Condominio appellato – odierno contro ricorrente: tanto in quanto “griglie ed intercapedini erano state realizzate contestualmente alla costruzione dell’edificio in virtù di licenza edilizia senza che risultino occupazioni abusive di area comunale o cessione della proprietà al comune dell’area perimetrale”.

Orbene il principio enunciato da questa Corte con la citata sentenza n. 1611/2007 concerneva la fattispecie (differente da quella che ricorre oggi in esame) della corresponsione del canone – COSAP – in favore di Comune che abbia acquistato l’area circostante il perimetro di un fabbricato. Nell’ipotesi di cui al giudizio conclusosi con la suddetta decisione n. 1611/2007 veniva esclusa la debenza di quel canone poiché vi era stata una apposita pattuizione per la cessione ed “il prezzo pattuito per la cessione era stato ridotto proprio a causa delle intercapedini con la volontà delle parti di escludere dal trasferimento le porzioni di suolo con intercapedini”, che rimanevano aree private.

È, quindi, evidente la diversità della fattispecie decisa con la pur citata sentenza n. 1611/2007 rispetto alla ipotesi di cui al presente giudizio.

Inoltre deve, poi, evidenziarsi come le S.U. di questa Corte, con sentenza n. 18037/2009, hanno affermato che il canone per l’occupazione per cui si controverte “concepito come un quid ontologicamente diverso dalla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche” rappresenta “il corrispettivo di una concessione reale o presunta”.
Tale principio enunciato dalle S.U. implica la debenza del canone in questione nelle,ipotesi non solo di abusiva occupazione di suolo pubblico, ma pure di collocazione di griglie o intercapedini insistenti su parte di suolo in ogni caso assoggettata a pubblico passaggio (il principio, inoltre, risulta sostanzialmente ribadito dalle più recenti Cass. n.ri 12167/2003, 14864/2006 e 10733/2018).

In altre parole la concessione presunta a favore della P.A. comporta la debenza del canone sia a fronte di una occupazione abusiva di suolo già pubblico, che in dipendenza di una occupazione di suolo comunque divenuto pubblico ancorché già costituente area perimetrale condominiale.

Nella concreta fattispecie in esame la sentenza gravata, eludendo il dictum e le conseguenze del principio sancito dalla riportata decisione delle S.U. del 2009, ha fatto discendere direttamente dall’atto di cessione intercorso fra Condominio e Comune l’esclusione del trasferimento dell’area perimetrale condominiale al Comune, nel mentre quella area, ove utilizzata per pubblico passaggio, comportava comunque – alla stregua del principio stesso – la debenza del canone.

In altre parole, ancora, l’obbligo di pagamento del canone sussiste sia nel caso di concessione, anche presunta, per occupazione abusiva, che nella diversa ipotesi di uso collettivo del suolo.
Tali profili peculiari del canone in questione comportano, proprio ai sensi della citata decisione delle S.U., la connotazione del medesimo canone “in relazione all’utilizzazione particolare (o eccezionale) che ne trae singolo”.
Nella concreta fattispecie è mancata la valutazione del carattere di detta utilizzazione inerente un bene comunque gravato da un uso pubblico.”

copyright Massimo Ginesi 19 novembre 2018

è obbligo dell’appaltatore verificare l’idoneità del suolo su cui eseguire la costruzione.

Anche se non è espressamente dedotto in contratto, nelle realizzazione di opere edilizie costituisce comunque obbligo dell’appaltatore verificare che il suolo su cui devono essere eseguite le opere sia idoneo alla loro costruzione, in quanto si tratta di cautela necessaria e prodromica alla esecuzione stessa dell’appalto.

Ove ciò non avvenga e ne derivi danno, l’appaltatore ne sarà comunque responsabile, in via solidale con il direttore dei lavori.

Lo afferma Cass.civ. sez. I 20 giugno 2017 n. 15190 in una monumentale pronuncia, in cui afferma che tale obbligo incombe all’appaltare anche in presenza di vizi di progettazione riconducibili al committente.

La sentenza, per ampiezza di argomentazioni, anche processuali, merita lettura integrale.

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© massimo ginesi 21 giugno 2017

 

suolo e muri perimetrali sono comuni, salvo il titolo contrario

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Un edificio viene costruito per blocchi successivi e, in particolare, un corpo di fabbrica viene aggiunto a quello principale, al quale è collegato da alcune strutture portanti ed edificato sul suolo comune.

Dopo alcuni anni la struttura del terreno fa sì che si verifichino cedimenti in questo ultimo corpo, con danni alle unità immobiliari ivi poste, per i quali viene avanzata dai danneggiati domanda contro il Condominio unitariamente inteso, assumendo che il suolo e i muri perimetrali siano comuni ex art. 1117 cod.civ.

I giudici di primo e di secondo grado (Tribunale di Imperia e Corte di Appello di Genova) hanno respinto la domanda, ritenendo che ” i pilastri posti sul lato sud del corpo aggiunto avevano la sola funzione di reggere il fabbricato aggiunto, per cui non potevano appartenere alla proprietà comune.”

Con sentenza del 28 settembre 2016 n. 19215 la Seconda Sezione civile della Cassazione – in totale riforma delle decisioni dei giudici di merito ha riaffermato due importanti principi:

con riferimento al suolo su cui sorge il fabbricato ha chiarito che ” la nozione di suolo, che l’art. 1117 cc., n. 1 annovera tra le cose oggetto di proprietà comune, si identifica per sottrazione logica, in quanto si differenzia dall’edificio soprastante a stregua della nozione che di quest’ultimo si assuma valida. Pur nella variabilità morfologica (si pensi che per suolo su cui sorge l’edificio comune s’intende non il piano di campagna, ma la parte di terreno su cui poggia la parte infima di quest’ultimo, comprensiva delle fondazioni: cfr. Cass. n 8119 del 2004; Cass. n. 18091 del 2002; Cass. n. 6357 del 1993 e Cass. n. 1632 del 1983), il concetto di suolo corrisponde ad entità fisiche non relativizzabili, di talché in nessun caso l’edificio o una parte di esso può identificarsi come suolo, quali che siano le rispettive individuazioni catastali, attribuite per ragioni di carattere fiscale. Ne consegue che in materia condominiale nessuna porzione dell’edificio, ancorché di proprietà individuale e perciò corrispondente in catasto ad una particella diversa da quella identificante l’area su cui sorge il fabbricato comune, può essere considerata come suolo.
Nella specie, per l’accertamento della proprietà dell’immobile denominato palazzina (…), di (incontestata) proprietà (individuale) della Immobiliare Mirella s.a.s., non è applicabile l’art. 840 c.c., ma è regolato mediante l’applicazione del solo art. 1117 c.c., in base al quale è comune, salvo risulti altrimenti dal titolo, il suolo su cui sorge l’edificio (n. 1 art. cit.).”

Con riguardo  ai muri perimetrali: ” l’edificio di cui parla l’art. 1117 c.c. non è dato dall’insieme delle sole sue parti comuni, nel senso che queste si identifichino con quello esaurendone la definizione, ma è il tutto, cioè un’unità fisico-economica complessa e compiuta che racchiude ogni porzione, di proprietà comune o individuale, del fabbricato medesimo. Non a caso la norma enumera le parti comuni dell’edificio, e non descrive, viceversa, quest’ultimo come somma delle sole strutture superindividuali elencate, così come l’art. 1117 c.c., comma 1 correla il suolo, quale parte di proprietà condominiale, unicamente al fabbricato, non anche alle singole altre parti (fondazioni, muri maestri, tetti ecc.) che sono comuni per la funzione assolta, non per il fatto di essere comprese nell’edificio (in termini, Cass. n. 18344 del 2015 e Cass. n. 4430 del 2012).
Ne deriva che il suolo, che ai sensi del n. 1 della norma appena citata è oggetto di proprietà comune, è quello su cui insiste l’insieme della struttura, incluse le parti di mura perimetrali che, per titolo o funzione svolta, non siano da considerarsi comuni, come nel caso in cui queste siano destinate unicamente a delimitare e sorreggere una corpo sporgente di proprietà individuale”.

© massimo ginesi 5 ottobre 2016

marzo 2016 – niente talpe in condominio, il sottosuolo è comune

Ai sensi dell’art. 1117 c.c., il sottosuolo, da intendersi quale zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio, va considerato di proprietà condominiale. Non è permesso, pertanto, ad alcun condòmino appropriarsi del bene in questione (come nella specie, eseguendo uno scavo) privandone gli altri condòmini di pari possibilità, anche solo teorica, di utilizzo.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 febbraio – 30 marzo 2016, n. 6154
Presidente Mazzacane – Relatore Scarpa

Una sentenza ineccepibile, a firma di un relatore noto e illustre a cui vanno i nostri migliori auguri di buon lavoro quale giudice di legittimità: la chiarezza e nettezza della motivazione merita di riportarla senza commenti ulteriori, poiché delinea con grande nitidezza sia il fatto che il diritto: “Dall’esame del regolamento di condominio e dalla destinazione funzionale del terreno in oggetto, posto in rapporto di strumentalità col fabbricato principale, la Corte di Milano ha ricavato, “ad colorandam possessionem”, l’inclusione dello stesso fra le parti comuni dell’edificio ex art. 1117 c.c., così accertando che le denunciate utilizzazioni da parte della società R.G. & c. eccedessero i limiti segnati dalle concorrenti facoltà dei condomini compossessori. In base all’art. 1117 c.c., infatti, l’estensione della proprietà condominiale ad un immobile, quale quello oggetto di lite, che appare come corpo di fabbrica separato rispetto all’edificio in cui ha sede il condominio, può essere giustificata soltanto in ragione di un titolo idoneo a far ricomprendere il relativo manufatto nella proprietà del condominio stesso (avendo la Corte di merito inteso come tale il regolamento di condominio richiamato nell’atto di acquisto dei danti causa di Locat S.p.a.), qualificando espressamente tale bene come ad esso appartenente (articoli 1 e 2 del citato Regolamento). D’altro canto, la norma regolamentare che ricomprende nella proprietà comune “il terreno sul quale sorgono gli edifici” appare mera riproduzione della regola attributiva dell’art. 1117 c.c., la quale abbraccia pure “il suolo su cui sorge l’edificio”. Oggetto di proprietà comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., è non solo la superficie a livello del piano di campagna, bensì tutta quella porzione del terreno su cui viene a poggiare l’intero fabbricato e dunque immediatamente pure la parte sottostante di esso. Il termine “suolo”, adoperato dall’art. 1117 citato, assume, invero, un significato diverso e più ampio di quello supposto dall’art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all’aria. Piuttosto, l’art. 1117 c.c., letto sistematicamente con l’art. 840 dello stesso codice, implica che il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio (seppure non menzionato espressamente dall’elencazione esemplificativa fatta dalla prima di tali disposizioni), va considerato di proprietà condominiale in mancanza di un titolo, che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini. Pertanto, nessun condomino può, senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione, procedere all’escavazione in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, verrebbe a ledere il diritto di proprietà degli altri partecipanti su una parte comune dell’edificio, privandoli dell’uso e del godimento ad essa pertinenti (Cass. 13 luglio 2011, n. 15383; Cass. 2 marzo 2010, n. 4965; Cass. 24 ottobre 2006, n. 22835; Cass. 27 luglio 2006, n. 17141; Cass. 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. 28 aprile 2004, n. 8119; Cass. 18 marzo 1996, n. 2295; Cass. 23 dicembre 1994, n. 11138; Cass. 11 novembre 1986, n. 6587). La condotta del condomino che, senza il consenso degli altri partecipanti, proceda a scavi in profondità del sottosuolo, acquisendone la proprietà, finirebbe, in pratica, con l’attrarre la cosa comune nell’ambito della disponibilità esclusiva di quello. Sicché, avendosi nella specie riguardo all’utilizzazione del sottosuolo di un fabbricato compreso nel condominio, la configurabilità di uno spoglio denunciabile con azione di reintegrazione dall’amministratore condominiale, al fine di conseguire il recupero del godimento della cosa, sottratto illecitamente, postula il riscontro di una situazione di compossesso del sottosuolo medesimo, qui desunta dalla destinazione funzionale del bene (la Corte di Milano afferma in proposito di aver accertato un “rapporto imprescindibile di strumentalità con il fabbricato principale”), oltre che, “ad colorandam possessionem”, dalla sua verificata inclusione fra le parti comuni dell’edificio, nonché il riscontro ulteriore che l’indicata utilizzazione ecceda, appunto, i limiti segnati dalle concorrenti facoltà del compossessore (cfr. Cass. 4 dicembre 1974, n. 3965; Cass. 28 gennaio 1985, n. 432; Cass. 16 dicembre 2004, n. 23453). Del resto, la prova dell’animus spoliandi può essere desunta, per via di logica astrazione, dallo stesso comportamento dell’agente, e tale consapevolezza di mutare lo stato di fatto preesistente contro la volontà del Condominio, secondo l’incensurabile valutazione del giudice di merito, sarebbe stata implicita nella “situazione di fatto dei luoghi”.
Merita riportare anche la statuizione sul ricorso incidentale proposto da uno dei convenuti, poiché interesserà marginalmente l’amministratore ma assai profondamente il suo difensore: “Va altresì rigettato il ricorso incidentale proposto da Unicredit Leasing s.p.a., la quale deduce il proprio difetto di legittimazione passiva, in quanto semplice concedente del bene in locazione finanziaria all’utilizzatrice R.G. & c. s.a.s. Certamente l’art. 1168 c.c. configura la legittimazione passiva all’azione di reintegrazione secondo uno schema di tipo personale, sicché la domanda è esperibile contro l’autore dello spoglio. Vi sono, tuttavia, fattispecie in cui il provvedimento di reintegrazione va eseguito nella sfera possessoria o proprietaria di un soggetto estraneo all’episodio lesivo, ma vincolato al bene da un unico ed inscindibile rapporto giuridico. Sicché, quando l’attuazione della richiesta tutela possessoria imponga la rimozione dello stato di fatto abusivamente creato, con l’abbattimento di opere appartenenti in proprietà anche a terzi non presenti in giudizio, sussiste la necessità di integrare nei loro confronti il contraddittorio; altrimenti, la sentenza resa nei confronti soltanto dell’autore dello spoglio, e non anche del proprietario dell’opera, sarebbe “inutiliter data”, giacché la demolizione della cosa pregiudizievole inciderebbe sulla sua stessa esistenza e necessariamente quindi sulla proprietà di quel terzo pretermesso, a nulla rilevando, in contrario, che costui possa poi fare opposizione all’esecuzione nelle forme previste dall’art. 615 c.p.c. (Cass. 20 gennaio 2010, n. 921). Ora, poiché nell’operazione di leasing finanziario, quale quella che si assume intervenuta tra la concedente Locat S.p.a. e l’utilizzatrice R.G. & c. s.a.s., la proprietà del bene rimane in capo al concedente, attribuendosi lo stesso all’utilizzatore in forma di detenzione autonoma qualificata fino al momento dell’eventuale esercizio della facoltà di riscatto, sussiste la necessaria legittimazione passiva del medesimo concedente nell’azione di reintegrazione proposta da un terzo, qualora il ripristino della situazione anteriore allo spoglio debba avvenire con la demolizione di un’opera concernente il bene dato in godimento.”

© massimo ginesi marzo 2016

pubblicato su “amministrare immobili” marzo 2016

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