Una recente pronuncia del Tribunale apuano (Trib. Massa 26.4.2023) affronta un tema peculiare: la domanda rivolta da un singolo condomino unicamente al proprietario esclusivo di una terrazza a livello, sia in ordine ai danni patiti che alla eliminazione delle cause di infiltrazione.
Osserva il Tribunale che. “La circostanza che si tratti di responsabilità extracontrattuale ex art 2051 c.c. comporta che sussista fra i diversi responsabili solidarietà ex art 2055 c.c. e che, pertanto, la domanda possa essere accolta – con riferimento ai danni subiti dall’attrice – nell’ambito di tale previsione, secondo costante orientamento di legittimità: “La responsabilità per i danni derivanti dal lastrico solare o dalla terrazza a livello il cui uso non sia comune a tutti i condòmini deve essere ricondotta nell’ambito della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., con la conseguenza che dei relativi danni rispondono sia il proprietario, o usuario esclusivo quale custode del bene, sia il condominio in forza degli obblighi inerenti all’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore, ai sensi dell’art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull’assemblea dei condòmini ex art. 1135, comma 1, n. 4 c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria. Ne consegue che il rapporto di responsabilità che si instaura tra i diversi soggetti obbligati va ricostruito in termini di solidarietà, ai sensi dell’art. 2055 c.c., con esclusione del litisconsorzio necessario di tutti i presunti autori dell’illecito, sicché il danneggiato ben può agire nei confronti del singolo condòmino, senza obbligo di citare in giudizio gli altri.” (Cass. 516/2022).
La domanda relativa all’adozione delle opere necessarie a ripristinare l’efficienza della terrazza andrà invece rivolta al condominio (né parrebbe che sia stata esplicitamente azionata in questa sede), così come resta salva – aldilà del meccanismo di solidarietà previsto dall’art. 2055 c.c. – la facoltà dei convenuti di agire nei confronti del condominio per vedere imputato il danno, nei rapporti interni, secondo le previsioni di cui all’art. 1126 c.c. (o della diversa proporzione che dovesse risultare provata in quella sede).”
Ove nel condominio esista un fondo commerciale posto in corpo di fabbrica attiguo al fabbricato principale, la copertura piana di cui è dotato, ove non raccolga e smaltisca acque piovane del condominio, non svolga alcuna altra funzione comune e non veda diritti di calpestio di terzi, rimane bene della cui manutenzione deve gravarsi unicamente il proprietario del fondo.
E’ quanto ha stabilito di recente la suprema Corte (Cass.Civ. Sez. VI-2 ord. 20 giugno 2019 n. 16625 rel. Scarpa), rilevando che in tal caso l’applicazione dell’art. 1126 c.c. non potrà comportare responsabilità del condominio, non sussistendo nè funzione comune nè altre unità sottostanti la copertura nè, tantomeno, potrà ipotizzarsi una sua responsabilità come custode.
“Secondo orientamento giurisprudenziale consolidato, la responsabilità concorrente del condominio con il proprietario o usuario esclusivo di un lastrico solare o di una terrazza a livello, per i danni da infiltrazione nell’appartamento sottostante, in base ai criteri di cui all’art. 1126 c.c., suppone che il lastrico o la terrazza – indipendentemente dalla sua proprietà o dal suo uso esclusivo -, per i suoi connotati strutturali e funzionali, svolga funzione di copertura del fabbricato, ovvero di più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a diversi proprietari (arg. da Cass. Sez. U, 07/07/1993, n. 7449; Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449).
L’obbligo del condominio di concorrere al risarcimento dei danni da infiltrazioni cagionate dal lastrico solare o dalla terrazza a livello che non sia comune, ex art. 1117 c.c., a tutti i condomini, è quindi correlato all’accertamento in concreto di tale funzione di copertura dell’intero edificio, o della parte di esso cui il bene «serve», in quanto superficie terminale del fabbricato.
Se, come accertato nel caso in esame, la terrazza a livello sovrasta soltanto un piano terraneo di proprietà esclusiva, costituendo un autonomo corpo di fabbrica rispetto all’edificio condominiale (a prescindere dalla questione della sua estraneità alla “presunzione” di condominialità, su cui si sofferma la Corte d’Appello di Napoli e che è invece irrilevate ai fini dell’art. 1126 c.c.), l’inconfigurabilità di una responsabilità risarcitoria concorrente del condominio, da quantificare secondo il criterio di imputazione previsto dall’art. 1126 c.c., discende dal difetto della funzione di copertura e protezione dell’edificio, che costituisce la ratio di tale disposizione.”
Su detto lastrico finivano anche scarichi abusivi di alcuni condomini, per i quali, parimenti, non può invocarsi alcuna responsabilità del condominio: “ La fattispecie di cui all’art. 2051 c.c., in tema di responsabilità civile per i danni cagionati da cose in custodia, postula la sussistenza di un rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo.
In tal senso, il condominio di un edificio può intendersi custode dei beni e dei servizi comuni, e perciò obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le parti comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, rispondendo dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini.
Viceversa, il singolo condomino non può pretendere di affermare la responsabilità del condominio, a norma dell’art. 2051 c.c., per il risarcimento dei danni sofferti a causa del cattivo funzionamento di tubazioni di scarico delle acque destinate a servizio esclusivo di proprietà individuali, di cui alcune (come nella specie, accertato in base a giudizio di fatto demandato al giudice del merito) pure estranee al complesso condominiale, essendo il condominio stesso tenuto alla custodia ed alla manutenzione unicamente delle parti e degli impianti comuni dell’edificio.
L’eliminazione delle caratteristiche di una cosa, che rendono questa atta a produrre danno, deve essere chiesta nei confronti del proprietario-possessore della cosa stessa, la cui responsabilità è presunta a norma dell’art. 2051 c.c.”
La corte di legittimità (Cass.Civ. sez.VI-2 ord. 12 settembre 2018 n. 22156 rel. Scarpa) ritorna sui differenti concetti di aspetto e decoro architettonico, cod.civ. riguardo alla tutela accordata dal codice in caso di sopraelevazione: il nuovo corpo – per essere lecito – deve rispettare le linee estetiche del fabbricato, inserendosi armonicamente nel suo aspetto complessivo.
La vicenda riguarda la demolizione di una veranda in vetro e alluminio realizzata sulla terrazza sommitale di un fabbricato romano, ritenuta dai giudici di merito illecita in quanto destinata ad alterare l’aspetto complessivo dell’edificio, pronuncia che ha resistito al vaglio della Cassazione, che ha osservato:
“E’ noto come l’art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.
L’aspetto architettonico, cui si riferisce l’art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all’impatto della sopraelevazione sull’aspetto architettonico dell’edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile condominiale, e verificando l’esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato (cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048; Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
D’altro canto, questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l’una dall’altra, sicché anche l’intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. Sez. 6 – 2, 25/08/2016, n. 17350).
Ora, perché rilevi la tutela dell’aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell’art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l’edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento.
Ciò premesso, è agevole osservare che la Corte di Roma, riconoscendo — in conformità ai principi sopra ricordati – il carattere lesivo dell’aspetto architettonico della veranda realizzata da N. T., ha fornito una motivazione adeguata e pienamente condivisibile alla stregua del comune senso estetico, sottolineando come il manufatto disperda quella uniformità che attribuisce all’edificio un aspetto ancora ordinato e dignitoso.
La preesistenza di una veranda, oggetto di precedente giudizio, è stata correttamente ritenuta non determinante dalla Corte d’appello, perché essa non rende certamente ininfluenti gli ulteriori fatti lesivi e, quindi, non ne può costituire valida giustificazione.”
Un condomino provvede a lavori di ripristino della propria terrazza a livello, dalla quale derivano copiose infiltrazioni all’unità sottostante, e poi chiede in giudizio il rimborso agli altri condomini in ragione delle quote previste dall’art. 1126 cod.civ.; costoro solo in secondo grado contestano la sussistenza dell’urgenza e rilevano anche che l’iniziativa del singolo ha pregiudicato il loro diritto a beneficiare delle consentite detrazioni fiscali per interventi similari.
Dapprima il Giudice di Pace di Alghero e poi il Tribunale di Sassari accolgono la domanda; contro le statuizioni di merito ricorrono per cassazione i soccombenti, le cui istanze vengono rigettate anche in tale sede (Cass.Civ. sez. II ord. 28 febbraio 2018 n. 4684 rel. Scarpa).
La corte di legittimità ripercorre i principi consolidati in tema di spese anticipate dal singolo, di responsabilità per danni derivanti dal lastrico e sottolinea come la detraibilità fiscale dell’intervento sia una facoltà e non un obbligo, sì che non può ritenersi sussistente pregiudizio in tal senso.
“Non è dubbio che, ai fini dell’applicabilità dell’art 1134 c.c. (nella formulazione qui operante ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), il condomino che ha fatto spese per le cose comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente; né può confutarsi che debba considerare “urgente” la sola spesa la cui erogazione non possa essere differita, senza danno o pericolo, fino a quando l’amministratore o l’assemblea dei condomini possano utilmente provvedere.
E’ altresì inevitabile ribadire che la prova dell’indifferibilità della spesa incombe sul condomino che chiede il rimborso, il quale deve dimostrare, a tal fine, la sussistenza delle condizioni che imponevano di provvedere senza ritardo e che impedivano di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini (così da ultimo Cass., Sez. 6 -2, 16/11/2017, n. 27235; e già, tra le tante, Cass. Sez. 2, 12/09/1980, n. 5256).”
La corte ribadisce tuttavia che il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. vale anche nel processo dinanzi al Giudice di Pace, di talchè correttamente il tribunale di Sassari aveva ritenuto provata la circostanza: “Quanto tuttavia residui come fatto incontroverso tra le parti, rimane per ciò solo non bisognoso di prova; di tal che, pure il fatto dell’urgenza ex art. 1134 c.c., posto dall’attore a fondamento della domanda di rimborso delle spese anticipate, se non contestato dal convenuto, deve essere considerato incontroverso e non richiedente una specifica dimostrazione, né la contestazione di fatti originariamente non contestati può poi essere ammessa in appello.
I ricorrenti, avendo la sentenza impugnata rilevato che essi avevano tenuto in primo grado una condotta processuale di non contestazione, avrebbero pertanto dovuto innanzitutto allegare e dimostrare l’erroneità di tale statuizione, indicando specificamente in ricorso, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., gli atti difensivi in cui fosse stata sin dall’inizio opposta l’insussistenza dell’urgenza ex art. 1134 c.c. (cfr. tra le tante Cass. Sez. 3, 09/08/2016, n. 16655; Cass. Sez. 6 – 1, 12/10/2017, n. 24062). Ric. 2014″
Osserva ancora la Corte che “l’infondatezza delle censure articolate deriva altresì dall’operatività del principio già affermato in giurisprudenza, per cui il dovere di contribuzione dei condomini ai costi di manutenzione di un terrazzo di proprietà esclusiva non fonda sull’applicazione degli artt. 1110 e 1134 c.c., siccome postulanti spese inerenti ad una cosa comune, ma trova la propria ragione, ex art. 1126 c.c., nell’utilità che i condomini sottostanti traggono dal bene, fermo poi il diverso profilo della qualificazione dell’azione che garantisca il rimborso delle somme eventualmente anticipate per intero dal titolare del diritto esclusivo (così Cass. Sez. 2, 09/01/2017, n. 199).
Quanto alla questione posta col terzo motivo, ove si lamenta che il V. avrebbe dovuto dimostrare che i danni non erano dovuti a fatti a lui imputabili, vale piuttosto il principio enunciato da Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449, per cui qualora l’uso del lastrico solare o della terrazza a livello non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia, appunto, il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull’assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n.4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria.”
In merito alle agevolazioni fiscali il giudice di legittimità sottolinea che “neppure può incidere sulla sussistenza e sulla misura del credito del V. per il rimborso delle quote anticipate, con riguardo alla riparazione del terrazzo a livello, l’allegata circostanza che lo stesso controricorrente non si fosse avvalso delle detrazioni in ragione della spesa sostenuta per l’intervento edilizio, in forza dell’art.1 della legge 27 dicembre 1997, n. 449.
Tale detrazione è, infatti, oggetto di una facoltà, e non di un obbligo, per il creditore; peraltro, di essa, sempre che si tratti di lavori eseguiti su parti condominiali, possono beneficiare tutti i comproprietari che abbiano in concreto provveduto ai relativi pagamenti, salva la regolamentazione dei loro rapporti interni e la delega conferita ad uno di essi ad eseguire i bonifici.”
Cass.Civ. sez. VI 25 gennaio 2018 n. 1850 rel. Scarpa fornisce (finalmente) la corretta chiave di lettura di un orientamento giurisprudenziale che in questi anni è stato, spesso immotivatamente e arbitrariamente, utilizzato dai singoli condomini in modo assai strumentale (e infondato).
Il tetto è un bene comune e non è consentita la sua trasformazione ad libitum, da parte del proprietario del sottotetto, in una terrazza a proprio uso esclusivo.
Dopo lunghi anni in cui si era ritenuto che la destinazione ad uso esclusivo di una parte comune richiedesse il consenso di tutti gli aventi diritto, nel 2012 la Cassazione (Cass.civ. sez. II 3 agosto 2012 n. 14107) aveva dato una lettura dinamica delle norme in tema di proprietà, ritenendo lecita l’iniziativa ove avesse una modesta incidenza sul manufatto comune e fosse inidonea a distrarlo dalla sua destinazione funzionale primaria.
Oggi la Corte sottolinea con rigore i limiti di ammissibilità dell’intervento: “Il precedente giurisprudenziale, che la ricorrente invoca e che cita la stessa sentenza impugnata, ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, ma sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14107; si veda anche Cass. Sez. 6 – 2, 04/02/2013, n. 2500). E
E’ evidente come l’accertamento circa la non significatività del taglio del tetto praticato per innestarvi la terrazza di uso esclusivo (non significatività, nella specie, del tutto negata dalla Corte di Venezia, la quale ha piuttosto accertato come fosse stata realizzata una terrazza avvolgente, corrente lungo i lati nord, est e sud dell’appartamento della ricorrente) e circa l’adeguatezza delle opere eseguite per salvaguardare, la funzione di copertura e protezione dapprima svolta dal tetto (adeguatezza del pari negata dalla Corte d’appello, la quale ha riscontrato l’apposizione sulla terrazza della stessa pavimentazione dei locali sottotetto) è riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.c.
Con riferimento all’utilizzazione della cosa comune da parte di un singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, il riscontro dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c. è frutto di un’indagine di fatto, mediata dalla valutazione delle risultanze probatorie, che non può essere sollecitata ulteriormente tramite il ricorso per cassazione, come se esso introducesse un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata.”
E’ noto che, per lungo tempo, la Cassazione abbia ritenuto illegittima la realizzazione di terrazza a tasca sul tetto comune, da parte del singolo proprietario dell’unità sottostante, sull’assunto che tale iniziativa comporta l’attrazione di un bene comune nella sfera personale del singolo.
Nel 2012 la Suprema Corte aveva stabilito che l’iniziativa deve considerarsi lecita, nell’ottica di un utilizzo dinamico della proprietà, ove l’intervento sia modesto e non comporti apprezzabile sottrazione del bene comune (Cass.civ. sez. II 3 agosto 2012 n. 14107).
Non sono mancate, anche di recente, interpretazioni della giurisprudenza di merito assai bizzarre.
Cass.civ. sez. II 11 settembre 2017 n. 21049 chiarisce che, per la realizzazione di una terrazza a tasca che comporti significativa trasformazione del tetto, occorre il consenso di tutti gli altri condomini, poiché è condotta che supera la previsione dell’art. 1102 cod.civ.
Di interesse invece la conferma che l’intervento sia consentito ove risulti di modesta entità e non incida in maniera significativa sul bene comune, sia nella sia funzione che nella sua attitudine al pari utilizzo da parte degli altri condomini.
La Suprema Corte ripercorre i principi cardine delle servitù, avuto riguardo a controversia sorta in ambito condominiale (Cass.civ. sez. II ord. 31 agosto 2017 n. 20614 rel. Scarpa).
La causa ha ad oggetto un diritto di servitù di passo, vantato da una condomina sul terrazzo di un altro condomino, domanda peraltro disattesa sia in primo che in secondo grado: “Il giudizio aveva avuto inizio con citazione del 18 febbraio 1993 formulata da R. M., la quale convenne davanti al Tribunale di Roma F.F., chiedendone la condanna alla riduzione in pristino ed al risarcimento dei danni correlati ai lavori di modificazione del terrazzo di proprietà F, compreso nel Condominio di via V. 18, Roma, in quanto gravato, a dire dell’attrice, da servitù di passaggio a vantaggio del terrazzo annesso all’appartamento di proprietà M.”
La Cassazione – nel respingere anche in sede di legittimità la domanda – ripercorre alcuni passaggi essenziali in tema di diritti reali e di servitù in particolare:
a) incombe a colui che agisce per vedere riconosciuto un diritto reale fornire la prova di essere titolare di quel diritto: “la Corte d’Appello ha proceduto all’interpretazione della domanda di R. M., e ciò nell’esercizio di prerogativa che spetta al giudice del merito, ed ha evidentemente qualificato l’azione come una “confessoria servitutis”, ai sensi dell’art. 1079 c.c. Incombeva pertanto certamente sull’attrice l’onere di provare l’esistenza del relativo diritto di passaggio sul limitrofo terrazzo di proprietà F, ovvero la costituzione della servitù per contratto, testamento, usucapione o destinazione del padre di famiglia, presumendosi la libertà del fondo, che si pretende servente, da pesi e limitazioni (cfr. Cass. Sez. 2, 11/01/2017, n. 472; Cass. Sez. 2, 08/09/2014, n. 18890).”
Se l’attrice avesse ritenuto (ma ciò non appare, invero, nemmeno specificamente allegato in sede di ricorso) che la costituzione della vantata servitù di passaggio fosse avvenuta per destinazione del padre di famiglia, allora le sarebbe spettato di fornire prova di opere visibili e permanenti realizzate al preciso scopo di dare accesso al preteso fondo dominante attribuito a A. M. A. P. (dante causa di F. C., a sua volte dante causa di R. M.) attraverso quello preteso servente attribuito a V. A. P. (dante causa di F. F.), opere predisposte dall’unica proprietaria B. P., e preesistenti al momento il cui il fabbricato di via Venezia 18 venne diviso fra più proprietari con l’atto pubblico del 20 gennaio 1942 (cfr. Sez. 2, Cass. 05/04/2016, n. 6592). Altrimenti, ove la servitù posta dalla ricorrente a base della sua azione confessoria fosse stata fondata su un contratto, le occorreva, stante l’esigenza di forma ad substantiam posta dall’art. 1350, n. 4, c.c., di dar prova di un atto scritto che consacrasse la esplicita manifestazione di volontà negoziale di costituire, a favore della proprietà di A. M. A. P. (ovvero di F. C., ovvero ancora della stessa R. M.) una servitù di passaggio convenzionale sul terrazzo di proprietà di V. A. P. (ovvero di F.F.).
b) il titolo non trascritto non è opponibile agli acquirenti successivi, salvo che gli stessi non abbiano riconosciuto l’esistenza del diritto nell’atto di acquisto: “Ove si trattasse di un contratto di costituzione della servitù comunque non trascritto (come quello del 15 aprile 1972), esso non sarebbe stato opponibile a chi, come il F., abbia acquistato il proprio appartamento come libero ed abbia trascritto il proprio titolo; a meno che il terzo, acquirente a titolo particolare dell’immobile interessato da servitù di passaggio in base a titolo non trascritto, non avesse, all’atto dell’acquisto, dichiarato di essere a conoscenza dell’atto costitutivo della servitù e manifestato la volontà di subentrare in tutti i diritti e gli obblighi scaturenti dalla relativa scrittura (Cass. Sez. 2, 07/01/1978, n. 46).
c) le dichiarazioni unilaterali, seppur formali, del titolare del fondo dominante non hanno alcun rilievo ai fini della costituzione (o del riconoscimento) del diritto: “Né può ovviamente valere a dire costituita la servitù la dichiarazione unilaterale della donante A.M. A. P., contenuta nell’atto di donazione del 15 gennaio 1981, quanto all’esistenza dell’ “accesso da terrazzo di proprietà di F. F.”; essa dà luogo ad un’irrilevante ricognizione della servitù proveniente dalla proprietaria del fondo dominante, del tutto priva di una funzione sostanziale idonea a supplire alla mancanza genetica del titolo costitutivo della servitù stessa, da porre a carico del fondo di un terzo non partecipe al contratto”.
Una recentissima sentenza della suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 28 luglio 2017 n. 18891 rel. Scarpa) affronta una ipotesi di frequente verificazione nella pratica, riprendendo un consolidato orientamento di legittimità e applicandolo ad una peculiare fattispecie in tema di vizi dell’immobile venduto.
La vicenda attiene alla vendita di un’un Italia immobiliare sita in condominio, dalla cui terrazza a livello derivavano infiltrazioni nei locali sottostanti.
Il compratore si era avvisto di tale circostanza solo dopo che erano trascorsi due anni dall’acquisto, poiché se ne era lamentato il proprietrio dell’unità danneggiata; dalla CTU svolta in primo grado era emerso che “lo stillicidio proveniente dal terrazzo dovesse farsi risalire ad epoca ben anteriore al novembre 2003, visti i tempi occorrenti per l’emersione di un fenomeno di dilavamento”, sicché l’acquirente assume che il vizio gli sia stato dolosamente sottaciuto dai venditori e promuove azione contro costoro.
In primo grado ottiene ragione dal Tribunale di Roma, sull’assunto che non potesse operare nel caso di specie la prescrizione di cui all’art. 1495 cod.civ., avendo i venditori occultato il vizio.
Il secondo grado di merito conduce ad esiti opposti: “La Corte d’Appello osservava come la prescrizione della garanzia dovuta dal venditore, ai sensi dell’art. 1495, comma 3, c.c., si compie “in ogni caso in un anno dalla consegna”, indipendentemente dal tempo della scoperta e dalla valutazione della condotta del venditore, sicchè, avendo le parti stabilito all’art. 6 dell’atto 1 ottobre 2001 che il compratore veniva immediatamente immesso nel possesso dell’immobile, l’azione doveva dirsi prescritta già in data 1 ottobre 2002, mentre la domanda era stata avanzata soltanto il 25 novembre 2004. La Corte di Roma escludeva altresì ogni responsabilità dei venditori ai sensi dell’art. 1669 c.c., in quanto norma disciplinante “esclusivamente la responsabilità dell’appaltatore, qualità non rivestita dalla parte venditrice”.
La vicenda giunge in cassazione ove, con ampia ed interessante disamina che merita integrale lettura, si dichiara l’infondatezza del primo motivo di ricorso, relativo alla applicazione dell’art. 1495 cod.civ. al caso di specie: “Secondo l’orientamento del tutto consolidato di questa Corte, che viene qui ribadito, in tema di compravendita, l’azione del compratore contro il venditore per far valere la garanzia a norma dell’art. 1495 c.c. si prescrive, alla stregua del comma 3 di tale disposizione, in ogni caso nel termine di un anno dalla consegna del bene compravenduto, e ciò anche se i vizi non siano stati scoperti o non siano stati tempestivamente denunciati o la denuncia non fosse neppure necessaria, sempre che la consegna abbia avuto luogo dopo la conclusione del contratto, coincidendo, altrimenti, l’inizio della prescrizione con quest’ultimo evento (Cass. Sez. 2 , 05/05/2017, n. 11037; Cass. Sez. 6 – 2, 15/12/2011, n. 26967; Cass. Sez. 2, 11/09/1991, n. 9510 ; Cass. Sez. 2, 22/07/1991, n. 8169).
Diversamente, il termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta del vizio occulto, sempre inerente la garanzia ai sensi dell’art. 1495 c.c., decorre dal momento in cui il compratore ne abbia acquisito certezza obiettiva e completa (cfr. Cass. Sez. 2, 27/05/2016, n. 11046). Ancora diversamente, in tema di appalto, qualora l’opera appaltata sia affetta da vizi occulti o non conoscibili, perché non apparenti all’esterno, il termine di prescrizione dell’azione di garanzia, ai sensi dell’art. 1667, comma 3, c.c., decorre dalla scoperta dei vizi, la quale è da ritenersi acquisita dal giorno in cui il committente abbia avuto conoscenza degli stessi (Cass Sez. 3, 22/11/2013, n. 26233; Cass. Sez. 3, 19/08/2009, n. 18402).
Agli effetti dell’art. 1495, comma 3, c.c., la consegna è quella, effettiva o materiale, eseguita in forza del contratto di vendita, ovvero attuata contemporaneamente alla conclusione del contratto (come avvenuto nella specie, secondo quanto accertato in fatto di giudici del merito) o in seguito ad essa. Il termine decorre dalla consegna, pertanto, «in ogni caso» (come si esprime la norma in esame), indipendentemente, cioè dal rilievo fattuale che, nonostante l’avvenuta consegna, non fosse ancora possibile la scoperta del vizio da parte del compratore, e quindi anche se il medesimo vizio fosse stato dolosamente occultato dal venditore con espedienti o raggiri, il che rende, piuttosto, non necessaria la denuncia (art. 1495 comma 2, c.c.), giustificandosi tale soluzione alla luce dell’esigenza di evitare che i rapporti negoziali restino per lungo tempo sospesi, ma anche, e soprattutto, di rendere più agevole l’accertamento della sussistenza, della causa e della entità dei vizi (arg. da Cass. Sez. 3, 17/09/1963, n. 2540).
In dottrina si sostiene come, ove il venditore abbia indotto con raggiri il compratore ad acquistare una cosa viziata, ferma comunque la decorrenza della prescrizione dalla consegna del bene, è ammissibile piuttosto, in concorrenza con la garanzia, l’azione di annullamento del contratto per dolo (la cui prescrizione è diversamente regolata dall’art. 1442, comma 2, c.c.), mentre è pure possibile invocare la sospensione della prescrizione dell’azione di garanzia fin quando il compratore non abbia scoperto i vizi, ma ciò in base all’art. 2941, n. 8, c.c., secondo il quale la prescrizione resta, appunto, sospesa ove il debitore abbia dolosamente occultato l’esistenza del debito, e fino alla scoperta di esso.
A tal fine, questa Corte ha già affermato che, per la sospensione della prescrizione dell’azione di garanzia accordata al compratore, agli effetti dell’art. 2941, n. 8, c.c., occorre accertare la sussistenza di una dichiarazione del venditore, non solo obiettivamente contraria al vero, quanto altresì caratterizzata da consapevolezza dell’esistenza della circostanza taciuta e da conseguente volontà decipiente (Cass. Sez. 2, 20/08/2013, n. 19240). Le questioni poste dall’art. 1442, comma 2, c.c. e dall’art. 2941, n. 8, c.c., sono tuttavia, diverse da quelle cui fa specifico riferimento il primo motivo di ricorso, che indica, quale norma regolatrice della fattispecie, unicamente l’art. 1495, comma 3, c.c., e critica perciò la soluzione adottata dalla Corte d’appello di Roma mediante argomentazioni intese a dimostrare che le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata siano in contrasto esclusivamente con tale norma.”
E’ invece accolta la tesi sulla applicabilità al caso di specie, della garanzia ex art. 1669 cod.civ. che trova applicazione – secondo una recente pronuncia delle sezioni unite – anche in caso di ristrutturazione e che fa pertanto assumere al venditore – che abbia proceduto a lavori qualificanti sul bene – la posizione di garanzia dell’appaltatore: “La Corte d’appello di Roma ha negato ogni responsabilità dei venditori pure ai sensi dell’art. 1669 c.c., in quanto norma ritenuta disciplinante “esclusivamente la responsabilità dell’appaltatore, qualità non rivestita dalla parte venditrice.
La decisione di tale questione di diritto adotatta dai giudici d’appello contrasta con l’interpretazione più volte ribadita da questa Corte, per la quale l’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili, prevista dall’art. 1669 c.c., nonostante la collocazione della norma tra quelle in materia di appalto, può essere esercitata, in ragione della sua natura extracontrattuale, non solo dal committente contro l’appaltatore, ma anche dall’acquirente nei confronti del venditore che risulti fornito della competenza tecnica per dare direttamente, o tramite il proprio direttore dei lavori, indicazioni specifiche all’appaltatore esecutore dell’opera, ed abbia perciò esercitato un potere di direttiva o di controllo sull’impresa appaltatrice, tale da rendergli addebitabile l’evento dannoso (così Cass. Sez. 2, 17/04/2013, n. 9370; Cass. Sez. 2, 16/02/2012, n. 2238; Cass. Sez. 2, 29/03/2002, n. 4622).
La responsabilità del venditore, in ordine alla conseguenze dannose dei gravi difetti di costruzione incidenti profondamente sugli elementi essenziali dell’opera e che influiscono sulla durata e solidità della stessa, compromettendone la conservazione, è configurabile sia quanto questi abbia costruito l’immobile e lo abbia poi alienato all’acquirente, sia quando il medesimo venditore abbia incaricato un terzo appaltatore della costruzione del bene prima della sua vendita (arg. da Cass. Sez. 2, 16/02/2006, n. 3406).
Di recente, Cass. Sez. U, 27/03/2017, n. 7756, componendo il contrasto di pronunce esistente sul punto, ha stabilito che l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo.
Risulta, nel caso in esame, accertato in fatto che i venditori B – L, alcuni anni prima di alienare ad E.F. l’appartamento sito in Roma, via P 11, avessero dato incarico da un’impresa appaltatrice di eseguire lavori di totale rifacimento della pavimentazione e dell’impermeabilizzazione del terrazzo.
Deve pertanto essere enunciato il seguente prinicpio di diritto: “L’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili, di cui all’art. 1669 c.c.c, può essere esercitata anche dall’acquirente nei confronti del venditore che, prima della vendita, abbia fatto eseguire sull’immobile ad un appaltatore, sotto la propria direzione ed il proprio controllo, opere di ristrutturazione edilizia o interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, che rovinino o presentino gravi difetti”
Un condomino procede al taglio di alcune travi del solaio per mettere in comunicazione il proprio appartamento con il sovrastante lastrico solare di uso esclusivo, realizzando comunque adeguato intervento statico e una bussola a copertura del passaggio, che salvaguarda la funzione di copertura del manufatto.
Il Tribunale di Trieste ha riteneto tale attività perfettamente nei limiti di cui all’att. 1102 cod.civ., mentre la Corte di Appello di Trieste – assai singolarmente – ha ritenuto l’intervento illecito: “ La Corte territoriale ha dato, circa l’alterazione del bene comune (che non consente di applicare l’art. 1102 cod. civ.) una “interpretazione (non suffragata né da dottrina né da giurisprudenza) limitatissima sul punto”, posto che “il solo fatto di un intervento sul bene comune con l’eliminazione di alcune travi ne determinerebbe la sua alterazione”
La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile, 10 marzo 2017, n. 6253) accoglie l’impugnativa, ribadendo i principi consolidati in materia: “Il ricorso è fondato perché la Corte locale, nel ritenere l’intervenuta violazione dell’art. 1102 cod. civ., ha affermato che “non può dubitarsi che si sia realizzata l’alterazione della cosa comune, dal momento che è pacifico che D.P. sia intervenuto sulle travi portanti del tetto tagliandole”.
La Corte di appello non ha considerato che di per sé il taglio delle travi del solaio, ove non ulteriormente valutato anche con riguardo alla statica e comunque agli altri limiti dettati dall’art. 1102 cod. civ., non può determinare l’alterazione della cosa comune che ne impedisce l’uso ai sensi della norma civilistica in questione. Al riguardo, questa Corte di recente ha avuto occasione di affermare i seguenti condivisi principi di diritto:
a) “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene. (Sez. 2, Sentenza n. 14107 del 03108/2012, Rv. 623614)”;
b) “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può effettuarne la parziale trasforma ione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti – da un giudizio di fatto, sindacabile in sede di legittimità solo riguardo alla motivazione – che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso. (Se 6 – 2, Ordinanza n. 2500 del 04/ 02/ 2013, Rv. 624921)”. Inoltre, occorre anche tener conto della peculiarità del caso in esame, nel quale è pacifico che l’apertura in questione è stata realizzata per mettere in collegamento l’appartamento di proprietà del D.P. con il sovrastante lastrico solare in suo uso esclusivo. La Corte locale in tale situazione avrebbe dovuto con un’adeguata motivazione individuare la specifica violazione dei limiti di cui alla norma citata, non potendosi appunto ritenere che il solo necessario taglio delle travi ne integrasse la violazione, dovendosi altrimenti ritenere inibito qualsiasi intervento sulla cosa comune. La Corte locale avrebbe dovuto quindi specificamente valutare, adeguatamente motivando, la violazione degli altri limiti indicati, anche con la realizzazione della bussola a copertura della nuova apertura. 3. L’accoglimento del ricorso nei limiti di cui in motivazione, determina la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Trieste, che procederà ad un nuovo esame e regolerà anche le spese del giudizio di cassazione”
La Suprema Corte ribadisce un principio consolidato: l’assenza di parapetto su un lastrico solare normalmente praticabile e dal quale è possibile affacciarsi sul fondo del vicino non è di per se indice dell’esistenza di un diritto di veduta ma, semmai, comporta la sussistenza di una luce irregolare, in ordine alla quale il proprietario del fondo confinante può sempre chiedere che venga ricondotta ai parametri previsti dall’art. 901 cod.civ., sì che sia impossibile l’affaccio.
La sentenza merita lettura integrale per la puntuale e rigorosa motivazione sia sul diritto di veduta dal lastrico in condominio, sia relativamente alla costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia.