La Corte di legittimità (Cass.civ. sez. VI ord. 12.10.2021 n. 27849) ribadisce che i crediti nei confronti dei singoli condomini, relativi ad esercizi precedenti e riportati in consuntivo valgono quale titolo per la riscossione:
“Va ribadito che il consuntivo per successivi periodi di gestione che, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi dell’art. 1137 c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non costituendo “un nuovo fatto costitutivo del credito” stesso (cfr. Cass. n. 4489/2014; Cass. n. 20006/2020).
In tal caso vige il principio che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su di esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale con cui siano state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. n. 7569/1994).
La delibera condominiale di approvazione costituisce, così, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme: l’ambito dell’opposizione è ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza e validità della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. s.u. n. 26629/2009; Cass. n. 5254/2011; Cass. n. 4672/2017). In sostanza, dall’approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore, che è munito della forza vincolante propria degli atti collegiali, ai sensi dell’art. 1137 c.c., comma 1 (Cass. n. 4306/2018), discende l’insorgenza, e quindi anche la prova, dell’obbligazione in base alla quale ciascuno dei condomini è tenuto a contribuire alle spese ordinarie per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni dell’edificio (Cass. n. 11981/1992). Nello specifico, il tribunale ha rilevato che la delibera di approvazione del consuntivo 2017 non era stata impugnata, benché il S. fosse presente all’assemblea, deducendone correttamente che nessuna contestazione poteva esser sollevata nel giudizio di opposizione, essendosi la delibera ormai consolidata.”
Le aree esterne all’edificio condominiale, destinate a parcheggio e che non vedano una attribuzione specifica di proprietà in forza del titolo devono ritenersi comuni ex art 1117 c.c. e gravate dal vincolo di destinazione – ove ne abbiano le caratteristiche – di cui alla speciale normativa urbanistica, dettata dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, in forza della quale le stesse – anche se rimaste in proprietà del costruttore – sono gravate da un diritto reale d’uso in favore dei condomini.
E’ quanto afferma Cass.civ. sez. VI-2 10 settembre 2020 n. 18796 rel. Scarpa, che chiarisce come, relativamente a quei beni, l’amministratore possa lecitamente attivarsi con atti conservativi verso coloro che compiano atti diretti ad appropriarsene o comunque a sottrarli al godimento comune.
“La Corte d’Appello di L’Aquila ha dapprima ricapitolato i termini della questione, evidenziando come gli atti autorizzativi del Comune di Martinsicuro avessero individuato l’area in contesa come adibita a parcheggio, mentre poi alcuni atti di vendita e le schede di accatastamento indicavano tale area come pertinenza dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva sita al piano terra.
Di seguito, l’impugnata sentenza ha comunque ritenuto in via pregiudiziale di dover negare la legittimazione ad agire dell’amministratore del condominio con riguardo ad area gravata dal vincolo di destinazione a parcheggio.
In tal modo, la Corte di L’Aquila non si è uniformata alla consolidata interpretazione di questa Corte, secondo cui la speciale normativa urbanistica, dettata dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, si è limitata a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio, determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio, senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione.
In particolare, l’area esterna di un edificio condominiale, della quale manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio (ovvero, nel primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, che possa perciò valere come titolo contrario alla presunzione di condominialità) va ritenuta parte comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c.
Da ciò consegue la legittimazione dell’amministratore di condominio ad esperire, riguardo ad essa, le azioni contro i singoli condomini o contro terzi dirette ad ottenere il ripristino dei luoghi ed il risarcimento dei danni, giacché rientranti nel novero degli “atti conservativi”, al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130 c.c., n. 4 (Cass. Sez. VI-2, 21/02/2018, n. 4255; Cass. Sez. 6 2, 08/03/2017, n. 5831; Cass. Sez. 2, 16/01/2008, n. 730; Cass. Sez. 2, 18/07/2003, n. 11261).”
La Cassazione (Cass.civ. sez. II ord. 17 febbraio 2020 n. 3860 rel. Scarpa) affronta in maniera approfondita – confermando orientamenti consolidati – la natura giuridica del sottotetto di un edificio condominiale, ribadendo che – laddove tale vano appaia funzionalmente destinato ad assolvere funzioni comuni – dovrà ritenersi tale ai sensi dell’art. 1117 c.c., competendo a colui che invece ne pretende la titolarità esclusiva l’onera di dar prova dei relativi presupposti : “Secondo, tuttavia, la consolidata interpretazione di questa Corte, che la sentenza impugnata ha del tutto trascurato, sono comunque oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con modifica, in parte qua, di natura interpretativa, proprio dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220) i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune (Cass. civ. III, n. . Sez. 6-2, 14/02/2018, n. 3627; Cass, Sez. 6 – 2, 10/03/2017, n. 6314; Cass. Sez. 2, 02/03/2017, n. 5335; Cass. Sez. 2, 23/11/2016, n. 23902; Cass. Sez. 2, 30/03/2016, n. 6143; Cass. Sez. 2, 20/06/2002, n. 8968; Cass. Sez. 2, 20/07/1999, n. 7764).
Altrimenti, soltanto ove non sia evincibile il collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà supposto dall’art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la destinazione all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, giacché lo stesso sottotetto assolve all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non ha dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di tale appartamento.
La proprietà del sottotetto si determina, dunque, in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto: nel caso in esame, la Corte di Appello di Milano non ha compiuto alcun accertamento sulle funzioni e sulle caratteristiche strutturali del locale sottotetto, né, al contrario, sulla destinazione pertinenziale dello stesso a servizio di appartamenti di proprietà esclusiva, erroneamente supponendo che la natura condominiale di tale bene dovesse negarsi soltanto perché non stabilita convenzionalmente nel contratto del 2 febbraio 1979 o nel regolamento condominiale
Ove dunque il sottotetto dell’edificio di via C… , Milano, risultasse destinato, per sue caratteristiche funzionali e strutturali, all’uso comune, occorrerà verificare il momento di costituzione del condominio, con riferimento all’atto con cui l’originario unico proprietario ne operò il frazionamento, alienando ad un terzo la prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione...
In presenza di un sottotetto posto in rapporto di accessorietà con l’intero edificio o parte di esso, e dunque di uso comune, e non invece destinato pertinenzialmente ad una determinata unità immobiliare di proprietà individuale, per escluderne la condominialità si dovrà accertare che il titolo costitutivo del condominio, ovvero il primo atto di trasferimento di una porzione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, recasse una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente al venditore o ad uno dei condomini la proprietà di detta parte, sì da escluderne gli altri (Cass. Sez. 2, 18/12/2014, n. 26766; Cass. Sez. 2, 19/11/2002, n. 16292).
La circostanza che gli atti di vendita, come le correlate note di trascrizione, non contenessero espressa menzione del trasferimento della comproprietà dei sottotetti, se destinati all’uso comune, non è in alcun modo sufficiente a superare la presunzione posta dall’art. 1117 c.c., la quale, al contrario, comporta che all’atto stesso consegua l’alienazione, unitamente alla porzione esclusiva, della corrispondente quota di condominio su dette parti comuni. Stando, infatti, al consolidato orientamento di questa Corte, una volta accertata la sussistenza di una situazione di condominio di edifici, le vicende traslative riguardanti i piani o le porzioni di piano di proprietà individuale estendono i loro effetti, secondo il principio “accessorium sequitur principale”, alle parti comuni necessarie per la struttura o destinate per la funzione al servizio degli immobili di proprietà solitaria (Cass. Sez. 2, 06/03/2019, n. 6458; Cass. Sez. 6 – 2, 26/10/2011, n. 22361; Cass. Sez. 2, 27/04/1993, n. 4931).
Secondo uniforme interpretazione giurisprudenziale, spetta in ogni caso al condomino, che pretenda l’appartenenza esclusiva di un bene, quale appunto un sottotetto destinato all’uso comune, compreso tra quelli elencati espressamente o per relationem dall’art. 1117 c.c., dar prova della sua asserita proprietà esclusiva derivante da titolo contrario (non essendo determinanti, a tal fine, né le risultanze del regolamento di condominio, né l’inclusione del bene nelle tabelle nnillesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino, né i dati catastali); in difetto di tale prova, infatti, deve essere affermata l’appartenenza dei suddetti beni indistintamente a tutti i condomini.”
La suprema corte (Cass.civ. sez. VI ord. 18 novembre 2019 n. 29925 rel. Scarpa) ribadisce orientamento consolidato: “L’art. 1117 c.c., ricomprende fra le parti comuni del condominio “il suolo su cui sorge l’edificio“.
Oggetto di proprietà comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., è, quindi, non solo la superficie a livello del piano di campagna, bensì tutta quella porzione del terreno su cui viene a poggiare l’intero fabbricato e dunque immediatamente pure la parte sottostante di esso.
Il termine “suolo”, adoperato dall’art. 1117 cit., assume, invero, un significato diverso e più ampio di quello supposto dall’art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all’aria.
Piuttosto, l’art. 1117 c.c., letto sistematicamente con l’art. 840 del codice cit., implica che il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio (seppure non menzionato espressamente dall’elencazione esemplificativa fatta dalla prima di tali disposizioni), va considerato di proprietà condominiale, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini.
Pertanto, nessun condomino può, senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione, procedere all’escavazione in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, verrebbe a ledere il diritto di proprietà degli altri partecipanti su una parte comune dell’edificio, privandoli dell’uso e del godimento ad essa pertinenti (Cass. 30 marzo 2016, n. 6154; Cass. 13 luglio 2011, n. 15383; Cass. 2 marzo 2010, n. 4965; Cass. 24 ottobre 2006, n. 22835; Cass. 27 luglio 2006, n. 17141; Cass. 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. 28 aprile 2004, n. 8119; Cass. 18 marzo 1996, n. 2295; Cass. 23 dicembre 1994, n. 11138; Cass. 11 novembre 1986, n. 6587).
La condotta del condomino che, senza il consenso degli altri partecipanti, proceda a scavi in profondità del sottosuolo, acquisendone la proprietà, finisce, in pratica, con l’attrarre la cosa comune nell’ambito della disponibilità esclusiva di quello. La Corte d’Appello di Genova ha valutato l’illegittimità dello scavo eseguito dalla F. non con riferimento ad una ipotizzata alterazione della destinazione del bene (sicché non ha rilievo invocare la verifica sotto il punto di vista della funzione di sostegno alla stabilità dell’edificio, o dell’idoneità dell’intervento a pregiudicare l’interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune, su cui si veda, ad esempio, Cass. 22 settembre 2014, n. 19915), quanto alla stregua della consistenza in sé dello scavo (55-60 centimetri di abbassamento del livello del pavimento).
Ciò ha dato luogo, stando al giudizio di fatto sul punto formulato dai giudici del merito – che non è sindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 -, ad un’appropriazione di una porzione rilevante del sottosuolo, che ha comportato una modifica significativa del bene condominiale, in rapporto alla sua estensione e alla destinazione della modifica stessa, e che perciò non si può spiegare soltanto come modalità di uso più intenso della cosa comune da parte del condomino, in prospettiva di migliore godimento della unità immobiliare di proprietà esclusiva.”
Una recente sentenza della Cassazione (Cass. civ. sez. II 16 settembre 2019 n. 23001 rel. Scarpa) riprende temi ormai consolidati in ordine alla nascita del condominio (e – nel caso di specie – del supercondominio), sottolineando come lo stesso nasca in fatto e diritto quando almeno due unità – poste all’interno di un medesimo complesso – inizino ad appartenere a due soggetti diversi e sussistano beni o servizi destinati a soddisfare esigenze comuni alle proprietà solitarie, ai sensi dell’art. 1117 c.c. (o dell’art. 1117 bis c.c. ove si tratti di supercondominio, come nel caso di specie).
La vicenda nasce in terra subalpina: “La Corte di Torino ritenne inammissibile la domanda ove diretta “a provocare una diversa conformazione dell’edificio condominiale, tale da escludere… da esso quei corpi di fabbrica che lo specifico condomino ritiene estranei”. Ad avviso dei giudici di secondo grado, invece, “la rimodellazione del Condominio, includendo od escludendo corpi di fabbrica, non può essere oggetto di domanda giudiziale, dal momento che essa è di competenza esclusiva dei condomini in sede di eventuale modifica della struttura condominiale, e quindi regolamentare.
Il giudice non ha alcun potere per ‘formarè il Condominio: il giudice, preso atto della scelta insindacabile dei costituenti il condominio, si limita alla verifica di legittimità delle decisioni assunte”. In fatto, peraltro, la Corte d’Appello aggiunse che l’unità immobiliare di proprietà esclusiva Coface, ubicata negli edifici (omissis) , alla stregua della planimetria allegata nel regolamento del 2005, fosse inclusa nell’edificio che comprende anche la galleria e le autorimesse sotterranee, a nulla rilevando che essa non utilizzasse tali spazi.”
La Corte di legittimità, a fronte di una alluvionale serie di motivi di impugnazione, ritiene fondati solo il quinto ed il sesto e rinvia alla corte di merito per nuova disamina alla luce del principio di diritto affermato nella sentenza: Il Giudice non può rimodellare l’edificio condominiale ma ben può accertare se un bene come le autorimesse, che non risultano essere assistite dalla presunzione di condominialità ex art 1117 c.c., debba ritenersi comune per titolo, non potendo peraltro ascriversi a tale genus il regolamento di natura non convenzionale, inidoneo ad incidere sui diritti reali dei singoli condomini.
“Erra la sentenza impugnata quando afferma che la domanda giudiziale della Coface non potesse tendere “a provocare una diversa conformazione dell’edificio condominiale” e che “la rimodellazione del Condominio, includendo od escludendo corpi di fabbrica, non può essere oggetto di domanda giudiziale, dal momento che essa è di competenza esclusiva dei condomini in sede di eventuale modifica della struttura condominiale, e quindi regolamentare”. Sicché “il giudice, preso atto della scelta insindacabile dei costituenti il condominio, si limita alla verifica di legittimità delle decisioni assunte”. Così come erra la ricorrente, peraltro, a cercare nei regolamenti di condominio il titolo costitutivo della condominialità della galleria commerciale e dell’autorimessa.
Al pari del condominio negli edifici, anche il c.d. supercondominio (la cui figura è ora riconducibile all’art. 1117 bis c.c., norma poi introdotta dalla L. n. 220 del 2012, e che quindi non regola la fattispecie in esame), viene in essere “ipso iure et facto”, senza bisogno d’apposite manifestazioni di volontà di tutti i proprietari o altre esternazioni e tanto meno d’approvazioni assembleari, sol che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati (quali, ad esempio, il viale d’ingresso, l’impianto centrale per il riscaldamento, i locali per la portineria, l’alloggio del portiere), attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, “pro quota”, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati, cui spetta altresì l’obbligo di corrispondere gli oneri condominiali relativi alla loro manutenzione (cfr. Cass. Sez. 2, 17/08/2011, n. 17332; Cass. Sez. 2, 31/01/2008, n. 2305; Cass. Sez. 2, 28/01/2019, n. 2279).
I regolamenti di supercondominio, di natura assembleare, quale quello del Centro i Giardini e poi del Condominio (omissis) , approvati a maggioranza, seppur “dalla quasi totalità dei condomini”, afferendo alla sfera della mera gestione, sono paradigmaticamente diretti a disciplinare la conservazione e l’uso delle parti comuni a più condominii, nonché l’apprestamento e la fruizione dei servizi comuni, e pertanto le loro disposizioni non possono incidere sull’estensione e sulla consistenza dei diritti di proprietà e di condominio di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni.
Le clausole che, eventualmente inserite nel loro contesto, tendano a delimitare tali diritti, sia in ordine alle parti comuni, sia in ordine a quelle di proprietà esclusiva, rivestono natura convenzionale e possono, quindi, trarre validità ed efficacia solo dalla specifica accettazione di ciascuno degli interessati, espressa in forma scritta (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612; Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012).
D’altro canto, essendo il giudizio in esame una impugnazione di deliberazione assembleare ex art. 1137 c.c., va considerato come esula dai limiti della legittimazione passiva dell’amministratore una domanda volta ad ottenere l’accertamento della condominialità, o meno, di un bene, ai fini dell’art. 1117 c.c., giacché tale domanda impone il litisconsorzio necessario di tutti i condomini; ne consegue che, nel giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, in cui la legittimazione passiva spetta all’amministratore, l’allegazione dell’appartenenza o dell’estraneità di un bene alle parti comuni di un condominio può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612).
Tuttavia, è altresì noto come il nesso di condominialità, presupposto dalla regola di attribuzione di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive, sia estese in senso verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti adiacenti orizzontalmente, purché le diverse parti siano dotate di strutture portanti e di impianti essenziali comuni, come appunto quelle res che sono esemplificativamente elencate nell’art. 1117 c.c., con la riserva “se il contrario non risulta dal titolo”.
Elemento indispensabile per poter configurare l’esistenza di una situazione condominiale è rappresentato dalla contitolarità necessaria del diritto di proprietà sulle parti comuni dello edificio, in rapporto alla specifica funzione di esse di servire per l’utilizzazione e il godimento delle parti dell’edificio medesimo. Anzi, la “condominialità” si reputa non di meno sussistente pur ove sia verificabile un insieme di edifici “indipendenti”, e cioè manchi un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, ciò ricavandosi dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., che consentono lo scioglimento del condominio nel caso in cui “un gruppo di edifici… si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi”, sempre che “restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dell’art. 1117 codice” (arg. ancora dal già citato art. 1117 bis c.c., introdotto dalla L. n. 220 del 2012).
Peraltro, verificare se un bene rientri, o meno, tra quelli necessari all’uso comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., ovvero appartenga ad un unico condominio complesso, costituito, come nella specie, da più fabbricati, in quanto gruppo di edifici che, seppur indipendenti, hanno in comune alcuni beni, suppone valutazioni in fatto, sottratte al giudizio di legittimità. Nella specie, la Corte d’Appello di Torino, nelle pagine 40 e 41 di sentenza, ha ravvisato l’applicabilità delle norme che disciplinano il condominio, perché il corpo di fabbrica, costituito dall’edificio (…) e all’edificio (…), dove è ubicata l’unità immobiliare della ricorrente, non è strutturalmente indipendente dalla galleria e dall’autorimessa.
Va tuttavia affermato che i locali sotterranei per autorimesse e la galleria commerciale non costituiscono parti dell’edificio condominiale soggette alla presunzione legale di proprietà comune di cui all’art. 1117 c.c. (nella formulazione di tale norma, ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 220 del 2012). Le autorimesse ed i locali commerciali, infatti, anche se situati (come nella specie accertato dalla Corte di Torino) nel perimetro dell’edificio condominiale, non sono inclusi fra quelli di proprietà comune elencati nel citato art. 1117 c.c. (neppure sotto l’aspetto di “parte dell’edificio necessaria all’uso comune”) e il condominio non può perciò giovarsi della relativa presunzione al fine di pretendere il contributo di ogni condomino alle relative spese di manutenzione, così come al condomino che adduca di non essere tenuto al detto contributo per non essere comproprietario di tali locali non incombe l’onere della relativa prova negativa (onere probatorio positivo – che incombe invece al condomino il quale, in caso di parti dell’edificio comuni, per la presunzione stabilita dall’art. 1117 c.c., intenda vincere detta presunzione pretendendo la proprietà esclusiva).
Al fine di accertare l’obbligo del condomino di sostenere (in misura proporzionale) le spese di manutenzione di un locale non incluso fra quelli di proprietà comune elencati nell’art. 1117 c.c., occorre, quindi, che sia data la prova dell’appartenenza di detti locali in proprietà comune e al fine anzidetto determinante è l’esame dei titoli di acquisto e delle eventuali convenzioni (cfr. Cass. Sez. 2, 22/10/1997, n. 10371; Cass. Sez. 3, 17/08/1990, n. 8376).Nè, ai fini dell’accertamento dell’appartenenza al condominio di galleria ed autorimesse sotterranee, può assumere rilievo il regolamento di condominio di formazione assembleare, o la planimetria ivi riportata, non costituendo il regolamento un titolo di proprietà, ove non si tratti di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini (cfr. Cass. Sez. 2, 03/05/1993, n. 5125).”
Una pronuncia ( Cass.civ. sez. II ord. 9 settembre 2019, n. 22442) che potrebbe essere fraintesa, poichè al termine sottoscala possono essere ricondotte situazioni fra loro assai eterogenee, da vano chiuso e dotato di propria autonomia funzionale a semplice area aperta posta sotto la rampa.
Appare quindi opportuno che, prima di applicare il principio di diritto richiamato dalla Corte, peraltro già oggetto di consolidato orientamento, si ponga debita attenzione alla natura, struttura e destinazione funzionale del vano di cui si discute.
“È pacifico che il sottoscala rientri tra le parti comuni dell’edificio condominiale, ex art. 1117 c.c., in quanto proiezione delle scale. Incombe, pertanto, a chi rivendichi l’acquisto uti singuli di detta porzione di immobili l’onere di provare che questa venne avocata a sé dal venditore col primo atto di frazionamento. Questa Corte, con orientamento consolidato al quale intende dare continuità, ha affermato che, al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto.
Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni (Cassazione civile sez. II, 09/08/2018, n. 20693; Cass. Civ., n. 11812 del 2011; Cass. Civ., n. 13450 del 2016; Cass. Civ., n. 5831 del 2017).
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte e, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha accertato che G.L. aveva acquistato dalla SICE s.r.l., con atto del 14.10.1963 per notar T. , diversi locali terranei facenti parti del fabbricato in (OMISSIS) , con altro atto in pari data aveva acquistato alcuni quartini del medesimo fabbricato, nonché il locale garage, confinante – tra l’altro – con il locale in questione. Dall’esame dei titoli di proprietà e dalla CTU, riservata al giudice di merito, era emerso che la ditta costruttrice si era riservata la proprietà di alcuni sottoscala ma non di quello della scala X, ove era situato quello oggetto di lite, che era, pertanto di proprietà comune.
Ulteriore conferma della condominialità del bene veniva ravvisato nel contenuto del regolamento di condominio, che annoverava tra le proprietà esclusive della società costruttrice i box sottostanti al primo rampante delle scale (…) ma non della scala (…), che, doveva, pertanto ritenersi comune (pag.11-13 della sentenza impugnata). In assenza del titolo contrario idoneo a superare la condominialità del sottoscala, il giudice d’appello ha ritenuto che si trattasse di bene comune.”
La corte osserva come sia onere di colui che invoca l’acquisto di detto vano per usucapione provare rigorosamente sia il termine iniziale che il decorso del ventennio: “Incombe su chi invoca l’acquisto per usucapione o ne eccepisce l’acquisto, l’onere di provare sia il momento iniziale del possesso ad usucapionem, sia la decorrenza del ventennio. La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto in tema di onere della prova, ritenendo che fosse onere del G. provare l’inizio della decorrenza dell’usucapione, coincidente con l’inizio dei lavori per l’accorpamento del vano scala. Ha, quindi, ritenuto che, poiché i testi avevano genericamente fatto riferimento al periodo post-terremoto, fosse inverosimile che l’inizio dei lavori risalisse al 1980 e che nel 2000 il termine ad usucapire fosse decorso.”
La Cassazione ( Cass.Civ. sez.II ord. 5 febbraio 2019 n. 3310) conferma un orientamento consolidato in tema di beni comuni ex art 1117 cod.civ.: l’oggettiva attitudine del bene a fornire utilità comune e in assenza di titolo contrario è idonea a far ritenere sussiste la condominiali del bene, senza la necessità per il condominio di adempiere ai ferrei principi probatori in tema di rivendica.
“la Corte territoriale ha – con motivazione logica ed ampiamente esaustiva – accertato come la ricorrente non abbia provato l’esistenza di alcun titolo dal quale desumere la proprietà esclusiva del sottotetto dedotto in controversia, ponendo in risalto come tale bene era, invero, risultato di fatto strutturalmente destinato ad un servizio o ad un’utilità comune per la collettività condominiale di cui fanno parte i controricorrenti quali condomini.
A tal proposito lo stesso giudice di appello ha supportato tale ricostruzione ponendo in luce come dagli stessi atti di trasferimento dei singoli appartamenti fosse emersa la rilevante circostanza in base alla quale era rimasto garantito in favore degli acquirenti il diritto alla proporzionale quota di proprietà degli enti e degli spazi comuni dell’immobile, tra i quali il conteso sottotetto, che, infatti, era stato – sul piano fattuale – in concreto utilizzato dai condomini in virtù della consegna delle relative chiavi avvenuta all’atto della stipula dei vari atti di vendita dei singoli appartamenti proprio da parte della ricorrente (che, del resto, non ha contestato tale circostanza, peraltro realizzatasi fin dal 1970: cfr. pag. 8 dell’impugnata sentenza).
Decidendo in tal senso la Corte milanese di è conformata all’univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 3862/1998; cass. n. 15372/2000 e, da ultimo Cass. n. 20593/2018), alla stregua della quale, in tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne affermi la proprietà esclusiva darne la prova (onere, nel caso di specie, non assolto dalla ricorrente), senza che, peraltro, a tal fine sia sufficiente l’allegazione del suo titolo di acquisto ove lo stesso non contenga in modo chiaro ed inequivocabile elementi idonei ad escludere la condominialità del bene.
Il giudice di secondo grado ha anche spiegato adeguatamente l’ininfluenza a fini probatori del regolamento condominiale e delle cc.dd. schede alloggi, poiché tali documenti non potevano sortire alcuna rilevanza sul piano degli effetti traslativi di immobili. In particolare, la Corte territoriale ha attestato che dalle schede alloggi risultavano solo delle aree circoscritte con due zone quadrangolari, come tali assolutamente inidonee ad assumere la valenza di un documento comprovante l’emergenza di un titolo autonomo e separato di proprietà; allo stesso modo il giudice di appello ha ritenuto l’irrilevanza a questo scopo del regolamento condominiale in cui sono, in linea essenziale, riportate le tabelle millesimali necessarie per la ripartizione delle spese condominiali tra i singoli condomini.”
Può accadere che nei titoli, in forza dei quali si costituisce il condominio, venga stabilito un uso diverso dei beni comuni, riservando ad alcune unità facoltà esclusive o più intense.
Si tratta in tal caso di una diversa graduazione delle facoltà dei condomini su beni che rimangono comuni ai sensi dell’art. 1117 cod.civ. e non già della costituzione di un diritto reale minore a favore di costoro.
E’ quanto afferma una recentissima pronuncia della suprema corte (Cass.Civ. sez.II ord. 10 ottobre 2018 n. 24958), con riguardo ad un cortile condominiale sul quale era stato previsto un uso esclusivo di alcuni condomini.
Nel caso specifico il condomino aveva citato in giudizio i condomini interessati per sentir accertare l’inesistenza del loro diritto esclusivo di un cortile condominiale, diritto negato dal Tribunale di Parma e riconosciuto invece dalla corte di appello di Bologna.
la Corte di legittimità accoglie il ricorso osservando che “Secondo la più recente giurisprudenza della Suprema Corte, l’uso esclusivo su parti comuni dell’edificio riconosciuto, al momento della costituzione di un condominio, in favore di unità immobiliari in proprietà esclusiva, al fine di garantirne il migliore godimento, incide non sull’appartenenza delle dette parti comuni alla collettività, ma sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, che avviene secondo modalità non paritarie determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti presunto ex articoli 1102 e 1117 c.c.
Tale diritto non è riconducibile al diritto reale d’uso previsto dall’articolo 1021 c.c. e, pertanto, oltre a non mutuarne le modalità di estinzione, è tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai successivi aventi causa dell’unità immobiliare cui accede (Cass., Sez. 2, n. 24301 del 16 ottobre 2017).
In particolare, deve ritenersi che il riferimento al concetto di pertinenza, spesso presente in dottrina e giurisprudenza, sia utilizzato, in casi come quello in esame, in senso atecnico, volendosi semplicemente indicare la maggiore utilità che una proprietà esclusiva può trarre da un bene comune cd. in uso esclusivo.
Se ne ricava che la corte territoriale ha errato nel ricondurre il diritto in questione nell’ambito di applicazione dell’articolo 1021 c.c., non potendosi considerare, al contrario, l’uso esclusivo su parti comuni dell’edificio condominiale un diritto reale d’uso non cedibile e destinato ad estinguersi con il decesso del beneficiario.”
Una lite sorta in quel di Savona e relativa ad una strada antistante il fabbricato condominiale, oggetto di scavi per la posa dei tubi, , approda in cassazione ed offre alla suprema Corte lo spunto per esaminare la materia del compossesso, quando dello stesso si debba riflettere in ambito condominiale.
i fatti: “Il giudizio trae fondamento dalla domanda possessoria proposta da Ge.Bo.Bi.Gi. il 26 marzo 1993 nei confronti del Condominio (…) per ottenere la sospensione delle opere iniziate dal convenuto ed il ripristino del transito con autovetture sulla strada privata di accesso al Condominio, strada che l’attore assumeva essere rimasta di sua proprietà a seguito dell’originario frazionamento dell’unico terreno in due lotti, uno destinato all’edificazione del Condominio, l’altro alla costruzione della confinante villa del signor G.B.B. . La domanda venne accolta dal Tribunale di Savona, sezione distaccata di Albenga, con sentenza del 24 febbraio 2007, ordinandosi al Condominio (…) la eliminazione della turbativa possessoria, consistente, in particolare, nei lavori di inserimento della tubazione di una fognatura. Sull’appello del Condominio (…), la Corte di Genova affermò: 1) che il mappale 253, identificante la strada in contesa, risultasse dai certificati catastali intestato a Ge.Bo.Bi.Gi. ; 2) che del pari dai titoli di proprietà allegati, concernenti le singole unità immobiliari comprese nell’edificio condominiale, non emergesse l’alienazione pro quota della strada; 3) che neppure il regolamento del Condominio (…), depositato da Ge.Bo.Bi.Gi. presso un notaio il 30 ottobre 1949, indicava la strada privata tra le parti comuni; 4) che i testimoni R. , A. , C. avevano dichiarato che era il G.B.B. ad occuparsi della manutenzione della strada, pur essendo le relative spese poi ripartite dal Condominio che ne faceva in concreto uso; 5) che perciò l’iniziale tracciato della fognatura condominiale non passava sotto il sedime della strada in questione, appunto non di proprietà né nel possesso del Condominio”
Cass. civ. sez.II 25 settembre 2018, n. 22642 rel. Scarpa chiarisce che “Legittimato a proporre l’azione di manutenzione ex art. 1170 c.c. è il possessore (non anche il detentore), dovendosi comunque ricollegare la presunzione di possesso ex art. 1141 c.c. ad un potere di fatto sulla cosa che si manifesti, al momento delle molestie, in attività corrispondenti all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale.
La Corte di Genova, nell’ambito dell’apprezzamento di fatto rientrante, a norma dell’art. 116 c.p.c., nelle prerogative del giudice di merito, ha ritenuto dimostrato il possesso esclusivo della strada in capo a Ge.Bo.Bi.Gi. , il quale si occupava della sua manutenzione provvedendo ad apporvi paletti e segnaletica, nonché alla pulizia, pur aggiungendo che le spese di manutenzione fossero poi sostenute dal Condominio, il che “ben si giustificava con la indubbia circostanza che, servendo detta strada anche e soprattutto per l’accesso al Palazzo (…), erano proprio i condomini a fare maggior uso di detta striscia di terreno”.
Tale asserto della sentenza impugnata giustifica allora la allegazione del Condominio ricorrente, secondo cui i condomini avrebbero sempre sopportato, in relazione al bene in contesa, gli oneri afferenti alla comproprietà e, conseguentemente, esercitato a tale titolo il loro compossesso.
Questa “indubbia circostanza che, servendo detta strada anche e soprattutto per l’accesso al Palazzo (…), erano proprio i condomini a fare maggior uso di detta striscia di terreno” si pone, cioè, irriducibilmente in contrasto con la successiva affermazione esposta in motivazione circa l’assenza di ogni possesso della strada da parte del Condominio, non essendo spiegato quale diverso titolo giustificasse il potere fattuale di detenzione della strada esercitato dai condomini, in maniera da superare la presunzione di possesso ex art. 1141 c.c..
Ove, come nella specie, sia fornita la prova del possesso di colui che sostiene di essere stato molestato, come anche del convenuto in manutenzione, l’esame dei titoli di proprietà può poi essere consentito soltanto “ad colorandam possessionem”, cioè al solo fine di individuare il diritto al cui esercizio corrisponde il possesso o di determinare meglio i contorni del possesso già altrimenti dimostrato, e non certo per ricavare la prova del possesso dal regime legale o convenzionale del diritto reale corrispondente, né per escludere l’esistenza del già accertato potere di fatto sulla cosa (Cass. Sez. 2, 22/02/2011, n. 4279; Cass. Sez. 2, 27/12/2004, n. 24026).
È ancora la stessa sentenza impugnata ad affermare che dall’esame della documentazione prodotta la strada oggetto di lite fosse “destinata a servire per l’accesso al palazzo (…)”, e pure i controricorrenti espongono che agli acquirenti degli alloggi venne appunto riconosciuto il “diritto di transito”.
Nella sentenza della Corte di Genova non è invece spiegato se le opere eseguite dal Condominio R. sulla strada eccedessero rispetto all’estensione ed alle modalità di esercizio del possesso di tale servitù di passaggio, determinando un nuovo peso imposto sul fondo servente.
Come da questa Corte sostenuto in un risalente (ma tuttora condivisibile) precedente, qualora tra le parti in causa sia pacifico che una di esse sia nel compossesso di un fondo e controverso ne sia soltanto il titolo (comproprietà ovvero servitù di passaggio), non può il giudice ritenere d’ufficio non provato il compossesso stesso (Cass. Sez. 2, 19/07/1968, n. 2601);postulando, peraltro, il compossesso di più soggetti l’esercizio da parte degli stessi di attività corrispondente ad un medesimo diritto reale, onde non sono compossessori coloro che, rispettivamente, esercitino su un certo fondo l’uno il possesso corrispondente a un diritto di servitù prediale e l’altro il possesso corrispondente al diritto di proprietà (Cass. Sez. 2, 15/03/1968, n. 835).
Con riguardo all’utilizzazione del sottosuolo di un’area esterna ad un fabbricato condominiale, effettuata dal condominio per l’installazione di un impianto destinato all’uso comune, la configurabilità di uno spoglio o di una turbativa del possesso di un terzo (denunciabile con azione di reintegrazione o manutenzione) implica, piuttosto, l’esclusione di una situazione di compossesso dell’area medesima da parte del condominio (corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà e non di un mero diritto di servitù di passaggio), desumibile anche dalla destinazione funzionale del bene al soddisfacimento di esigenze di interesse comune, oltre che, ad colorandam possessionem, dalla sua inclusione, in difetto di titolo contrario, fra le parti comuni dell’edificio, nonché l’accertamento ulteriore che l’indicata utilizzazione ecceda i limiti segnati dalle concorrenti facoltà del compossessore, traducendosi in un impedimento totale o parziale ad un analogo uso da parte di questo ultimo.
D’altro canto, per verificare la natura condominiale della strada in questione, occorrerebbe piuttosto operare una valutazione dello stato effettivo dei luoghi ed un’indagine in ordine all’ubicazione dei beni, accertando se sussiste il collegamento strumentale, materiale o funzionale, ovvero la relazione di accessorio a principale ed il rapporto di pertinenza – che è il presupposto necessario del diritto di condominio – tra la strada ed il Condominio (…), tale da far insorgere l’applicabilità della presunzione di condominialità di cui all’art. 1117 c.c..
Di seguito, nel ricostruire la volontà pattizia in base ai titoli di acquisto, dovrebbe considerarsi unicamente il titolo costitutivo del Condominio (…) (e cioè il primo atto di frazionamento di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggette), dovendo da esso risultare, in contrario alla presunzione di condominialità, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente la proprietà di detta strada al venditore o a terzi. Ai fini dell’accertamento della proprietà privata o condominiale ex art. 1117 c.c. della strada, non assume viceversa carattere dirimente il regolamento di condominio, non costituendo esso un titolo di proprietà (così Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012).
Conseguono l’accoglimento del ricorso e la cassazione dell’impugnata sentenza nei limiti delle censure accolte, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Genova, la quale deciderà al riguardo uniformandosi ai richiamati principi ed attenendosi ai rilievi svolti”
La Suprema Corte (Cass.Civ. sez. II 24 aprile 2018 n. 10073) ribadisce un prinpcio consolidato in tema di beni condominiali: ove il titolo non disponga espressamente in ordine alla proprietà comune o individuale del bene, il Giudice dovrà valutare la funzione cui detti beni sono destinati ad assolvere, ritenendoli individuali (o comunque comuni solo ad una parte di condomini ai sensi dell’art. 1123 comma 3 cod.civ.) ove non siano destinati a recare utilità a tutta la collettività condominiale.
“…l’accertamento relativo alla sussistenza del legame di essenziale indissolubilità e/o di accessorietà tra il bene di proprietà singola e gli altri beni, è demandato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se non affetto da vizi logici e giuridici della motivazione; allo stesso giudice è demandata anche l’interpretazione dei titoli allegati per escludere il diritto di condominio (Cass. 21.12.2007, n. 27145; Cass. 16.2.2004, n. 2943).
La verifica di detta relazione di accessorietà è indispensabile e preliminare per ritenere operante la presunzione dell’art. 1117 c.c., nel senso che ove quell’accessorietà manchi in concreto, detti beni non possono presumersi – già solo per questo fatto – comuni a tutti i condominisenza che occorra verificare la sussistenza di un titolo contrario alla suddetta presunzione, e, a tal fine, fare riferimento all’atto costitutivo del condominio (Cass. 16.1.2018, n. 884; Cass. 2.3.2007, n. 4973; Cass. 25.1.2007, n. 1625).
Quando il bene, anche se rientrante nell’elencazione di cui all’art. 1117 c.c., per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, serva in modo esclusivo al godimento di una parte dell’edificio in condominio, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, viene meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini, giacché la destinazione particolare vince la presunzione legale di comunione, alla stessa stregua di un titolo contrario (Cass. 29.12.1987, n. 9644; Cass. 25.2.1975, n. 758).
Questa Corte ha anche precisato che per escludere la presunzione di proprietà comune, di cui all’art. 1117 cod. civ., non è necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci che siano in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l’attitudine funzionale dei bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che, quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serva in modo esclusivo all’uso o al godimento di una sola parte dell’immobile, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, ovvero risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall’originario proprietario dell’intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare – in base ad elementi obiettivamente rilevabili, secondo l’incensurabile apprezzamento dei giudici di merito – che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale, viene meno il presupposto per l’operatività dell’art. 1117 c.c. (cfr., in motivazione, Cass. 23.9.2011, n. 19490; Cass. 28.4.2004, n. 8119; Cass. 27.12.2004, n. 24015).
Avendo quindi la Corte stabilito, con accertamento in fatto, che mancava la suddetta relazione di accessorietà funzionale, non occorreva attribuire più rilievo al contenuto dei titoli né considerare che l’atto di accatastamento compiuto dall’unico proprietario prima della costituzione del condominio non era stato richiamato nella prima vendita, potendo esso rilevare solo quale titolo contrario alla presunzione ex art. 1117 c.c., già esclusa, per le ragioni evidenziate, dalla Corte distrettuale (cfr., Cass. 7.5.2010, n. 11195; Cass. 23.2.2011, n. 2670; Cass. 23.2.1991, n. 1915).”