decreto ingiuntivo non opposto e principio del giudicato esterno discendente: una pronuncia in tema di sfratto

Di recente la Suprema Corte (Cass. 1502/2018) ha osservato che la mancata opposizione a decreto ingiuntivo impedisce successive contestazioni giudiziali  sulle somme portate in quel decreto ingiuntivo e che l’effetto di giudicato che acquista il decreto non opposto si estende a tutto il dedotto e deducibile che poteva essere fatto valere in sede di opposizione.

Analogo principio è seguito da recente sentenza del Tribunale di Massa 23 gennaio 2018 in tema di opposizione alla convalida di sfratto, che deve essere respinta laddove il conduttore non abbia proposto opposizione al decreto ingiuntivo per i canoni non versati ottenuto dal locatore con autonomo e separato ricorso.

Osserva il Tribunale apuano che “L’esistenza di un decreto ingiuntivo definitivo per i canoni impagati, ottenuto dal locatore nei confronti del conduttore per canoni che vanno a costituire la morosità sulla quale si fonda l’intimazione di sfratto, oggi convertita nel presente giudizio a rito ordinario, impedisce di riesaminare la vicenda dei rispettivi obblighi e della sussistenza di inadempimento, per il principio del giudicato implicito discendente.

L’esistenza di un titolo definitivo, che accerti che non è stato versato il corrispettivo della locazione per l’importo recato nel decreto non opposto, impedisce qualunque ulteriore valutazione sulla debenza di quelle somme e sulla sussistenza del relativo inadempimento.

Si è, con costanza, osservato in giurisprudenza che “la domanda di accertamento del canone di locazione costituisce un presupposto implicito ai fini della proposizione e dell’accoglimento della domanda di condanna al pagamento dei canoni scaduti e non pagati in cui si sostanzia il provvedimento di ingiunzione.

Sta di fatto che sul decreto ingiuntivo non opposto recante intimazione di canoni locativi arretrati accolto si forma il giudicato che fa stato perciò fra le stesse parti circa l’esistenza e validità del rapporto corrente inter partes e sulla misura del canone preteso, nonchè fa stato circa l’inesistenza di tutti i fatti impeditivi o estintivi, anche non dedotti, ma deducibili nel giudizio di opposizione, quali quelli atti a prospettare l’insussistenza totale o parziale del credito azionato in sede monitoria dal locatore a titolo di canoni insoluti, per effetto di controcrediti del conduttore per somme indebitamente corrisposte in ragione di maggiorazioni contra legem del canone (v. Cass. n. 5801/1998).

Evidente, pertanto, che, in applicazione del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, qualora i conduttori avessero voluto contestare la determinazione del canone, avrebbero dovuto proporre opposizione a decreto ingiuntivo, il che non hanno fatto, con la conseguenza che l’accertamento circa la misura del canone preteso e richiesto dai locatori è da ritenersi coperto dal giudicato.” Cass 16319/2017)”

Il Tribunale ha ritenuto infondate anche due eccezioni in rito dell’opponente, che assumeva il decreto ingiuntivo dovesse essere notificato nel domicilio eletto per il procedimento di sfratto: “Va perlatro osservato che appaiono prive di pregio anche le due obiezioni avanzate dal convenuto circa la asserita nullità della notifica del decreto ingiuntivo (tesi che perlatro dovrebbero legittimare – semmai un opposizione tardiva in quel procedimento e non possono essere oggetto di valutazione nel presente, se non in via meramente incidentale):
Per quanto possa qui rilevare, quanto alla notifica alla parte ai sensi dell’art. 140 c.p.c. appaiono rispettate tutte le formalità previste dalla norma e dalle successive interpretazioni rese dalla Consulta, posto che dalla copia depositata in via telematica risulta effettuata la notifica presso la dimora del convenuto (luogo che neanche egli stesso disconosce sia tale), è stato effettuato il deposito presso l’ufficio e il contestuale avviso raccomandato di cui risulta risulta – dall’avviso di ricevimento reso con l’atto – che il destinatario non abbia curato il ritiro per dieci giorni. Né peraltro l’opponente, aldilà di generiche riflessioni circa le modalità di notifica ai sensi dell’art 140 c.pc., ha spiegato in quali violazioni sarebbe incorsa la notifica del decreto.

Quanto la doglianza circa l’omessa notifica al domicilio eletto, è di tutta evidenza che tale norma sia volta favorire le comunicazioni in corso di causa alle parti costituite, e tale non può considerarsi la notifica alla parte – in vista della esecuzione – di un decreto ingiuntivo munito di formula esecutiva, che deve necessariamente essere notificato al debitore e non al suo procuratore domiciliatario e che – in ogni caso – è relativo a procedimento monitorio del tutto autonomo rispetto a quello di opposizione alla convalida per cui si discute e sarebbe, pertanto, escluso dagli atti soggetti a notifica nel domicilio eletto”.

© massimo ginesi 30 gennaio 2018

opposizione allo sfratto e mediazione obbligatoria: un tema controverso

Ove il convenuto in un procedimento per convalida di sfratto proponga opposizione, il giudice deve mutare il rito e il procedimento proseguirà secondo le norme richiamate dall’art. 447 bis c.p.c., onde pervenire ad una ordinaria sentenza che, accertato l’inadempimento del conduttore, pronunci sulla  risoluzione del contratto di locazione.

All’atto del mutamento del rito, trattandosi di materia sottoposta obbligatoriamente a mediazione ai sensi dell’art. 5 D. lgs 28/2010, il giudice disporrà affinché si proceda all’esperimento della mediazione, rinviando la causa  a nuova udienza per la verifica della condizione di procedibilità.

Può accadere che nessuna delle due parti si attivi; a quel punto il giudice dovrà necessariamente pronunciare sentenza con cui dichiara l’improcedibilità della domanda: ovviamente la domanda è quella  di risoluzione per inadempimento, azionata originariamente dal locatore in via sommaria nelle forme della intimazione di sfratto e citazione per convalida.

Diverse sono  le conclusioni  cui pervengono i giudici di merito sulla disciplina delle spese di lite in tale ipotesi, soluzione che comporta necessariamente una valutazione su chi avesse interesse alla mediazione e su chi debba ritenersi parte soccombente.

Il tema è affrontato da una recente sentenza del Tribunale di Massa 19 gennaio 2018.

Esaurita la fase sommaria e disposto il mutamento del rito, è stato concesso termine per l’inizio del procedimento di mediazione, termine da ritenersi seppur non perentorio(Corte di Appello di Milano24 maggio 2017) comunque non reiterabile (Tribunale, Firenze, sez. III civile09/06/2015,Tribunale di Vasto, sentenza del 09.03.2015). Va ancora ritenuto che è onere di chi abbia interesse a coltivare il procedimento dare impulso alla condizione di procedibilità.

Nel caso di specie non risulta che la mediazione sia stata introdotta né dall’attore nel dal convenuto, di talchè la domanda dovrà necessariamente essere dichiara improcedibile.

Ai fini della liquidazione delle spese, assume tuttavia rilevanza la posizione delle parti chiamate ad avverare la condizione di procedibilità, onde valutare se vi sia tecnicamente soccombenza.

A differenza del procedimento per decreto ingiuntivo, ove si discute degli effetti del mancato avveramento della condizione di procedibilità sul provvedimento monitorio, con esiti che – anche in sede di legittimità – hanno sottolineato all’interesse dell’opponente a coltivare il giudizio di opposizione, va osservato che la proposizione di opposizione alla convalida di sfratto determina il mutamento del rito con passaggio a giudizio a cognizione piena ove l’assetto processuale e l’interesse astratto ad agire delle parti andrà valutato secondo gli ordini criteri, avuto riguardo alle domande delle parti.

Si è dunque affermato che è il locatore, che ha introdotto il procedimento con rito sommario, ad avere interesse a coltivare la domanda, ove intenda ottenere accertamento nel merito dell’inadempimento del conduttore, onde ottenere sentenza che statuisca sulla l’intervenuta risoluzione e pronunci sulle spese; tali pronunce hanno rilevato come al convenuto opponente tale interesse possa riconoscersi solo ove lo stesso abbia, a propria volta, avanzato domanda riconvenzionale, di talchè abbia un effettivo ed autonomo interesse alla prosecuzione del giudizio (e, dunque, all’avveramento della condizione di procedibilità); ne consegue che, per parte della giurisprudenza di merito sul punto (Trib. Mantova 20.1.2015, Trib. Napoli 3.6.2015) le spese andrebbero poste a carico dell’intimante quale parte tecnicamente soccombente rispetto alla domanda inizialmente introdotta con rito sommario.

La tesi non appare tuttavia del tutto convincente, specie laddove sia stata emessa ordinanza di rilascio ex art 665 c.p.c.; tale provvedimento presuppone una sommaria delibazione del giudice sulla fondatezza delle ragioni delle parti, con positiva valutazione dei presupposti posti a fondamento della domanda attrice e con corrispondente 4 delibazione negativa in ordine alle ragioni poste a sostegno della opposizione: appare pertanto irragionevole condannare alle spese e ritenere soccombente tout court l’attore che abbia ottenuto un provvedimento favorevole e tendenzialmente stabile, relativamente alla domanda di rilascio, solo perché non ha dato corso a procedimento di mediazione; in tal caso costui potrebbe ragionevolmente ritenere di non aver interesse a proseguire il giudizio, sì che manterrà il provvedimento provvisorio assumendosi i relativi rischi circa la mancata pronuncia di sentenza sul merito e scegliendo di non vedersi liquidate le spese; mentre appare invece inutilmente gravatorio condannare addirittura alle spese di lite colui che – in prima battuta – appare meritevole di tutela provvisoria (arg. Tribunale Tribunale 17.11.2015 n. 21324) .

D’altro canto la circostanza che sia stata emesso l’ordinanza provvisoria di rilascio ex art 665 c.p.c. fa sorgere anche in capo al convenuto opponente l’interesse a coltivare il giudizio, al fine di pervenire ad una pronuncia di accoglimento della opposizione, che travolga nel merito il provvedimento interinale emanato dal giudice al termine della fase sommaria

Di tal chè, laddove sia stata emessa ordinanza provvisoria di rilascio, pare sussistere  interesse di entrambe le parti ad addivenire a pronuncia merito e, conseguentemente ,ad attivarsi affinché maturi  la condizione di procedibilità e possa pertanto applicarsi, in difetto di positiva condotta delle due parti, totale compensazione delle spese di lite: ( arg. Da Tribunale Pescara, 7 ottobre 2014).

Nel caso di specie va ancora rilevato che le conclusioni avanzate nella comparsa del convenuto del 12.7.2017 (essendo la prima, depositata all’udienza del 7.6.2017 in mero rito) contengono istanze che –seppur formulate in maniera sfumata e non espressamente qualificate come domande riconvenzionali – sono volte ad ottenere pronuncia sulla natura del contratto e la relativa simulazione nonché sulla restituzione delle somme relative alle opere compiute dal conduttore sul bene oggetto del contratto; e devono pertanto ritenersi autonome domande che, parimenti, fondano un interesse anche del convenuto alla prosecuzione del giudizio, ragione che vieppiù legittima la integrale compensazione delle spese”

© massimo ginesi

 

 

la nomina dell’amministratore che non indica il compenso è nulla

Lo ha stabilito  una recente sentenza (Tribunale di Massa 6 novembre 2017 n. 917 ), che ha dichiarato nulla la nomina di un amministratore che non aveva indicato analiticamente la propria richiesta di compenso. La pronuncia affronta anche diversi altri motivi fatti valere dalle parti, che tuttavia si rivelano infondati.

Il compenso dell’amministratore non risultava da alcun documento, né antecedente né posteriore alla assemblea, né sussisteva formale accettazione. Alcuni mesi dopo la riunione il presiedente ed il segretario della riunione avevano predisposto, a loro firma, una nota di correzione del verbale ove si dichiarava che l’assemblea – prima di procedere alla nomina – era stata resa edotta dell’importo richiesto dall’amministratore.

Il condominio si è difeso osservando anche che il compenso dell’amministratore era stato comunque indicato come voce del preventivo approvato.

il Tribunale ha osservato che “Risulta (…) fondata la censura sulla nullità della nomina dell’amministratore, in assenza di una valida accettazione che contenga specifica indicazione del suo compenso; il dettato dell’art. 1129 comma XIV cod.civ. è tassativo e non ammette equipollenti: “È nulla la nomina dell’amministratore di condominio – con conseguente nullità della delibera in parte qua – in assenza della specificazione analitica del compenso a quest’ultimo spettante per l’attività da svolgere, in violazione dell’art. 1129, comma 14, c.c. Tale norma, che mira a garantire la massima trasparenza ai condomini e a renderli edotti delle singole voci di cui si compone l’emolumento dell’organo gestorio al momento del conferimento del mandato, si applica sia nel caso di prima nomina dell’amministratore che nel caso delle successive riconferme” . Tribunale Milano, sez. XIII, 03/04/2016, n. 4294
A tal fine va osservato che nel verbale di assembla nulla risulta in ordine al compenso, né potrà a tal fine rilevare – come pretenderebbe il convenuto – la mera indicazione di una somma complessiva, per nulla dettagliata, inserita fra le voci del preventivo che – anche ove si possa ritenere che comprenda tutto quanto dovuto all’amministratore alla luce di Cass. 22313/2013 – non soddisfa quella esigenza di chiarezza documentale, trasparenza e formalità che traspaiono dal meccanismo di nomina ed accettazione individuati dal novellato art. 1129 cod.civ., meccanismo che non può prescindere da un atto formale dal quale risulti l’espressa e analitica indicazione del compenso.

Mette conto di rilevare, in proposito, che il preventivo di spesa costituisce una semplice stima – che potrebbe anche essere variata in sede di consuntivo – e non rappresenta invece quell’assunzione di un obbligo negoziale da parte dell’amministratore in ordine al corrispettivo (che rappresenta l’obbligazione assunta dal condominio) che oggi appare indispensabile a mente del novellato art. 1129 cod.civ., a tutela della posizione contrattuale del mandante.
Il Condomino non ha peraltro provato che tale indicazione fosse stata allegata alla convocazione, che neppure è stata prodotta, né che vi sia stato un formale atto di accettazione conforme al dettato di cui all’art. 1129 commi II e XIV cod.civ., norma inderogabile ex art 1138 cod.civ.”

La sentenza contiene anche ulteriori statuizioni che possono essere di interesse, attenendo ad aspetti frequentemente controversi in ambito condominiale:

PRESIDENTE E SEGRETARIO ASSEMBLEA – gli attori si dolevano che gli organi assembleari  non fossero stati ritualmente nominati e che avessero provveduto, altrettanto irritualmente, a correggere a posteriori il verbale, integrandolo con i dati del compenso richiesto dall’amministratore. Osserva il Tribunale che “paiono altresì non provate (e comunque destituite di fondamento) le istanze circa l’invalidità della delibera per la irregolare nomina di presidente e segretario.
Va a tal proposito evidenziato che dal verbale risulta che costoro siano stati eletti dalla assemblea e che le parti attrici, seppur presenti, non abbiano in quella sede contestato alcunché: era peraltro in capo a loro l’onere di provare, ex art 2697 I comma cod.civ., la sussistenza del vizio lamentato, prova che non risulta fornita: “.Il verbale di una assemblea condominiale ha natura di scrittura privata, sicché il valore di prova legale del verbale di assemblea condominiale, munito di sottoscrizione del presidente e del segretario, è limitato alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori e non si estende al contenuto della scrittura e, per impugnare la veridicità di quanto risulta dal verbale, non occorre che sia proposta querela di falso, potendosi, invece, far ricorso ad ogni mezzo di prova. Incombe, tuttavia, sul condomino che impugni la delibera assembleare l’onere di sovvertire la presunzione di verità di quanto risulta dal relativo verbale.” Cass. 11375/2017
Né, peraltro, risulta alcuna norma che preveda l’esistenza di tali figure nella assembla condominiale e, anche a voler mutuare la loro funzione dai principi generali in tema di funzionamento degli organi collegiali, non si rinviene alcun dato normativo – ne parte attrice lo individua – che preveda che eventuali vizi afferenti alla nomina di tali soggetti comportino nullità dei deliberati della assemblea, sussistendo anzi giurisprudenza in senso assolutamente contrario (Tribunale Milano, 24/07/1997)”

SULLA POSSIBILITA’ DI INTEGRAZIONE SUCCESSIVA DEL VERBALE – “non può avere alcun rilievo il bizzarro atto di integrazione del verbale inviato ai condomini alcuni mesi dopo l’assemblea e che reca almeno tre date diverse: tale scrittura rappresenta una mera dichiarazione – parrebbe a posteriori – di coloro che lo sottoscrivono ed al quali non si può riconoscere alcun valore se non quello di semplice dichiarazione riconducibile agli estensori, atteso che è lecito ritenere che gli organi assembleari (presidente e segretario) cessino la loro funzione – e vengano meno i relativi poteri – con la chiusura della riunione e non potendo ritenersi consentito emendare, a posteriori e in sedi diverse dalla assemblea (con il relativo assenso dei partecipanti), la carenza di elementi essenziali del verbale e delle delibere che quel verbale attesta esser avvenute.”

SULLA LEGITTIMAZIONE DEGLI USUFRUTTUARI – Deve preliminarmente essere dichiarata infondata anche l’eccezione, avanzata dal convenuto, relativa alla asserita di carenza di legittimazione attiva degli usufruttuari M F e C F, per le delibere che riguarderebbero lavori straordinari, atteso che a fronte della solidarietà fra usufruttuario e nudo proprietario, oggi prevista dall’art. 67 disp.att.cod.civ., la delibera è direttamente ed immediatamente azionabile contro entrambi, sì che a costoro va riconosciuta la pari facoltà di agire per far dichiarare la sua invalidità.

SULL’OBBLIGO DI INDICAZIONE NOMINATIVA DEI VOTANTI – Parimenti del tutto infondata si rivela la doglianza rispetto alle irregolarità che inficerebbero la votazione per non essere stati nominativamente indicati tutti i soggetti che hanno votato a favore e contro: il verbale contiene, in apertura, l’elenco di tutti i soggetti presenti e, per ogni punto in votazione, l’indicazione di chi abbia eventualmente votato contro, con l’espressa quantificazione del loro valore millesimale complessivo. Si tratta, in accordo con la giurisprudenza consolidata, di modalità più che sufficienti a garantire la facoltà di impugnazione ai dissenzienti e la possibilità di individuare i soggetti che abbiano votato a favore e il loro valore millesimale. (Cass. 6552/2015; Cass. 2413272009, cass. 10329/1998); 

SULLA FACOLTA’ DI TESTIMONIARE DEI CONDOMINI  -Altrettanto singolare che parte attrice si ostini a reiterare istanze istruttorie in cui elenca quali testimoni unicamente soggetti che rivestono la qualità di condomino, sostenendo che costoro “sono gli unici a poter testimoniare sulla materia condominiale e, in particolare, sulle circostanze avvenute in sede di assemblea” (pag. 7 comparsa conclusionale).
Sulla mancata ammissione delle testimonianze sarà sufficiente osservare che “I singoli condomini sono privi di capacità a testimoniare nelle cause che coinvolgono il condominio, poiché l’eventuale sentenza di condanna è immediatamente azionabile nei confronti di ciascuno di essi.” Cass. 17199/2015; l’inammissibilità è stata tempestivamente eccepita dal convenuto nella terza memoria ex art 183 VI comma c.p.c.

SUL MANCATO INVIO DEI PREVENTIVI PER LAVORI STRAORDINARI –Infondata risulta la censura relativa alla approvazione di spese straordinarie, che si assume illegittima poiché non sarebbero stati preliminarmente inviati preventivi: posto che tale procedura non è prevista da alcuna norma in materia di condominio e che l’assemblea, ove raggiunga le maggioranze necessarie, è assolutamente sovrana nella scelta delle opere da eseguire, ivi compresi i relativi costi, ciò nell’ambito delle attribuzioni dell’organo collegiale stabilite dall’art. 1135 cod.civ. e salvi solo i limiti delineati dagli artt. 1102 e 1120 cod.civ

SULLA CESSAZIONE DELLA MATERIA DEL CONTENDERE – la dedotta nullità della delibera impedisce qualunque sanatoria, di tal chè la delibera successivamente assunta in data 3.6.2017 – con cui è stato nominato lo stesso amministratore B. – si pone come atto autonomo e distinto da quello impugnato, avente effetti dal momento della sua adozione ed inidoneo a sanare il vizio dedotto nel presente procedimento, circostanza che se da un lato consente di ritenere ovviato il problema concreto della nomina dell’amministratore a far data dal 3.6.2017, dall’altro lascia intatto l’interesse dagli attori di veder dichiarare la nullità della precedente nomina e impedisce di ritenere cessata la materia del contendere, sì che si dovrà pronunciare anche in punto di soccombenza, ai sensi dell’art. 91 cod.proc.civ., senza alcun criterio virtuale.

© massimo ginesi 13 novembre 2017

 

 

la sentenza risulta pubblicata sulla banca dati giuffrè e sul portale giuffrè Condominio&locazioni, con nota di Luigi Salciarini.

16 novembre 2017

processo telematico e deposito tardivo: non sempre compete la rimessione in termini.

L’introduzione del processo telematico e dell’obbligo di deposito solo in via informatica degli atti endoprocessuali ha posto nuovi problemi relativi al rispetto dei termini di decadenza.

Il Tribunale di Massa, in una recente sentenza (Trib. Massa 13 ottobre 2017)  affronta il problema dei malfunzionamenti del sistema informatico ministeriale e della condotta dell’avvocato che non riesca a depositare la memoria istruttoria ex art 183 VI comma c.p.c.

Qualora il deposito sia pacificamente effettuato fuori dai termini concessi dal Giudice, per essere rimessi in termini non è sufficiente addurre il generico malfunzionamento del sistema, ma è necessario dimostrare di aver compiuto tutte le attività di parte necessarie  e di essere esenti da colpevolezza, tenuto conto che rimane onere della parte dimostrare di essere incorsa senza sua colpa nella decadenza e che l’ordinamento prevede ipotesi specifiche in cui il giudice – ove sia provato il malfunzionamento – può comunque autorizzare il deposito cartaceo.

Non valea sanare la tardività, in ogni caso, l’invio dell’atto via pec ai colleghi avversari, atteso che il deposito in cancelleria è atto ontologicamente diverso dalla scambio.

Stupisce che parte attrice, ancora nelle difese finali, affermi che “La seconda memoria scadeva il 21.01.2017 (non il 23.01.2017 come detto dal Giudice)”: il 21 gennaio 2017 cadeva di sabato e, in forza di quanto disposto dall’art. 155 V comma c.p.c. (introdotto dalla L. 263/2005), la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno non festivo, ovvero lunedì 23 febbraio 2017.
La circostanza non è affatto secondaria per valutare la sussistenza o meno della non colpevolezza di colui che è incorso in decadenza, alla luce di quanto in appresso si dirà.

Va innanzitutto osservato che il provvedimento che informava della sospensione dei servizi informatici, prodotto dallo stesso attore, prevedeva l’inizio della interruzione alle 17 del 20 gennaio 2017 con riavvio del sistema dalle 24 del 21 gennaio 2017 e sino, al massimo, alle ore 8 del 23 gennaio 2017.

Lo stesso provvedimento preannunciava la continuità dei servizi di posta elettronica certificata con possibilità dunque di deposito telematico, salva la possibilità che non si ottenesse l’esito dell’invio e segnatamente la PEC sui controlli automatici di sistema.

Il documento dunque attesta la sussistenza di un disservizio che non appare affatto impedire il deposito, così come lamentato dall’attore; ben può essere che in realtà l’interruzione dei servizi informatici abbia avuto anche tali conseguenze, ma il relativo onere della prova incombeva su chi intendeva far valere la circostanza ai fini della rimessione in termini.

A tal fine va rilevato che la difesa di parte attrice, per assolvere a tale onere, ha prodotto un semplice file PDF che rappresenterebbe (senza peraltro neanche una attestazione circa la corrispondenza) la schermata del proprio terminale con cui tentava di provvedere all’invio telematico, elemento che già sotto il profilo formale appare inidoneo a provare alcunchè in astratto, atteso che con riguardo al processo telematico deve essere depositato – ove possibile – documento informatico; in tema di notifiche via PEC e dunque in disciplina che, mutatis mutandis, nei principi ispiratori ben può applicarsi anche al caso di specie, l’art. 9 comma 1 bis e comma 1 ter della L. n. 53/94 prevedono il prioritario obbligo del deposito di documento informatico, solo ove per l’avvocato non sia possibile fornire la prova dell’avvenuta notifica con modalità telematiche, il difensore potrà procedere mediante deposito cartaceo ai sensi dell’art. 9 comma 1-bis della L. n. 53/94, quindi estraendo copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e attestarne la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi dell’articolo 23, comma 1, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.

Anche a voler accedere ad una interpretazione di favore e a voler considerare il file pdf prodotto dall’attore come effettivamente corrispondente alla schermata del computer del difensore all’atto del tentativo di deposito della memoria istruttoria, giova osservare che la schermata riprodotta non denota affatto un avvenuto deposito, ma semplicemente attesta che – con riguardo alla attività “tribunale di massa deposito memoria n. 2 183 cpc rg 373/16” – risulta “in attesa di essere inviato”, dunque non una attività in itinere e pervenuta a destinazione in ritardo ma, almeno per quel che risulterebbe da tale messaggio, una attività non compiuta.


Va ancora rilevato che, a mente dell’art. 51 Decreto Legislativo 24 giugno 2014, n. 90 coordinato con le modifiche della Legge 11 agosto 2014, n. 114, il procedimento di deposito telematico degli atti consta di quattro diversi passaggi – corrispondenti in realtà a quattro messaggi pec, il primo inviato da colui che deposita e gli altri tre inviati dal sistema di cancelleria telematica, e si intende perfezionato con la ricevuta di avvenuta consegna della pec, di talché almeno il messaggio di invio dipende dal soggetto che si accinge alla notifica, essendo poi rimesso al sistema ministeriale l’avviso di consegna, l’avviso dell’esito dei controlli automatici e l’avviso di accettazione.

Dunque almeno l’invio della prima PEC dovrebbe sussistere nel sistema informatico dell’attore, pur potendosi in ipotesi attribuire a disguido la mancata ricezione delle altre tre pec: di tale elemento tuttavia non è stata fornita alcuna indicazione, né risulta comunque desumibile dalla schermata prodotta, dove il messaggio risulta ancora in attesa di essere inviato e dunque, a tutto voler concedere, attesta semmai un malfunzionamento del sistema del depositante.


Giova infine osservare che – dal documento allegato dall’attore alla propria istanza di rimessione e che rappresenterebbe la sequenza dei tentati invii – risulta che il primo deposito viene tentato venerdì 20 gennaio nel pomeriggio, riscontrando problemi, nulla viene tentato sabato 21, vengono effettuati due tentativi di invio domenica 22 e altri tre lunedì mattina 23 gennaio, giorno di scadenza del termine.
Il messaggio che compare è identico in tutte le occasioni e nulla attesta circa il malfunzionamento del sistema pubblico, rimettendo il mancato invio del messaggio ad un problema non determinato ma ascrivibile alle modalità di invio del depositante: sostanzialmente colui che deposita deve veder partire la propria pec, se il sistema funziona, indirizzata alla cancelleria del Tribunale di destinazione, ove poi non riceva conferma della consegna (ovvero del momento perfezionativo del deposito) e ciò sia imputabile a disservizio del sistema pubblico, potrà eventualmente essere rimesso in termini.

Nel caso di specie già dalla schermata prodotta risulta che il messaggio fosse in attesa di invio, circostanza che fa propendere per un problema ascrivibile all’utente, circostanza che non giova ai fini della rimessione in termini, essendo onere del difensore compiere correttamente le attività a lui demandate e mantenere in efficienza e sotto controllo il proprio apparato telematico ( argom. Da Trib. Milano 8.10.2015, Cass. 14827/2016, Trib. Milano 20 aprile 2016)

Va ancora osservato che il difensore che ha incontrato tali problemi, ben poteva il giorno 23 gennaio 2017 recarsi in cancelleria e farsi rilasciare attestazione circa l’effettiva sussistenza del malfunzionamento e l’impossibilità a depositare atti in via telematica e, al contempo, chiedere di essere autorizzato al deposito in forma cartacea, secondo quanto disposto dall’art. 16 bis, 4° comma, del D.L. 179/2012 convertito nella Legge n. 221/2012 laddove chiarisce che il Presidente del Tribunale può autorizzare il deposito con modalità non telematiche quando i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti e sussiste una indifferibile urgenza (Tribunale, Milano, sez. IX civile, ordinanza 12/01/2015).

Ove invece avesse appurato che il problema era ascrivibile al proprio sistema ben avrebbe potuto risolverlo e provvedere nei termini Nulla di tutto ciò, che avrebbe consentito un deposito tempestivo o comunque l’attestazione di un impedimento incolpevole che avrebbe potuto legittimare la rimessione in termini, è stato posto in essere dalla difesa di parte attrice, che ha preferito inoltrare istanza sulla scorta della semplice istantanea di una schermata, che nulla prova e che deve pertanto essere ritenuta inidonea a giustificare la richiesta di rimessione.

Nessun rilievo, sotto tale profilo, possono avere le comunicazioni via pec inviate ai difensori del convenuto e del terzo chiamato (peraltro anch’esse inviate oltre il termine, in data 24 gennaio 2017), atteso che il deposito della memoria deve avvenire in cancelleria, adempimento che non può ritenersi surrogato da una mera comunicazione inter partes, atteso che la funzione del deposito ricevuto dal cancelliere è quello di inserire ufficialmente l’atto nel fascicolo (cartaceo o telematico che sia) a disposizione di tutti le figure del processo.

Parimenti ininfluente appare il provvedimento 6.2.2017, che si limita a non provvedere sull’istanza di rimessione in termini, salva la verifica della effettiva ricezione dell’atto.
Non avendo dunque l’attore dedotto tempestivamente prove sull’an, la sua domanda risulta non provata e deve essere respinta.”

© massimo Ginesi 20 ottobre 2017 

il condominio è sempre consumatore

Lo ha affermato il Tribunale di Massa con sentenza 26 giugno 2017 n. 552, in una controversia ove il condominio – cui era stata notificato decreto ingiuntivo da parte di un fornitore – nel proporre opposizione eccepisce l’incompetenza territoriale del giudice, rilevando che – ove il condominio sia composto unicamente da operatori commerciali – non possa applicarsi il c.d. foro del consumatore.

Il Tribunale respinge l’eccezione, sull’assunto che al condominio – quale che sia la natura dei soggetti che lo compongono – deve sempre essere riconosciuta natura privatistica.

Va preliminarmente rilevato come risulti infondata come risulti infondata territoriale sollevata dall ’op ponente sull’assunto che al condominio non si debba riconoscere la qualifica di consumatore e non sarebbe dunque  applicabile il relativoforo disciplinato dal D.lgs 206/2005.  

La tesi risulta non accoglibile, atteso che la qualifica di consumatore è ricondotta  dalla giurisprudenza al condominio in quanto tale (da ultimo  Cassazione civile, sez. VI, 22/05/2015,  n. 10679), sull’assunto che “Al contratto concluso con un professionista da un amministratore di condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la disciplina di tutela del consumatore, agendo l’amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale”.

Pur non apparendo condivisibile il percorso logico che ancora oggi conduce la giurisprudenza di legittimità – sulla scorta di Cass. SS.UU. 914872008 – a ritenere che il contratto concluso dall’amministratore produca effetti direttamente in capo ai singoli condomini in virtù del rapporto di mandato, dovendosi viceversa ritenere che tale pattuzione vincoli il condominio in quanto tale all’unica e totale prestazione ivi dedotta (a mente di Cass. 9 8630/1996), salvo poi la possibilità per il creditore di attuarla esecutivamente in via parziaria nei confronti dei singoli ex art. 63 Ii comma disp. Att. C.c., paiono comunque condivisibili gli approdi circa la qualifica di consumatore da riconoscere al soggetto condominio.

Emerge dalla stessa giurisprudenza delle sezioni unite citata dall’opponente (Cassazione civile, sez. un., 18/09/2014,  n. 19663) che al condominio in quanto tale debba riconoscersi una soggettività autonoma, seppur imperfetta ed attenuata, rispetto ai suoi componenti e che lo stesso persegua scopi che non sono del tutto coincidenti con quelli dei singoli che lo compongono; affermano infatti le sezioni unite che il principio della necessaria concorrenza di legittimazione processuale fra amministratore e singoli – da sempre affermato dalla giurisprudenza per determinate controversie – “non trova applicazione relativamente alle controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un servizio comune, bensì la gestione di esso, ed intese, dunque, a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, o l’esazione delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino, nelle quali non vi è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più partecipante

Ne deriva che al condominio, quale centro di imputazione di interessi dotato di autonomia soggettiva  non perfetta (si rientrerebbe altrimenti nella categoria delle persone giuridiche, cui il codice del consumo non può applicarsi) si debbano riconoscere scopi  e funzioni secondo i parametri delineati dagli artt. 1117/1139 c.c., volti alla fruizione, gestione e manutenzione del bene immobile in cui il condominio è posto; a tali funzioni teleologicamente orientate – proprio per la non immediata correlazione fra i la natura/funzione del condominio e gli interessi esclusivi di uno o più partecipanti così come evidenziato dalle sezioni unite, deve essere riconosciuta una caratteristica ontologicamente privatistica, che sfugge alla natura imprenditoriale e agli scopi per cui agiscono i singoli che lo compongono.

Appare ragionevole ritenere che il condomino, nel momento in cui agisce come tale, ovvero per la gestione dei beni comuni e strumentali a proprietà solitarie, agisca comunque quale soggetto privatistico che persegue fini estranei alla natura imprenditoriale dei suoi componenti; fini che sono semplicemente volti alla fruizione e conservazione delle parti comuni di un fabbricato, in cui la destinazione funzionale delle singole unità che lo compongono non può essere necessariamente identitaria anche della connotazione soggettiva di consumatore.

Si dovrebbe altrimenti ritenere che il soggetto condominio possa repentinamente cambiare identità al solo mutare della destinazione di qualche unità, né si riuscirebbe a fornire la tutela prevista dal d.lgs 206/2005 a quei fabbricati misti composti da immobili con diversa destinazione, atteso che alla luce delle sezioni unite del 2014 si deve comunque aver riguardo al centro di imputazione collettivo e non già ai singoli individui che lo compongono.

Appare dunque più lineare e conforme allo spirito della legge, della interpretazione di legittimità sulla natura del condominio e a quella di tutela del consumatore ritenere che l’interesse condominiale – quale che sia la natura dei condomini – sfugge alla loro natura imprenditoriale, per rimanere circoscritto alla sola caratterizzazione privatistica che gli profilano gli artt. 1117/1139 c.c.

Ne deriva che, correttamente, il decreto ingiuntivo sia stato richiesto al Giudice del luogo ove il convenuto consumatore ha sede.”

© massimo ginesi 28 giugno 2017 

se non è indicato il compenso dell’amministratore si rischia la sospensione della delibera

La L. 220/2012 ha profondamente modificato la disciplina dettata dagli artt. 1129 e 1130 cod.civ., sicché oggi è previsto – a pena di nullità – che l’amministratore indichi dettagliatamente il proprio compenso all’atto dell’accettazione (art. 1129 XIV comma cod.civ.).

Le modalità con cui tale circostanza può avverarsi sono state individuate con riferimento a diverse prassi operative, purché al momento in cui si perfeziona la nomina risulti chiaramente l’entità dell’obbligazione che fa capo al condominio per la retribuzione delle attività svolte dal mandatario.

Ben potrà l’amministratore inviare un preventivo, che l’assemblea approva, ed accettare per relazione a quel documento, così come  ben potrà specificare il proprio compenso in sede di accettazione, purché quello che rappresenta uno degli elementi essenziali del contratto (l’accordo fra le parti sulla prestazione) risulti individuabile con sufficiente certezza.

E’ quanto ha sottolineato il Tribunale di Massa in una recente ordinanza, con la quale ha sospeso in via cautelare una delibera di nomina di amministratore, non risultando da alcun documento l’entità del compenso pattuito.

Il provvedimento sottolinea come sia indispensabile che sussista accettazione formale da parte dell’amministratore, come siano irrilevanti integrazioni successive del verbale  effettuate dal presidente e segretario della assemblea, essendo tali soggetti organi la cui operatività è limitata al contesto assembleare in cui sono nominati, che non sia sufficiente l’invarianza del compenso rispetto all’anno precedente in assenza di espressa comunicazione e come – ove si profili la nullità della nomina – il periculum che legittima la sospensione deve ritenersi intrinseco e senza necessità di ulteriori elementi di prova.

Osserva il giudice apuano (Trib. Massa ord. 13 aprile 2017): ” che a mente dell’art. 1129 XIV comma cod.civ. la mancata indicazione del compenso da parte dell’amministratore al momento della accettazione determina nullità della nomina.”

…che non risulta indicazione alcuna di tale compenso nel deliberato assembleare così come predisposto in sede di riunione nella compilazione manoscritta,

che non risulta prodotta dal Condominio alcuna accettazione dell’amministratore,

che non risulta prodotto dal Condominio né l’avviso di convocazione dal quale risulterebbe – a suo dire – indicato il compenso di cui avrebbe discusso l’assemblea (circostanza che avrebbe perlatro mero valore indicativo, ma non supplirebbe alla carenza di accettazione formale, oggi necessariamente presupposta dalla norma codicistica),

che la comunicazione di correzione del verbale, pacificamente predisposta e inviata ai condomini in epoca successiva alla assemblea per stessa ammissione dei convenuti e che reca date incomprensibili (20.8.2016 in intestazione, 22.6.2016 e 22.9.,2016 in calce), non pare allo stato – compatibilmente con la deliberazione sommaria della fase cautelare di sospensiva – avere rilievo integrativo del verbale, provenendo da soggetti che cessano le loro funzioni con la chiusura stessa della riunione (non avendo la figura di presidente e segretario alcuna ultrattività nel condominio rispetto alla assemblea in cui sono nominati) né può costituire accettazione ex art. 1129 cod.civ., non provenendo né essendo sottoscritta dall’amministratore

… che – comminando la norma la espressa sanzione della nullità – sia irrilevante che gli attori abbiano espresso voto favorevole (circostanza viceversa ostativa alla impugnativa ex art. 1137 cod.civ), potendo essere tale vizio fatto valer in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse

… che il periculum debba ritenersi in re ipsa, non potendosi ipotizzare una gestione da parte di soggetto la cui nomina potrebbe essere affetta da nullità, con i conseguenti riflessi sugli atti da costui posti in essere: “La delibera assembleare di nomina dell’amministratore condominiale non accompagnata dalla indicazione del compenso spettategli è illegittima e va sospesa, sussistendo tanto il requisito del fumus boni iuris (stante la chiara dizione del riformato art. 1129 cod.civ) che quello del periculum in mora (atteso che la gestione dei beni comuni non può essere affidata ad un soggetto che non sia validamente officiato dalla assemblea). Trib Roma 15.6.2016,

… che a nulla rilevi che l’amministratore già svolgesse il proprio mandato con il medesimo compenso nel precedente esercizio, atteso che la norma mira a garantire trasparenza e che è espresso onere dell’amministratore indicare il proprio emolumento sia all’atto del conferimento del mandato che dei successivi rinnovi (Trib. Milano 3.4.2016 n. 4294)”

© massimo ginesi 13 giugno 2017

il comodato non sempre è precario.

 

Il contratto di comodato assume, nella accezione comune, il significato di una mera concessione in uso di un determinato bene, che avviene solitamente a titolo gratuito, che consente al beneficiario di godere del bene e al proprietario di averne la restituzione a semplice richiesta.

E’ in effetti questa la configurazione delineata dall’art. 1803 cod.civ.: “[I] Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta.”[II]. Il comodato è essenzialmente gratuito.”

Tuttavia, ove il contratto sia destinato a soddisfare esigenze abitative del nucleo familiare del comodatario, la giurisprudenza è costantemente orientata a fornire della fattispecie una lettura meno favorevole al comodante, interpretazione che va ricondotta all’art. 1809 cod.civ.

In tal senso si è espressa anche di recente la giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile, sezione III, sentenza 31 maggio 2017, n. 13716) che ritiene del tutto “: condivisibile l’assunto dei Giudici di merito, secondo cui il comodato, quando caratterizzato da vincolo di destinazione quale quello riscontrato nel caso in esame (destinazione dell’immobile alle esigenze abitative di un nucleo familiare), non può ritenersi “precario”. Va, infatti, sul punto data continuità all’orientamento secondo cui il comodato di un bene immobile, stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha un carattere vincolato alle esigenze abitative familiari, sicché il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento, anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno ai sensi dell’art. 1809, secondo comma, cod. civ., ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante”

 

Anche molta della giurisprudenza di merito segue tale linea interpretativa fra cui, di recente,  Tribunale Massa 15 maggio 2017, che si sofferma anche sulla prova della esigenza sottesa alla pattuizione, in un caso emblematico  dei delicati, sofferti e difficili equilibri (rectius, squilibri) familiari che spesso rendono l’applicazione delle norme di diritto un esercizio non meramente scientifico.

LA vicenda attiene ad un contratto di comodato in cui non si fa menzione  della esigenza  abitativa familiare, stipulato da un nonno – che ha appena acquistato il bene  immobile riservando a se l’usufrutto e intestando la nuda proprietà al nipote – che  concede contestualmente al proprio figlio detta abitazione  in comodato. Nel frattempo la famiglia del figlio si disgrega, il nipote vive nell’immobile con la madre, il padre viene allontanato dal Tribunale dei minori per condotte violente e, pochi anni dopo, muore improvvisamente. Il nonno lascia ancora diversi anni il nipote – e la di lui madre – a vivere nell’immobile, salvo richiederne improvvisamente la restituzione appena il nipote diviene maggiorenne.

Osserva il Tribunale apuano che: “Il contratto intercorso fra le parti deve essere ricondotto alla fattispecie di cui all’art. 1809 II comma c.c.,anche a mente di quanto statuito da Cass. SS.UU. 20448/2014.

E’ pur vero che l’onere della prova circa l’esistenza di un’esigenza abitativa deve essere assolto, ove non risulti esplicitamente dall’atto, da colui che la invoca e quindi –in questo caso – dai convenuti. 

Così come è vero quanto stabilito dalla suprema corte, nella sentenza citata, che non “ogni qualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorchè disgregata”.

Non sarà tuttavia inutile sottolineare che la stessa pronuncia evidenzia come, tuttavia, “la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti. Ciò significa che il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desumibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento. La prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato nè prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all’uso familiare e non solo personale. Trattasi sempre di un mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.) che sono sottoponili al suo giudizio. Spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto.”

 

… Appare a tal proposito improbabile che il nonno che si determina ad acquistare un immobile per il nipote minore, riservando a se l’usufrutto, e che stipula contratto di comodato relativo a quello stesso immobile con il proprio figlio, padre di quel minore, non conosca a sufficienza la situazione sociofamilare dei propri più stretti congiunti e che tali elementi non sottendano la causa del contratto di godimento.

Vi è, a tal proposito, un altro fondamentale elemento, che consente di trovare ulteriore indizio di quanto testè prospettato e che induce vieppiù ad ascrivere la fattispecie contrattuale a quella delineata dall’art. 1809 II comma c.c.in ossequio a quella indagine sugli elementi connotativi che richiama la Corte di legittimità a sezioni unite “(epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.)”: le parti, seppure nell’ambito di una stesura contrattuale che è certamente approssimativa e atecnica, danno inequivocabilmente atto – all’art. 2 del contratto –che il “B. C. si obbliga a restituire detto immobile al termine del contratto”, di talchè le stesse parti mostrano di voler esulare dallo schema dell’art. 1810 cc per accedere ad un contratto che ha un termine che – a mente di quanto sopra evidenziato –appare del tutto ragionevolmente determinato per relationem alle esigenze abitative del nucleo familiare del comodatario B. C..

Non appare dirimente la dicitura “non appena ne verrà fatta richiesta”, contenuta nella stessa norma contrattuale, che è riferita comunque, per la sua stessa formulazione letterale, a richiesta da avanzare dopo la scadenza del termine contrattuale.

… Qualificato dunque il contratto nei limiti sopra evidenziati, ritenuto che per quanto emerso in giudizio (anche ex art. 115 c.p.c.) il B. G. – che ha oggi solo vent’anni –non sia ancor autosufficiente e conviva con la madre e che, pertanto, si debba  ritenere che il contratto non abbia ancor raggiunto il termine di scadenza in rapporto al fine per cui è stato stipulato, va analizzata la domanda relativa alle mutate condizioni dell’attore, che lo inducono a richiedere una risoluzione anticipata a mente dell’art. 1809 II comma c.c.

Va, a tal proposito, evidenziato quanto sostenuto dalle sezioni unite più volte richiamate: “il comodato a tempo determinato, soprattutto se con le connotazioni della lunga durata di cui ci si è occupati supra, nasce nella convinzione della piena stabilità del rapporto, anche tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno.

Questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e costituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamentale importanza per il beneficiario.

Con l’implicazione che il comodante, contrariamente a quanto ipotizzato da una risalente dottrina, ritiene di poter rispettare il contratto per tutto il tempo di durata prevedibile.

A fronte di questa scelta, che fa ritenere che il comodante non prevedesse di volere o dovere alienare il bene, non può trovare tutela la sua intenzione, verosimilmente ritorsiva, di rimuovere l’occupante rimastone beneficiario. Trova invece tutela il sopravvenire di un urgente e impreveduto bisogno.

La giurisprudenza, significativamente, non ha dovuto occuparsi spesso di questa disposizione. Si conviene generalmente tuttavia, in dottrina e nei precedenti noti (Cass. 1132/87; 2502/63), che la portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente. L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, nè capriccioso o artificiosamente indotto.Pertanto non solo la necessità di uso diretto, ma anche il  sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare.

E’ da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario.”

Sarà in proposito sufficiente notare che l’attore ha stipulato il contratto dieci anni fa, quando era già in età fortemente avanzata, riservando a sé l’usufrutto ma con l’ovvia prospettiva di far pervenire infine al nipote l’intera proprietà ed assicurando nel frattempo a costui, tramite il proprio figlio (e padre dell’allora nipote minore), un’adeguata abitazione.  L’attore non adduce improvvisi mutamenti nelle proprie condizioni economiche, ma solo uno stato di deterioramento fisiologico che gli imporrebbe maggiori spese. Si tratta peraltro di situazione non improvvisa né imprevedibile, atteso che il B. L. si è determinato alle proprie scelte contrattuali ad ottantrè anni, quando una simile evoluzione era più che prevedibile, mentre non risultano provate le ulteriori necessità né – soprattutto – i relativi maggiori esborsi necessari, atteso che per le testimonianze assunte, l’attore da tempo immemore vive con altri familiari che lo accudiscono quotidianamente.

Non risulta dunque raggiunta la prova della sussistenza dei requisiti di cui all’art. 1809 II comma c.c.”

Il Tribunale ha  rigettato la richiesta di risoluzione, ritenendo non provato il raggiungimento dello scopo contrattuale, il cui onere della prova era a carico dell’attore che domandava la restituzione del bene.

© massimo ginesi 6 giugno 2017 

 

 

Le spese personali imputate ai singoli condomini (ed altre storie…).

 

Una recente sentenza del Tribunale di Massa (13 marzo 2017 n. 207) affronta numerose questioni in tema di impugnativa di delibera, oltre alla preliminare eccezione di mancato esperimento della mediazione.

In realtà solo uno dei motivi addotti si rivela fondato ma, per la particolarità dei rilievi, può essere di interesse esaminare il contenuto dell’intero provvedimento.

LA MEDIAZIONE – il Condominio convenuto eccepisce in via preliminare il mancato esperimento della mediazione, poiché – a suo dire – il procedimento non ha mai avuto inizio essendosi  è fermato all’incontro preliminare, ove il mediatore ha dato atto della mancata disponibilità delle parti: osserva il Tribunale “L’eccezione non appare fondata: richiamato quanto già evidenziato nell’ordinanza 24.5.2016, va sottolineato che l’obbligo previsto dal D.lgs 28/2010 e succ. mod. non può ritenersi cogente a tal punto da obbligare le parti a prestare consenso obbligato ad una soluzione conciliativa.

La più recente giurisprudenza di merito, (Trib. Pavia 20.1.2017) ha evidenziato parametri rigidi nella valutazione della condotta delle parti che si sottraggano o non presenzino personalmente al primo incontro, impostazione che può essere condivisibile attesa la natura e la ratio dell’istituto, che deve arrivare a sollecitare quei distretti emotivi e paragiudiziari che potrebbero evolvere a favore di una definizione pregiudiziale della lite.

Nel caso di specie, tuttavia, tutte le parti e i relativi difensori risultano aver partecipato al primo incontro di mediazione del 16.12.2015, come da verbale prodotto, al quale tutti costoro – senza che si evidenzi una responsabilità precisa in tal senso – hanno dichiarato di non voler procedere a mediazione.

Per come deve essere strutturato il primo incontro ai sensi dell’art. 8 I comma D.lgs 28/2010 (Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento) e dunque per gli obblighi di avvertimento e sondaggio della disponibilità delle parti che sono posti in capo la mediatore, si deve ritenere che – all’esito di tale incontro – nessuna delle parti in causa abbia intravvisto margini utili di trattativa.

Non può pertanto ragionevolmente ritenersi necessaria alcuna ulteriore attività per ritenere avverata la condizione di procedibilità, a meno di non ritenere sussistente un potere coercitivo dell’istituto che oltrepasserebbe di gran lunga il confine della barriera costituzionale prevista dall’art. 24 Cost., nei cui confronti lo sbarramento posto dal D.Lgs 2872010 già appare di non assoluta solidità”

LA DELIBERA CHE APPROVA SPESE PERSONALI E’ NULLA – Agli attori è stato imputato, a consuntivo, un significativo esborso per spese personali, che gli stessi contestano, rilevando al contempo che non compete alla assemblea deliberare sul punto. Il Condominio ha opposto che si trattava di esborsi personali, dovuti a seguito della inerzia degli attori nel fornire i dati per la compilazione del registro di anagrafe condominiale  ex art. 1130 cod.civ.

Osserva il Tribunale “La censura è fondata poiché, aldilà della fondatezza o congruità delle somme richieste ad oggi non documentata, esula dai poteri della assemblea procedere alla approvazione ed imputazioni di spese individuali che non attengano alla gestione comune. Ove si tratti di spese postali relative a incombenze di interesse comune (ad esempio i costi delle raccomandate relative alla convocazioni di assemblea), le stesse dovranno essere ripartite per millesimi e dovranno trovare riscontro contabile nel rendiconto e nella relativa ripartizione e non solo in quest’ultima, cosicché sia garantita la facoltà di verifica che gli strumenti oggi previsti dall’art. 1130 bis cod.civ. sono destinati a fornire al singolo… 

...nel documento denominato rendiconto – sopra evidenziato – le spese personali per € 883,13 (così come indicate nel conguaglio 2014/2013) sono espressamente richiamate e non vi è dubbio che tale rendiconto sia stato oggetto di espressione della volontà assembleare.

Volontà che ha dunque superato il perimetro delle attribuzioni dell’organo collegiale delineato dall’art. 1135 cod.civ., circostanza che rende nulla la delibera unicamente su tale specifico punto, posto che il vizio lamentato – anche ex art. 1419 cod.civ. – non appare suscettibile di estendere il suo effetto alla approvazione del consuntivo relativo alla amministrazione delle cose comuni.

In ordine alla nullità di statuzioni di questo tipo, la giurisprudenza appare stabilmente orientata: “L’assemblea aveva esercitato un potere che non le spettava ex art. 1135 c.c., non rientrando tra le prerogative assembleari quelle di addossare ai condomini, in violazione dell’art. 1123 c.c., fantomatiche spese di natura personale, posto che l’assemblea non è dotata di “autodichia”, cioè non può farsi giustizia da sé.
Tali deliberati, infatti, esulavano dalle attribuzioni dell’assemblea, che non aveva il potere di imputare al singolo condòmino una determinata spesa, al di fuori di quelle inerenti la gestione, manutenzione e conservazione dei beni comuni condominiali e solo per la quota di sua spettanza, senza che la stessa fosse accettata e riconosciuta espressamente dalla condomina… (Cass. civ., Sez. II, 30/04/2013, n. 10196; Cass. civ. Sez. II, 21/05/2012, n. 8010; Cass. civ., Sez. II, 22/07/1999, n. 7890;Trib. Milano, Sez. XIII, 6/5/2004 n. 5717)”.


OBBLIGO DI RENDICONTO ED ACCESSO AI DOCUMENTI CONDOMINIALI – Gli attori si dolgono anche che l’amministratore non abbia prontamente riscontrato la loro richiesta di ottenere copia di alcuni documenti contabili, ritenendo che ciò costituisca violazione dell’obbligo di rendiconto. Osserva il Giudice di merito che “Gli attori paiono equivocare sull’obbligo di rendiconto ed il diritto di accesso del condomino alla documentazione contabile, attività che, seppur entrambe pertinenti al tema della gestione condominiale, non sono coincidenti né sovrapponibili.

L’obbligo di rendiconto è assolto dall’amministratore mediante la predisposizione dei documenti previsti dall’art. 1130 bis cod.civ. e il rispetto dei termini di cui all’art. 1130 n. 10 cod.civ., obblighi che peraltro configurano una violazione dei doveri che può dar luogo a revoca dell’amministratore ai sensi dell’art. 1129 cod.civ. ma che – in astratto – non configura necessariamente un vizio della delibera.

Nel caso di specie la documentazione contabile predisposta dall’amministratore … appare idonea – per natura e modalità – ad integrare sia i requisiti di cui all’art. 1130 bis cod.civ. sia a consentire al condomino quei poteri di controllo che la Suprema Corte ha più volte ritenuto siano soddisfatti anche con modalità e formalità che ne consentano un sostanziale esercizio (Cassazione civile n.8877 del 28/04/2005, Cass. 28 gennaio 2004, n. 1544 ); così si deve ritenere che agli attori sia stato pienamente reso il conto, atteso che essi stessi riconoscono di aver ricevuto la convocazione con allegata la documentazione (tanto è vero che si sono attivati per richiedere copia dei documenti giustificativi, come inequivocabilmente risulta dalla pec doc. 10 di parte attrice).

Altra ipotesi è invece la facoltà del singolo di accesso alla documentazione contabile, nel lasso di tempo antecedente alla assemblea, sì da poter esprimere un voto adeguatamente informato, circostanza che la giurisprudenza ha ritenuto poter costituire vizio della delibera ove tale facoltà sia gravemente compromessa o addirittura negata (Cassazione civile, sez. II, 21/09/2011,  n. 19210).

Va ancora osservato che la facoltà di accesso – oggi espressamente prevista dall’art. 1129 II comma cod.civ. – consente la visione presso lo studio dell’amministratore dei registri condominiali e della documentazione allegata, così come concorrente e complementare facoltà è consentita ex artt. 1130 bis II comma cod.civ. e 1129 VII comma cod.civ.

Tale facoltà non risulta sia stata esercitata dagli attori, che hanno invece azionato l’ulteriore e diverso diritto di richiedere copia, che tuttavia – aldilà dei costi e dei tempi necessari – è attività che non può essere posta quale requisito pregiudiziale alla partecipazione informata alla assemblea.

E’ il condomino che, nei modi e tempi necessari alla verifica e preliminarmente alla adunanza, può recarsi presso lo studio dell’amministratore e visionare la documentazione che richiede, tenuto conto che gli accessi e , ancor più il rilascio di copie, devono contemperarsi con l’attività professionale dell’amministrare (CAss. SS.UU. 4806/2005) , non divenire un aggravio o peggio una emulazione.

Peraltro – anche ove fosse stata provata l’impossibilità ad accedere alla documentazione condominiale – tale mancanza, ove si traduca in impossibilità di partecipazione informata alla delibazione, potrebbe costituire vizio solo per periodi antecedenti alla assemblea.

La mancata possibilità di accesso che gli attori lamentano attribuendola a indisponibilità dell’amministratore nei mesi successivi alla delibera impugnata (peraltro con richieste inviate dagli attori in prossimità delle festività natalizie e prontamente riscontrate dall’amministratore – compatibilmente con il periodo feriale – cui i B. non hanno più dato corso) in nessun caso potrà riverberarsi quale vizio su deliberati antecendenti, limitandosi ad assumere eventuale rilevanza ai diversi fini della domanda di revoca della amministratore, estranea al presente giudizio.

SPESE ASCENSORE, FONDI TERRANEI E TABELLE MILLESIMALI – “gli attori lamentano vizio della delibera poiché risulterebbero ripartite le spese di ascensore con esclusione dei fondi terranei, in violazione dell’art. 1124 cod.civ. Poiché tale assetto è contenuto nelle tabelle millesimali in uso nel condominio, costoro assumono anche che la delibera sia nulla poiché comporta deroga ai criteri legali di riparto, decisione che può essere assunta solo mediante convenzione

Va osservato che l’assemblea oggetto della odierna impugnazione si è limitata ad applicare le tabelle in uso nel condominio che, in effetti, escludono i fondi terranei dalle spese di ascensore. Tali tabelle peraltro, aldilà della capziosa obiezione che non siano firmate da alcuno, sono state prodotte in giudizio e risultano per espressa affermazione del convenuto – non espressamente contestata ex art 115 c.p.c. – in uso da anni.

Peraltro che tale tabella sia in uso da diversi esercizi deriva anche dal fatto che l’obiezione circa la loro origine e utilizzo sia stata mossa dagli attori solo in sede di impugnazione ma Non sia stata contestata – ad esempio – alla ricezione della convocazione con allegati i riparti.

Giova per inciso osservare che le tabelle prodotte dal condominio coincidono esattamente, nei valori, con quelle adottate nella ripartizione del consuntivo.

Va infine osservato che è nulla la delibera che scientemente e consapevolmente deroga ai criteri legali di ripartizione, intendendo discostarvisi (Cassazione Civile, sez. II, sentenza 19/03/2010 n° 6714).

Non risulta invece che la delibera impugnata contenga alcuna statuizione in tal senso, limitandosi ad approvare un rendiconto ripartito secondo i millesimi in uso nel condominio.

Era dunque onere degli attori, semmai, procedere ai sensi dell’art. 69 disp att. Cod.civ., ove ritengano che la tabella suddetta sia afflitta da errore e richieda revisione, domanda che non pare sia stata avanzata in questo giudizio”

 

LE SPESE PER L’ESERCIZIO DELL’ASCENSORE SONO ORDINARIEPriva di pregio anche la doglianza circa l’asserita straordinarietà delle spese relative a due interventi della ditta O. per complessive 593,68, dovute a “pronto intervento porta cabina” e “per corsa prolungata oltre il piano di controllo”, trattandosi pacificamente di spese connesse al mero “esercizio” e alla “manutenzione ordinaria” (Cassazione Civile, Sez. II, 23.12.2011, n. 28679)”

LA MANCATA INDICAZIONE DELL’IMPORTO DEL CONSUNTIVO NEL VERBALE DI ASSEMBLEAgli attori si dolgono ancora della nullità/annullabilità della delibera poiché sarebbe stati omessi gli elementi essenziali del consuntivo, approvato genericamente come “consuntivo 2014/2015” senza riportane l’importo o altri elementi qualificanti, sicchè agli attori non sarebbe consentito accertare – in quanto assenti – quale documento sia stato approvato. LA doglianza è priva di fondamento, poiché l’oggetto della delibera deve necessariamente essere correlato con i documenti inviati in uno con la convocazione, sicchè il richiamo generico al consuntivo 2014/2015 deve ritenersi riferito a quello già a mani dei condomini.

Né gli attori hanno dedotto che ne sia stato approvato altro, tanto è vero che gli stessi hanno poi proceduto al pagamento delle somme indicate, senza alcuna conseguenza o inconveniente.”

LA MANCATA APPROVAZIONE DELLA RIPARTIZIONE NON COMPORTA VIZIO DELLA DELIBERA – Gli attori lamentano che la delibera sia nulla o annullabile poiché non contiene espressa menzione della approvazione anche della ripartizione. Si è già detto sub 1 che la dicitura relativa alla generica approvazione del rendiconto – inteso come aggregato di tutti i documenti inviati dall’amministratore all’atto della convocazione – possa far ragionevolmente ritenere che la delibera si estenda anche alle ripartizioni allegate ai consuntivi e preventivi.

La circostanza, già evidenziata al punto precedente, che gli attori abbiano poi pagato quanto portato dai riparti induce a ritenere che questi atti fossero comunque pervenuti agli stessi sin dalla convocazione (circostanza che gli attori non hanno mai disconosciuto)

Va tuttavia osservato che la delibera che approvi il consuntivo ma non la sua ripartizione è ben lungi dall’essere viziata rimanendo, al più, incompleta, sì che le saranno preclusi determinati effetti quali quelli previsti dall’art. 63 disp. att. cod.civ. senza che tale mancanza possa riflettersi sulla sua validità, né sotto il profilo della nullità né della annullabilità, che possono essere ravvisate unicamente nei casi delineati da Cass. SS.UU. 4806/2005).”

RENDICONTO ED ESTRATTO CONTO NON DEVONO (E NON POSSONO) COINCIDERE  “Lamentano ancora gli attori che alcuni movimenti che risultano dagli estratti bancari non risulterebbero espressamente riportati nel rendiconto, circostanza che a loro dire comporterebbe ulteriore motivo di nullità.

La tesi è priva di fondamento: si è già evidenziata più sopra la giurisprudenza che, da tempo immemore indica in misura semplificata le forme del rendiconto, che si ritengono adeguate laddove consentano al condomino di comprendere la natura e l’origine delle somme che gli vengono richieste.

La stessa giurisprudenza ha da tempo evidenziato che il condominio non richiede forme rigorose nella tenuta delle scritture e che la sua contabilità sia comunque connessa ad un esercizio di competenza: Cassazione n. 10815 del 16 Agosto 2000, estensore Corona aveva precisato che “la Corte non deve risolvere la questione di diritto se l’amministratore debba rispondere della gestione sulla base del criterio di competenza o di cassa, ma è pur vero che l’amministratore dura in carico un anno, per cui la gestione viene rapportata alla competenza annuale” (pur non mancando pronunce successive che richiamano il criterio di cassa, cass. 9 maggio 2011, n. 10153).

Aldilà del criterio applicabile al condominio – plausibilmente governato da un criterio misto – va rilevato che nessuna norma e nessuna pronuncia, neanche dopo l’entrata in vigore della L. 220/2012, prevede una perfetta coincidenza fra movimentazioni contabili e rendiconto, attenendo le une ad un rapporto di conto corrente che vede necessariamente uno sviluppo in parte autonomo rispetto ai dati di esercizio su base annuale.”

Poiché peraltro gli attori lamentano l’impossibilità della verifica, da cui deriverebbe a loro dire – con un salto logico non del tutto comprensibile – vizio della delibera di approvazione, va osservato che il sistema approntato dall’art. 1130 bis cod.civ. e le facoltà di controllo in capo al condomino, previste da detta norma e dagli artt. 1129 e 1130 cod.civ., consentono al singolo, in ogni momento, di effettuare una verifica comparata,   specie con l’istituzione del registro di contabilità che impone l’annotazione di ogni movimento entra trenta giorni. Tale verifica può essere volta ad accertare la compatibilità e congruenza di ogni atto dell’amministratore, di talchè la documentazione da cui eventualmente desumere vizi nella gestione annuale non può essere limitata alla mera comparazione di consuntivo ed estratto conto, documenti che – di per sé – non richiedono assoluta e perfetta simmetria e congruenza.”

SEGRETARIO E PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA NON SONO ORGANI INDISPENSABILI E  LA LORO MANCATA NOMINA NON PREGIUDICA LA VALIDITA’ DELLA DELIBERA “Deducono infine gli attori che il verbale sarebbe affetto da nullità (da estendere alla delibera cui si riferisce) poiché non sono indicate le maggioranze con cui sono stati eletti presidente e segretario e che la calligrafia con cui è redatto il verbale sembrerebbe di persona diversa da colui che è indicato come segretario.

Entrambe le censure sono infondate; nessuna norma prevede espressamente la necessità di nomina di Presidente e Segretario della assemblea di condominio, che dunque ben potrebbero ragionevolmente non essere nominati senza che tale circostanza possa in alcun modo esplicare riflessi sulla validità della delibera: “La nomina del presidente e del segretario dell’assemblea di condominio non è prescritta da alcuna norma a pena di nullità, essendo sufficiente, per la validità delle deliberazioni, la maggioranza richiesta dalla legge. Pertanto, la mancata nomina di un presidente e di un segretario o l’eventuale irregolarità relativa ad essa non comportano invalidità delle delibere assembleari. (CAss. 5709/1987; Izzo in Giust. civ., fasc.4, 2010, pag. 893).

LA CALLIGRAFIA DEL VERBALE – Ancor meno pregio riveste la questione della calligrafia del verbale: nessuna norma sovrintende a tale adempimento, nessuna norma – tantomeno – prevede sanzioni in tal senso, essendo semmai unicamente richiesto che il verbale rispecchi il contenuto delle delibere e degli accadimenti assembleari, circostanza che non pare posta in discussione.

Peraltro principi di senso comune implicano che il Segretario  ben possa valersi di un ausiliario nella scrittura (o semplicemente scrivere il testo ad un computer portatile) senza che l’assenza di nesso calligrafico fra lo scritto e la sua persona possa avere alcuna influenza sulla validità dell’atto.”

© massimo ginesi 30 marzo 2017

 

opposizione a decreto ingiuntivo: quando l’acconto non basta ad evitare le spese di lite

Accade con frequenza che – nelle more della richiesta di decreto ingiuntivo da parte del creditore- il debitore versi alcuni acconti.

A fronte di tali pagamenti si discute  se siano dovute le spese del decreto, se sia legittima l’opposizione, se il decreto possa ancora essere usato come titolo e chi debba pagare le spese della eventuale fase di opposizione.

Nel caso di specie, affrontato dal Tribunale di Massa con sentenza 23.2.2017,   il Condominio – eseguiti in suo favore lavori straordinari in appalto – non aveva provveduto al saldo del prezzo dovuto, limitandosi a versare un modesto acconto di mille euro a fronte di circa  dodicimila ancora pretesi dall’appaltatore.

Il pagamento era avvenuto dopo l’emissione ma prima della notifica del decreto, il Condominio ha proposto opposizione al solo scopo di non far divenire esecutivo un titolo per somme supeirori a quelle effettivamente ancora dovute.

Osserva il Tribunale che “L’opposizione promossa risultata infondata e come tale deve esser rigettata, seppure il decreto – per i fatti parzialmente estintivi successivamente intervenuti – debba comunque essere revocato (Cass. SS.UU. 7448/1993).
Va osservato che le somme dovute dal Condominio alla opposta erano effettivamente quelle richieste in via monitoria, e ciò sia al momento del deposito del ricorso (16.5.2016) che al momento della emissione del provvedimento di ingiunzione (17.5.2016), essendo intervenuto il versamento del primo acconto solo in data 26.5.2016.”

Il Giudice di merito richiama una consolidata giurisprudenza della Cassazionela fondatezza (o meno) dei motivi dell’opposizione al decreto ingiuntivo deve essere valutata con riferimento non alla data di proposizione del ricorso, ma a quelle della emissione del decreto medesimo: e che è poi, anche, la data rispetto alla quale deve valutarsi la fondatezza in fatto ed in diritto della decisione giudiziale adottata. E ciò in aderenza a principi di diritto enunciati più volte in “subiecta materia” dalla giurisprudenza (uniforme, costante e consolidata) di questa Corte (cfr. ad es. tra le più recenti: Cass. 18.10.1983 n. 6121; Cass. 8.6.1985 n. 3482) …” Cassazione civile, sez. lav., 11/04/1990,  n. 3054

Ai fini dunque delle spese “Ne consegue che ove il pagamento avvenga in data successiva alla emissione del decreto, come nel caso di specie, la necessità della opposizione ai fini di non far divenire esecutivo il titolo non è affatto necessaria, ben potendosi eventualmente far valere gli intervenuti e successivi pagamenti in sede esecutiva, ove il creditore si determinasse ad azionare il titolo senza tenerne conto: “D’altronde è noto che il decreto ingiuntivo deve essere necessariamente revocato nel giudizio di opposizione esclusivamente quando risulti la fondatezza anche solo parziale dell’opposizione stessa con riferimento alla data di emissione del decreto. Quando invece il debito si estingua per un adempimento successivo alla suddetta data e debba quindi escludersi l’indicata fondatezza, anche se il provvedimento viene ugualmente revocato, devono comunque porsi a carico dell’ingiunto le spese del procedimento. Ove in quest’altra seconda ipotesi il decreto ingiuntivo non venga revocato, ovviamente resta salva l’opponibilità dell’avvenuto pagamento se il creditore, ancorché soddisfatto, si avvalga del provvedimento non revocato come titolo esecutivo (Cass. 7526/2007).”

Il debitore dunque che, con troppa solerzia, promuova opposizione a fronte di un modesto pagamento – avvenuto dopo l’emissione del decreto – rischia di vedersi condannato anche alle spese di detta fase.

Non sono dovuti, come invece aveva richiesto l’appaltatore, gli interessi di mora previsti dal D. lgs 231/ 2002: “infondata si rivela la richiesta di parte opposta di riconoscimento degli interessi moratori ex d.lgs 231/2002, trattandosi di disposizione che a mente dell’art. 2 di tale testo normativo si applica unicamente ai rapporti fra imprenditori (o liberi professionisti) e fra costoro e la pubblica amministrazione, mentre è inapplicabile al Condominio, che va ascritto al genus del consumatore (Trib. Roma 19 settembre 2011 n. 17887); non risulta invece che l’opposto abbia dedotto la sussistenza di patti relativi a interessi in misura superiore a quella legale o abbia dimostrato l’esistenza del danno ex art. 1224 II comma cod.civ.”

© massimo ginesi 27 febbraio 2017

scale in supercondominio: di chi sono e a che titolo? quanti problemi…

Accade con frequenza che un immobile posto in un edificio complesso,  ascrivibile alla fattispecie del c.d. supercondominio (oggi espressamente disciplinata dall’art. 1117 bis. cod.civ. )  e munito di più ingressi  distinti da autonomi numeri civici,  sia servito dalle scale che si dipartono  sia dall’uno che dall’altro androne.

Le une servono un’ala dell’edificio e le altre la restante parte, tuttavia una specifica unità immobiliare si giova – per la sua conformazione – di entrambe e, poiché nel suo titolo di acquisto si specifica che su una delle scale ha “diritto di passo”, il titolare ritiene di essere esonerato dalle spese della scala su cui ritiene di transitare solo a titolo di servitù di passo.

Nel fabbricato, proprio per la sua complessità (e litigiosità), da tempo non si riescono ad approvare le tabelle millesimali e così le diverse spese – ivi comprese quelle per i lavori straordinari a detta scala – vengono ripartite, salvo conguaglio, in forza di una tabella provvisoria e  mai approvata, che tuttavia attribuisce anche a quel condomino i millesimi scale su entrambi i manufatti.

Costui impugna le delibere, assumendone l’illiceità e chiedendo al Tribunale – oltre alla cassazione dei deliberati –  che venga accertata che la proprietà della scala incriminata è da riconoscere solo  in capo ai condomini del numero civico X , che in suo favore sussiste su tale scala unicamente di una servitù di passo, con conseguente esonero dalle spese e – in via subordinata – che vengano adottate in via giudiziale  le tabelle millesimali che il condominio, nonostante diversi tentativi, non è mai riuscito ad approvare.

Il Tribunale di Massa, con sentenza parziale 5 dicembre 2016, si pronuncia sulle diverse domande, evidenziando diversi profili che possono risultare di interesse applicativo generale.

Il giudice di merito osserva che: “La domanda di parte attrice risulta fondata unicamente in ordine alla richiesta di determinazione dei millesimi in via definitiva e solo in tal senso dovrà e potrà essere accolta.
Risultano invece infondate le domande dell’attrice relative all’accertamento sulla proprietà altrui della scala cui accede alla propria unità dalla via R. A. 13, sull’assunto che ella sarebbe proprietaria unicamente della scala a proprio esclusivo servizio che affaccia sul civico 7 sempre della via R.A., godendo sull’altro manufatto unicamente di servitù di passo nonché  quelle conseguenti e relative alla impugnazione della delibera 18.7.2009. “

a) la titolarità delle scale,  bene tendenzialmente comune. 

Il Tribunale si sofferma preliminarmente sulla natura delle scale quale bene necessariamente comune, salvo diversa qualificazione del titolo o in base alla funzione eventualmente limitata   ad alcuni condomini  cui siano destinate, laddove la funzione principale e comune di mobilità e accesso all’interno del complesso edilizio sia assolta da altro manufatto.

“…non può non rilevarsi come il complesso edilizio denominato oggi Condominio C. debba essere ascritto al genus dei fabbricati edilizi complessi, disciplinati dall’art. 1117 bis cod.civ. (così come introdotto dalla legge 220/2012) fattispecie in precedenza delineata – con esiti pressoché coincidenti – dalla prevalente giurisprudenza.
Si tratta indubbiamente di fabbricato dalle caratteristiche peculiari, con parti destinate a fornire utilità maggiore (o esclusiva) ad alcuni dei condomini, ma tale ultimo aspetto ove esistente e rilevante dovrà essere risolto nell’ambito dell’art. 1123 III comma cod.civ., senza che possa fungere da  presupposto logico e necessario per affermare l’esistenza di condominii distinti.
Risulta infatti che l’intero complesso immobiliare, per ciò intendendo l’intero involucro edilizio cui si accede dai civici 7 e 13 della via R.A., seppure articolato su più corpi di fabbrica e con coperture parzialmente autonome, non si distingua in unità edilizie funzionalmente autonome e separate dalle altre ma comporti una commistione delle strutture murarie principali, delle falde di copertura, degli ingressi e delle parti comuni che risultano, di volta in volta, destinate a fornire una utilità indistinta all’intero complesso, cui – in forza della norma sopra richiamata – devono ritenersi comuni per funzione ex art. 1117 nn. 1 e 3 cod.civ. , ove ciò già non risulti dal titolo.
La stessa unità immobiliare della attrice risulta posizionata in maniera trasversale rispetto ai due civici contraddistinti dal 7 e dal 13, sicché può accedere da entrambi gli androni e fruire delle scale posizionate in ciascuno, così come – elemento che si rivela ulteriormente qualificante – si estende, seppure parzialmente, anche sotto la copertura della porzione di edificio riconducibile al civico 13 e servita dalla scala oggetto di contesa (poco importa se con verande o portici o stanze, rilevando a tal fine unicamente il perimetro della proprietà esclusiva servita dalle parti comuni).
Tali elementi sarebbero sufficienti a considerare l’immobile un organismo edilizio complesso (c.d. supercondominio), che vede in comune – a mente del disposto di cui agli artt. 1117 e 1117 bis cod.civ. – le parti comuni necessarie alla sua stessa sussistenza.
Non vi è dubbio che, fra queste, vi siano – per costante giurisprudenza – le scale, che non solo servono di accesso alle singole unità, ma sono ritenute elemento necessariamente comune negli edifici multipiano: “Le scale e i relativi pianerottoli, negli edifici in condominio, costituiscono strutture essenziali del fabbricato e rientrano, in assenza di una diversa disposizione, fra le parti comuni, anche se sono poste a servizio solo di alcuni proprietari dello stabile.” Cassazione civile, sez. VI, 09/03/2016,  n. 4664
Nel caso di specie non risultano titoli, anche alla luce di quanto si dirà in appresso, che attribuiscano le scale in proprietà specifica ad alcuni condomini, mentre esiste con ogni evidenza una destinazione funzionale delle scale oggetto di contesa ad accedere alla unità della attrice, nonchè al tetto che in parte la copre in quella porzione di fabbricato. Ad ulteriore connotazione della funzione collettiva dell’androne del civico 13 e delle scale che dallo stesso si dipartono, va osservato che diversi impianti funzionali all’unità della attrice trovano ivi allocazione.
Non potrà dunque non ritenersi comune anche a detta unità sia l’androne che le scale che hanno accesso dal civico 13 di via R.A. e che svolgono funzione comune all’interno del Condominio C. complessivamente inteso.”

b) eventuali ipotesi di titolarità parziale 

“Semmai, per quelle parti che risultino unicamente destinate a servire solo alcuni condomini, varrà l’esclusione in forza dell’art. 1123 III comma cod.civ. e della conseguente giurisprudenza che – in tal caso – ravvisa anche una proprietà limitata ai soli soggetti che se ne giovano: “Le scale danno accesso alle proprietà esclusive e per tale ragione sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo, essendo necessarie all’uso comune. Le obiettive caratteristiche strutturali, per cui dette scale servono in modo esclusivo all’uso o al godimento di una parte dell’immobile, ne fanno venire meno in questo caso il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene vince l’attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario.” Cassazione civile, sez. II, 19/04/2016,  n. 7704
In sede di redazione delle tabelle il tecnico dovrà dunque valutare se dette scale, in quanto inidonee a rendere una funzione per taluni dei condomini (anche solo potenziale per l’accesso ad una porzione di tetto che li riguarda), debbano ritenersi di proprietà solo di alcuni, così come dovrà valutare – ai fini della  caratura millesimale – l’effettiva entità della proprietà servita dalla parte comune (in ossequio ai principi stabiliti da Cass. 1451/2014).
Si tratta tuttavia di principi che attengono alla effettiva imputazione della spesa ai singoli condomini relativamente a parti comunque comuni e non già di circostanze che si rivelino idonee ad incidere sulla titolarità delle stesse.
Con la considerazione ulteriore che l’utilità deve essere valutata in senso ampio, astratto e potenziale, per quelle stesse ragioni che attribuiscono anche ai fondi che hanno accesso autonomo dalla strada le relative spese, seppure nella dimidiata misura di cui all’art. 1124 cod.civ. (Cass. n. 4419/2013; n. 15444/2007)
Non vi è dubbio, dunque, che ai fini del giudizio, la scala per cui è controversia risulti con certezza rendere una funzione nei confronti della attrice e debba pertanto essere ritenuta comune anche a costei.

C) il rilievo del titolo, proprietà o servitù?

“A superare tale qualificazione non valgono i titoli addotti dalla A., in forza dei quali l’attrice assumerebbe di essere mera titolare di una servitù di passo e di dover essere dunque esonerata dalle relative spese.
A tal proposito coglie nel segno la difesa della convenuta B., laddove ravvisa nell’atto notaio C. 1.7.1949 l’elemento costitutivo del Condominio C..
Con quella disposizione E.C.C., originaria unica proprietaria dell’intero complesso, cedeva per la prima volta ad un terzo – tal L. R. – una unità posta nel complesso immobiliare, creando così i presupposti per la nascita dell’edificio in condominio che sorge – senza necessità alcuna di atti costitutivi specifici o di regolamenti ad hoc – nel momento in cui almeno due unità immobiliari iniziano ad appartenere a soggetti diversi (Cass.Sez.II 19429/04).
In tale atto non emerge alcuna volontà della E.C.C. né di costituire servitù a favore della proprietà a lei rimasta (e che successivamente alienerà – in parte – al dante causa della odierna attrice) né tantomeno appare desumibile in alcun modo la volontà di dar luogo a più condominii separati, come afferma l’A., apparendo il richiamo al civico di accesso meramente descrittivo della unità effettivamente ceduta.
Non appare qualificante, in tal senso, neanche l’atto di vendita a C. – dante causa della odierna attrice e che acquista con atto notaio C.del 24.10.1953 – in cui il termine “diritto di passo” appare utilizzato in modo atecnico e meramente descrittivo, volto a qualificare unicamente la facoltà di accesso e uso dell’unità venduta anche dalla scala che diparte dal civico 13, che non a caso non è definita appartenete ad altro edificio ma semplicemente “secondaria”, ovvero intesa come manufatto appartenente al medesimo complesso immobiliare ma destinata, per funzione ed uso, a rendere utilità anche a quella specifica unità immobiliare compravenduta e, quindi, anche a lei comune, seppur in affiancamento ad altro accesso che si ritiene principale (rectius, personale).

D) la costituzione di servitù in condominio dopo la sua nascita

Del resto alla possibilità di costituire servitù sulle parti comuni da parte di E. C. C., una volta che il Condominio aveva iniziato ad esistere con l’atto del 1949, osta la circostanza che l’imposizione di pesi reali su beni ormai comuni non è più consentita all’originario unico proprietario in assenza del consenso degli altri condomini (ovvero, nella fattispecie, del R.).

E) riparto provvisorio e approvazione delle tabelle

Alla riconosciuta proprietà comune della scala de quo, consegue l’infondatezza della impugnativa delle delibere azionata con la domanda principale, anche alla luce dei seguenti principi:

  • è sempre consentito al condominio disporre un riparto provvisorio delle spese, su base proporzionale, al fine di procedere alle necessarie opere di manutenzione
  • le tabelle millesimali e comunque i criteri di riparto provvisori non richiedono approvazione all’unanimità, laddove si ispirino a criteri proporzionali assimilabili al disposto di cui all’art. 1123 cod.civ. (o, nella fattispecie, di cui all’art. 1124 cod.civ. ) e possono essere approvai con la maggioranza prevista dall’art. 1136 II comma cod.civ. (Cass. SS.UU 18477/2010), nel caso ampiamente raggiunta.
  • tutte le delibere sono sempre state assunte in via provvisoria, in attesa di approvazione di tabella millesimale definitiva, ivi compresa quella del 27.5.2011 (come espressamente risulta dal relativo verbale), circostanza quest’ultima che rende priva di fondamento anche l’eccezione relativa a cessazione della materia del contendere sollevata dal convenuto condominio.

F) il titolare di servitù usa le scale gratis?

Non sarà inutile rilevare che, anche ove per ipotesi si fosse voluto riconoscere l’esistenza di servitù a favore della attrice, non muterebbero le conseguenze concrete in ordine alla imputazione delle spese, circostanza comunque dirimente in ordine alla legittimità delle delibere impugnate: a mente dell’art. 1069 III comma cod.civ. ove le opere giovino anche al fondo servente costui deve partecipare alle spese (App.-Genova 5.1.2011) ed è plausibile che nel caso peculiare la modalità dei rispettivi contributi debba e possa essere modulata sul disposto dell’art. 1124 cod.civ.

G) domande di accertamento di diritti reali e litisconsorzio 

Sussisteva indubitabilmente legittimazione necessaria dei singoli condomini in ordine alla domanda di accertamento relativa a diritti reali sulle parti comuni, mentre sussiste pacificamente legittimazione autosufficiente del condominio per il giudizio relativo alla impugnativa.

H) la richiesta di adozione dei millesimi

Parimenti sussiste interesse del singolo condomino a veder adottata una tabella millesimale definitiva, volta al riparto delle spese in accordo con i principi codicistici (Trib. PAlermo, 22 marzo 2011).

il Giudizio è dunque destinato a proseguire: nella sentenza parziale il Tribunale “Dichiara che le scale di accesso del Condominio C., con accesso dal civico 13 della via R. A., costituiscono bene condominiale ex art. 1117 cod.civ. e sono comuni anche alla attrice C. A. 
respinge le domande relative alla impugnativa della delibera 18.7.2009
Dispone la remissione della causa in istruttoria e statuisce in ordine alla prosecuzione del giudizio relativo alla formazione delle tabelle millesimali come da separata ordinanza”

© massimo ginesi 2 febbraio 2017