La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II ord. 4.2.2021 n. 2635 rel. Scarpa) ripercorre l’orientamento interpretativo maturato anteriormente alla entrata in vigore dell’art. 69 disp.att. cod.civ., così come novellato nel 2012.
In forza di principio di diritto affermato dalle sezioni unite del 2010, la tabella millesimale che rispecchi i valori proporzionali delle singole unità e non deroghi in via contrattuale ai criteri previsti dall’art. 1123 c.c. può essere approvata a maggioranza; la sua impugnativa non comporta litisconsorzio necessario dei singoli condomini ma vede legittimato passivo unicamente l’amministratore.
La pronuncia giudiziale di revisione ha valenza ex nunc e, dunque, non avendo portata retroattiva, comporta che le delibere precedentemente adottate sula scorta delle tabelle oggetto di revisione mantengano piena validità.
“Non può trovare applicazione nel presente giudizio, che attiene a domanda di revisione dei valori proporzionali espressi nella tabella millesimale proposta con citazione del 19 maggio 2004, l’art. 69 disp. att. c.c., comma 2 nella riformulazione conseguente alla L. 11 dicembre 2012, n. 220.
Non di meno, la sostanziale fondatezza del primo motivo di ricorso e l’erroneità della decisione della relativa questione di diritto operata dalla Corte d’appello di Cagliari (nella parte in cui la sentenza impugnata ha fatto derivare dalla riqualificazione della domanda attorea come revisione delle tabelle la necessità del litisconsorzio) discendono alla stregua dell’interpretazione offerta da Cass. Sez. U, 09/08/2010, n. 18477.
Tale sentenza chiarì come l’atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non deve essere deliberato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 c.c., comma 2, purchè tale approvazione sia meramente ricognitiva dei valori e dei criteri stabiliti dalla legge, e quindi dell’esattezza delle operazioni tecniche di calcolo della proporzione tra la spesa ed il valore della quota o la misura dell’uso.
I criteri legali di ripartizione delle spese condominiali, stabiliti dall’art. 1123 c.c., possono essere derogati, come prevede la stessa norma, mediante convenzione, la quale può essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “di natura contrattuale”), o in una deliberazione dell’assemblea che venga approvata all’unanimità.
Viene, quindi, imposta, a pena di radicale nullità l’approvazione di tutti i condomini per le sole delibere dell’assemblea di condominio con le quali siano stabiliti i criteri di ripartizione delle spese in deroga a quelli dettati dall’art. 1123 c.c., oppure siano modificati i criteri fissati in precedenza in un regolamento “contrattuale” (Cass. Sez. 2, 19/03/2010, n. 6714; Cass. Sez. 2, 27/07/2006, n. 17101; Cass. Sez. 2, 08/01/2000, n. 126). Rivela dunque natura contrattuale soltanto la tabella da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese, ovvero approvare quella “diversa convenzione”, di cui all’art. 1123 c.c., comma 1. Se, invece, sia stata approvata una tabella meramente ricognitiva dei criteri di ripartizione legali, e se essa risulti viziata da errori originari o da sopravvenute sproporzioni, a tali situazioni può rimediare la maggioranza dell’art. 1136 c.c., comma 2, per ripristinarne la correttezza aritmetica (Cass. Sez. 6 – 2, 25/01/2018, n. 1848; Cass. Sez. 2, 25/10/2018, n. 27159).
La giurisprudenza ha anche tratto le dovute conseguenze di ordine processuale dall’insegnamento di Cass. Sez. U, 09/08/2010, n. 18477.
Una volta affermato il fondamento assembleare, e non unanimistico, dell’approvazione delle tabelle, alcuna limitazione può sussistere in relazione alla legittimazione dal lato passivo dell’amministratore per qualsiasi azione, ai sensi dell’art. 1131 c.c., comma 2, volta alla determinazione giudiziale o alla revisione di una tabella millesimale che consenta la distribuzione proporzionale delle spese in applicazione aritmetica dei criteri legali (tale risultando, nella specie, la domanda proposta da P.L., la quale assume l’erroneità delle tabelle millesimali vigenti in relazione ai valori proporzionali della sua unità immobiliare e di quelle di M.M.M. e di Mo.Al.).
Si tratta, infatti, di controversia rientrante tra le attribuzioni dell’amministratore stabilite dall’art. 1130 c.c. e nei correlati poteri rappresentativi processuali dello stesso, senza alcuna necessità del litisconsorzio di tutti i condomini. Riconosciuta, nella sostanza, la competenza gestoria dell’assemblea in ordine all’approvazione ed alla revisione delle tabelle millesimali, non vi può essere resistenza a ravvisare in materia altresì la rappresentanza giudiziale dell’amministratore (come del resto desumibile poi dal già richiamato art. 69, disp. att. c.c., comma 2 nella riformulazione conseguente alla L. 11 dicembre 2012, n. 220, nella specie non applicabile ratione temporis) (Cass. Sez. 2, 04/08/2017, n. 19651; Cass. Sez. 2, 10/03/2020, n. 6735).
…secondo l’orientamento di questa Corte, la portata non retroattiva della pronuncia di formazione o di revisione giudiziale delle tabelle millesimali comporta che non possa affatto affermarsi l’invalidità (o addirittura l’illiceità fonte di danno ex art. 2043 c.c., come ipotizza la ricorrente) di tutte le delibere approvate sulla base delle tabelle precedentemente in vigore, il che provocherebbe, altrimenti, pretese restitutorie correlate alle ripartizioni delle spese medio tempore operate, in applicazione della cosiddetta “teoria del saldo”(Cass. Sez. 2, 10/03/2020, n. 6735; Cass. Sez. 2, 24/02/2017, n. 4844; Cass. Sez. 3, 10/03/2011, n. 5690; Cass. Sez. U, 30/07/2007, n. 16794).”
Un caso curioso (ma non così infrequente), che prende le mosse da Chiavari , ove in un condominio l’assemblea ha deliberato di dismettere il servizio di pulizia scale e stabilire che ciascun condomino provvederà a turno alla pulizia e, ove non intenda farlo, dovrà pagare qualcuno che lo faccia in sua vece.
Il Tribunale di Chiavari aveva ritenuto nulla la delibera, che invece la Corte di Appello di Genova ha ritenuto corretta; la Corte di legittimità (Cass.Civ. sez.VI-2 ord. 13 novembre 2018 n. 29220 rel. Scarpa) ha cassato la sentenza di secondo grado, poiché una simile decisione finisce per incidere sul criterio legale di ripartizione, certamente derogabile, ma solo mediante convenzione e non con delibera maggioritaria.
Osserva la corte: “deve ribadirsi che una deliberazione adottata a maggioranza di ripartizione degli oneri derivanti dalla manutenzione di parti comuni, in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e ss. c.c., seppur limitata alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, va ritenuta nulla per impossibilità dell’oggetto, giacché tale statuizione, incidendo sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata dalla legge o per contratto, eccede le attribuzioni dell’assemblea e pertanto richiede, per la propria approvazione, l’accordo unanime di tutti i condomini, quale espressione della loro autonomia negoziale (Cass. Sez. 2, 16/02/2001, n. 2301; Cass. Sez. 2, 04/12/2013, n. 27233; Cass. Sez. 2, 04/08/2017, n. 19651).
Si ha riguardo, nella specie, a delibere assembleari che, essendo stato revocato l’appalto affidato dal condominio a terzi per la pulizia delle scale, hanno stabilito che tale incombenza spetti a turno ai singoli partecipanti, i quali, ove non intendano sobbarcarsi personalmente l’opera, possono farsi sostituire da terzi sopportandone i costi
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale più recente, la ripartizione della spesa per la pulizia delle scale va effettuata in base al criterio proporzionale dell’altezza dal suolo di ciascun piano o porzione di piano a cui esse servono, in applicazione analogica, in parte qua, dell’art. 1124 c.c., il quale è espressione del principio generale posto dall’art. 1123, comma 2, c.c., e trova la propria ratio nella considerazione di fatto che i proprietari dei piani alti logorano le scale in misura maggiore rispetto ai proprietari dei piani bassi (Cass. Sez. 2, 12/01/2007, n. 432) .
Come tutti i criteri legali di ripartizione delle spese condominiali, anche quello inceente alle spese di pulizia e di illuminazione delle scale può essere derogato mediante convenzione modificatrice della disciplina codicistica contenuta o nel regolamento condominiale “di natura contrattuale”, o in una deliberazione dell’assemblea approvata all’unanimità da tutti i condomini (Cass. Sez. 2, 04/08/2016, n. 16321; Cass. Sez. 2, 23/12/2011, n. 28679; Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300; Cass. Sez. 2, 17/01/2003, n. 641; Cass. Sez. 2, 19/03/2010, n. 6714; Cass. Sez. 2, 27/07/2006, n. 17101; Cass. Sez. 2, 08/01/2000, n. 126).
È in ogni caso necessario, perché sia giustificata l’applicazione di un criterio di ripartizione delle spese diverso da quello legale, commisurato alla quota di proprietà di ciascun condomino, che la deroga convenzionale sia prevista espressamente (Cass. Sez. 2, 29/01/2000, n. 1033).
La «diversa convenzione» ex art. 1123 c.c. può, peraltro, essere adottata anche in funzione non “normativa”, e cioè non per sostituire statutariamente il titolo negoziale a quello legale o regolamentare nella relativa disciplina, bensì con riguardo al riparto di una singola spesa o di una specifica gestione.
Tuttavia, poiché pure in tal caso la convenzione viene ad incidere sulla misura degli obblighi dei singoli partecipanti al condominio, essa non può essere rimessa all’espressione della regola collegiale sintetizzata dal principio di maggioranza, ma deve comunque fondarsi su una deliberazione unanime, non limitata ai presenti all’assemblea (Cass. Sez. 2, 23/05/1972, n. 1588).
Come già considerato, il dovere dei condomini di contribuire alle spese in proporzione al valore della rispettiva unità immobiliare o all’utilità che traggano del bene o dal servizio comune trova la sua fonte nel diritto dominicale di condominio, e perciò non può rientrare nelle attribuzioni dell’assemblea una potestà di deroga ai criteri legali di cui agli art. 1123 e ss. c.c.
A tali principi non si è uniformata l’impugnata sentenza, avendo essa incomprensibilmente ritenuto le delibere impugnate concernenti “le modalità di esecuzione delle spese di pulizia delle scale”, ovvero attinenti “all’organizzazione ed al funzionamento delle cose comuni”. Le delibere impugnate non rivelano, invece, una portata meramente organizzativa, concernente soltanto le modalità d’uso delle cose comuni, o la gestione ed il funzionamento dei servizi condominiali, materie certamente rientranti nelle competenze collegiali.
Va conclusivamente affermato che il diritto-dovere di ciascun condomino, ex art. 1118 c.c., di provvedere alla manutenzione delle cose comuni comporta certamente non solo l’obbligo di sostenere le spese, ma anche tutti gli obblighi di facere e di pati connessi alle modalità esecutive dell’attività manutentiva, rimanendo tuttavia affetta da nullità la delibera dell’assemblea condominiale con la quale, senza il consenso di tutti i condomini espresso in apposita convenzione, si modifichino a maggioranza i criteri legali o di regolamento contrattuale di riparto delle spese necessarie per la prestazione di servizi nell’interesse comune (quale quello di pulizia delle scale), venendo a incidere sui diritti individuali del singolo condomino attraverso l’imposizione, come nelle specie, di un obbligo di facere, ovvero di un comportamento personale, spettante in egual misura a ciascun partecipante e tale da esaurire il contenuto dell’obbligo di contribuzione”
E’ quanto ha stabilito il TAR Bolzano sez. I 22 febbraio 2018 n. 62: ove il singolo proceda ad installare – senza titolo urbanistico – sulla facciata condominiale una canna fumaria a servizio della propria unità che, per tipologia e dimensioni esca dai parametri previsti dall’art. 1102 cod.civ., potrà ottenere sanatoria solo ove alleghi il consenso di tutti i condomini.
“Ritenendo che la canna fumaria, realizzata sulla facciata dell’edificio, costituisse un intervento impattante sull’estetica dell’immobile p.ed. (omissis), il Comune, nel richiedere con lettera dd. 5.3.2015, n. prot. 16887 l’integrazione della documentazione prodotta, chiedeva anche la produzione del consenso unanime dei condomini proprietari dell’edificio in argomento.
A tale richiesta l’interessata forniva risposta con lettera dd. 30.3.2015, dando dimostrazione del consenso da parte dei condomini proprietari nella percentuale, su base millesimale, dei 2/3 dell’intera proprietà della p.ed. (omissis) anziché, come richiesto dal Comune, del consenso unanime degli stessi.
In carenza di un tanto, il Comune, con lettera dd. 13.04.2015, n. prot. 19669, comunicava alla R. G. S.r.l. i motivi ostativi al rilascio della concessione in sanatoria”
…
“Osserva il Collegio che l’impugnato provvedimento di rigetto si fonda sul presupposto che “L’installazione della canna fumaria per dimensioni e struttura, risulta essere intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio, necessitando del consenso condominiale all’unanimità dei comproprietari, non prodotto. La modifica dell’utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale, che vede nell’installazione di un impianto tecnico e soprattutto, per quanto qui rilevante, di una canna fumaria un presupposto indispensabile, è conseguentemente respinta. Parimenti e per le stesse motivazioni respinta l’istanza di scissione del procedimento con rilascio di concessione edilizia parziale per la modifica di utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale”.
Il rigetto viene dunque motivato in ragione del non comprovato consenso unanime dei proprietari della p.ed. (omissis)in ordine all’istanza di sanatoria della canna fumaria di espulsione all’esterno dei fumi prodotti nel locale interrato p.m. 12, trattandosi di intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio.
Ravvisando un rapporto di pregiudizialità della sanatoria della canna fumaria rispetto alla sanatoria della modifica dell’utilizzazione della p.m. 12 da accessorio (cantine) a principale (locale ricettivo ad uso principale, id est sala da pranzo e cucina), il Comune ha conseguentemente denegato anche la seconda e non ha accolto l’istanza di scissione del procedimento.
La ricorrente contesta la richiesta del Comune di allegare il consenso “unanime” dei condomini ed invoca la previsione di cui al primo comma dell’art. 1102 cc che stabilisce che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”, deducendo che la maggioranza di 2/3 dei millesimi dei proprietari della p.ed. (omissis) (“Condominio (omissis)”) ha autorizzato il signor Ma. Ti. “al mantenimento dell’installazione del condotto di espulsione fumi ( ….. ) della cucina dell’attività ristorativa svolta nei locali ubicati nelle porzioni materiali n. 3 e n. 12 di proprietà dello stesso, in conformità alle prescrizioni dettate dall’Ufficio Igiene” (cfr. allegato al doc. n. 7).
Nel caso di specie, come dettagliatamente motivato nel contestato provvedimento, il Comune ritiene che la canna fumaria in argomento rechi pregiudizio al “decoro architettonico” dell’edificio p.ed. (omissis), trattandosi, diversamente dalle canne fumarie tradizionali, di un condotto di forma rettangolare avente le apprezzabili dimensioni di 700 x 350 mm. (con l’eventuale mascheratura proposta dalla ricorrente assumerebbe le maggiori dimensioni di 850 x 450 mm.), che si estende per un’altezza complessiva di 14,5 metri lineari.
Il suddetto condotto di espulsione fumi è stato realizzato “nell’angolo sud – est della facciata sud dell’edificio in p.ed(omissis), con fuoriuscita del condotto dalla p.m. 3 e con collegamento interno con la p.m. 12, p.ed. (omissis), (omissis), risp. nell’angolo nord – est della terrazza sulla p.ed. (omissis), tutte CC Merano” senza titolo abilitativo (cfr. doc. n. 4 del Comune).
Orbene, in base alla pacifica giurisprudenza, per “decoro architettonico” deve intendersi l’estetica dell’edificio, costituita dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (cfr. Cass. Civ. 1718/2016; 10350/11; 27551/05), e per innovazione lesiva del decoro architettonico si intende non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. Civ. n. 20985/2014).
In ordine alla collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio la giurisprudenza amministrativa afferma che “l’art. 1102 c.c., relativo all’uso della cosa comune, va interpretato (per altro conformemente al costante orientamento del giudice civile) nel senso che il singolo condomino può apportare al muro perimetrale tutte le modificazioni che consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compreso l’inserimento nel muro di elementi estranei e posti al servizio esclusivo della sua porzione”, tuttavia non senza precisare “purché (un tanto n.d.r.) non impedisca agli altri condomini l’uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità” (cfr., Cassazione civ., 16.5.2000, n. 6341; Cons. Stato, V, n. 11/2006; TAR Veneto, Sez. II, n. 1540/2012; TAR Lazio – Latina, Sez. I, n. 413/2012; TAR Firenze, Sez. III, 28.10.2015, n. 1475).
Nel caso di specie, l’intervento in sanatoria, riferentesi alla canna fumaria, non consiste nella mera sostituzione, sic et sempliciter, di una canna di espulsione fumi già esistente in passato, bensì nella realizzazione di un nuovo manufatto, che si differenzia decisamente, per dimensioni ed estensione, dal precedente, e tale da assumere rilevanza sia per la vastità dell’intervento, sia per l’impatto sull’aspetto esteriore dell’edificio p.ed. (omissis).
Si tratta, pertanto, di un manufatto che, invero, coinvolge gli interessi e i diritti degli altri condomini sia perché pregiudica l’armonia e il decoro della facciata dell’edificio p.ed. (omissis) (cfr. TAR Ancona, 9.1.2015, n. 10), sia perché la funzione della canna di espulsione – che è quella di convogliare verso l’esterno fumi, vapori e odori vari derivanti, nel caso di specie, dall’utilizzo della cucina ubicata al piano interrato – incide sugli interessi e diritti dei condomini circostanti (TRGA Bolzano, 26.2.2015, n. 57).
È del resto pacifico che l’intervento edilizio richiesto in sanatoria dalla ricorrente coinvolge la proprietà comune, insistendo anche sulla facciata della p.ed. (omissis), che, per l’appunto, è comune ai proprietari delle singole unità immobiliari (art. 1117, comma 1, n. 1 cc).
Come affermato dalla giurisprudenza, la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini risponde (anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie (cfr. TAR Reggio Calabria, 6.2.2017, n. 85).
In riferimento alla relativa censura, osserva il collegio che la dimostrazione della disponibilità del consenso unanime dei condomini rientra, invero, nell’ambito dell’istruttoria preliminare tesa alla verifica della sussistenza, in capo al richiedente, della necessaria legittimazione ad ottenere il titolo edilizio (è opportuno precisare, per inciso, che si tratta di un’attività che, conformemente all’insegnamento della giurisprudenza, non ha comportato, nel caso di specie, alcun onere istruttorio eccessivo a carico dell’amministrazione).
Pertanto tale attività, riguardando la mera regolarità formale dell’istanza di concessione edilizia (nel caso di specie in sanatoria), si distingue da quelle elencate all’art. 70 L.U.P., soggette ex lege al parere della commissione edilizia comunale, cui spetta esprimersi riguardo agli aspetti urbanistici, edilizi e architettonici del progetto presentato dall’istante.”
La Cassazione ( Cass.civ. sez. II 7 luglio 2017, n. 16901 rel. Giusti) ribadisce un principio consolidato: ove il condominio sia composto da due soli partecipanti si applicano le norme sul condominio ma le decisioni – non potendo operare per ovvie ragioni numeriche il disposto dell’art. 1136 cod.civ. – possono essere assunte solo con il voto favorevole di entrambi i condomini.
“nel condominio c.d. minimo (formato, cioè, da due partecipanti con diritti di comproprietà paritari sui beni comuni), le regole codicistiche sul funzionamento dell’assemblea si applicano allorché quest’ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione “unanime”, tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari;
ove, invece, non si raggiunga l’unanimità, o perché l’assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché, come nella specie, alla riunione benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l’altro resti assente, è necessario adire l’autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 cod. civ., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass., Sez. II, 2 marzo 2017, n. 5329).”
Il problema dalla realizzazione di una terrazza a tasca sul manto di copertura condominiale, da parte del condomino proprietario del sottotetto, ha avuto una costante interpretazione sfavorevole della giurisprudenza di legittimità sino al 2012.
Sino a quell’anno la giurisprudenza della Cassazione era stata costante nell’affermare che la creazione di una terrazza a tasca da parte del singolo, in luogo del tetto originario, costituisse alterazione della cosa comune che sottraeva agli altri condomini una porzione del tetto e, come tale, travalicava i limiti di cui all’art. 1102 cod.civ.; richiedeva quindi – per la sua realizzazione – il consenso unanime dei condomini: “trasformando il tetto dell’edificio condominiale in terrazza adibita al servizio esclusivo della sua proprietà singola, il ricorrente aveva alterato la destinazione della cosa comune, sottraendola in tal modo al godimento collettivo: il diritto riconosciuto al proprietario dell’ultimo piano di sopraelevare (art. 1127 cod.civ.) era comunque subordinato ai limiti sanciti dagli artt. 1102 e 1120 cod.civ. in materia di uso e godimento dei beni comuni.” (Cassazione civile, sez. II, 28/01/2005, n. 1737; Cassazione civile, sez. II, 20/05/1997, n. 4466″
Nel 2012 la Corte di legittimità, con una pronuncia innovativa, ha mutato orientamento in maniera drastica (e discutibile) affermando che: “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene“. Cassazione civile, sez. II, 03/08/2012, n. 14107
La sentenza vede immediata conferma poco dopo, con altra pronuncia della stessa corte (Cassazione civile, sez. II, 03/08/2012, n. 14109) e recepisce una lettura dinamica e socialmente orientata dell’art. 1102 cod.civ., introdotta dalla Cassazione nello stesso anno in tema di ascensore installato dal singolo (Cassazione civile, sez. II, 14/02/2012, n. 2156).
Se, tuttavia, in tema di abbattimento delle barriere architettoniche, la compressione dei diritti dei condomini vede un contraltare importante nelle ragioni di solidarietà sociale che impone l’art. 42 Costituzione, in tema di terrazze a tasca tali presupposti paiono difettare e la compressione del diritto dei singoli si confronta unicamente con la utilitas materiale che dall’intervento trae il proprietario del sottotetto.
La Corte afferma che “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può effettuare la trasformazione di una parte del tetto dell’edificio in terrazza ad uso esclusivo proprio, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene.
La Corte, con ampia motivazione, ha richiamato principi solidaristici per superare la ristretta lettura dell’art. 1102 cod.civ. sino ad allora forniti: “Muovendo da questi principi, che contengono pertinenti richiami al principio solidaristico, si impone una rilettura delle applicazioni dell’istituto di cui all’art. 1102 c.c., che sia quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle esigenze abitative.
Questo sviluppo si ripercuote favorevolmente sulla valorizzazione della proprietà del singolo, ma mira soprattutto a moderare le istanze egoistiche che sono sovente alla base degli ostacoli frapposti a modifiche delle parti comuni come quella in esame. In una visione del regime condominiale tesa a depotenziare i poteri preclusivi dei singoli e a favorire la correntezza dei rapporti (si pensi a Cass. SU 4806/05 in tema di deliberazioni nulle o annullabili) non è coerente, nè credibile, intendere la clausola del “pari uso della cosa comune” come veicolo per giustificare impedimenti all’estrinsecarsi delle potenzialità di godimento del singolo.
Qualora non siano specificamente individuabili i sacrifici in concreto imposti al condomino che si oppone, non si può proibire la modifica che costituisca uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche in assenza di un beneficio collettivo derivante dalla modificazione.
Non lo si può chiedere in funzione di un’astratta o velleitaria possibilità di alternativo uso della cosa comune o di un suo ipotetico depotenziamento (cfr Cass. 4617/07), ma solo ove sia in concreto ravvisabile che l’uso privato toglierebbe reali possibilità di uso della cosa comune agli altri potenziali condomini-utenti”
La motivazione non è priva di suggestione e si attaglia comunque a modifiche di limitata portata che non stravolgano la funzione essenziale della copertura: “La destinazione della cosa, di cui è vietata l’alterazione, è da intendere in una prospettiva dinamica del bene considerato. La possibilità, dianzi ricordata, di applicare finestre da tetto con notevole efficacia coibente e gradevoli esteticamente contribuisce senz’altro a far ritenere compatibile tale utilizzo con il rispetto della destinazione del bene.
Altrettanto può valere per la realizzazione di piccole terrazze che sostituiscano efficacemente il tetto spiovente nella funzione di copertura dell’edificio.
Non è funzionalmente alterata la destinazione del tetto, se alla falda si sostituisce un’opera di isolamento e coibentazione inserita nel piano di calpestio.
Rimane da chiedersi se la materiale soppressione di una porzione limitata della falda sia di per sè alterazione della destinazione della cosa.
La risposta deve essere negativa, perchè per destinazione della cosa si intende la complessiva destinazione di essa, che deve essere salva in relazione alla funzione del bene e non alla sua immodificabile consistenza materiale.
Pertanto la soppressione di una piccola parte del tetto, se viene salvaguardata diversamente la funzione di copertura e si realizza nel contempo un uso più intenso da parte del condomino, non può esser intesa come alterazione della destinazione, comunque assolta dal bene nel suo complesso.
Ovviamente il giudizio sul punto andrà formulato caso per caso, in relazione alle circostanze peculiari e si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo avendo riguardo alla motivazione.”
Non sono mancate, successivamente, letture restrittive della giurisprudenza di merito, rimasta ancorata all’orientamento ante 2012: Tribunale Todi, 22/04/2014, n. 771 “All’uopo, si è anche evidenziato come la modifica di una parte del tetto condominiale in una terrazza deve ritenersi illecita, non potendosi invocare l’art. 1102 c.c., poiché non si è in presenza di una modifica finalizzata al miglior godimento della res comune, bensì nell’appropriazione di una parte di questa che viene definitivamente sottratta a ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri, non avendo rilevanza il fatto che la parte di tetto sostituita continui a svolgere una funzione di copertura dell’immobile.”
La realizzazione di terrazze a tasca è generalmente malvista dai restanti condomini del fabbricato che, da un lato, temono che l’intervento possa arrecare pregiudizio alla funzionalità e durata della copertura, dall’altro vivono come un sopruso l’attività del singolo che utilizza in via esclusiva il bene comune e tendono a riconnettere a tale iniziativa un obbligo patrimoniale, che pretendono spesso di imporre al condomino che realizza la modifica.
Va a tal proposito osservato che, se l’intervento si pone nel rispetto dei canoni indicati dalla Corte nel 2012, va ascritto alle previsioni dell’art. 1102 cod.civ. e che pertanto costituisce facoltà del singolo, cui non è preordinata alcuna autorizzazione assembleare e a cui gli altri condomini potranno eventualmente opporsi – anche giudizialmente – adducendo motivi di lesione del decoro, della statica o dei propri diritti individuali.
Il novellato art. 1122 cod.civ. prevede oggi che il singolo comunichi all’amministratore le proprie intenzioni, cosicché questi possa riferirne in assemblea, non già per sollecitare una delibera di approvazione (ove sussistessero lesioni dei limiti sopra evidenziati, nessuna decisione a maggioranza potrebbe porvi rimedio) ma semplicemente per facilitare il controllo e l’eventuale attivazione dell’amministratore o dei singoli condomini, ove l’intervento si preannunci illegittimo per modalità e contenuti.
Va ancora osservato che una lettura difforme dall’orientamento del 2012 pare invece essere fornita dalla Cassazione in una recente pronuncia in tema di altane.
Non vi è però dubbio che, se un ripensamento deve intervenire sulla realizzazione delle terrazze a tasca, questo non possa che passare attraverso una rivisitazione della lettura dell’art. 1102 cod.civ.
In questo contesto interviene invece la sentenza Tribunale di Milano 7.4.2017 n. 4049 che trae i propri argomenti circa l’illiceità della realizzazione di terrazze a tasca da una lettura poco condivisibile sotto il profilo sistematico, poiché appare amalgamare in maniera inammissibile la portata dell’art. 1102 cod.civ. – che attiene agli interventi effettuati dai singoli sulle cose comuni – e quella dell’art. 1120 cod.civ. – che attiene alle innovazioni decise dalla maggioranza su parti comuni e nell’interesse della collettività – pervenendo alla inaccettabile conclusione che la terrazza a tasca, realizzata dal singolo, debba essere approvata dalla assemblea con le maggioranze di cui all’art. 1120 cod.civ.
Giova osservare che si tratta di pronuncia di primo grado che, plausibilmente, potrebbe non reggere al vaglio dell’appello o, comunque, dell’eventuale giudizio di legittimità e che pare opportuno evitare di utilizzare come punto di riferimento interpretativo.
Il Giudice milanese afferma che: “l’intervento operato dalla società convenuta sulla falda del tetto condominiale è da ritenersi illegittimo , trattandosi di innovazione non autorizzata dall’assemblea condominiale. A norma dell’art. 1120 c.c., le innovazioni alla cosa comune sono consentite solo previa approvazione assembleare e sono comunque vietate qualora pregiudichino la sicurezza o la stabilità del fabbricato e ne alterino il decoro architettonico o rendano alcune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.”
La tesi, assolutamente bizzarra, contrasta con il costante orientamento giurisprudenziale che distingue le innovazioni (art. 1120 cod.civ.) dall’uso della cosa comune da parte del singolo (art. 1102 cod.civ.); tale netta distinzione è stata reiteratamente affermata in ordine a diversi interventi:
terrazza a tasca – “Una terrazza a tasca non può essere considerata innovazione che, ai sensi dell’art. 1120 c.c., rende talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e godimento anche di un solo condomino. Come tale può essere realizzata dai condomini stessi. Ciò perché esulano dalla nozione di innovazione, quelle modificazioni eseguite dal singolo che si sostanziano in funzione di un più intenso e migliore uso della cosa comune e non conducano ad una totale o parziale alterazione che ecceda il limite della conservazione.” Tribunale Firenze, sez. III, 09/05/2005
apertura muro comune – “Aprire un vano nel muro perimetrale comune ad opera di un condomino, di una o più finestre o porte del suo appartamento, anche ampliando le finestre già esistenti a livello del suo appartamento, non importa una innovazione della cosa comune, a norma dell’art. 1120 c.c., bensì soltanto quell’uso individuale della cosa comune il cui ambito ed i cui limiti sono disciplinati dagli art. 1102 e 1122 c.c..” Tribunale Salerno, sez. II, 08/01/2016, n. 67
canna fumaria – “In materia condominiale costituisce opera lecita l’installazione di una canna fumaria sulla facciata comune, consentita ai sensi dell’art. 1102 c.c. Per costante orientamento della giurisprudenza, infatti, l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale, integra una modifica della cosa che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l’altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico. L’esecuzione di tale opera non costituisce innovazione ma una modifica lecita finalizzata all’uso migliore e più intenso previsto dall’art. 1102 c.c., conforme alla destinazione del muro perimetrale che ciascun condomino può legittimamente apportare a sue spese, se non impedisce agli altri condomini di farne un pari uso, non pregiudichi la stabilità e la sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro.” Tribunale Trento, 16/05/2013, n. 432
Lo stabilisce Cass.Civ. II sez. 2 marzo 2017 n. 5329.
Nel Condominio composto da due sole persone si applicano le norme sull’assemblea solo ove partecipino entrambi, se invece alla riunione si presenta solo dei due condomini, costui non potrà decidere da solo ma dovrà rivolgersi al giudice ex art. 1105 cod.civ., per l’impossibilità di adottare decisioni indispensabili per la gestione della cosa comune.
La vicenda trova le sue origini in una opposizione a decreto ingiuntivo promossa dall’altro condomino che lamentava che la delibera in forza del quale era stato ottenuto il decreto fosse stata assunta solo dall’altro condomino e come, come tale, non potesse essere considerata una delibera.
Il Tribunale di Sanremo in riforma della sentenza emessa in primo grado dal Giudice di Pace aveva dichiarato nulla la delibera posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo.
In sede di legittimità il ricorrente osserva che: “ il Tribunale ha errato nel ritenere la delibera nulla o addirittura inesistente, avendo fatto confusione tra il concetto di unanimità e quello di totalità, che non sono assimilabili: rileva in particolare che l’unanimità richiesta dalla giurisprudenza ai fini della validità delle delibere del condominio minimo può validamente formarsi non solo nel caso di concordanza di opinioni espresse dai due partecipanti, ma anche nell’ipotesi – verificatasi in concreto nel caso di specie – di decisione assunta dall’unico condominio comparso all’assemblea regolarmente convocata (il R.B. , appunto). Ritiene che nel condominio minimo l’assemblea possa ritenersi validamente costituita anche nel caso in cui compaia uno solo dei partecipanti ed in tal caso la delibera debba ritenersi adottata all’unanimità degli intervenuti e nel rispetto del quorum richiesto dall’art. 1136 cc. In ogni caso, secondo la tesi del ricorrente, si tratterebbe al più di delibera annullabile perché affetta da vizi attinenti alla regolare costituzione dell’assemblea o adottata con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, con la conseguenza che in tale ipotesi, occorreva una tempestiva impugnazione della delibera nei termini di legge, nel caso di specie non proposta.”
La Cassazione è invece netta nel respingere la tesi, richiamando orientamento espresso nel 2006 dalle sezioni unite: “Il motivo è infondato.Le sezioni unite hanno affermato che la disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, non rappresentando un ostacolo l’impossibilità di applicare, in tema di funzionamento dell’assemblea, il principio maggioritario, atteso che nessuna norma vieta che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso, nella specie all’unanimità, quanto, “a fortiori”, con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti, tra cui quella che disciplina il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione delle cose comuni (Sez. U, Sentenza n. 2046 del 31/01/2006 Rv. 586562; v. anche Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 5288 del 03/04/2012). Altra e più recente giurisprudenza ha ritenuto che nel caso di condominio c.d. minimo, non si applicano le norme sul funzionamento dell’assemblea condominiale, ma quelle relative all’amministrazione di beni oggetto di comunione in generale (v. Sez. 2, Sentenza n. 7457 del 14/04/2015 Rv. 635000 – 01 ma evidentemente sempre con riferimento all’ipotesi di mancanza di accordo tra le parti). Da tali principi discende dunque che nel condominio cd. minimo (formato, cioè da due partecipanti con diritti di comproprietà sui beni comuni nella stessa proporzione) le regole codicistiche sul funzionamento dell’assemblea si applicano allorché l’assemblea si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione unanime, intendendosi con tale ultima espressione (decisione unanime) quella che sia frutto della partecipazione di entrambi i comproprietari alla discussione (essendo logicamente inconcepibile che la decisione adottata da un solo soggetto possa ritenersi presa all’unanimità). Ed è proprio questo il senso della pronuncia delle sezioni unite n. 2046/2006 ove in motivazione testualmente si afferma: “nessuna norma impedisce che l’assemblea, nel caso di condominio formato da due soli condomini, si costituisca validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all’unanimità decida validamente”. Si rivela così infondata la tesi formalistica del ricorrente secondo cui, se la Corte Suprema avesse voluto richiedere sempre la presenza di entrambi e la votazione unanime, avrebbe detto espressamente che in un condominio minimo ci vuole sempre il consenso di entrambi senza approfondire l’applicabilità dell’art. 1136 cc. Nella diversa ipotesi in cui non si raggiunga l’unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto diventa necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, siccome previsto ai sensi del collegato disposto degli artt. 1105 e 1139 cod. civ. (v. sez. unite cit. in motivazione). Volendo esemplificare, si tratta del caso in cui all’assemblea, pur essendo presenti entrambi i condomini, si decida in modo contrastante, oppure, a maggior ragione, del caso, verificatosi nella fattispecie in esame, in cui alla riunione – benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l’altro resti assente: per sbloccare la situazione di stallo venutasi di fatto a determinare, non resta che i) ricorso all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 1105 CC. Ora, nel caso di specie, l’avvocato R.B. fu certamente diligente nel tentare la prima e più semplice soluzione, convocare la zia condomina per discutere dei lavori al fabbricato, ma avrebbe dovuto poi prendere atto, proprio perché si trattava di un “condominio minimo”, della impossibilità di costituire l’assemblea per assenza dell’altra partecipante e quindi per l’impossibilità di pervenire ad una decisione unanime (nel senso sopra inteso), condizione essenziale per la adozione di una valida delibera da poter poi mettere in esecuzione nelle forme di legge; e, posto di fronte ad una tale situazione di impasse, aveva l’onere di azionare il procedimento camerale previsto dall’art. 1105 cc. lasciando poi che fosse l’autorità giudiziaria a prendere i provvedimenti opportuni, non esclusa la nomina di un amministratore. La diversa scelta di decidere da solo si risolve invece non in una delibera condominiale, ma in una mera manifestazione unilaterale di volontà proprio perché – lo si ripete – mancava l’unanimità della decisione e quindi la condizione essenziale per l’applicabilità al condominio minimo di (OMISSIS) delle regole codicistiche. Non merita pertanto nessuna censura la sentenza impugnata che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ha rilevato di ufficio la nullità o addirittura l’inesistenza della delibera posta a fondamento del decreto stesso (v. al riguardo Sez. 2, Sentenza n. 305 del 12/01/2016 Rv. 638022).”